Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
SPECULOPOLI
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI
SPECULOPOLI. SPECULAZIONI PER TUTTI
«Nessuno a chiedersi il perchè si fanno i conti in tasta ai parlamentari e non ai magistrati o ai dirigenti e managers boiardi di Stato. Si vorrebbe forse avere dei precari in Parlamento? Basterebbe pretendere che al giusto guadagno corrispondesse giusto impegno per ben rappresentare l'elettorato. Non c'è mai un rigurgito di dignità. E poi, il giorno dopo, lì a lamentarsi dei politici che loro stessi hanno rivotato. Mai che nessuno, con un sonoro intercalare, si chiedesse: "Ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi?"»
di Antonio Giangrande
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
INDICE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NELLA BOLLETTA ELETTRICA.
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.
INPS E PENSIONI: VERGOGNA DI STATO.
DALLA PARTE DEI CONSUMATORI E DEGLI OPERAI?
PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
L’ITALIA CLEPTOMANE. PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.
L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.
PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.
L'ITALIA IPOCRITA DEI GIOCHI D'AZZARDO.
IN QUESTO MONDO DI LADRI.
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.
LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.
NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.
ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.
PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?
SPECULAZIONI: LA LISTA FALCIANI.
SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.
SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
CORRUZIONE E TANGENTI. LA GERMANIA PEGGIO DI NOI.
AUTOVELOX, LA SUPERTASSA COMUNALE.....COL TRUCCO.
ITALIA DA ROTTAMARE. GIUGNO. LA FARSA DEL PAGAMENTO DELLE TASSE.
ITALIA. AVANTI CON IL FRENO A MANO TIRATO. LUNGAGGINI, TASSE OCCULTE E TROPPE LEGGI.
CHI SONO I LADRI: CHI EVADE O CHI, CORROTTO, PECULA O MALVERSA?
LO STATO PATRIGNO CHE UCCIDE I SUOI FIGLI.
DOLCE E GABBANA E L’INVASIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA.
VIZI PUBBLICI: AFFARI DI STATO.
MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE.
LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.
LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.
IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.
LE TASSE, L’EVASIONE E LO STATO CHE CI PRENDE PER IL CULO.
LETTERA AI FORCONI.
LETTERA AI GRILLINI.
LA RAPINA FISCALE.
EVASIONE COME DIRITTO DI DIFESA.
QUOTE LATTE E TESORETTO NON RISCOSSO.
ITALIA. PAESE DELLE 100 TASSE E DEI DISSERVIZI, RITARDI E SPRECHI SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI.
DANNO DA DISSERVIZIO E DISORGANIZZAZIONE NELL'AMMINISTRAZIONE.
LA SAGRA GASTRONOMICA. LA MADRE DI TUTTE LE ILLEGALITA’.
FAR LA CRESTA SULLE SPESE SANITARIE.
MENZOGNE DI STATO. DOVE VANNO A FINIRE I NOSTRI SOLDI?
RISCOPRIAMO LA CAMBIALE.
LE BANCHE FANNO MENO PRESTITI ED ADOTTANO TASSI PIU' ALTI.
TASSE ALTE, MAGGIORE EVASIONE.
I BIG E L'EVASIONE FISCALE. E GLI ALTRI?
PROVINCE SPECULATIVE.
RINCARI SPECULATIVI: CARBURANTI ED RCA.
BANKITALIA E LE (QUASI) VERITA’ SULLE BANCHE.
IL SALVA BANCHE. PIOVE (LA FREGATURA), GOVERNO LADRO.
MPS, LA BANCA D’ITALIA E LE SPECULAZIONI DELLE BANCHE.
CHI COMANDA IL MONDO? LE BANCHE! DERIVA DI STATO: IL CREDITO CHE SI DISCREDITA…
TARTASSATI. TUTTO QUELLO CHE NON CI DICONO SUI SOLDI PUBBLICI.
CAPITOLO 1. MERCATOPOLI:
OSSIA, MERCATO A CONDUZIONE FAMILIARE
SOMMARIO
PARLIAMO DELL’ITALIA DI M……..UNO STATO DI LADRI INGORDI.
TRIBUTI ITALIA: QUANDO A RUBARE E' LA SOCIETA' DI RISCOSSIONE.
ONERI DI URBANIZZAZIONE NON AGGIORNATI.
E CON EQUITALIA CI SI TROVA DI FRONTE ALL'USURA DI STATO.
QUESTO STATO: DURO CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI.
CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.
DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO.
FISCO E STATO: LA MAFIA NEL SENTIRE COMUNE.
LA MAFIA DI STATO. PARLIAMO DELL’USURA E DELL'ESTORSIONE DI STATO.
ITALIA: RACKET DI STATO.
PARLIAMO DI CASTE. L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI.
LE CASTE. LA MAFIA DEGLI ORDINI PROFESSIONALI: "I VERI INTOCCABILI".
PARLIAMO DI LOBBIES: LA TRUFFA DELLE ASSICURAZIONI.
PARLIAMO DI BANCHE, USURA E FALLIMENTI TRUCCATI.
PARLIAMO DI FONDI STRUTTURALI UE.
CAPITOLO 2. FISCOPOLI:
OSSIA, SPREMA O EVADA CHI PUO’.
SOMMARIO
TASSATI E MAZZIATI!!!! ESTORSIONE DI STATO. PARLIAMO DEL COSTO DEL LAVORO.
ITALIA: RACKET DI STATO.
PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.
SCANDALOSO, PERO’, E’ QUELLO CHE NON SI DICE: LE COMPAGNIE PETROLIFERE EVADONO LE ACCISE E L’IVA.
PARLIAMO DEL BALZELLO DEI BALZELLI: L'ABBONAMENTO RAI.
UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
PARLIAMO DI TRIBUTI E BALZELLI D’ITALIA.
PIENI DI TASSE STUPIDE.
EVASORI O TARTASSATI?!?
NON SOLO ITALIANI. EVADERE LE TASSE: PASSIONE DEI TEDESCHI.
PERCHE' VINCONO GLI EVASORI.
COSI' SI ESPORTANO I CAPITALI.
L'EVASIONE FISCALE VIENE ANCHE DAL PUBBLICO. IL DOPPIO LAVORO DEGLI STATALI.
LE MINI EVASIONI E LE TRUFFE ALL'INPS. L'ESERCITO DEI FINTI DISOCCUPATI.
NON CI RESTA CHE PIANGERE....LA MASSONERIA APPOGGIA MONTI.
TASSE, SPRECHI E PRIVILEGI: IL PERICOLO CHE NON SI POSSANO PIU' PAGARE GLI STIPENDI.....
PARLIAMO DI PRIVILEGI.
SALVIAMO LE BANCHE...
ITALIA E SISTEMA DI POTERE: UN POZZO SENZA FONDO.
ICI (IMU), QUELLI CHE NON PAGANO.
A PROPOSITO DI SPRECHI PARLIAMO DELLA «MACCHINA PUBBLICA».
SCURRICULUM: LE CARRIERE DI AMICI E PARENTI.
LA CASTA DELLE STELLETTE.
LA CASTA DEI COMMESSI PARLAMENTARI.
QUANDO IL MINISTRO DELL'ECONOMIA FU INDAGATO PER EVASIONE.
PARLIAMO DI ESTORSIONE ED USURA LEGALIZZATA: LE CARTELLE ESATTORIALI.
VADEMECUM DEL CONTRIBUENTE.
5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI.
PARLIAMO DI GIOCO D’AZZARDO DI STATO.
AFFITTI IN NERO.
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI CONDONI.
EVASIONE FISCALE LEGALIZZATA. GLI ITALIANI COSI’ BEFFANO LO STATO E LA FANNO FRANCA. NON SI INCASSA IL 90 % DELL'EVASO.
RIFIUTI: DAI MINISTERI EVASIONE PER 45 MILIONI.
ONLUS CHE TRUFFA.
TASSE NON RISCOSSE.
PARLIAMO DI BALZELLI NON DOVUTI.
TELECOM E LA TRUFFA LEGALIZZATA.
PARLAMENTARI BARBONI O EVASORI ??
PENSIONI DI INVALIDITA' FALSE.
PARLIAMO DI DIRITTI D’AUTORE.
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NELLA BOLLETTA ELETTRICA.
Energie rinnovabili. Con la sinistra bollette aumentate del 40%. Ricordatevelo prima di votare, scrive il 4 marzo 2018 Enrico Salvatori su "Il Giornale". Quando a Novembre Gentiloni, Calenda e Galletti hanno presentato la nuova Strategia energetica nazionale (Sen), i giornali filogovernativi ne hanno parlato come un progetto straordinario studiato per far risparmiare soldi in bolletta agli italiani incentivando le energie rinnovabili, ma in realtà scopriremo come -per compiacere l’Onu e qualche ambientalista da strapazzo- favorisce al contrario un aumento delle tasse per famiglie e imprese. Nel documento del governo è infatti spiegato chiaramente che uno degli obiettivi è quello di aumentare al 2030 di oltre un terzo la produzione di energia elettrica rinnovabile. “Noi ad oggi”, spiega Rosa Filippini degli Amici della Terra, “per raggiungere l’obiettivo del 33% di produzione elettrica da rinnovabili, abbiamo sussidiato gli impianti di eolico e fotovoltaico per circa 12 miliardi di Euro l’anno (con aumenti fino al 40% in bolletta)”. Quanto ci costerà dunque arrivare al 55% di produzione di energia elettrica al 2030 come indicato dalla SEN? Difficile ora fornire stime specifiche ma “una cosa è certa”, spiega ancora Filippini, “nonostante uno degli obiettivi generali sia quello di ridurre il costo dell’energia, in realtà questa SEN comporterà un aumento del prezzo in bolletta, non una sua riduzione”; “per incentivare, in media, la produzione di appena il 20% dell’energia elettrica consumata in Italia che, a sua volta, costituisce poco più del 20% del totale dei consumi finali di energia”, ci tiene a precisare Monica/ Tommasi, presidente della stessa associazione, di recente espulsa dalla federazione internazionale degli ambientalisti (Friends of Earth), con una accusa dal sapore vagamente “sovietico”, ovvero quella di non essersi allineata alle “direttive comuni”. Siamo di fronte, quindi, a quello che forse è il più consistente programma di sussidi del dopoguerra, nonostante il ministro Calenda, appena tre mesi fa abbia dichiarato che “la scelta (degli incentivi esagerati) fatta (negli anni scorsi) con le rinnovabili elettriche” sia stata “una scelta dissennata”.
Altra scemenza l'”impegno politico alla cessazione della produzione termoelettrica a carbone al 2025″. Nessun paese europeo rinuncia infatti ad una base di produzione elettrica a basso costo e abbondante come quella derivante dal carbone. La stessa Germania, secondo dati Eurostat, mentre si presenta al mondo come paladina degli Accordi ONU di Parigi contro il Cambiamento climatico e possiede oggettivamente il parco rinnovabile più grande d’Europa, non rinuncia a questa risorsa (proprio per mantenere bassi i costi delle bollette). Anzi, continua ad usare la lignite (la forma più inquinante del Carbone fossile) con cui produce il 42% del proprio fabbisogno energetico a fronte di una produzione “verde” del 26%. Stesso discorso per il Regno Unito (non per la Francia, che comunque genera il 77% del suo fabbisogno energetico elettrico dal nucleare e non dalle energie rinnovabili). Dunque l’Italia, nonostante sia il paese con la produzione più alta di energia elettrica da rinnovabile (che si attesta al 39% compreso l’idroelettrico, rispetto al 30% della Germania), decide con questa SEN, di smantellare le nostre centrali a carbone (appena costruite, ecologiche e con un sistema di filtri avanzato), solamente per compiacere le frange più estreme dell’ambientalismo ideologico, a casa nostra e presso le Nazioni Unite (a spese nostre). Ma vedrete che “la tassa occulta sull’energia elettrica diventerà presto palese insieme alle responsabilità di chi l’ha imposta”, commenta Oreste Rutigliano di Italia Nostra. E questa volta non reggerà neanche il ritornello “ce lo chiede l’Europa”. Perché le politiche energetico-climatiche UE per il 2030 non prevedono più obiettivi obbligatori di fonti rinnovabili per i singoli stati membri. Altro aspetto deleterio, la necessità auspicata dalla SEN che le norme di tutela del paesaggio siano addirittura ammorbidite per triplicare gli attuali impianti installati di fotovoltaico e raddoppiare quelli di eolico. “In questo modo”, spiega ancora Monica Tommasi, “raddoppierà anche il sacrificio di ulteriori territori fra i più belli e delicati del nostro Paese per conseguire in pochi anni un incremento di 15 punti percentuali nel solo comparto elettrico e che si tradurrà in appena il 4% di contributo sul fabbisogno energetico complessivo”. “Un suicidio”, chiosa Oreste Rutigliano di Italia Nostra, “a favore di indeterminate lobby e fuori da ogni razionalità”.
Bollette della luce: la “burla” delle tasse nascoste, ecco chi sono i morosi. Non si placano le polemiche sulle bollette non pagate dai morosi e la tassa nascosta relativa agli oneri di sistema, scrive Chiara Lanari il 23 Febbraio 2018 su "Investire oggi". Ormai è cosa nota. Le bollette della luce non pagate dai morosi ricadranno sui cittadini che puntuali hanno sempre provveduto a saldare la fattura, 37 milioni di consumatori pagheranno cifre aggiuntive, un sistema che ricorda molto quello sulle accise della benzina. Quello che forse è difficile da accettare è che nelle bollette dell’energia vengono spalmate voci, oneri di sistema, che poco o nulla hanno a che fare con l’energia e invece di essere a carico della fiscalità ricadono sul cliente. Un esempio è stato riportato da Il Sole 24 ore secondo cui su una bolletta non residente da 183 euro, solo 42 euro si riferiscono agli oneri di sistema mentre per una bolletta residenti di 662 euro, 166 sono riferiti agli oneri.
Cosa paghiamo nella bolletta della luce? Gli oneri di sistema vengono stabiliti dall’Arera e tra questi una voce importante è riferita agli incentivi alle rinnovabili, componente A3. C’è poi l’onere A2 ossia lo smantellamento delle centrali nucleari dismesse, in parte destinato al bilancio dello Stato, l’A5 è invece riferito alla ricerca svolta nell’interesse del sistema elettrico nazionale, l’Ae per agevolazioni alle imprese manifatturiere con elevati consumi, la voce UC4 si riferisce ai costi di piccole aziende elettriche che operano sulle isole minori. Altri voci sono legate allo smaltimento delle scorie nucleari, le agevolazioni per la fornitura di energia elettrica al sistema ferroviario, il bonus elettrico per chi è in una situazione di disagio economico etc. Tutti questi oneri dal 1 gennaio sono stati unificati in oneri generali relativi al sostegno delle energie da fonti rinnovabili e cogenerazione (Asos) e i rimanenti oneri generali (Arim). In ogni caso nelle bollette che paghiamo solo il 19% del totale è riferito proprio a questi oneri, a cui si aggiunge anche il Canone Rai e conseguenti rincari. La notizia di per sè non è una novità ma lo diventa quando viene stabilito che agli oneri di sistema che già non c’entrano quasi o poco nulla con l’energia si aggiungono le cifre non pagate dai morosi.
Ecco chi sono i morosi. Una verità arriva dall’associazione Codici che avrebbe svelato chi sono questi odiati morosi: “dai dati dell’Autorità per l’energia, più nello specifico dal monitoraggio retail sui morosi, appare lampante come in questo Paese a non pagare sono sostanzialmente: la pubblica amministrazione e le imprese e comunque tutti colori che consumano in media tensione (MT) altri usi, quindi non gli utenti domestici, ovvero non i privati cittadini”. A pagare di meno sono le aziende e le Pa e a rimetterci i cittadini secondo Codici che promette di impugnare davanti al Tar il provvedimento. Il conto ammonta infatti a 200 milioni ma potrebbe essere molto di più. Oltre a Codici, a scandalizzarsi ci sono anche Adusbef e Federconsumatori, che conferma le parole di Codici sui morosi: “stando ai dati dell’Autorità per l’energia, le utenze che risultano morose sono in larga parte relative alle piccole e medie imprese. Proprio per questo appare ancora più assurdo ed improponibile far pagare ai cittadini i costi a cui le imprese non riescono a far fronte”.
Bollette della luce non pagate: saremo noi a sborsare per i morosi. Un meccanismo poco chiaro. Bisogna anche sottolineare come è nato questo meccanismo. I grandi distributori di energia avevano anticipato alcuni degli oneri ma il gran numero di morosi aveva messo in ginocchio parecchie società che avrebbero dovuto raccogliere le cifre per riconsegnarle ai big che avevano anticipato le suddette quote. Una volta fallite le società non hanno più potuto pagare e ora il buco lasciato dovrà essere colmato dai consumatori. Ora l’Autorità sta ancora calcolando a quanto dovrà ammontare l’aumento ma sembra trincerarsi dietro un: “non pensiamo che l’impatto sulle bollette sarà così allarmante”. In ogni caso a pagarle sarà chi, in fondo, non ha colpe.
Perché la “rivolta” di chi non vuole pagare 35 euro di aumento della bolletta elettrica è inutile. Molti cittadini indignati propongono di non pagare l'aumento da "35 euro" della bolletta elettrica perché "non è giusto pagare per chi non paga". Ovviamente non è possibile farlo. Ma il problema è un altro: come mai nessuno propone azioni simili nei confronti degli evasori fiscali, che costano senza dubbio di più al singolo cittadino? Scrive Giovanni Drogo giovedì 22 febbraio 2018 su "Next". L’Internet italiano è in fibrillazione per colpa di 35 euro. Questa volta non sono i famosi 35 euro che lo Stato spende per mantenere i migranti in alberghi a cinque stelle con WiFi gratuita, piscina riscaldata e tavoli da black jack. Si tratta invece dell’aumento della bolletta dell’energia elettrica. Un rincaro dovuto non tanto ai costi dell’energia ma ai mancati pagamenti da parte degli utenti morosi. Tutto è nato in seguito alla pubblicazione di un articolo del Sole 24 Ore che dava conto di una delibera dell’Autorità dell’energia (ARERA) che prevede di “spalmare” sugli utenti il costo delle bollette non pagate.
Cosa sono gli oneri generali elettrici? Il tutto è la conseguenza di una serie di ricorsi e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che hanno avuto come conseguenza la decisione di redistribuire fra tutti i consumatori una parte degli “oneri generali” (come spiegato qui da ARERA) elettrici pari a circa 200 milioni di euro arretrati non pagati dai titolari delle utenze “morose”. Gli oneri generali non corrispondono alla fornitura di energia elettrica ovvero a quanto effettivamente consumato dall’utente che non paga. Nelle bollette dell’energia elettrica, oltre ai servizi di vendita (materia prima, commercializzazione e vendita), ai servizi di rete (trasporto, distribuzione, gestione del contatore) e alle imposte, si pagano alcune componenti per la copertura di costi per attività di interesse generale per il sistema elettrico nazionale: si tratta dei cosiddetti oneri generali di sistema, introdotti nel tempo da specifici provvedimenti normativi. Tra questi ci sono quelli per il decommissioning nucleare, gli incentivi alle fonti rinnovabili, le agevolazioni alle industrie ad alto consumo di energia, quelli per la promozione dell’efficienza energetica oppure le compensazioni territoriali per quegli enti locali che ospitano impianti nucleari. In buona sostanza gli oneri generali sono all’incirca il corrispettivo delle accise sui carburanti. Soldi che ogni utente paga ma che vengono “girati” poi allo Stato I fornitori dell’energia elettrica che non riescono a farsi pagare le bollette hanno già versato gli oneri e quindi ora si trovano nella spiacevole (per loro) situazione di dover coprire questa perdita che però non ammonta al totale degli insoluti la cui cifra secondo alcune stime è superiore al miliardo di euro.
L’aumento delle bollette elettriche e il solito annoso problema di chi non paga le tasse. A nessuno naturalmente fa piacere pagare per gli altri soprattutto quando il conto viene presentato direttamente in bolletta. Se non fosse per quello, ovvero per il fatto che ogni utente vedrà di persona quanto pesa la morosità, probabilmente nessuno si sarebbe lamentato troppo. Non si sono mai viste sollevazioni popolari (a mezzo Facebook) contro aumenti delle tasse dovuti ad esempio all’evasione fiscale. Eppure per consentire il funzionamento dei servizi pubblici (dei quali usufruiscono quotidianamente anche gli evasori) chi paga le tasse lo fa anche per coloro che non pagano. Una parte dell’aumento della tassazione è necessario per coprire il minor gettito dovuto all’evasione. Succede a tutti i livelli, di recente a Roma è emersa l’esistenza di dodicimila “scrocconi” che non pagano la tassa sui rifiuti. Servizio di cui usufruivano lo stesso di fatto danneggiando i loro concittadini che erano costretti a pagare di più. Il paradosso è che da molte persone l’evasione fiscale viene vista addirittura come una cosa giusta. Non serve ricordare qui chi era quel politico che qualche anno fa diceva che era “moralmente giustificato” evadere le tasse. La differenza naturalmente è che in seguito alla privatizzazione del settore elettrico i gestori sono società private e quindi il “sopruso” è più sentito. Ma il punto è che già ora paghiamo i costi dell’evasione, sia delle tasse che delle tariffe. Non è giusto, ma indignarsi perché gli “oneri generali” (ovvero la componente parafiscale delle bollette) viene fatta pagare a chi è in regola non fa altro che mettere in luce un problema generale. Senza contare ovviamente che se le aziende saranno costrette a chiudere probabilmente alcune persone perderanno il lavoro. E di nuovo lo Stato (ovvero i cittadini) dovrà aprire il portafoglio per pagare eventuali ammortizzatori sociali.
La bufala del messaggio WhatsApp che invita a non pagare i 35 euro. Insomma è un serpente che si morde la coda, ma essendo i cittadini la parte più debole (ma al tempo stesso i colpevoli, visto che a non pagare sono altri cittadini) il pagamento è particolarmente odioso. Ecco che quindi i soliti rivoluzionari da tastiera propongono fantasiosi metodi per non pagare, ad esempio scorporando autonomamente i “35 euro” dall’importo della propria bolletta. Il problema è che l’entità dei rincari non è ancora stata definita e quella dei 35 euro, cifra quanto mai evocativa in Italia, non corrisponde alla reale entità dell’aumento. ENEL ha fatto sapere infatti che “il relativo impatto sulle bollette dei consumatori finali non è ancora stato quantificato da ARERA, ma in ogni caso l’Autorità ha precisato che sarà molto contenuto (all’incirca il 2% degli oneri di sistema, e non certo 35 euro)”. Così come il messaggio-catena che circola su WhatsApp e invita tutti a pagare “solo quanto mi spetta” (semmai il dovuto) non ha alcun senso e non funzionerà nemmeno se lo faranno tutti i consumatori. Non solo perché i gestori si rifaranno su ciascuno degli utenti ma anche perché, e questo è l’aspetto interessante, quegli oneri servono per finanziare altre voci di spesa delle quali usufruiscono i cittadini. Alcune – come quelle per il decomissioning delle centrali nucleari sono la diretta conseguenza delle decisioni dei cittadini stessi (il referendum sul nucleare) altre invece finiscono nel calderone degli incentivi per le rinnovabili (ovvero anche gli sgravi fiscali).
Via dal vento, se ancora si può. Via da questo pazzo vento di incentivi scandalosi per quantità e durata, via da questa corsa forsennata all’ultima pala che qualcosa frutterà anche se per ora non gira, via da questi “sviluppatori” - nuova sofisticata figura di mezzani - che stravolgono e offendono la quieta esistenza dei piccoli comuni giocando a nascondino con le royalties, via da questi sprechi, da queste mafie in agguato, da queste bollette ogni giorno più care perché il Balletto dell’Eolico ha i suoi costi. E che costi, per produrre poco o nulla. Sono installati in questo momento in tutta la Penisola 4.236 “aerogeneratori”.
Le pale eoliche - il 98 per cento al Sud, e questo la dice lunga - producono 4.849 megawatt, tanto da porre l’Italia al terzo posto in Europa, ben distanziata da Germania (25.800) e Spagna (19.100) e inseguita da vicino da Francia (4.500) e Gran Bretagna (4.000). Bene, l’installazione e la manutenzione di una pala media in Danimarca - lo Stato che ha investito più sull’eolico - in 15 anni di vita costa un milione, mentre da noi, in Sicilia, viene il quadruplo. E sono pale che girano davvero poco: 1.880 ore sempre in Danimarca, 2.000 in Svizzera, 2.046 in Spagna. 2.066 in Olanda, 2.083 in Grecia, 2.233 in Portogallo e da noi soltanto 1.466 ore l’anno. Ma perché? «Una terra di vento e di sole -titolò il Financial Times la sua inchiesta sull’energia eolica in Italia - ma senza regole adeguate». Nessuno se ne accorse, o forse fecero tutti finta di non accorgersene.
Ma non s’è levato un moto di reazione neppure il 18 settembre 2010 quando il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, parlando da Cortina, ebbe a dire: «Il business dell’eolico è uno degli affari di corruzione più grande e la quota di maggioranza francamente non appartiene a noi». Silenzio. E invece lo sconcio è sotto gli occhi di tutti. Uno sconcio che provocherà guasti anche sociali, non solo economici, stravolgerà l’esistenza di borghi preziosi e di colture rare, produrrà un punto di non ritorno per questa nostra Italia con cui bisognerà fare i conti. Per comodità di ragionamento, lasciamo per un attimo da parte il primo dilemma, piace, non piace. Facciamo finta che questi giganti abbelliscano davvero l’Appennino Dauno e la piana di Mazara, le più belle zone archeologiche della Puglia e le gole più nascoste delle Marche. E passiamo ai dilemmi successivi: chi ci guadagna, come ci guadagna, se questi benefici arrivano in tutto o in parte al Paese Italia. Le prime cifre sono sconvolgenti, purtroppo. Ci sono domande di connessione alla rete in Italia (2010) pari a 88.171 megawatt. L’Anev, l’Agenzia che raggruppa le aziende del settore dell’Energia del vento stima che entro il 2020 la produzione potrà raggiunge al massimo 16mila megawatt. Che senso ha quindi, se non quello di puntare a una spaventosa speculazione, presentare domande per una quantità di energia cinque volte superiore? Il mercato dell’eolico è anche e soprattutto un mercato di carta, il mercato dei famigerati “certificati verdi”, che possono essere comprati dalle grandi aziende al piccolo produttore se queste grandi aziende non hanno prodotto, di loro, la percentuale di energia rinnovabile prevista dalla legge. Che poi queste aziende continuino con le vecchie produzioni inquinanti, questo sembra non interessare davvero a nessuno. Di fatto, con i certificati verdi si fanno grandi cose. Lo dice l’Authority per l’energia, rivelando che nel solo 2008 il Governo ha sborsato 1.230 milioni in certificati verdi, pagati grazie all’addizionale sulle nostre bollette, e che la metà di questa somma è stata tirata fuori per rimborsare un «eccesso dell’offerta». Ecco cosa vuol dire: che si produce più energia di quella che si vuole immettere o si riesce a immettere e che questo surplus viene comunque pagato. E ovviamente le nostre bollette restano le più care d’Europa. Ci sono studi recenti anche sui posti di lavoro, ventottomila nell’eolico nel solo 2008. Considerando che i sussidi erogati sono stati pari a 2,3 miliardi di euro, ogni posto di lavoro creato è costato 55mila. Un altro calcolo: comprendendo tutte le energie rinnovabili, quindi anche il fotovoltaico, si calcola che un nuovo posto di lavoro venga a costare almeno sette volte di più rispetto all’industria. C’e da rimanerci seppelliti sotto questa valanga di cifre. Se non ci fosse da rimettere insieme, ancora, alcune tessere del mosaico. A cominciare dagli incentivi sulla produzione di energia, garantiti per quindici lunghi anni come le pale e i più alti d’Europa come le bollette. Partiamo dal fatto che un kwatt di energia al povero cittadino costa oggi 6,5 centesimi. Ebbene, chi produce eolico ne intasca intorno al doppio (dipende dai valori un poco oscillanti della Borsa elettrica) e chi invece si butta sul fotovoltaico, che poi è la vera nuova inesplorata (può arrivare a cinque sei volte il valore iniziale, intorno ai 39-40 centesimi di euro).
Ma perché il Far West dell’eolico conosca uno stop, ci vogliono almeno i piani regionali. Per ora, chi si alza per primo mette la pala. Per sfuggire persino alla Valutazione di Impatto Ambientale, tedeschi, spagnoli e americani hanno già scoperto il trucco: spaccano un progetto di parco eolico in quattro-cinque spezzoni, scendono sotto la soglia prevista, e così se la cavano con una semplice, unilaterale Dichiarazione di impatto ambientale al comune che li ospita. Non c’è piano regolatore da rispettare, c’è solo da avvicinare il famoso “sviluppatore” in loco, che ha già scelto l’area, ha già valutato i vincoli paesaggistici e soprattutto ha già contattato gli amministratori locali. E comincia così il valzer del terreni scelti, quello sì, questo no, per distese infinite come solo il nostro Appennino regala. Ma la gente si ribella. Contro i parchi eolici spuntano comitati a ogni piazza, a ogni tavolino di bar, a Nardò, a Mazara, a Cosenza, a Crotone, a Otranto. E con i comitati spuntano le inchieste delle magistratura. A parte quella famosa aperta in Sardegna - quella di Flavio Carboni, per intenderci - è tutto un fiorire di nuovi fascicoli: ancora a Crotone, a Sant’Agata di Puglia, in Molise, a Trapani, dove allo “sviluppatore” Vito Nicastri, re del vento di Sicilia e Calabria e ritenuto longa manus del boss Matteo Messina Denaro, hanno sequestrato un patrimonio di 1.5 miliardi. E’ un mare di sporco che avanza, non se ne vede la fine. ''L'eolico nelle regioni meridionali è stato favorito e sostenuto dalla mafia. Questo è un dato inconfutabile; tacere è una forma di complicità''. Lo ha detto Vittorio Sgarbi.
Se ai pastorelli della collina di Giuggianello - come racconta Ovidio - capitò di essere trasformati in alberi solo per aver avuto l’ardire di danzare con le Ninfe, cosa potrà mai capitare agli amministratori della Regione Puglia se un giorno gli Dei decidessero di tornare qui: di trasformarsi tutti in pale eoliche da 80 metri l’una, alte quanto un palazzo di 25 piani? O quale altro sortilegio sarà loro riservato come punizione, per aver consentito non in un mese e neppure in un anno, ma in lunghi mesi e lunghi anni, che la loro splendida terra si trasformasse in un Far West, che il sogno del business ad ogni costo - una Corsa all’Oro in piena regola - attirasse qui ogni genìa di cow boy senza scrupoli a devastare, a inquinare, a corrompere? Ecco, la Puglia. Partiti con il sole e con il vento, con il sogno dell’energia pulita, si è finiti dieci anni dopo a fare i conti con un disastro: i conti con le inchieste penali aperte dalla magistratura, i conti con i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, i conti con le pressioni, con le intimidazioni che hanno dovuto subire i contadini proprietari dei terreni, con le giravolte di società partite con diecimila euro e poi pronte a sparire, i conti con una Puglia che non è più la stessa.
Tanto per riepilogare, il meccanismo è questo: arriva lo “sviluppatore”, contatta piccole amministrazioni con le casse vuote e contadini che ormai delle loro terre non vivono più, presenta il progetto delle pale, impacchetta tutto e aspetta la grande azienda. Per rivendersi a milioni di euro quell’autorizzazione e perché cominci un altro affare, questo alla luce del sole, ma altrettanto discutibile: un kw di energia che vale 6,5 centesimi di euro verrà pagato a chi la produrrà con queste pale praticamente il doppio, e per quindici lunghissimi anni. Chi ci rimette, sempre per riepilogare, è il povero cittadino che paga la bolletta: c’è una voce che gli viene addebitata proprio perché partecipi anche lui (ma solo da spettatore pagante) a quest’abbuffata, una voce che in questo 2010 vuol dire, come incentivo su scala nazionale a carico degli utenti, 3 miliardi di euro, 5 miliardi nel 2015 e 7 miliardi nel 2020. Bell’affare.
Ma torniamo alla Puglia, dove davvero è successo di tutto e di più. Dove l’Anev, l’Agenzia delle imprese del settore, dice che fino al 2009 sono state installate 916 pale eoliche per un totale di 1.158 megawatt, Puglia prima in Italia, s’intende. Ma le cifre dell’Anev sono superate da quelle dell’assessorato all’Energia: fra impianti installati e autorizzati c’è già in campo una produzione di 2.300 megawatt, quindi intorno alle 1.800 pale e c’è un piano energetico regionale che consente di arrivare entro il 2016 a 4.000 megawatt. Una follia, la Puglia da sola che pretende (e a questo punto dovrebbe riuscirci) di produrre un quarto dell’energia eolica italiana prevista dall’Anev per il 2016. Come è potuto accadere?
«Ma se vuole – confida l’assessore all’energia - le offro un dato che può consegnare la Puglia alla fantascienza...». E lo offre: ci sono domande giacenti in Puglia per altri 30mila megawatt, per almeno altre 12mila torri eoliche da disseminare sul territorio, «una specie di Foresta del Mato Grosso», chiosa l’assessore. E che succederà? «Succederà che approveremo solo progetti altamente qualificati, quindi pochissimi». Richieste per 30mila megawatt vuol dire che i pescecani dell’eolico pensavano di produrre qui il doppio dell’energia prevista per tutta l’Italia dalle “rinnovabili” entro il 2020. Una stalla che nessuno si è preoccupato di chiudere né quando, nell’estate del 2008 arrestarono il sindaco di Ascoli Satriano, provincia di Foggia, Antonio Rolla, per abusi commessi proprio nella realizzazione di un parco eolico, né quando a febbraio 2009 si mosse la Procura Antimafia di Lecce con un’inchiesta su quel che resta della Sacra Corona, sul clan Bruno, e sul parco eolico di Torre Santa Susanna, provincia di Brindisi, che finì con dieci arresti, e neppure quando un anno dopo tutta la giunta di Sant’Agata di Puglia finì sotto inchiesta per le pale del Sub Appennino Dauno che sul terreno del sindaco valevano il doppio. Tanto meno ha senso chiuderla oggi, questa stalla, oggi che la Procura di Napoli ha messo gli occhi anche sul parco eolico di Castellaneta, provincia di Taranto, uno dei più grandi d’Europa con le sue 276 pale, e che sta frugando tra le carte della Green Engeneering and Consulting, di Napoli appunto, la stessa azienda che si potrebbe ritrovare negli archivi del comune di Vicari, provincia di Palermo, l’intero consiglio sciolto nel 2005 per «infiltrazioni mafiose». Ma non è la sola connection siciliana che si nota qui in Puglia: nelle pagine dell’inchiesta di Raccuja, parco dei Nebrodi, provincia di Messina, che ha portato all’arresto del sindaco, si può ritrovare il nome della Api Holding, la stessa ditta delle pale di Sant’Agata di Puglia. Insomma, un bell’intreccio.
Si diceva dei pastorelli e delle Ninfe perché anche qui c’è un casus belli, un po’ come le rovine di Altilia a Sepino, in Molise. La differenza è che mentre le pale di Sepino sono previste a una decina di chilometri dalle rovine e già danno fastidio, le 14 pale di Giuggianello, invece, dovrebbero sorgere praticamente tra i resti megalitici che raccontano quella leggenda. Quattordici belle pale che qui hanno una loro peculiarità: essendo piazzate sulle Serre Salentine, cioè sui crinali più alti del Tacco d’Italia, a 200 metri di quota, possono essere ben viste dai due mari, sia dall’Adriatico sia dallo Jonio. Come ha potuto la regione Puglia consentire che si arrivasse a tanto? Perché, poi, il Salento è un caso nel caso. E’ qui che c’è stato l’assalto più sfrenato. Pale come se piovesse, a Lecce stessa, a Soleto, a Martignano, a Surbo, a San Pancrazio, a Martano, a Ugento, a San Donato. Solo a Nardò, nelle bellissima Nardò, non sono arrivati. Una specie di rivolta di popolo ha impedito che il parco eolico si realizzasse. Ma per il resto è stata una specie di marcia trionfale dei Guastatori. E poi c’è l’off shore, le pale a mare. Quattordici progetti presentati, uno approvato dalla Regione Puglia, quello di Tricase, in provincia di Lecce, con le torri a una ventina di chilometri dalla costa. Una specie di zattere che comunque infastidiscono parecchio gli ambientalisti: sostengono che interromperebbero la migrazione degli uccelli fra Italia e Albania. Gli altri tredici progetti, perché nel frattempo la normativa è cambiata, sono tutti sul tavolo del ministero a Roma. La Regione, per quanto di sua competenza, si è già dichiarata contraria alle torri alle Isole Tremiti e davanti al Gargano. E la partita non è chiusa. Con i pannelli fotovoltaici stanno succedendo cose turche per queste contrade. E il fotovoltaico rende come incentivi almeno tre volte l’eolico, scatena, quindi, appetiti ancora più sfrenati. E’ la nuova frontiera, perché questo brutto Far West non finisce mai. Tutta ancora da raccontare.
«Italia Nostra auspica una nuova prima vera “mani pulite in Puglia”, che riporti la legalità ed il diritto, dove oggi sembra regnare solo l’interesse di pochi! Dove si devasta il paesaggio, lì c’è la mafia! Non cercatela altrove! - Queste le parole di Marcello Seclì, presidente Italia Nostra, Sud Salento. - I telefoni di Italia Nostra squillano come centralini ospedalieri durante un’epidemia: è gente allarmata che denuncia la desertificazione, la morte del Salento sotto i “lager dei pannelli fotovoltaici” dove prima crescevano fiori e prodotti agricoli. E’ una “metastasi incontrollata” che soffoca le nostre vite uccidendo il nostro paesaggio, un “cancro”, non lo si può definire diversamente, cui la Regione deve porre rapido rimedio, fermando con una moratoria il fotovoltaico in tutte le zone agricole e autorizzandolo solo nelle aree industriali e sui tetti e tettoie di strutture ed edifici recenti! Tutti gli impianti industriali prossimi alle strade del Salento che stiamo vedendo sorgere ormai dappertutto comportano, sotto la luce del sole, un effetto riverbero che acceca gli automobilisti provocando incidenti che possono rivelarsi anche fatali! Nessuno ha mai tenuto conto di questo?! Eppure altri impianti fotovoltaici a terra stanno sorgendo su ettari ed ettari ai margini della provinciale Castrignano dei Greci-Martano, della Corigliano-Galatina, lungo lo scorrimento veloce Maglie-Galatina, qui addirittura senza che siano rispettate nemmeno le fasce di rispetto di almeno 50 m previste per le strade di tipo B, ecc. ecc. Scempi a danno del paesaggio, del suolo agricolo e del nostro ambiente (si consideri solo l’inquinamento da diserbanti utilizzati!), tutti incostituzionali, che amministratori dall’animo corrotto e bugiardi presentano pure come occasione di sviluppo per il territorio, pur nella consapevolezza della nulla tecnologia locale impiegata e della esigua manodopera che sarà occupata a regime; amministratori che si arrampicano sugli specchi per cercare di giustificare le autorizzazioni concesse ai nuovi colonizzatori stranieri dell’energia, che tutto prenderanno, deprederanno, dal territorio, persino i nostri stessi incentivi per le rinnovabili, senza nulla poter dare in cambio. Siamo arrivati veramente alla spudoratezza! Ciò che finora si è fatto e tentato di fare illegittimamente e nel più assoluto riserbo, ora si tenta di continuare a fare cercando di legittimarlo attraverso la pubblica ostentazione, in extremis, nel crollo rovinoso di immagine e delle norme del castello immorale con cui si era permessa questa speculazione, quella delle rinnovabili industriali e della Green Economy, praticamente la più grave speculazione della storia del Sud Italia, come l’ha definita tra le righe lo stesso Ministro Tremonti! Dove sono le forze dell’ordine che dovrebbero intervenire in forze per porre i sigilli di sequestro a queste strutture totalmente industriali realizzate in piene zone agricole e contro la Costituzione Italiana ed ogni buon principio di pianificazione urbana? Infatti, la legge regionale 31/08 è stata dichiarata incostituzionale, già in marzo 2010, dalla Corte Costituzionale, ed è in nome di questa legge che si sono aperti successivamente cantieri per realizzare gli impianti, i più, di potenze inferiori a 1MW, ciascuno di circa tre ettari di verde fertile suolo ricco di biodiversità, che viene desertificato e coperto, sepolto di pannelli, pugnalato da migliaia di pali e martoriato con chilometri di cavidotti, ed il tutto con la presentazione di una semplice Dichiarazione di Inizio Attività (DIA) al solo comune interessato; una procedura che non offre alcuna garanzia per l’ambiente e la pubblica sicurezza e prevenzione sanitaria. Scopriamo poi, che stesse ditte, magari mal celate sotto nomi diversi, tentano di realizzare più impianti nello stesso feudo comunale! Ma questo è assolutamente illegale, non solo per l’incostituzionalità già citata; si tratta, infatti, di frazionamenti realizzati ad hoc, con dislocazione di uno stesso mega impianto di più megawatt in più sotto impianti, anche non necessariamente contermini, ma nello stesso feudo, o in feudi vicini, per poter con lo strumento delle semplici DIA, evitare, con un illecito escamotage, le più complesse strade burocratiche dell’autorizzazione unica regionale, che per legge devono percorrere impianti superiori ad 1MW! A volte il frazionamento mira ad evitare le incerte, nell’esito autorizzativo, procedure di Valutazione di Impatto Ambientale per i grandi impianti! Intervengano allora le forze dell’ordine per riportare l’ordine e la legalità, per controllare come sia possibile tutto ciò, ma anche per verificare come sia stato possibile inaugurare altri nuovi cantieri alla luce della retroattività della sentenza di incostituzionalità! Ci chiediamo, senza volere fare polemica, ma come appello estremo e disperato: dove sono le forze dell’ordine, il NOE, i Carabinieri, la Polizia, la Finanza, la Forestale, la Polizia Provinciale? Non vedono, come tutti noi cittadini invece vediamo quotidianamente, quanto si sta compiendo illegalmente ai danni di noi tutti, del nostro paesaggio, della nostra Costituzione? E’ un esercito stipendiato a difesa del territorio che pare sonnecchiare, o a cui le mani sono state legate da interessi di terzi poteri, che hanno soffocato anche la loro libertà?! C’è sempre tempo per sequestrare piscine e case abusive, ma oggi vi è l’impellenza di fermare sul nascere lo scempio ben più grave e catastrofico delle rinnovabili industriali, da mega eolico e mega fotovoltaico, denunciato dagli stessi direttori generali pugliesi di ARPA (Agenzia per la Prevenzione l’Ambiente) e della Soprintendenza ai Beni Culturali e Paesaggistici! Non avallino i magistrati e le nostre forze dell’ordine, con il silenzio e la non azione, quanto sta avvenendo!»
Quei miliardi al vento. A Report la grande truffa dell'importazione dell'energia verde. Le garanzie fornite dai venditori esteri non danno sicurezza sulla provenienza. È un meccanismo complicato, ma si può riassumere così: comprare un certificato verde costa a un’azienda italiana molto di più che importare dall’estero energia dichiarata pulita, anche se non c’è alcuna vera garanzia che sia davvero tale, come ammette il sottosegretario Stefano Saglia. Conseguenza per il contribuente italiano: lo Stato si è impegnato a comprare tutti i certificati verdi invenduti, per garantire un sostegno al nascente business dell’energia pulita. E questo (come spiega Milena Gabanelli nella puntata di Report in onda in 28 novembre 2010 su Raitre) nel 2009 è costato alle casse pubbliche un miliardo di euro. Che pagano tutti gli italiani in bolletta.
C’è fame di energie rinnovabili in Italia. Nella puntata di Report Giovanni Buttitta, direttore delle relazioni esterne di Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, conta e riconta le richieste per allacciare i nuovi impianti: “Un numero molto alto: 120 mila megawatt”. Il doppio del fabbisogno annuale dell’Italia. Perché spuntano panelli fotovoltaici ovunque e pale eoliche giganti sostituiscono alberi in montagna e coprono la terra rossa in riva al mare? L’inchiesta di Alberto Nerazzini racconta il vero business che si nasconde dietro le richieste ambientaliste dell’Europa: entro il 2020 l’Italia deve abbattere le emissioni di anidride carbonica e consumare il 17 per cento dell’energia da fonti rinnovabili. I cittadini, in gran parte a loro insaputa, contribuiscono a una rivoluzione verde pagando in bolletta 3,2 miliardi di euro l’anno. Nerazzini si occupa anche di Green Power, società di Enel appena sbarcata in Borsa. L’azienda non si affida solo al boom dell’economia verde, ma anche al regime fiscale degli Stati Uniti: oltre 60 società di proprietà di Green Power hanno sede a Wilmington, nel Delaware, Stati Uniti. Come mai? L’amministratore delegato, Francesco Starace, spiega a Report senza imbarazzo: “Perché lì, in America, noi abbiamo una società che si chiama Enel North America, residente nel Delaware, che all’interno degli Usa ha un regime fiscale positivo. È un modo per generare meno tasse”. Commenta Nerazzini: “Tutto legittimo. E sappiamo quanto sia difficile restare competitivi sul mercato internazionale. Ma visto che Enel è ancora una società controllata dal Ministero del Tesoro, che ne possiede più del 30 per cento, uno si domanda quale sia la percentuale di tasse che Enel sta evitando di scaricare sul fisco italiano”.
L’altro punto su cui si concentra Report è il traffico di energia rinnovabile importata dall’estero dai produttori di energia sporca (gas, petrolio) che sono tenuti a ripulirsi, comprando “certificati verdi” da chi produce usando fonti rinnovabili (un complicato sistema per trasferire soldi da chi inquina a chi è più “verde”). Il 31,6 per cento di tutta l’energia elettrica consumata in Italia proviene da fonti rinnovabili, cioè da centrali idroelettriche, biomasse, geotermia, eolico e solare. Questo dato è lo stesso che è comunicato ai consumatori: compare nella tabella del mix energetico che da maggio scorso le aziende fornitrici di elettricità, come l’Enel, devono pubblicare sui loro siti e sulle bollette. Un dato che sembra descrivere un’Italia sulla buona strada nel raggiungimento dell’obiettivo concordato con l’Europa per il 2020. Peccato però che la quantità di energia (32mila gigawatt) importata che il Gse (Gestore Servizi Energetici) considera verde possa essere computato dall’Italia come energia da fonte rinnovabile per il raggiungimento degli obiettivi europei del 2020. “Le garanzie d’origine non sono sufficienti per il conteggio del target italiano”, ammette Gerardo Montanino, direttore operativo di Gse.
La direttiva europea che stabilisce gli obiettivi del 2020 prevede infatti che uno Paese possa conteggiare l’energia verde importata solo se c’è uno specifico accordo con il Paese esportatore. Questi accordi per il momento non ci sono e quindi l’energia verde di cui parla il Gse, ai fini degli obiettivi del 2020, conta zero. E questo per i prossimi anni, visto che secondo il Piano di azione nazionale per le energie rinnovabili, stilato dal ministero dello Sviluppo economico, i primi giga verdi d’importazione saranno computabili come consumati in Italia solo nel 2016: dei 9mila Gwh previsti, 6mila arriveranno dal Montenegro. Sempre che venga realizzato un cavo di interconnessione attraverso l’Adriatico. Insomma per gli obiettivi del 2020 le garanzie d’origine non contano nulla. E ora sembra avere dubbi sulla loro reale utilità anche il sottosegretario del ministero dello Sviluppo economico Stefano Saglia, che a Report dice: “Importiamo energia ed è quasi tutta con certificato di garanzia da fonte rinnovabile, ma invece non lo è”. Perché, quindi ci si affida tanto all’estero? Come sempre è questione di soldi.
Un'inchiesta di Report rivela come il cippato per le centrali a biomasse spesso proviene dall'estero, con notevoli costi ambientali. Le centrali a biomasse sono utili all'ambiente e all'economia se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie, in un'ottica di filiera corta, per rendere autosufficienti i piccoli paesi. La stessa cosa non si può dire per le centrali di grandi dimensioni, che per essere alimentate devono acquistare biomasse fuori provincia, fuori regione e perfino all'estero. A tracciare un quadro di luci e ombre sulle centrali a biomasse è stata un'inchiesta della trasmissione Report di Milena Gabanelli, che ha riconosciuto la bontà per il territorio e l'ambiente di un modello basato sulla filiera corta e, per quanto riguarda le centrali alimentate a legno cippato, basate sull'utilizzo degli scarti delle segherie locali e del legname recuperato dalla pulizia dei boschi. Il problema evidenziato è la grande diffusione su tutto il territorio nazionale delle centrali a biomassa, dovuta anche agli incentivi statali (certificati verdi, che però a partire dal 2011 non dovranno più pesare sulla finanza pubblica), con il rischio che in una stessa zona (come in Garfagnana) ce ne siano troppe. La conseguenza è che in molti acquistano il legname fuori regione e all'estero, non solo in Europa ma anche da Cile, Nigeria, Indonesia, Brasile, Argentina, alla faccia della filiera corta. Trasportare su distanze così grandi il legname comporta alti costi energetici e ambientali, per non parlare poi dell'aumento dei gas serra causato dal disboscamento del suolo. Ma i costi diventano anche economici: la carenza di legno causa l'aumento dei costi dei pannelli per l'arredamento, calano i consumi e l'industria dei produttori del legno semilavorato rischia di entrare in crisi, insieme a tutta la filiera dell'arredamento. “Le centrali a biomasse sono un'ottima idea – ha riassunto la Gabanelli chiudendo la trasmissione - se di piccole dimensioni e se bruciano residui di boschi e di segherie e utilizzano tutta l’energia prodotta per riscaldare magari piccoli paesi. Il fine dovrebbe essere quello di diventare autosufficienti e non di lucrare. Diversamente si rischia di compromettere un patrimonio, di mettere in crisi un settore dell’economia, a noi costa di più, e alla fine magari si inquina, quanto con il gasolio”.
TASSA AMBIENTALISTA. COME PRENDERLA NEL…SACCHETTO.
Buste di plastica: chi le ammette e chi le tassa ma lo stop trionfa. Due modi per impedire l'impiego di uno strumento che ha contribuito a danneggiare l'ecosistema, scriveva già Boris Bivona il 15 febbraio 2011 su "Fiscooggi". La prima al mondo a vietare l'uso dei sacchetti di plastica è stata nel 2000 l'India a Mumbai. Due anni dopo a proibire l'impiego è stato il Bangladesh nella sua capitale, Dhaka. La decisione è stata adottata a seguito delle piogge monsoniche dopo che gli shoppers hanno causato numerosi intralci al sistema di drenaggio. L'intervento ha peraltro favorito la produzione locale di sacchi di iuta. Nel 2003 l'uso dei sacchetti di plastica è stato vietato dal Sud Africa e da Taiwan mentre nel 2005 sono state introdotte normative per limitarne l'uso in Eritrea, Ruanda e Somalia. Nel 2006, la Tanzania e nel 2007 il Kenya e l'Uganda hanno sancito il divieto totale di uso.
L'Italia e il divieto di commercializzazione. Dal 1° gennaio 2011 è entrato in vigore il divieto di commercializzazione dei sacchetti di plastica. Nel decreto legge n. 225 del 2010 (cosiddetto Milleproroghe) non sono stati previsti ulteriori differimenti dei termini riguardanti la commercializzazione di sacchi non biodegradabili per l'asporto delle merci che non rispondano ai criteri fissati dalla normativa comunitaria e dalle norme tecniche approvate a livello comunitario. Più in particolare, l'Unione europea non ha imposto la messa al bando delle buste di plastica ma ha disposto con norma armonizzata del Comitato europeo di normazione, EN 13432, le caratteristiche che un materiale deve possedere per potersi definire biodegradabile o compostabile.
La decisione impositiva. Ciò detto, occorre rilevare come la decisione di imporre una tassa può rispondere a differenti finalità. Quella principale è di concorrere alle spese pubbliche ma l'imposta può avere anche lo scopo diretto di penalizzare un certo settore economico o quello di colpire una tipologia di consumi. Esempio è dato dall'imposta di fabbricazione che fu introdotta sui sacchetti di plastica dalla legge n. 478/1988 che all'articolo 1 prevedeva l'assoggettamento di 100 lire per ciascun shoppers non biodegradabile (con evidente finalità ambientalista). La tassazione dei sacchetti non biodegradabili è un meccanismo esclusivamente dissuasivo (la minaccia di applicare nuove tasse ha lo scopo, in tal caso, di giungere a una loro progressiva eliminazione). Infatti, le 100 lire sortirono un effetto deterrente, tanto che l'uso dei sacchetti scese di oltre il 30%. La legge n. 427 del 1993, tuttavia, abrogò questa disposizione nonostante alcuni supermercati continuarono (illegittimamente) a far pagare la busta (al prezzo di 5 centesimi circa) traslando sul cliente finale la tassa che non era più dovuta all'erario. A ogni modo, dal gennaio 2011 nei supermercati italiani si possono acquistare sacchetti biodegradabili (il cui sovrapprezzo è pari a circa 20 centesimi) mentre quelli di plastica sono usati fino a esaurimento scorte purché la cessione degli stessi sia effettuata a favore dei consumatori ed esclusivamente a titolo gratuito.
Le altre scelte europee. Oltre al caso italiano occorre ricordare la scelta degli irlandesi. Nell'isola, infatti, dal 2002 è stata avviata una campagna contro i rifiuti selvaggi e contro tutti i tipi di imballaggio disseminati lungo le strade. Per ogni sacchetto di plastica utilizzato negli stores è stata imposta una tassa di 15 centesimi al fine di ridurne l'utilizzo ed evitare di contribuire all'inquinamento delle campagne irlandesi. Il consumo è calato drasticamente del 90%. L'esperienza irlandese è servita da modello per altri Paesi quali la Scozia, Malta e Gran Bretagna. Nel Regno è stato Modbury il primo comune ha dichiarare fuorilegge i sacchetti di plastica nel 2007. Il consumo è stato dimezzato pure in Spagna mentre in Germania, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera per i sacchetti di plastica si paga già una tassa aggiuntiva "punitiva".
La Francia e la tassa da 10 euro. Se l'Italia ha messo il bando ai sacchetti di plastica non biodegradabili il Senato francese ha fatto slittare dal 2011 al 2014 la loro tassazione. I parlamentari, infatti, hanno votato un emendamento che dispone per i supermercati una tassa di 10 euro per ogni kilo di sacchetti con decorrenza 2014 (mentre i deputati avevano chiesto di anticipare il tutto al 2011).
La tassazione nel resto del mondo. La tassazione come deterrente finalizzato a ovviare il problema dei rifiuti ambientali vige anche negli USA. La Città di Washington DC, nel 2010, ha imposto una tassa pari a 5 centesimi per ogni sacchetto di plastica ceduto al cliente che effettua la spesa nei supermercati. La capitale non è la prima città a disincentivare l'uso delle "plastic bags". La tassa sui sacchetti di plastica è in vigore a San Francisco, dove già nel 2008 è stato vietato il loro utilizzo (nei supermarket e nelle farmacie) e dove è stato imposta la sostituzione con materiali più eco-friendly, come la carta (sebbene si sta sempre più diffondendo la popolarità dei sacchetti di tela riutilizzabili). Anche in questo caso, la ratio della tassa risponde non tanto all'esigenza di introdurre un nuovo onere tributario quanto a quello di incoraggiare gli acquirenti a non essere ulteriormente tassati (nel rispetto dell'ambiente). In oriente, la Cina ha deciso di porre al bando i sacchetti di plastica nel 2009 istituendo un nuovo tributo sui sacchetti ed emesso regolamenti per vietare quelli maggiormente inquinanti. Fonti: ministero dell'Ambiente
Sui social arriva la "resistenza" contro i sacchetti a pagamento. Renzi al contrattacco: "Così aiutiamo la green economy", scrive Massimo Malpica, Giovedì 04/01/2018, su "Il Giornale". Un sacco (bio) di proteste. La prima polemica dell'anno ha lo spessore quasi impalpabile dei sacchetti per l'ortofrutta, quelli parzialmente biodegradabili, che dal primo gennaio sono diventati - come noto - a pagamento. Nei supermercati il prezzo varia tra uno e tre centesimi, ma nonostante Assobioplastiche abbia stimato un costo annuo tra 1,5 e 4,5 euro pro capite, le proteste dei consumatori dilagano. Soprattutto sui social network. A irritare per cominciare è la scelta del governo di «portarsi avanti» nel recepire la direttiva europea in materia (che permetteva di escludere dagli obbiettivi di riduzione plastica proprio i sacchetti ultraleggeri), prevedendo da subito di proibire la distribuzione gratuita delle bustine, oltre che la mancanza di alternative: le buste non possono essere riutilizzate (ma si possono usare come contenitori per l'umido a casa, se sono ancora integre) e non si possono utilizzare sacchetti propri, quindi di fatto si è costretti a spendere quegli eurocent in più ogni volta che si compra e si pesa ortofrutta, pesce o carne. Anche questo dettaglio è diventato «virale» in rete in seguito al suggerimento «risparmioso» di incollare lo scontrino della bilancia direttamente sull'ortaggio pesato. Niente da fare: per semplificare il calcolo, il costo della busta in bioplastica è aggiunto proprio al momento della pesata. Per cui lo stratagemma di prezzare direttamente frutta e verdura non funziona, perché si finisce per pagare il sacchetto anche se non lo si prende. Ma comunque le foto di mele scontrinate una per una (con una conseguente moltiplicazione del costo per i sacchetti) ieri andavano alla grande su Facebook, con migliaia di condivisioni che spacciavano la trovata come «soluzione» per il boicottaggio della nuova legge. L'altra polemica è squisitamente «antirenziana», e riguarda l'azienda leader nella produzione di buste in mater-bi, una plastica biodegradabile realizzata dal mais dalla Novamont, azienda novarese con stabilimento a Terni il cui ad, Catia Bastioli, aveva partecipato alla Leopolda del 2011, sei anni fa, come oratrice, invitata proprio dal rottamatore. Di qui le critiche alla scelta «radicale» del governo guidato da Paolo Gentiloni nell'imporre da subito un prezzo ai sacchetti ultraleggeri. Anche perché, sempre online, non sono mancati i simpatizzanti dem che di bacheca in bacheca difendono la scelta dell'esecutivo e la attribuiscono a un presunto obbligo italiano di allinearsi all'Europa, mentre come detto le cose stanno diversamente, e di fatto l'Italia è il solo Paese nel quale quei sottilissimi involucri tocca pagarli. In Irlanda, invece, viene applicata una tassa sulla produzione degli shopper. «In Italia ci sono circa 150 aziende che fabbricano sacchetti prodotti da materiale naturali e non da petrolio, anziché gridare al complotto dovremmo aiutare a creare nuove aziende nel settore della green economy senza lasciare il futuro nelle mani dei nostri concorrenti internazionali», ha replicato Matteo Renzi nell'ultimo numero delle sue Enews. E non manca nemmeno l'ironia a margine delle polemiche. Come il meme del principino George, icona snob del web, che ammonisce sorridente: «I sacchetti per la spesa ve li compro io. Poracci».
I sacchetti biodegradabili a pagamento solo in Italia. Solo nel nostro Paese buste pagate sullo scontrino. Fino allo scorso anno il costo era stato scaricato sui prodotti, scrive Franco Grilli, Mercoledì 03/01/2018, su "Il Giornale". I sacchetti per frutta e verdura si pagano, per il momento, solo in Italia. Il nostro Paese ha scelto questa strada per adeguarsi ad una direttiva Ue del 2015. Di fatto in Italia a partire dall'1 gennaio si pagano i sacchetti sotto i 15 micron che troviamo in tutti i supermercati per imbustare verdure o frutta da pesare. In questo modo i sacchetti di questo tipo vengono uniformati a quelli da 50 micron, quelli in cui mettiamo materialmente la spesa che acquistiamo e che da tempo si pagano in cassa. Di fatto finora il costo di queste piccole buste veniva scaricato sul prezzo finale per i prodotti. La decisione dell'esecutivo ha sostanzialmente invertito questa prassi. La novità tra gli scaffali dei supermercati di fatto ha scatenato qualche protesta soprattutto sui social dove qualcuno ha deciso di "ribellarsi" pesando ad esempio le arance una ad una senza usare la busta. La direttiva europea comunque riguarda tutti gli stati membri e probabilmente l'Italia ha semplicemente anticipato ciò che potrebbe accadere altrove nei prossimi anni. In Irlanda, come riporta il Corriere, finora si è deciso di predisporre una tassa sui sacchetti. Un altro modo per affrontare il problema posto dalla direttiva Ue. Bruxelles di fatto ha scelto di dare il via ad una stretta contro quei sacchetti di platica biodegradabili che vengono usati da milioni di cittadini in tutta l'Ue. In Francia i sacchettini sono stati messi al bando dal 2017. Niente buste di plastica gratuite in Paesi Bassi, Gran Bretagna, Croazia e Svezia. Dovranno ancora allinearsi alla nuova direttiva (i cui termini sono scaduti nel 2016) Danimarca, Grecia, Finlandia, Austria e Germania.
Veritas vincit: Questa è la patria della tassa sul macinato, scrive Rosanna Manzato mercoledì 3 gennaio 2018 su "Freeanimals". Allora, governo di merda, oggi sono andata al supermercato ed ovviamente, nel reparto frutta e verdura, con dei cartelli, si avvisa la clientela che i sacchetti per frutta e verdura, come da vostro ordine, dal 1° gennaio 2018 sono a pagamento al costo di 1 cent di € cadauno. Ho preso 4 arance sfuse e ad una ad una le ho pesate ed etichettate. Vado alla cassa e dico alla cassiera che ho fatto questo per non pagare il sacchetto. La poveretta mi passa la prima arancia sul lettore dei codici a barre e mi dice esterrefatta: "Signora, la bilancia è già tarata con il prezzo del sacchetto già compreso, perché mi dà il costo del frutto più il prezzo del sacchetto". Io allora rispondo gentilmente: "Ok va bene, le lascio qui le arance". La povera chiama il direttore che, molto gentilmente, mi dice che il prezzo del sacchetto si può stornare dal conto, ma solo per 2 capi e per le altre 2 arance mi verranno restituiti i 2 cent dalla cassiera. Ho ricevuto un tripudio di elogi dai clienti in coda alla cassa, mi sono scusata con i gentilissimi cassiera e direttore che a loro volta erano d'accordo con me... Governo di m…! Credo che questa piccola cosa, avrà un largo seguito: incularci un centesimo vale quanto incularci un lingotto d'oro, tenetelo bene a mente, che tutto vi ritornerà con gli interessi! Ps: in altre catene di supermercati, i sacchetti costano 3 centesimi cadauno...fate voi!
Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure a pagamento, scoppia la rivolta sui social. Arance pesate una ad una e altri trucchetti suggeriti dai consumatori per evitare di pagare il costo dei sacchetti biodegradabili, obbligatori e a pagamento dal primo gennaio 2018. La stima è di una spesa dai 4 ai 12,50 euro all'anno, scrive Valentina Santarpia il 2 gennaio 2018 su “Il Corriere della Sera”. «Non ci sono speculazioni ai danni del consumatore», dice soddisfatto il presidente di Assobioplastiche dopo una prima ricognizione sui prezzi dei sacchetti per frutta e verdura, che dal primo gennaio sono - per legge - biodegradabili e a pagamento. Anche se la cifra per ogni sacchetto oscilla tra 1 e 3 centesimi, non la pensano allo stesso modo i clienti dei supermercati, che, inviperiti dalla novità, hanno iniziato da ieri a postare sui social foto di scontrini e sotterfugi per evitare quello che il Codacons ha già definito un «balzello». «Fatta la legge, trovato l'inganno», scrive una consumatrice, pubblicando la foto delle arance pesate ed etichettate una ad una, per evitare di usare il sacchetto.
Il calcolo della spesa. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche, il costo annuale dei sacchetti per una famiglia dovrebbe oscillare tra i 4,17 e i 12,51 euro. Come si arriva a questa stima? L'Osservatorio stima che il consumo di sacchi per ortofrutta e per il cosiddetto secondo imballo (quello dei prodotti che prima vengono incartati, come carne, pesce, gastronomia, panetteria) si aggiri complessivamente tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017 le famiglie italiane effettuano in media 139 spese all'anno nella Grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro).
Il prezzo di 12 minuti. La legge entrata in vigore dal 1° gennaio del 2018 è l’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il Decreto Legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in caso di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. E per i consumatori non c'è nessuna via facilitata, come il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Anche se le stime dicono che il tempo medio di utilizzo di un sacchetto è 12 minuti. Una vita breve e costosa.
Sacchetti biodegradabili per la frutta a pagamento, le polemiche sui social tra soluzioni green e lamentele. Rivolta social per i sacchetti a pagamento per l'imballaggio alimentare. Sui costi guerra di cifre tra associazioni dei consumatori e aziende. Su Twitter appelli, battute e ironie, scrive il 3 gennaio 2018 “Il Corriere della Sera”. Il provvedimento sui sacchetti biodegradabili per il primo imballo alimentare a pagamento continua a scatenare furiose polemiche sui social media e non solo. Il botta e risposta sulle spese aggiuntive per le famiglie si è consumato a colpi di note tra associazioni dei consumatori e aziende produttrici: il Codacons ha infatti affermato che i costi aggiuntivi potrebbero raggiungere i 50 euro a famiglia; molto meno (cifre nell'ordine di pochi euro all'anno) per Assobioplastiche, l’associazione di categoria delle aziende produttrici, che sostiene che la spesa supplementare potrebbe essere compresa tra 1,5 euro e 4,5 euro all’anno (per persona, però, non per famiglia).
La furia dei consumatori. Nel frattempo, comunque, la polemica è scoppiata, puntuale e furiosa, sui social media. Anche perché, a quanto pare, i supermercati hanno applicato la tariffa per il «sacchetto bio» o il «sacchetto orto» a scontrino emesso dalla bilancia e non a sacchetto effettivamente consumato. Con il risultato che anche chi compra la frutta e la etichetta a pezzo singolo paga per un sacchetto non utilizzato.
Buste biodegradabili per frutta e verdura: cosa sono i bioshopper obbligatori dal 2018, scrive Ida Artiaco il 3 gennaio 2018 su "Fan Page". Dall’1 gennaio 2018 diventano obbligatori per legge i sacchetti di plastica biodegradabile per pesare e trasportare alimenti freschi e di macelleria nei supermercati e nelle piccole botteghe. Molte le polemiche dei consumatori, dal momento che queste buste sono a pagamento. La decisione rappresenta, tuttavia, un passo in avanti dell’Italia per combattere l’inquinamento. Si tratta di un materiale compostabile e riciclabile, capace persino di rendere fertile il terreno sul quale viene depositato. Dall'1 gennaio 2018 in tutta Italia è obbligatorio utilizzare sacchetti di plastica biodegradabile e compostabili per pesare e imbustare al supermercato o nelle botteghe sotto casa frutta, verdura, carne, pesce, pane e uova. Lo ha stabilito la legge, o meglio il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, secondo il quale i bioshopper devono diventare l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, andando a sostituire le buste ultraleggere in plastica con spessore inferiore ai 15 micron, che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una decisione, questa, amica dell'ambiente e a favore della lotta all'inquinamento atmosferico e dei mari, ma che ha fatto infuriare, e non poco, i consumatori che hanno parlato di "tassa sulla spesa", dal momento che questi nuovi sacchetti saranno a pagamento: ogni esercente potrà, infatti, vederli a un prezzo compreso tra 1 e 5 centesimi. Chi di loro non rispetterà la nuova normativa, rischierà multe salate. Ma di cosa si tratta nello specifico?
Cosa sono e come sono fatti i bioshopper. Quando si parla di bioshopper ci si riferisce a dei sacchetti di plastica biodegradabile, compostabile e riciclabile, utilizzati per il trasporto degli alimenti. Questo tipo di materiale, impiegato per la realizzazione dei prodotti più diversi, non solo per le buste della spesa, deriva da materie prime vegetali rinnovabili annualmente. Il tempo di decomposizione è di qualche mese in compostaggio, contro i 1000 anni richiesti dalle materie plastiche sintetiche derivate dal petrolio. Le bioplastiche che si trovano sul mercato sono composte soprattutto da farina o amido di mais, grano o altri cereali. Oltre ad essere biodegradabili, hanno anche il pregio di rendere fertile il terreno sul quale vengono depositate. Dopo l'uso, consentono persino di ricavare concime fertilizzante dai prodotti realizzati, come biopiatti, biobicchieri, bioposate, e di impiegarlo per l'agricoltura, perché, a differenza di quelli in polietilene e polipropilene, si decompone naturalmente sul terreno.
L'inquinamento da plastica: allarme per il suolo e i mari. La plastica è tra i maggiori responsabili dell'inquinamento del suolo ma anche e soprattutto dei nostri mari e degli altri corsi d'acqua, dai laghi ai fiumi (il cosiddetto marine litter). Non solo enormi quantità fluttuano in superficie, ma tantissimi prodotti realizzati con questo materiali restano imprigionati anche in profondità e non sono dunque visibili a occhio nudo. Secondo alcuni esperti, la massa di plastica galleggiante sugli oceani dovrebbe essere tra le 93.300 e le 236 mila tonnellate. Numeri, questi, che aumentano di anno in anno, a causa dell'alta durabilità nel tempo di questo materiale, sempre più utilizzato per dare vita agli oggetti più diversi, tra cui proprio i sacchetti per la spesa. Soltanto in Europa, come riscontrato dagli ultimi dati diffusi dall’EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di buste di plastica, di cui una parte finiscono direttamente in mare e sulle coste. Secondo l’International Coastal Cleanup, nel Mediterraneo tra il 2002 e il 2006 le buste di plastica sono risultate essere il quarto rifiuto più abbondante dopo sigarette, mozziconi e bottiglie.
Italia virtuosa e all'avanguardia: le leggi approvate. A dire il vero, tra i paesi dell'Ue l'Italia è tra i più virtuosi per quanto riguarda il tema dell'inquinamento da plastica ed in particolare dei sacchetti per la spesa. Il nostro Parlamento è infatti stato il primo ad approvare nel 2011 la legge contro gli shopper non compostabili. Ad oggi, come riferisce Legambiente, anche se la misura non è del tutto rispettata, c’è stata una riduzione nell’uso di sacchetti del 55%. Se fosse esteso a tutti i Paesi del Mediterraneo e non solo, i risultati in termini sarebbero molto più rilevanti. Un ulteriore passo in avanti è rappresentato, nelle intenzioni dei legislatori, dall'ultima norma riguardante i bioshopper per pesare e imballare frutta, verdura e altri prodotti alimentari e di macelleria, nonostante le polemiche nate sui social perché queste buste sono a pagamento, e obbligatorie, a partire dall'1 gennaio 2018. L’articolo 9-bis della legge n.123/2017, il cosiddetto Decreto Mezzogiorno, prevede che le borse di plastica non possano essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità debba risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati. Mentre il Codacons accoglie i timori dei consumatori, parlando di una "tassa sulla spesa" e di "stangata per le famiglie", Legambiente usa toni più moderati. "L'innovazione – ha detto Stefano Ciafani, direttore generale dell'associazione ambientalista – ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Si ricorda però che sulle nuove buste con cui si trasporteranno ad esempio verdura o pane ci sarà incollata l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa.
Sacchetti bio a pagamento per frutta e verdura, ecco quanto ci costeranno, scrive Cinzia Arena mercoledì 3 gennaio 2018 su "Avvenire". Guerra di cifre su uno dei rincari scattati con il 2018. Legambiente: l'Italia in prima linea nella lotta all'inquinamento da plastica. Ma i consumatori replicano: a pagare saranno le famiglie. Tra i rincari su tariffe e servizi che il 2018 ha portato con sè, dalle bollette di luce e gas al capitolo trasporti ai ticket sanitari, c'è una piccola tassa occulta sull'acquisto di frutta e verdura. L'anno nuovo si è aperto infatti con una novità per chi va a fare la spesa: la messa al bando dei sacchetti di plastica leggeri e ultraleggeri utilizzati per imbustare prodotti ortofrutticoli ma anche carne, pesce e affettati. Al loro posto shopper biodegradabili e compostabili, ma rigorosamente a pagamento (da 1 a 5 centesimi). Una misura che ha prodotto una serie infinita di polemiche sui social (con tanto di foto di arance con le etichette attaccate direttamente alla buccia per evitare il pagamento della bustina bio) e un duro scontro tra gli ambientalisti e le associazioni di consumatori. "L'innovazione ha un prezzo ed è giusto che si paghi purchè il costo sia equo, vale a dire 2-3 centesimi a busta - è la posizione espressa da Legambiente per voce del suo direttore Stefano Ciafani - È fondamentale continuare la strada iniziata nel 2011 dall'Italia nella lotta all'inquinamento da plastica". In Europa, secondo i dati dell'Agenzia perla protezione dell'ambiente, si stima un consumo annuo di 100miliardi di sacchetti, e una parte di questi finiscono in mare e sulle coste. L'Italia è stato il primo Paese europeo ad approvare, nel 2011, la legge contro i sacchetti non compostabili. Ad oggi anche se la misura non è del tutto rispettata, c'è stata una riduzione nell'uso di sacchetti del 55%. E adesso fa un altro passo in avanti.
Guerra di cifre sul costo annuo per le famiglie. Ma quanto costerà la nuova norma agli italiani? Su questo punto è guerra di cifre. Secondo l'Osservatorio di Assobioplastiche la spesa aggiuntiva oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro il prezzo che ogni famiglia dovrà aggiungere quest'anno alla spesa alimentare fatta in supermercati e ipermercati. Nella ricognizione compiuta dall'Osservatorio in una dozzina di grandi magazzini alimentari, il costo di ogni singolo sacchetto è risultato compreso fra 1 e 3 centesimi. Assobioplastiche ricorda che il consumo di buste si aggira tra i 9 e i 10 miliardi di unità, per un consumo medio di ogni cittadino di 150 sacchi all'anno. Secondo i dati dell'analisi Gfk-Eurisko presentati nel 2017, le famiglie italiane fanno in media 139 spese all'anno nella grande distribuzione. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo complessivo compreso tra 4,17 e 12,51 euro (considerando appunto un minimo rilevato di 0,01 e un massimo di 0,03 euro). "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto -spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Sul pagamento dei sacchetti però le associazioni dei consumatori si sono scatenate. Per il Codacons è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Si tratterà di una spesa aggiuntiva compresa tra i 20 e i 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti. Una vera e propria tassa occulta. Differente la stima fatta da Adoc che parla di un aggravio fra i 18 e i 24 euro l'anno per una media di 600 sacchetti a famiglia. Tra le soluzioni alternative c'è chi propone un ritorno alle buste di carta e chi come, Coop Svizzera, lancia le buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate multi-bag.
Federdistribuzione: obiettivo sottocosto per venire incontro ai consumatori. La grande distribuzione, chiamata a mettere in pratica la normativa, non ci sta a considerarla una stangata. Federdistribuzione parla di una norma che punta ad accrescere la sensibilità dei consumatori nei confronti dei temi ambientali. "Stiamo parlando di miliardi di sacchetti utilizzati nei supermercati è ovvio che contribuiscono all'inquinamento. L'obiettivo è ridurne il numero e al tempo stesso contenere i costi: nelle nostre aziende si sta facendo strada sempre di più il "sottocosto" vale a dire la vendita del sacchetto ad un costo inferiore a quello di produzione. Mi sembra che il disagio sia relativo per il consumatore e inoltre si tratta di una norma europea alla quale bisognava adeguarsi" spiega il presidente Giovanni Cobolli Gigli ricordando che il passaggio analogo, ai sacchetti per la spesa bio ha prodotto nel giro di sei anni una netta riduzione. Conciliare ambiente e risparmio insomma si può.
La norma inserita nel decreto Mezzogiorno. L'obbligo di utilizzo dei sacchetti bio-degradabili e a pagamento è entrato in vigore dal 1° gennaio del 2018. Si tratta dell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017 (il decreto legge Mezzogiorno) che stabilisce che «le borse di plastica non possono essere distribuite a titolo gratuito e a tal fine il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti trasportati per il loro tramite». Per gli esercizi commerciali che non applicheranno la nuova norma sono previste multe che vanno da 2.500 a 25.000 euro. Ma le sanzioni possono arrivare anche fino a 100.000 euro in casi estremi, di «ingenti quantitativi» di buste fuorilegge. Per i consumatori non c'è possibilità di scelta. Bocciato il fai da te: il ministero dell'Ambiente ha già fatto sapere che, per motivi igienici, i sacchetti non potranno essere portati da casa o riutilizzati. Ma la loro vita media è di appena 12 minuti.
Per capire. Legambiente: 4 domande (e risposte) sui sacchetti biodegradabili, scrive mercoledì 3 gennaio 2018 "Avvenire". È polemica sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, per gli alimenti ed entrati in vigore dall'1 gennaio 2018. Non tutte le notizie che circolano appaiono però corrette. In questi giorni infatti gli italiani appaiono sempre più divisi sui nuovi bioshopper biodegradabili e compostabili, a pagamento, utilizzati per gli alimenti ed entrati in vigore dal 1 gennaio 2018. C'è chi li sostiene e che invece ha molti dubbi al riguardo, e non mancano in queste ore il proliferare di affermazioni inesatte su una novità che, invece, sostiene Legambiente, fa bene all'ambiente e aiuta a contrastare in maniera efficace l'inquinamento da plastica non gestita correttamente e il problema del marine litter. Per questo Legambiente punta il dito contro le "bugie" che stanno circolando in questi giorni: dalla cosiddetta "tassa occulta" alla questione del monopolio di Novamont, azienda a cui si deve l'invenzione del Mater-Bi. Quindi l'associazione affronta 4 punti fornendo alcune informazioni:
Perché questo provvedimento? L'inquinamento da plastica è sempre più grave. "Le polemiche di questi giorni - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - sono davvero incomprensibili: non è corretto parlare di caro spesa né di tassa occulta o di qualche forma di monopolio aziendale. Sarebbe utile che ci si preoccupasse dei cambiamenti climatici e dell'inquinamento causato dalle plastiche non gestite correttamente, e che si accettassero soluzioni tecnologiche e produttive che contribuiscono a risolvere questi problemi, senza lasciarsi andare a polemiche da campagna elettorale di cui non se ne sente il bisogno. È ora di sostenere e promuovere l'innovazione che fa bene all'ambiente, senza dimenticare di contrastare il problema dei sacchetti di plastica illegali. Circa la metà di quelli in circolazione sono infatti fuorilegge, un volume pari a circa 40 mila tonnellate di plastica, e una perdita per la filiera legale dei veri shopper bio pari a 160 milioni di euro, 30 solo per evasione fiscale".
Siamo di fronte a una tassa occulta? Tassa occulta? Per Legambiente non è nulla di tutto ciò. Da sempre i cittadini pagano in modo invisibile gli imballaggi che acquistano con i prodotti alimentari ogni giorno. Nessun produttore o nessuna azienda della grande distribuzione ha mai fatto ovviamente e naturalmente beneficenza nei confronti dei consumatori. Unica differenza, è che questa volta il costo è visibile, perché l'obiettivo della norma è aumentare la consapevolezza dei consumatori su un manufatto che se gestito non correttamente può causare un notevole impatto ambientale.
La legge vieta il riutilizzo dei sacchetti? Questo problema si può ovviare semplicemente con una circolare esplicativa del Ministero dell'ambiente e della salute che permetta in modo chiaro, a chi vende frutta e verdura, di far usare sacchetti riutilizzabili, come ad esempio le retine, pratica già in uso nel nord Europa. In questo modo si garantirebbe una riduzione auspicabile dell'uso dei sacchetti di plastica, anche se compostabile, come già fatto coi sacchetti per l'asporto merci (che grazie al bando entrato in vigore nel 2012 in 5 anni sono stati ridotti del 55%).
Una legge che favorisce il monopolio di un'azienda? È una legge basata sul monopolio dell'azienda Novamont? Si tratta di una fantasia di chi non conosce il mercato delle bioplastiche. Oggi nel mondo ci sono almeno una decina di aziende chimiche che producono polimeri compostabili con cui si producono sacchetti e altro. Basta andare sul web e si possono trovare colossi della chimica italiana, tedesca, americana, del sud est asiatico, che producono bioplastiche. Dove sarebbe il monopolio? Forse sarebbe opportuno ricordare che tra le principali aziende della chimica verde una volta tanto l'Italia ha una leadership mondiale sul tema, grazie ad una società che è stata la prima 30 anni fa a investire in questo settore e che negli ultimi 10 anni ha permesso di far riaprire impianti chiusi riconvertendoli a filiere che producono biopolimeri innovativi che riducono l'inquinamento da plastica. Un problema di cui ormai si parla in tutto il mondo, come emerso chiaramente ad esempio alla Conferenza mondiale sugli oceani che l'Onu ha organizzato nel giugno scorso a New York, a cui Legambiente ha partecipato portando l'esperienza di citizen science sul marine litter con Goletta verde e le campagne di pulizia delle spiagge.
Quanto costa davvero il sacchetto della spesa, scrive Maria Teresa Camarda Mercoledì 03 Gennaio 2018 su "Live Sicilia”. Alcune cifre che circolano sul web sono delle bufale. E guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima. Sacchetti della spesa a pagamento nei supermercati a partire dal 1 gennaio. Un obbligo di legge che ha fatto scattare immediatamente accesissime polemiche sui social network. I consumatori stanno vivendo questa decisione del governo nazionale come un'ulteriore tassa da pagare allo Stato. Ma le cose non stanno proprio così e i costi di questa misura non sono poi così esosi come si è detto. Alcune delle cifre che circolano sul web se non sono bufale, poco ci manca. Stando ai calcoli diffusi dall'Osservatorio di Assobioplastiche, la spesa per i sacchetti igienici destinati all'acquisto di frutta, verdura, carne e pesce oscillerà fra 4,17 e 12,51 euro l'anno. E non, quindi, la spesa di 50 euro di cui tanto si parla su Facebook, Twitter & co. Il provvedimento è previsto dalla legge 123/2017, il cosiddetto decreto Mezzogiorno, approvato lo scorso agosto, in cui si indica che queste buste non possono essere gratis per via delle misure europee che prevedono l’obbligatorietà in tutti i Paesi dell’Unione della cessione degli shopper a pagamento. Questa misura, come recita la direttiva, si è resa necessaria "per aumentare la consapevolezza del pubblico in merito agli impatti ambientali delle buste di plastica per liberarci dall'idea che la plastica sia un materiale innocuo e poco costoso". "Queste prime indicazioni di prezzo ci confortano molto - spiega Marco Versari, presidente di Assobioplastiche, in un'intervista al notiziario "Eco dalle città" -, perché testimoniano l'assenza di speculazioni o manovre ai danni del consumatore". Peraltro, i sacchetti "sono utilizzabili per la raccolta della frazione organica dei rifiuti - aggiunge Versari - e quindi almeno la metà del costo sostenuto può essere detratto dalla spesa complessiva". Ma anche su Assobioplastiche si è scatenato un vespaio di polemiche: "Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma - scrive un attivista del Movimento 5 stelle su Facebook in un post che è stato condiviso centinaia di volte dal suo profilo e altrettante da ogni altro profilo - sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais". Ma, guardando un po' più a fondo, i sacchetti in questione si pagavano anche prima, solo che erano inclusi nel costo complessivo del prodotto pesato. Adesso, con la nuova norma i supermercati dovranno indicare esplicitamente il costo del sacchetto e, anche su quelli, pagare le imposte. Quindi, la nuova norma semplicemente considera il sacchetto come una cosa che il supermercato ti vende e non come un semplice costo di gestione. Per il Codacons, comunque, è "un nuovo balzello che si abbatterà sulle famiglie italiane, una nuova tassa occulta a carico dei consumatori". Per Legambiente, invece, "non è corretto parlare di caro-spesa. L'innovazione ha un prezzo, ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo, che si dovrebbe aggirare intorno ai 2-3 centesimi a busta. Così come è giusto prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa". Le sanzioni per chi viola o elude la legge vanno da 2.500 a 25.000 euro, elevabili fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure un se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore.
Dal primo gennaio sono obbligatori: i bioshopper dividono gli italiani. Per legge devono essere l'imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Sono riciclabili e per questo piacciono a molti; costano poco ma se si fa la somma alle casse si può avere qualche sorpresa, e per questo una fetta di italiani parla di "tassa occulta", scrive Giacomo Talignani il 2 gennaio 2018 su “La Repubblica”.
"GENTILE CLIENTE... ti comunichiamo che è in vigore la legge che impone che vengano utilizzati sacchetti compostabili e biodegradabili idonei al contatto alimentare in sostituzione dei sacchetti di plastica". Questa la scritta che molti supermercati italiani recano all'ingresso dei loro punti vendita da oggi, giorno di riapertura della maggior parte degli store della grande distribuzione. Dal 1°gennaio è infatti scattato l'obbligo, per il cosiddetto "Decreto mezzogiorno", di utilizzare ''bioshopper'' come imballaggio primario per i prodotti di gastronomia, macelleria, pescheria, frutta verdura e panetteria. Via dunque le buste ultraleggere in plastica (con spessore inferiore ai 15 micron) che utilizzavamo solitamente per pesare gli alimenti le quali saranno sostituite da quelle biodegradabili e compostabili, nel rispetto dello standard internazionale UNI EN 13432. Una scelta, decisa nella lotta all'inquinamento ambientale e al problema delle microplastiche nei nostri mari, che peserà però sulle tasche degli italiani: ogni esercente venderà infatti le singole buste a un prezzo compreso fra gli 1 e i 5 centesimi. Come stabilito per legge, inoltre, per questioni igieniche non si potrà portare il proprio sacchetto da casa e dunque, di fatto, sarà obbligatorio spendere qualche centesimo nel caso si voglia acquistare frutta, verdura o altri prodotti. In caso di inadempienze per i venditori - l’obbligo si estende dalla grande distribuzione ai piccoli negozi - sono previste multe salate che vanno da 2.500 a un massimo di 25mila euro. La novità ha già diviso gli italiani fra coloro che sono favorevoli all'iniziativa e chi invece punta il dito contro la "tassa occulta" che dovremo pagare: ad ottobre un sondaggio Ispos Public Affairs indicava che 6 italiani su 10 si dicono favorevoli al nuovo sistema.
LA POLEMICA SUI COSTI - La legge, che vieta soluzioni diverse da quelle biodegradabili e compostabili con un contenuto minimo di materia prima rinnovabile non inferiore al 40%, è stata accolta con entusiasmo dalle associazioni ambientaliste mentre da quelle dei consumatori arrivano forti critiche. Per Legambiente non è corretto parlare di caro-spesa: perché" l’innovazione - dichiara Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta". Il Codacons parla invece di stangata sulle famiglie. "Significa che ogni volta che si va a fare la spesa al supermercato occorrerà pagare dai 2 ai 10 centesimi di euro per ogni sacchetto, e sarà obbligatorio utilizzare un sacchetto per ogni genere alimentare, non potendo mischiare prodotti che vanno pesati e che hanno prezzi differenti. Tutto ciò comporterà un evidente aggravio di spesa a carico dei consumatori, con una stangata su base annua che varia dai 20 ai 50 euro a famiglia a seconda della frequenza degli acquisti nel corso dell'anno" dice il presidente Carlo Rienzi definendola una "tassa occulta". Differente invece la stima di Adoc che prevede un aggravio fra i "18 e i 24 euro l'anno per circa 600 sacchetti consumati a famiglia". A queste cifre replica Assobioplastiche che stima un prezzo differente, al massimo fra "1,50 e 4,50 euro l'anno a persona". In questa operazione di contrasto al "marine litter" ogni supermercato della Gdo (la grande distribuzione) indicherà il proprio prezzo per busta. Per ora sono in pochi ad essersi sbilanciati, fra cui la Coop che ha fissato a 2 centesimi a busta il suo prezzo. Altri, come Esselunga o Carrefour, stanno procedendo con la sostituzione dei sacchetti ma devono ancora indicare con precisione la propria cifra.
RIUTILIZZO DEI SACCHETTI - Fra gli aspetti da considerare nella "rivoluzione dei sacchetti" c'è quello del riutilizzo delle buste biodegradabili per la raccolta dell'umido. In alcuni Comuni dove è in vigore la differenziata le famiglie acquistano i sacchetti biodegradabili in confezione con costi che oscillano fra i 10 e i 15 centesimi e dunque, se si riutilizzassero quelli dei supermercati comprati a 1-2 centesimi, ci sarebbe un risparmio. Ambientalisti e attenti osservatori ricordano però che sulle nuove buste con cui trasporteremo ad esempio verdura o pane ci sarà incollato l'etichetta con il prezzo termico che non è compostabile e dunque andrà accuratamente tolta. Catene come Lidl pesano i prodotti direttamente in cassa aggirando il problema dell'etichetta con prezzo e battendo direttamente sullo scontrino.
SISTEMI ALTERNATIVI - Ogni novità, chiaramente, scatena l'inventiva dei più creativi per trovare soluzione gratuite. Se come detto non è possibile portarsi i propri sacchetti da casa c'è chi propone il ritorno delle vecchie buste a rete o dei sacchetti di carta, questione però ancora tutta da dibattere (per i distributori). Fra le soluzioni già in atto, per esempio per frutta o ortaggi acquistati singolarmente, come un limone, un avocado e via dicendo, c'è quella di attaccare l'etichetta direttamente sul singolo prodotto (di solito sulla buccia che poi viene tolta). Altri esempi di possibili soluzioni future arrivano poi da Coop Svizzera che da novembre ha messo a disposizione buste riutilizzabili per frutta e verdura, chiamate Multi-Bag, in alternativa ai sacchetti.
IN EUROPA - In Europa, secondo gli ultimi dati diffusi dall'EPA, si stima un consumo annuo di 100 miliardi di sacchetti, molti dei quali finiscono in mare e sulle coste. Legambiente ricorda che la messa al bando degli shopper non compostabili è attiva in Italia, Francia e Marocco e altri Paesi hanno introdotto delle tasse fisse (Croazia, Malta, Israele e alcune zone della Spagna, della Grecia e della Turchia). Diverse iniziative sono in atto in tutto il Vecchio continente per cercare di ridurre il numero delle buste. Secondo un report della Marine Conservation Society in Gran Bretagna la lotta ai sacchetti non biodegradabili ha portato a un drastico calo della presenza di buste sulle coste, circa il 40% in meno.
Sacchetti biodegradabili per frutta e verdure: una «tassa sulla spesa»? Dal primo gennaio obbligatorio imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati in sacchettini di plastica biodegradabile forniti a pagamento. Ma ambientalisti, consumatori e industriali la pensano tutti in modo diverso, scrive il 03/01/2018 Andrea Zaghi su Sir Servizio Informazione Religiosa. Alcuni l’hanno già chiamata «tassa sulla spesa». E in effetti così parrebbe l’obbligo, scattato dallo scorso primo gennaio, di imbustare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile «nuovi» e forniti a pagamento. La precisazione non è casuale: accanto all’obbligo dei supermercati, c’è anche un altro obbligo, imposto ai consumatori, di non portarsi da casa sacchetti biodegradabili usati. Tutto è contenuto nel DL Mezzogiorno e precisamente nell’articolo 9-bis della legge di conversione n. 123 del 3 agosto 2017. Le regole appaiono piuttosto chiare, in ogni caso il ministero dell’Ambiente ha inviato una lettera al sistema della grande distribuzione organizzata. Dal primo gennaio è obbligatorio infilare frutta e verdura acquistata nei supermercati solo in sacchetti di plastica biodegradabile che dovranno essere pagati (si tratta dei sacchettini bianchi che fino a pochi giorni fa erano forniti gratuitamente); oltre a questo, è vietato il riutilizzo delle buste biodegradabili per motivi igienico-sanitari. Ugualmente è vietato mettere in una sola busta prodotti ortofrutticoli diversi. Questo all’interno del supermercato. C’è da immaginare, quindi, che tutto invece possa avvenire appena fuori i centri commerciali e i punti vendita (con tanto di travasi di prodotti nelle borse casalinghe). L’obiettivo è condivisibile – diminuire il più possibile l’uso di plastica -, il percorso per raggiungerlo lascia perplessi molti e ha del contraddittorio. Da un lato, infatti, si vuole ridurre l’uso della plastica, dall’altro si vieta il riuso della plastica biodegradabile. Il tema è solo apparentemente banale ed ha già prodotto schieramenti netti: da un lato gli ambientalisti, dall’altro alcune associazioni dei consumatori. Senza contare la deriva di polemica politica; c’è chi infatti vede dietro questa norma, un favore fatto ad aziende i cui vertici sarebbero legati a filo doppio al centrosinistra. Stando ai calcoli già fatti, comunque, la «tassa sulla spesa» dovrebbe pesare dai due ai dieci centesimi per busta utilizzata. Parte del ricavo dovrà essere versato dai supermercati allo Stato sotto forma di Iva e di imposte sul reddito. Per chi sgarra ci sono le multe. I supermercati che usano ancora buste non biodegradabili rischiano multe da 2.500 euro a 25.000 euro e fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ed è naturalmente sul costo dei sacchetti che pare crearsi la spaccatura fra ambientalisti e consumatori. Il Codacons ha già parlato di una «stangata sulle famiglie». A conti fatti l’associazione indica un aggravio di spesa annuo dai 20 ai 50 euro per nucleo familiare. Si tratta, ha tuonato il presidente Carlo Rienzi, «di una vera e propria tassa occulta a danno dei cittadini italiani che non ha nulla a che vedere con la giusta battaglia in favore dell’ambiente». Più sfumata Legambiente il cui direttore generale, Stefano Ciafani, ha spiegato che l’innovazione «ha un prezzo» e che è «giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta. Così come è giusto – ha continuato -, prevedere multe salate per i commercianti che non rispettano la vigente normativa». Per Assobioplastiche (l’Associazione Italiana delle Bioplastiche e dei Materiali Biodegradabili e Compostabili), i sacchettini di plastica biodegradabile costituiscono la «naturale conclusione di un percorso virtuoso nel settore della bioeconomia e dell’economia circolare che fa dell’Italia un modello per tutta l’Europa». Poi ci siamo tutti noi, quelli che vanno a fare la spesa al supermercato. Che non la pensano poi tanto male. Da un’indagine Ipsos, infatti, il 71% degli intervistati prevede una spesa notevole ma solo il 28% è davvero contrario alle nuove regole. La «nuova tassa» è ben accetta, servirà ad abbattere davvero il consumo di plastica e a migliorare l’ambiente. Il 58% degli intervistati si è detto favorevole alla legge. D’altra parte che qualcosa occorra fare ne sono consapevoli tutti. Sembra che in Europa ogni anno siano consumati cento miliardi di sacchetti di plastica (Fonte: EPA), e che una buona parte di questi finiscano in mare e sulle coste. Una situazione non più sostenibile che vede però l’Italia fra i Paesi più virtuosi visto che dal 2011 abbiamo una legge contro gli shopper non compostabili.
Fatti e misfatti della nuova legge sui sacchetti ultraleggeri. C’è chi parla di tassa, c’è chi chiama in causa il giglio magico e la lobby delle bioplastiche. Facciamo un po’ di chiarezza sulla nuova norma che disciplina la vendita delle borse di plastica per alimenti sfusi, scrive il 2 gennaio 2018 "Polimerica". Nonostante sia nota dalla fine del 2016 l’intenzione del Governo di imporre misure restrittive sulla commercializzazione di sacchetti ultraleggeri per ortofrutta (leggi articolo), ufficializzata nell’agosto dell’anno scorso con l’approvazione del decreto n. 91/2017(disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno), solo negli ultimi giorni i media e le associazioni dei consumatori si sono scatenati, in modo spesso scomposto, su origine e impatti del provvedimento, giudicato una sorta di tassa sui consumatori, sostanzialmente inutile, introdotta al solo scopo di favorire Novamont e altri produttori di bioplastiche. Per Codacons è “un balzello inutile che non ha nulla a che vedere con l’ambiente e con la lotta al consumo di plastica”, che “determinerà un aggravio di spesa che potrà raggiungere i 50 euro annui a famiglia, laddove il costo degli shopper avrebbe dovuto essere interamente a carico dei supermercati e dell’industria”. Contraria al provvedimento anche Federconsumatori, che ritiene il nuovo provvedimento “importante e anche condivisibile, ma restano alcuni dubbi sulla scelta di introdurne l’utilizzo esclusivamente a pagamento”. Per il Giornale - in un articolo a firma di Giuseppe Marino (qui articolo integrale) - si tratta di un regalo alla Coop e a Catia Bastioli, AD di Novamont, definita “una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi”. A difendere la scelta del Governo - oltre ad Assobioplastiche - c’è Legambiente: “L’innovazione – afferma il direttore Stefano Ciafani - ha un prezzo ed è giusto che i bioshopper siano a pagamento, purché sia garantito un costo equo che si dovrebbe aggirare intorno ai 2/3 centesimi a busta”. NON È UNA TASSA. In realtà, non si tratta di una nuova imposta. I proventi - se non indirettamente (IVA) - non finiranno nelle casse del tesoro, ma resteranno ad esercenti e grande distribuzione, a copertura dei maggiori costi dei sacchetti biodegradabili e biobased rispetto a quelli tradizionali. Per dare un'indicazione di massima, un sacchetto ultraleggero costa alla grande distribuzione tra i 2 e i 5 centesimi al pezzo, a seconda dei volumi e degli accordi con i fornitori. Il prezzo del sacchetto al consumatore sarà deciso dal singolo esercente: e se ciò potrebbe essere fonte di speculazioni, è anche vero che nulla vieta ad un esercente di imporre un valore infinitesimale; l’unico vincolo, secondo la legge è che “il prezzo di vendita per singola unità deve risultare dallo scontrino o fattura d’acquisto delle merci o dei prodotti imballati per il loro tramite”. In una circolare, il Ministero dello Sviluppo economico ha confermato la liceità di vendere i sacchetti sottocosto, onde evitare - come si legge nella nota - "di far ricadere sul consumatore finale il costo derivante dall’introduzione e conseguente applicazione di una disposizione avente quale finalità la tutela ambientale".
PERCHÈ SOLO A PAGAMENTO? Qui il tema si fa più complesso. Per motivare l’obbligo di far pagare i sacchetti ultraleggeri è stata chiamata in causa una direttiva europea (2015/720), diramata da Bruxelles per ridurre il consumo di sacchetti monouso in plastica, che prescrive, come opzione: "l’adozione di strumenti atti ad assicurare che, entro il 31 dicembre 2018, le borse di plastica in materiale leggero non siano fornite gratuitamente nei punti vendita di merci o prodotti, salvo che siano attuati altri strumenti di pari efficacia”. Ma, una riga sotto si legge anche: “Le borse di plastica in materiale ultraleggero possono essere escluse da tali misure”. In sostanza, nulla vieta di adottare misure restrittive per i sacchetti con spessore inferiore a 15 micron utilizzati a fini di igiene, compreso l’obbligo di far pagare il sacchetto - come ha fatto l’Italia -, ma non è Bruxelles a imporle. Infatti, come si legge nelle premesse della Direttiva: “gli Stati membri possono scegliere di esonerare le borse di plastica con uno spessore inferiore a 15 micron (“borse di plastica in materiale ultraleggero”) fornite come imballaggio primario per prodotti alimentari sfusi ove necessario per scopi igienici oppure se il loro uso previene la produzione di rifiuti alimentari”.
QUANTO COSTANO ALLA CASSA? A poche ore dall’entrata in vigore della legge, l’Osservatorio di Assobioplastiche ha svolto una prima ricognizione sui prezzi applicati a questi sacchetti, per ora limitata alla grande distribuzione. Auchan, Conad, Coop Italia, Coop Lombardia, Eurospar, Gruppo Gros e Iper hanno fissato un prezzo di 2 centesimi a sacchetto. Costano invece la metà, 0,01 euro, gli ultraleggeri commercializzati nei punti vendita di Coop Toscana, Esselunga e Unes. Hanno deciso di applicare un prezzo di 3 centesimi di euro a sacchetto le catene Lidl, Pam e Simply.
QUANTO PAGHERA' IL CONSUMATORE? Indubbiamente qualche centesimo moltiplicato per più sacchetti (uno per ogni alimento) utilizzati per la spesa quotidiana o settimanale, alla fine dell’anno comporterà un aggravio di costo per i consumatori. Ma quanto? Molto dipenderà dal costo fissato dagli esercenti. Codacons stima un costo annuo per famiglia di 50 euro, mentre Assobioplastiche ridimensiona la cifra a un ordine di di grandezza in meno: considerando un consumo medio annuo per famiglia intorno a 150 sacchetti e un costo unitario compreso tra 1 e 3 centesimi, si arriva ad un onere complessivo di 2-4,5 euro l’anno. Secondo i dati dell'analisi GFK-Eurisko presentati a Marca 2017, le famiglie italiane effettuano in media 139 spese anno nella GDO. Ipotizzando che ogni spesa comporti l'utilizzo di tre sacchetti per frutta/verdura, il consumo annuo per famiglia dovrebbe attestarsi a 417 sacchetti, per un costo compreso tra 4,2 e 12,5 euro. Occorre anche considerare che il nuovo sacchetto ultraleggero è compostabile: quindi, dopo essere stato utilizzato per la spesa può tornare utile per il conferimento dell’umido, nei comuni in cui è in funzione la raccolta differenziata dei rifiuti organici, evitando l’acquisto di sacchetti specifici.
SI RIDURRÁ IL CONSUMO DI SACCHETTI MONOUSO? Difficile dirlo, ma non essendoci sempre alternative disponibili - come nel caso dei banconi ortofrutta dei supermercati - non è certo che la misura servirà a ridurre il consumo di sacchetti ultraleggeri in plastica. In alcuni casi, ove possibile, potrebbe favorire materiali alternativi come la carta, ma la praticità e la leggerezza della plastica difficilmente può essere compensata dall’aggravio di qualche centesimo di euro. C’è anche chi pensa che questa misura favorirà la vendita di verdura e frutta confezionata rispetto a quella sfusa: in realtà, il differenziale di prezzo a livello di packaging è a sfavore degli imballi rigidi (vaschette in plastica).
PERCHÈ NON POSSO PORTARE LA BUSTA DA CASA? C’è chi ha chiamato in causa la lobby dei produttori di bioplastiche per motivare la decisione della Grande distribuzione di vietare al consumatore di portarsi da casa il sacchetto per alimenti sfusi (verdure, frutta, carne, pesce), così come avviene con le buste per la spesa. In realtà le ragioni sono altre: in primis quella legata all’igiene, essendo questa tipologia di sacchetti destinata a contenere alimenti sfusi non altrimenti imballati; il rischio di contaminazione è reale ed è stato adombrato in passato anche per le buste per la spesa riutilizzabili più volte. Poi c’è la questione della taratura delle bilance per la pesa dei prodotti, che sono settate sui sacchettini distribuiti in prossimità dei banchi ortofrutta. La legge, pur richiamando conformità alla normativa sull’utilizzo dei materiali destinati al contatto con gli alimenti nel caso dei sacchetti ceduti al pubblico, non norma espressamente questo punto. Tanto che il consumatore potrebbe utilizzare le proprie sporte o retine per gli acquisti nel negozio sotto casa, come per altro già avveniva in passato. Questa possibilità è stata ammessa espressamente da una circolare del Ministero dello Sviluppo economico, in attesa del pronunciamento del dicastero della Sanità. Tecnicamente è possibile estendere questa pratica anche a livello GDO, come dimostra il caso della Coop Svizzera con le sporte Multi-Bag.
FAVORIRÁ i PRODUTTORI DI BIOPLASTICHE? Senza dubbio, ma in fondo potrebbe essere utile - a livello di sistema paese - favorire un’industria nazionale con prospettiva di crescita rispetto ad un prodotto - il sacchetto di polietilene - che può essere acquistato in ogni angolo del pianeta a prezzi di commodities. Va anche detto che Novamont non è l’unica azienda a produrre bioplastiche per film, anche se è il principale fornitore di polimeri biobased e compostabili in Italia. Uno dei competitor - solo per citare il più noto - è il gruppo tedesco BASF.
MA QUANTO VALE IL MERCATO? Non esiste (ancora) uno studio specifico sul mercato italiano dei sacchetti ultraleggeri per il confezionamento di alimenti sfusi, ma la società di consulenza Plastic Consult - che da anni monitora il settore delle materie plastiche e, più recentemente, l'evoluzione dei sacchetti monouso in plastica - stima che il consumo si attesti tra 20mila e30mila tonnellate annue tra polietilene e bioplastiche.
COSA DICE LA LEGGE? Come indicato dalla legge 123/2017 del 13 agosto scorso, dal 1° gennaio 2018 dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo la norma UNI EN 13432 i sacchetti ultraleggeri – con spessore inferiore a 15 micron - utilizzati per il confezionamento di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria. Oltre ad essere idonei per l’uso alimentare, con l’anno nuovo i sacchetti dovranno avere un contenuto minimo di materia prima rinnovabile (secondo EN 16640:2017) pari ad almeno il 40%, che salirà al 50% a partire da gennaio 2020 e al 60% dal 2021. La nuova norma impone anche che i sacchetti per ortofrutta, così come gli shopper, non possano essere ceduti a titolo gratuito e che il prezzo di vendita risulti dallo scontrino o dalla fattura di acquisto. Inoltre, sui sacchetti dovranno essere apposti elementi identificativi del produttore e diciture idonee ad attestare il possesso dei requisiti di legge. La sanzione per chi contravviene alla norma, violando anche solo uno dei requisiti cumulativi, parte da 2.500 e può arrivare fino a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure se il loro valore è superiore al 10% del fatturato del trasgressore. Ma, va ricordato, la sanzione riguarda solo distributori ed esercenti, non il consumatore trovato in possesso di una borsa fuori norma.
La tassa sui sacchetti di plastica fa ricca la manager renziana. Fregatura al supermercato. Oltre la nomina pubblica Catia Bastioli guida pure la ditta che fabbrica l'80% delle buste bio, scrive Giuseppe Marino, Domenica 31/12/2017 su “Il Giornale", ripreso in parte da Affari Italiani. L'obbligo di comprarli scatta da domani, ma nei supermercati si respira già il malumore dei clienti per la «tassa sui sacchetti». Quel che non è ancora chiaro a chi fa la spesa, è chi incasserà i proventi della nuova subdola imposta. Per capire chi in queste ore sorride al pensiero dei sacchetti a pagamento bisogna mettere insieme alcuni fatti, qualche sospetto e un numero impressionante di coincidenze. Che hanno una data d'inizio: 3 agosto 2017. È il giorno in cui viene approvato in commissione, con voto compatto del gruppo del Pd, l'emendamento che introduce il balzello. In pieno clima di ferie il Parlamento sente l'esigenza di accelerare la norma infilandola in una legge che c'entra ben poco, il Dl Mezzogiorno. Col paradosso che in un provvedimento che dovrebbe portare sviluppo al sud compare un emendamento, firmato dalla deputata Dem Stella Bianchi, i cui frutti saranno goduti molto più a Nord, e precisamente in Piemonte. Vedremo dopo per quali strade. Prima è meglio dare un'occhiata a come è stato congegnato l'emendamento. Da una parte si impone il divieto di usare i sacchetti ultraleggeri di plastica, quelli che servono a pesare la frutta o a incartare formaggi e salumi. Fin qui è l'attuazione di una direttiva europea che ha uno scopo condivisibile, ridurre il consumo di plastica e il suo impatto ambientale rendendo obbligatori i sacchetti con almeno il 40% di componente biodegradabile. Il Pd aggiunge però un altro meccanismo diabolico: ai supermercati è vietato regalarli ai clienti, pena una multa salatissima, fino a 100mila euro. Una misura spacciata per incentivo a ridurre il consumo di sacchetti che, pur biodegradabili, sono per più di metà ancora composti di plastica. Eppure il fine nobile della sanzione durissima è completamente vanificato da un'altra norma: è vietato riciclare i sacchetti. Né, per motivi igienici e di taratura delle bilance, è possibile portarsi da casa borse o contenitori di tipo diverso che finiscano a contatto diretto con gli alimenti e con le bilance. Dunque, se non posso portarmeli da casa e non ho altre alternative che usare quelli forniti dal supermercato, il disincentivo del pagamento, obbligatorio per legge, non può scoraggiare il consumo. I dirigenti di alcune catene di supermercati, sentiti dal Giornale, confermano i dubbi sul meccanismo cervellotico e sugli effetti perversi. E allora, chi ci guadagna? La norma sgrava la grande distribuzione, che in Italia conta un player storicamente legato alla sinistra, la Coop, dal costo degli shopper, riversandolo sul cliente. Ma non è poi un grande vantaggio, perché i negozi dovranno fronteggiare la rabbia dei clienti. C'è anche perplessità sulla scelta di non regolamentare il prezzo dei bio-sacchetti che, essendo un bene ormai obbligatorio per legge, è esposto a possibili speculazioni sul prezzo. Gli unici ad applaudire pubblicamente la norma sono i vertici di Assobioplastiche, il cui presidente, Marco Versari, è stato portavoce del maggiore player del settore, la Novamont, già nota per aver inventato i sacchetti di MaterBi, il materiale biodegradabile a base di mais. E infatti l'azienda di Novara sul suo sito, senza ironia, pubblica un sondaggio secondo cui i consumatori italiani sarebbero in maggioranza contenti di pagare. Intorno a Novamont si concentrano altre coincidenze. L'amministratore delegato è Catia Bastioli, una capace manager che ha incrociato più volte la strada del Pd e di Renzi. Nel 2011 partecipa come oratore alla seconda edizione della Leopolda, quella in cui esplode il fenomeno Renzi. Molti degli ospiti di quell'evento oggi occupano poltrone di nomina politica. E Catia Bastioli non fa eccezione: nel 2014, pur mantenendo l'incarico alla Novamont, viene nominata presidente di Terna, colosso che gestisce le reti dell'energia elettrica del Paese. Con i buoni uffici del Giglio magico, si dice all'epoca. A giugno 2017 Mattarella la nomina cavaliere del lavoro. L'azienda che guida è l'unica italiana che produce il materiale per produrre i sacchetti bio e detiene l'80% di un mercato che, dopo la legge, fa gola: inizialmente i sacchetti saranno venduti in media a due centesimi l'uno. Le stime dicono che ne consumiamo ogni anno 20 miliardi. Potenzialmente dunque, è un business da 400 milioni di euro l'anno. Il 15 novembre scorso Renzi ha fatto tappa con il treno del Pd proprio alla Novamont. Ha incontrato i dirigenti a porte chiuse e all'uscita ha detto ai giornalisti: «Dovremo fare ulteriori sforzi per valorizzare questa eccellenza italiana». Promessa mantenuta.
Sacchetti frutta a pagamento, parla Catia Bastioli, la produttrice assediata: «Brevetto nostro». L’amministratrice delegata Novamont: «Vantaggi personali e favori politici? No, è una tecnologia unica al mondo», scrive Fabio Savelli il 3 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Forse avremmo dovuto investire altrove. Per trasformare impianti vecchi in gioielli nella produzione di granuli da amido di mais e oli naturali. Avremmo dovuto evitare di metterci 500 milioni, spendere risorse in ricerca per brevettare una tecnologia senza eguali. Avremmo dovuto evitare di assumere personale qui, nel nostro Paese». Catia Bastioli, amministratrice delegata del gruppo Novamont, è furibonda. La polemica del costo scaricato su chi fa la spesa per i sacchetti contenitori di frutta e verdura la trova sconcertata. Novamont realizza il cosiddetto Mater-Bi, la materia prima con la quale i produttori, circa 150 aziende in tutta Italia, realizzano sacchetti biodegradabili ultraleggeri.
L’accusa che le muovono è che la scelta introdotta dal governo di far pagare i sacchetti sia un regalo a lei che è a monte della filiera della bioplastica.
«La ritengo una tesi oltraggiosa. Vergognosa. Che si possa connotare politicamente la volontà del governo di recepire una direttiva comunitaria denota a che punto siamo arrivati. Fare carne da macello, per finalità prettamente elettorali, di un brevetto nostro e di una tecnologia patrimonio per il Paese a livello mondiale, offende il lavoro di questi ultimi venti anni».
Lei però ricopre la carica di presidente di Terna. Una nomina al vertice di una società a controllo pubblico arrivata quando al governo c’era Matteo Renzi. Non può nascondere la vicinanza all’ex premier.
«Ho accettato quella nomina dopo grandi perplessità. Me l’hanno chiesto più volte. Ero scettica. Col senno di poi sono orgogliosa di quello che abbiamo costruito. Ho compreso la necessità di una contaminazione tra energia, chimica, agricoltura. È la rivoluzione dell’economia circolare».
Ammetterà che questa misura la avvantaggia.
«Questo è un settore che sta crescendo. Ha cominciato la Francia a permettere l’uso degli shopper biodegradabili nel 2011. Perché sono riciclabili nella raccolta dell’umido. I nostri materiali sono in grado di creare un compost con l’organico in grado di concimare i terreni. Senza disperderlo nelle discariche, con un costo ambientale altissimo. Di smaltimento e di produzione di anidride carbonica».
Caleo (PD): “Io padre della norma sui sacchetti, la rivendico. Non conoscevo la Novamont”, scrive il 24 Mattino il 3 gennaio 2018 su "Tiscali News". "Io mi aspetterei dai commentatori su questa norma un inchino e un saluto importante". Rivendica complimenti, ai microfoni di Luca Telese e Oscar Giannino, nel corso della trasmissione 24 Mattino, Massimo Caleo, senatore del Pd e padre della norma sui sacchetti biodegradabili a pagamento. "Ho fatto quest'emendamento per il semplice motivo che era giusto proseguire su quella strada lì", continua, "io non conoscevo nessun dirigente. So chi è Novamont ma all'epoca, mi creda, io non conoscevo nessun dirigente di quest'azienda", dice rispondendo alle domande di Telese e Giannino, sui rapporti del Pd con l'azienda, titolare del brevetto più diffuso di sacchetti biodegradabili. "Quindi non sapeva che Catia Bastioli - la dirigente di quest'azienda - è una delle relatrici della Leopolda?", insiste Luca Telese. "Non la butti in politica", risponde Caleo, "l'azienda che voi mi dite l'ho conosciuta dopo aver fatto l'emendamento e credo sia una verità assoluta. E siccome siamo in libero mercato credo che sia importante, se vogliamo andare in questa direzione, il mercato si allarghi e non si restringa". Ma il costo, intanto, è giusto? Per Caleo sì: "Sono d'accordo che non bisogna esagerare... ma uno o due centesimi credo che sia il valore giusto, non è una tassa". Qualcosa si può migliorare, però: "Se la grande distribuzione - io l'invito che faccio è questo - volesse regalarli ai propri clienti o anche il singolo commerciante, ben venga ci mancherebbe altro", aggiunge il senatore per cui questa è dunque "una norma di buonsenso, civile che premia l'innovazione e anche l'intuizione che anche questo Paese ha".
I due centesimi che valgono meno di un principio. Due centesimi per le buste biodegradabili. Poca cosa: cinque euro in un anno se ne vengono consumate 250. Ma c'è un principio che vale molto di più. e che non andava venduto per 0,02 euro, scrive Lucio Marziale il 3 gennaio 2018 su "Alessioporcu.it. La normativa sui sacchetti compostabili costituisce la “bustina al tornasole” della sinistra ambientalista italiana e dei disastri che sta provocando. Fino al 31 Dicembre 2017, si poteva imbustare la frutta e la verdura in sacchetti di plastica non biodegradabile e a costo zero. Dal 1 Gennaio 2018, giustamente è stato previsto l’imbustamento in sacchetti compostabili, ma incredibilmente: È stato previsto l’obbligo di usare tali sacchetti, senza lasciare la scelta di servirsi di buste e retine proprie e riutilizzabili, come avviene ormai da tempo per le classiche buste della spesa. E’ stato imposto l’obbligo di pagare tali sacchetti: quindi mentre prima i contenitori inquinanti erano gratis, adesso i contenitori biodegradabili e compostabili sono a pagamento! Il problema non sono i due centesimi, pari a 5 euro all’anno se si ipotizza un uso di 250 sacchetti all’anno. Il problema è che le normative che nascono illiberali producono effetti devastanti, e questa problematica -solo apparentemente minore- riassume tutta una cultura autoritaria ed autoreferenziale di un certo ambientalismo di sinistra, che sta provocando danni devastanti innanzitutto all’ambiente e in special modo alla sinistra. I comportamenti ritenuti virtuosi vengono imposti, e soprattutto tassati. Vale per le inutili e ingenti somme impiegate a disinquinare siti come la Valle del Sacco, e vale per quei protocolli internazionali come Kyoto, che si traducono solo in ulteriore tassazione per le imprese del mondo occidentale, le quali già investono autonomamente somme ingenti nella ricerca e nello sviluppo di fonti energetiche alternative e in accorgimenti tecnico-scientifici che hanno ridotto in maniera drastica i livelli di inquinamento. La cultura pseudo ambientalista, invece, predica il catastrofismo, perché ha bisogno di incutere terrore per garantirsi posizioni ben retribuite di autoreferenziale attività pseudo scientifica “in difesa dell’ambiente”, nelle Università e negli Istituti di Ricerca finanziati con le tasse “ambientali” imposte dalla medesima cultura “pseudo ambientalista”. Questa deriva va fermata al più presto, e l’ambiente deve tornare ad essere il motore della ricerca scientifica e della sua applicazione industriale, con la detassazione e la gratuità dei comportamenti virtuosi, e non con la imposizione di ulteriori e inaccettabili balzelli e gabelle. Anche se di due centesimi.
Sacchetti biodegradabili. Arrigoni: tassa “ambientalista” inaccettabile! Il senatore lecchese della Lega Nord: si tratta di un inganno del Governo, scrive il 3 gennaio 2018 "Resegoneonline.it". “Ho fortissimi dubbi sulla reale sostenibilità delle attuali bioplastiche, ma ho la certezza che non risolvano problemi come la dispersione dei rifiuti in terra e nei mari (littering), e che questo sia un bel business fatto sulla pelle dei consumatori, per la gioia della Novamont cara al PD e al parolaio Renzi”. Così interviene il senatore lecchese della Lega Paolo Arrigoni, membro della Commissione parlamentare Ambiente e Territorio, sulla norma che dall’1 gennaio ha imposto ai consumatori italiani che acquistano frutta e verdura di confezionarle in sacchettini di plastica biodegradabile rigorosamente usa e getta e a pagamento. “La direttiva comunitaria, recepita con un emendamento al Decreto legge Mezzogiorno, consentiva di esonerare dall'obbligo di compostabilità gli involucri destinati agli alimentari, ma in Italia per volere del Governo Gentiloni dal primo gennaio è scattato nei supermercati l’obbligo per legge all’uso di costosissimi sacchetti “naturali” per l’acquisto di frutta e verdura; peraltro preceduto dall’introduzione nelle mense di molte scuole (come quelle di Milano) dello stop all’uso di piatti e bicchieri in plastica tradizionale a favore di quelli realizzati in materiali compostabili, con significativi aumenti dei costi (solo per le scuole di Milano sono stati stimati almeno 300 mila euro in più all’anno…)”. “Il risultato? – fa notare il Senatore - Nonostante in Italia la plastica grazie alla raccolta differenziata abbia ormai raggiunto percentuali elevate di recupero e riciclo, si spinge ora sempre più per sostituirla con plastica biodegradabile, molto più costosa, di precaria funzionalità e che crea problemi di funzionamento a numerosi impianti di compostaggio!”
Un Paese nel sacchetto, scrive Anna Lombroso per "Il Simplicissimus" il 2018/01/03. Con sollievo leggo della crisi dei centri commerciali, coi loro smisurati parcheggi ormai deserti, i lungi corridoi espositivi polverosi, dell’abbandono in cui versano le nuove cattedrali dove si officiava la liturgia del consumo, che avevano sostituito piazze e corsi di paese dove la gente si incrociava e si dava appuntamento in scenari di cartapesta e stagioni artificiali e sempre uguali. E allo stesso modo non mi piacciono i supermercati: meglio il mercato di rione scomparso, perfino la botteguccia sotto casa, sguarnita e cara come bulgari dove con la serranda mezza abbassata implori il cingalese ermetico di darti le sei uova per una frittata d’emergenza, di gran lunga preferibili a quella colonna sonora di annunci e musiche ambient, a quelle luci che confondono, a mappe incerte che rendono irrintracciabili prodotti e merci tra meste coppie con lei che vieta al marito l’acquisto di salamini punendo l’eterno fanciullino che risiede in ogni maschio, bimbi che strepitano e il panorama avvilente di carrelli colmi di 4 salti in padella e patatine surgelate raccomandate da masterchef acchiappacitrulli. E adesso ci andrò ancora più malvolentieri: dall’1 gennaio è entrata in vigore la norma inquattata nel Il decreto Mezzogiorno approvato in agosto, grazie alla quale quei sacchetti leggerissimi di plastica in cui si raccolgono, si pesano e si prezzano i prodotti venduti sfusi come frutta, verdura o affettati devono essere di plastica biodegradabile, devono essere monouso, devono essere a pagamento a differenza che in gran parte degli altri Paesi europei. Il provvedimento avrebbe una duplice vocazione: quella pedagogica, per stimolare i consumatori a comportamenti più sostenibili, e quella di dare sostegno alle imprese italiane del settore, penalizzate dalla massiccia importazione di shopper da partner europei come Francia e Spagna. E ad una in particolare, ma si tratta certamente di una malignità, che agisce in regime di monopolio, Novamont, e che fa riferimento a un soggetto ben identificato che gravita con entusiasmo intorno alla cerchia renziana, in veste di testimonial e sponsor. Ora non c’è da avere dubbi che la decisione di far pagare ai consumatori i sacchetti biodegradabili per la spesa, compresi perfino quelli delle farmacie, nasca da un intento esplicitamente speculativo, altrimenti sarebbe la prima volta che un governo dei tanti che si sono avvicendati non assecondi e appaghi gli avidi appetiti di lobby e imprese a cominciare da eccellenti norcini fornitori delle real case. E dovremmo esserci abituati. Ma non si è mai abbastanza assuefatti alla ipocrita speculazione morale che ben i colloca nel contesto della necessaria e doverosa ubbidienza ai diktat europei, pera poco sentiti nel caso di tortura, norme antiriciclaggio e corruzione, traffico di rifiuti anche a mezzo navi. È che la pretesa e la rivendicazione di tenaci convinzioni ecologiche da parte del partito unico suona davvero come un’offesa per chiunque si senta in bilico su una fragile palla appesa e pericolate, e in un paese assoggettato all’impero delle puzze e dei gas in guerra con popoli e col pianeta che li ospita, con governi che hanno licenziato leggi in favore di condoni infausti per il territorio, che hanno bloccato da anni qualsiasi seria misura per il contenimenti del consumo di suolo, che scelgono ostinatamente di investire in grandi e pesanti opere invece di mobilitare risorse per la salvaguardia e il risanamento idrogeologico e per gli interventi antisismici, che autorizzano le maledette trivelle. Che concedono licenze premio per lo sfruttamento delle spiagge con annesse costruzioni mai abbastanza effimere, manomettono le regole nazionali e europee con l’infame Decreto legislativo 104, che rende la valutazione di impatto ambiente un affare contrattato tra imprese e governo. Coi sindaci del Pd in prima fila nella cura del ferro perfino sotto le piazze di Firenze e le regioni che come in Sardegna approvano il maxi aumento di volume per hotel e lottizzazioni sul mare, a imitazione del piano casa di Berlusconi. Perfino in questo caso l’ambientalismo di governo si mostra per quello che è. Una montatura retorica a copertura di opachi interessi privati: in barba ai capisaldi ecologici del riuso e del riciclaggio, i sacchetti sono monouso e – se resistono – possono essere usati unicamente per la raccolta domestica dell’umido con gli esiti che qualsiasi regine dalla casa conosce. Ci si accontenta di poco. Gli shopper dovranno essere biodegradabili e compostabili secondo le norme UNI EN 13432 con un contenuto di materia prima rinnovabile di solo il 40%, che diventerà del 50% dal 2020 e del 60% dal 2021, (proprio quella dei sacchetti Novamont?). Sicché viene meno gran parte dell’obiettivo ambientale: la loro vita è lunghissima e pure questi come quelli dell’ancien règime ce li ritroveremo sull’Everest o a soffocare gli atolli tra qualche secolo, ammesso che la terra e noi resistiamo a certi ambientalismi. Un gran numero di anime belle è molto attivo sul web, chi per raccontarci delle sue abitudini virtuose grazie a acquisti equi nel mercatino solidale, chi con la sporta di rete nel biologico a km zero e perfino chi con l’orticello sul terrazzo dell’attico. Poi ci sono quelli che insorgono: vi siete bevuti tutte le baggianate e avete subito tutti gli affronti inferti a lavoro, scuola, pensioni, cure e diritti e adesso improvvisamente vi svegliate per un furtarello che vi costerà 7 euro l’anno? Sarò pure un’arcaica anarchica arruffona, ma in mancanza d’altro vedo come un segnale positivo anche i fermenti per il pane e l’assalto ai forni, considero un risveglio modesto ma non trascurabile quello di gente che dopo essere stata convertita in merce da essere comprata e venduta, con l’unico superstite diritto, quello di consumare, non ha più i beni per esercitarlo e magari si ricorda degli altri perduti, espropriati. E si arrabbia.
Sacchetti frutta biodegradabili, il paradosso della balena. Piangiamo se muore, non spendiamo per salvarla. Siamo pronti a tutto per costringere la Cina a inquinare di meno, ma quando tocca a noi le cose cambiano. La soluzione è un patto tra ambientalismo e modernità, scrive Antonio Pascale il 3 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". L’ambientalismo esiste perché c’è benessere. O meglio esiste laddove è arrivata la modernità. Ambientalismo e modernità non dovrebbero quindi essere nemici, sono gemelli, due facce della stessa medaglia. Entrambi si preoccupano di introdurre buone pratiche per risolvere alcune questioni molto seccanti. La fame, la malattia, la carestia sono tra queste e se per esempio ora avevamo lo stomaco vuoto di certo non avremmo dato credito né alle battaglie né al buon senso ecologista. Il diciannovesimo secolo è stato meraviglioso, ripete spesso Robert Fogel. Come meraviglioso? Due guerre e un olocausto. Si, vero ma siamo riusciti e con poche innovazioni a sconfiggere la fame la malattia e le carestie. Dunque, con un corpo meglio nutrito e con buone pratiche igieniche abbiamo raddoppiato l’aspettativa di vita e triplicato la popolazione (nei primi anni del Novecento eravamo due miliardi), abbassato in gran parte del mondo e quasi a zero la mortalità infantile. Si segnalano poi incoraggianti progressi per la mortalità delle donne per parto (in discesa) e per l’alfabetizzazione femminile (in alcuni Paesi africani è il doppio di quella maschile). Se non è progresso questo allora tocca metterci d’accordo sulla parola. Il benessere ha dato spazio all’ecologismo, se hai fame bruci le foreste per coltivare, se sei molto povero, se troppo ricattato dalle contingenze per permetterti uno sguardo lungimirante. Quindi vista la fratellanza è un peccato che spesso l’atteggiamento ecologista sembri (culturalmente) fondato sui bei tempi andati, oppure, nei casi estremi, esprima una sorta di disgusto per l’uomo: l’uomo è corrotto e la sua impronta ecologica ci distruggerà (che poi forse distruggerà la specie umana ma non la natura nel suo complesso). Da questo atteggiamento derivano alcune fisime, calcoli ad libitum su quanto inquiniamo e su quale pratiche adottare per salvaguardare il nostro habitat. E toccherà prima o poi ammetterlo, spesso l’atteggiamento ecologista è normativo sì ma con il nostro vicino. Quando tocca a noi le cose cambiano. Voglio dire, spinti come siamo dal furore vogliamo risolvere tutto è subito, purificare ogni luogo senza tenere a mente la complessità geopolitica e altri e importanti fattori. Cosi andiamo in Cina per annunciatore agli inquinatori l’aumento di 0,8 gradi della temperatura globale, spingiamo per norme e limiti e ci sentiamo rispondere: d’accordo ma l’avete fatto voi. Vi perdoniamo perché non lo sapevate ma ora dateci la possibilità di raggiungere il benessere così che possiamo impegnarci nelle pratiche ambientaliste. Ambientalismo e modernità sono nati insieme e insieme dovrebbero affrontare le sfide. Invece notiamo sempre più spesso che il benessere ci isola dal mondo e l’ambientalismo pure. Va di moda o rischia di diventare di tendenza un atteggiamento schizofrenico. Piangiamo per varie ed esotiche specie di animali o per le balene vittime della plastica ma ci facciamo afferrare per pazzi qualora ci accorgiamo che il sacchetto bio costa (nemmeno tanto). Salviamo il mondo, la nostra specie o il nostro portafoglio? Ecologismo e modernità devono siglare un patto. Un mondo più pulito (è un mondo più pulito è di fondamentale importanza) necessità di innovazione e ricerca. Il fatto è che entrambe non solo costano ma richiedono collaborazione su vasta scala. La mole di problemi da affrontare è enorme e profonda è la specificità degli stessi, dunque un solo uomo al comando trionfo di buoni propositi pubblicitari non serve allo scopo. Come non serve un ecologismo sempre contro o che si affida a strumenti poco efficaci. Siamo 7, 4 miliardi e presto arriveranno un miliardo di africani e un miliardo di asiatici. Cambierà tutto, e se andrà meglio o peggio dipenderà da noi ma meglio saperlo subito: un nuovo mondo possibile sì certo ma costa.
Eco-tasse. E siamo sempre più poveri e meno liberi, scrive Nicola Porro, Il Giornale 31 dicembre 2017. Siamo arrivati alla tassa sul sacchetto di plastica. Più che al ridicolo, di cui i nostri governanti si rendono poco conto, siamo scesi nell’inferno della schiavitù economica. Un tempo, ahinoi molto lontano, le imposte venivano intese come un corrispettivo per alcuni servizi che lo Stato forniva. La tutela dei più deboli era uno di questi. Era l’imposta di Luigi Einaudi, ma anche del nostro Francesco Forte. Poi è arrivata la tassazione punitiva: togliere ad alcuni per dare ad altri. Il mito della giustizia sociale e della redistribuzione. Un’imposta del tutto velleitaria e fallimentare: le tasse sono altissime, così come il numero dei poveri. Si è arricchito solo l’intermediario, cioè lo Stato. Non funzionando più l’inganno della redistribuzione, si persegue oggi il fine «etico» dell’imposta. Il consumo viene tassato non per fare cassa (che è il vero motivo), ma per il nostro bene, per il futuro green del pianeta. La grande, mostruosa, prova si è avuta con gli incentivi alle energie rinnovabili: sedici miliardi di euro che passano ogni anno dalle tasche delle famiglie italiane a pochi soggetti incentivati. In termini spiccioli su 500 euro di bolletta elettrica annua per una famiglia tipo italiana, la bellezza di 139 euro sono rappresentati da oneri per la cosiddetta sostenibilità. Cerchiamo di essere più chiari: senza pannelli e pale eoliche, oggi gli italiani sopporterebbero una spesa annuale per l’elettricità di 360 euro invece che 500. Si tratta di una tassa occulta che porgiamo, senza accorgercene, sull’altare di un mondo green. Il prossimo passo, non così lontano, sarà di bastonare fiscalmente gli alimenti che il Soviet statale stabilirà dannosi per la nostra salute. L’ipocrisia non vale solo per l’ambiente e la salute. Abbiamo introdotto, praticamente unici in Europa, la Tobin tax. Con l’idea che le speculazioni finanziarie, Soros, Paperon de’ Paperoni e Gordon Gekko, siano dei cattivoni. Il risultato è che le Finanze di Roma hanno incassato un quinto del previsto, ma in compenso abbiamo ucciso i nostri intermediari finanziari e Londra e Francoforte hanno disintermediato l’Italia, facendo affari dove la tassazione sulle speculazioni non ci sono. La morale è che i nostri ricavi (stipendi, redditi da lavoro autonomo) restano stabili mentre le nostre spese legate alla partecipazione alla comunità statale crescono, con il risultato di renderci tutti più poveri e meno liberi. Ieri era per liberare i più poveri dal disagio, oggi per consegnare un pianeta più pulito ai nostri figli. Balle.
Ancora tasse. Lo Stato ci spreme come gli agrumi, scrive Michel Dessi, il 30 dicembre 20127 su "Il Giornale".
Ora ci fanno pagare anche i sacchetti per la frutta e la verdura. Si, avete capito bene, proprio quelli che utilizziamo per le mele, le banane, i carciofi, le cipolle, le carote… Quei sacchetti ci verranno addebitati sulla spesa di ogni giorno. Incredibile, ma vero. Dal primo gennaio tutto cambia e nulla cambia: le tasse aumenteranno e i poveri rimarranno poveri. D’altronde, cosa potevamo aspettarci da questo governo appena sciolto se non la fregatura? In Italia troppe cose non vanno per il verso giusto. Troppi cittadini Italiani sono stati abbandonati. Rita ne è un esempio, è costretta a vivere con una misera pensione di 260 euro. DUECENTOSESSANTA, l’unica sua entrata. Rita è affetta da mille patologie, eppure è costretta a marcire nella sua povera casa popolare. Dimenticata da tutti. Ha provato a chiedere aiuto allo Stato ma, chiaramente, non ha riposto. Non sa più a chi rivolgersi, è disperata. Per lei non esiste il pranzo o la cena, mangia quello che le capita, quello che le viene offerto. Ormai è abituata a razionare il poco cibo che riceve ad intermittenza dalla Caritas parrocchiale: una piccola busta (tassata) con un pacco di pasta, dei pomodori pelati (se le va bene), pane raffermo e qualche pacco di biscotti. La carne? Non la mangia da mesi e il frigorifero resta vuoto. Eppure a nessuno interessa, neanche al sindaco del suo piccolo paese alle pendici dell’Aspromonte, Cittanova. Come lei tanti altri, anche troppi. La povertà aumenta sempre di più e loro cosa pensano di fare? Aumentare le tasse. Bollette, pedaggi, trasporti, Rc Auto… Tutto questo nonostante i servizi non funzionino. Ne è un esempio la Messina – Palermo, la mulattiera delle autostrade. Il pedaggio costa dieci euro e dieci centesimi. Un po’ troppo per un’autostrada dissestata, piena di buche e trappole mortali. Quando piove si trasforma in un torrente in piena e il rischio per gli automobilisti è sempre dietro la curva. Ma come si può chiedere così tanto ai cittadini? Con quale barbaro coraggio? Non riesco a darmi una risposta. Lo stesso vale per i trasporti, soprattutto al Sud. Qui potremmo prendere come esempio la Calabria. I treni, quando va bene, sono quasi sempre in ritardo. Lo Stato ci spreme proprio come gli agrumi che mettiamo ogni giorno nel sacchetto.
INPS E PENSIONI: VERGOGNA DI STATO.
Prima voce: contributi INPS a carico del datore di lavoro e prima mistificazione totale. Ciò che l’azienda paga per il lavoro effettuato, indicato in busta paga come “lordo annuo” (supponiamo 1200 euro), non è affatto un “valore lordo” come indicato. Facciamo un esempio concreto: se un lavoratore percepisce uno stipendio lordo mettiamo di 100 euro mensili, i contributi definiti “a carico dell’impresa”, sostiene Magiar, ammontano a 53 euro che non appaiono in busta paga. Se il lavoratore costa al datore di lavoro 100 euro più 53 euro, è evidente che il “vero lordo” è 153 euro. Un terzo di questa prima voce (53 euro, che, lo ripetiamo, è denaro di “proprietà” del lavoratore), se ne va solo per questo contributo “garantito” da una “Promessa di pensione” fatta dall’INPS, un ente gestito da comitati di burocrati e sindacalisti, pagati profumatamente dai lavoratori stessi, che sanno benissimo che nelle attuali condizioni la “promessa” non potrà essere mantenuta né per tutti i lavoratori attuali né per le generazioni future.
La seconda voce del prelievo forzoso dallo stipendio del lavoratore dipendente è costituita dai contributi INPS a carico del lavoratore, definiti ironicamente «volontari», del 9 per cento pagati dall’impresa per conto del lavoratore (calcolati sul “falso” lordo di 100 euro). Come già riportato sopra, abbiamo chiamato “falso” il “lordo” perché il lavoratore non si rende esattamente conto di quanto viene prelevato dal reddito che produce; prelievo che fino ad ora corrisponde esattamente a 62 euro (53 più 9) sui 153 che costa all’azienda per il lavoro da lui svolto; dei 153 euro di sua proprietà adesso gliene restano 91.
Sul portale di Beppe Grillo vi è stato pubblicato un post di Federico Saccani che rende bene l’idea su come lo Stato persegue il piccolo strozzino, ma rende impunita l’usura bancaria e, cosa più grave, è esso stesso usuraio impunito. Equitalia è la società per azioni, a totale capitale pubblico (51% in mano all'Agenzia delle entrate e 49% all'Inps), incaricata dell'esercizio dell'attività di riscossione nazionale dei tributi e contributi. Vediamo come la cosa è un costo ed un pericolo per il contribuente:- la creazione di questo ente porta in sé un aumento della pressione fiscale, infatti essendo a capitale pubblico ha un costo di gestione (più enti più costi). Se avrà un attivo di bilancio saranno i cittadini con le loro tasse ad averlo realizzato, se avrà un passivo saranno i cittadini con le loro tasse a doverlo risanare. La proprietà è di due "agenzie" pubbliche che, per quanto attiene alle loro riscossioni, sono in esemplare conflitto d'interessi. Esempio pratico dell'aumento della pressione fiscale e del conflitto d'interessi: negli anni passati l'INPS comunicava ad un commerciante che dimenticava il pagamento di una rata, un avviso bonario con la richiesta del saldo e l'aggiunta degli interessi, il tutto prima di provvedere ad azioni onerose per entrambi. Oggi, il contribuente che dimentica il pagamento di una rata si vedrà recapitata dall'Equitalia una cartella di pagamento con l'importo dovuto e l'aggiunta degli interessi (come avveniva prima), ma con l'aggravio dell'aggio di riscossione per l'esattore (circa il 5% dell'importo totale in più, il 9% in caso di ulteriore ritardo). In questo caso il creditore è anche esattore. Vediamo come un ente in conflitto d'interessi (INPS) così facendo aumenta la pressione fiscale su quel cittadino del 5% o più, fino al 100% e oltre.
"Usura di Stato". Cosa accade se il contribuente paga la cartella esattamente un anno dopo:
4% annuo all'ente impositore;
6,8358% annuo interessi di mora;
0,615% annuo all'agente della riscossione (cioè, il 9% sugli interessi di mora, come detto pari al 6,8358% annuo);
totale interessi pari all'11,4508% annuo. Dobbiamo aggiungere la sanzione amministrava del 30% e l'aggio nella misura del 9% per un totale del 50,4508%.
Probabilmente alcuni usurai sono meno onerosi... Se nel frangente Equitalia avrà iscritto un'ipoteca o un fermo amministrativo i costi di accensione e chiusura saranno a carico del debitore e si aggiungeranno al montante, facendo lievitare la spesa totale oltre il 100%. (I costi per le trascrizioni nei registri sono altre tasse da pagare allo Stato). Questo caso evidenzia come nella migliore delle ipotesi, quella della buona fede dell'ente, il cittadino sia comunque taglieggiato; non parliamo di evasori fiscali, ma di contribuenti che hanno dichiarato i propri redditi ed hanno semplicemente saltato un pagamento per errore o per necessità dovuta alla contingenza economica, malattia ecc. I signori del fisco infatti mettono nelle statistiche ed intendono evasori anche quelli che hanno dimenticato una rata o che l'hanno pagata in ritardo, al solo fine di giustificare azioni di recupero immorali e sproporzionate. Sappiamo che molte tasse ed imposte devono essere pagate in anticipo dai contribuenti, significa che lo Stato obbliga alcune categorie ad un prestito forzoso in suo favore. Se non riesco a pagare l'acconto iva (perché non ho denaro da prestare allo stato), al momento in cui avrò incassato la tassa verserò il 50% in più di quanto dovuto. Potrebbe succedere anche che ci sia un errore per dolo o per inerzia, che porti all'iscrizione a ruolo importi non dovuti. Visti i dati sul contenzioso possiamo dire con certezza che nei tre gradi di giudizio il cittadino ha ragione nella maggioranza dei casi. La politica da sempre ha dimostrato pessima capacità di gestione del bene pubblico spendendo molto e male il denaro dei contribuenti, ma anche il denaro che i contribuenti dovranno versare in futuro (debito pubblico). Sappiamo tutti che l'aumento dichiarato della fiscalità generale genera una riduzione dei consensi nei confronti di chi la applica, non appare quindi anomalo che alcune leggi in materia tributaria siano state apportate, dalla classe dirigente, non per ridurre l'evasione come falsamente dichiarato, ma con lo scopo di aumentare le imposte in maniera occulta, vizio peraltro in uso in l'Italia da diverso tempo, (l'iva incorporata nei prezzi, sostituto d'imposta, accise ecc.). La classe politica negli anni ha emanato norme e leggi che diminuiscono fortemente le facoltà di difesa del cittadino contro le richieste economiche sempre maggiori dello Stato nella sua interezza (Regioni, comuni, enti ecc.), costringendo i cittadini a pagare somme non dovute per evitare danni irreparabili al proprio patrimonio.
Hai ragione e ti pignora la casa per pochi euro. Sul “L’Espresso” il dossier.
Un grande falò di cartelle esattoriali sotto la Mole Antonelliana. Parte da Torino la rivolta fiscale contro Equitalia. Sono pronti a migliaia per la prima class action, proprio come nei film americani, che porterà davanti al giudice quello che definiscono il nuovo sceriffo di Nottingham: il fisco impazzito. Non difendono certo gli evasori e le frodi. Anzi, denunciano i metodi della società pubblica che riscuote tasse, contributi Inps, Iva, multe e canone Rai per conto dello Stato. Nel 2006 fu armata dal governo per scucire il dovuto ai più incalliti nemici del fisco, ma sta diventando l'incubo di un'altra categoria: artigiani senza più commesse, commercianti oberati di debiti, famiglie monoreddito stremate dai conti di casa. Secondo i dati diffusi per la prima volta, i 18 milioni di cartelle inviate solo nell'ultimo anno e i 40 milioni fra solleciti, notifiche e avvisi di pagamento colpiscono con la stessa rudezza furbi e imbroglioni, ma pure cittadini con colpe veniali e magari pronti a pagare. Gente che si vede trattare dagli sceriffi di Equitalia come ricercati. E che sfinita si sta ribellando.
Tutta Italia ne ha parlato. In galera per una settimana per aver omesso di versare 134 euro di contributi Inps. Siamo il Paese dove i grandi evasori fiscali quasi mai finiscono dietro alle sbarre, dove in Parlamento siedono liberi deputati e senatori condannati per mafia, dove le pene sono più teoriche che effettive, fatta eccezione per i poveracci e gli sbadati. Lo sa bene l'artigiano trentino che per una micro evasione contributiva rischiava di passare il Natale in carcere, benché certo non sia un delinquente.
Cosa era accaduto? L'uomo, in passato titolare di una ditta individuale, nel 2006 omise un versamento contributivo da 134 euro. Una cosa di poco conto insomma che poteva essere sanata con il pagamento e una piccola sanzione. Per qualche ragione ciò non avvenne e quella che era una bagatella si trasformò in un procedimento penale. All'inizio del 2010 l'artigiano venne processato e l'8 febbraio del 2010 fu condannato in contumacia a tre mesi e 300 euro di multa. Non beneficiò della sospensione condizionale forse perché aveva avuto un'altra condanna simile: un mese per un altro mancato versamento di contributi Inps da 68 euro. Per quella prima condanna l'uomo - padre di famiglia con moglie e una figlia piccola - aveva intrapreso un percorso di "riabilitazione" seguito dall'Ufficio esecuzione pene esterne. Al passaggio in giudicato della seconda condanna - quella più pesante a 3 mesi - all'artigiano venne notificato un ordine di esecuzione pena con sospensione di 30 giorni per permettergli di ricorrere al medesimo servizio. L'uomo però, che in quel momento non era seguito da un avvocato, ha erroneamente creduto che gli avvisi si riferissero sempre al primo procedimento, per cui era già seguito dall'Ufficio esecuzione. Certo l'artigiano ha commesso una grave leggerezza, pagata cara. Infatti, ha ricevuto una telefonata da parte dei carabinieri che gli dovevano notificare degli atti. Dopo aver salutato moglie e figlia convinto di dover solo ritirare una carta, ha scoperto in caserma che per lui si stavano aprendo le porte del carcere. Solo a questo punto è stato chiesto l'intervento di due avvocati di fiducia, ma la "frittata" era ormai fatta.
Il consigliere regionale Alberto Goffi è una specie di Robin Hood che viaggia per Torino su una jeep verde con il numero di cellulare sulla fiancata. È lui che ha chiamato a raccolta questo popolo e ha ingaggiato un duello inedito fra due soggetti pubblici: il locale ufficio di Equitalia Nomos e l'Osservatorio messo in piedi dalla Regione Piemonte, che gli fa le pulci. Un duello che potrebbe allargarsi a macchia d'olio in tutto il Paese. E così in mezzo a chi le tasse non le paga davvero, nasconde capitali all'estero, distrugge le multe e con le bollette riempie i cuscini, c'è sempre più gente come Anna: dopo la crisi della Fiat per mandare avanti l'azienda che faceva componenti per auto ha congelato i versamenti Inps. Aveva un debito da 300 mila euro, che nel frattempo è salito a più di un milione. E non si ferma. La rata da 37 mila euro al mese non la reggeva. Così, adesso che gli ordini sono tornati a salire e avrebbe lavoro per un decennio, sta licenziando e chiuderà baracca: "L'interesse annuale è più alto del debito, così io pago ma non finisco mai. Mi hanno portato via tutto, mobili, macchinari, auto e casa. Mi resta l'orologio che mi regalò mio marito e ho paura che me lo sfilino dal polso. Secondo lei, se volevo evadere mi intestavo tutto?". C'è Francesco, 46 anni, licenziato, bimba a carico. S'è visto ipotecare il mini-appartamento per non aver pagato il canone Rai. C'è Giorgio, 39 anni, cassintegrato: "Il mutuo mi mangia tutto e quelle vecchie multe di quattro anni fa si sono trasformate in un incubo: il debito è triplicato, paghiamo ogni mese e non scende mai". E c'è Giovanni, 60 anni, che fornisce macchinari alle carceri. Stavolta è lo Stato che ha smesso di pagarlo e così lui non ha potuto versare i contributi Inps per i tre dipendenti. Solo che adesso quello stesso Stato è pronto a mettergli all'asta la casa.
Nell'ottobre 2009 Equitalia mandò un preavviso di ganasce fiscali addirittura al Radio Soccorso di Torino, che trasporta i malati di cancro. Il tutto per un debito di 3.058 euro su una vecchia tassa rifiuti. "Una cosa è la caccia ai delinquenti, che ogni anno nascondono allo Stato 120 miliardi di tasse e vanno presi. Altra cosa è infierire su questi poveracci per fare cassa", dice Goffi.
Ecco il punto. Dal 2009 l'Agenzia delle Entrate ha diminuito le "commesse" per Equitalia: meno riscossioni con la forza, più disponibilità a trattare con i presunti evasori per ottenere in via bonaria e in tempi più rapidi il dovuto. In questo modo l'Agenzia incassa direttamente oltre il 67 per cento dei crediti, lasciando alla società di riscossione circa un caso su tre. E così Equitalia si concentra sempre di più su multe, canoni, Tarsu e ritardi di pagamento o sui piccoli imprenditori soffocati dalla recessione. Applicando le stesse ipoteche e pignoramenti previsti per chi evade, anche per poche centinaia di euro. L'effetto pratico è bizzarro: l'evasore consapevole, mimetizzato dietro off shore e conti esteri, senza case da sequestrare né auto da bloccare, se la cava spesso con un concordato. Mentre il cittadino che ogni anno compila il modello Unico, ma non ha i quattrini per saldare, si vede spogliato di tutto. Emblematico il fenomeno della case ipotecate spesso per pochi spiccioli. A "L'espresso" Equitalia ha fornito un primo quadro nazionale. Si parla di oltre 616 mila ipoteche iscritte dal 2007 al 2010. E sarebbero già tante. Eppure Federcontribuenti ripete che il dato non è attendibile e che in Italia le ipoteche sarebbero già oltre un milione e mezzo. "Basta leggere i dati della Provincia di Torino trasmessi alla Regione. Oggi in un territorio di 2 milioni di abitanti ci sono almeno 39 mila ipoteche attive. Impensabile che in Italia siano poco più di 600 mila, soprattutto se si considera che nelle grandi città come Roma e Napoli il fenomeno è storicamente più diffuso", spiega Goffi.
A dimostrare che i provvedimenti non scattano solo nei confronti degli evasori veri, c'è il boom di ricorsi da Roma a Milano. Centinaia di persone si sono trovate l'ipoteca per debiti inferiori ai mille euro, magari per vecchie multe. A chi s'è presentato allo sportello di Equitalia la risposta è stata sempre la stessa: "Noi applichiamo la legge". Lo ripetono tutti. Dal responsabile comunicazione dell'Equitalia, al direttore generale. Peccato che la Cassazione l'abbia smentito, dichiarando illegittima l'ipoteca della casa per meno di 8 mila euro. Equitalia ha preso atto e ha subito promesso di cancellare senza oneri per il contribuente le ipoteche irregolari iscritte dal 2007. Eppure finora non è accaduto nemmeno questo, in un rimpallo su chi debba sborsare i quattrini necessari. C'è pure il caso di chi, come Gianni di Milano, artigiano nel settore del mobile, s'è visto mettere all'asta la sua quota di casa che divideva con la moglie. Il 50 per cento è finito in mano a un estraneo che, pochi giorni dopo, ha cominciato a presentarsi a casa a tutte le ore: "Mi diceva questo: o ti ricompri da me la tua quota al doppio del prezzo o vi rendo la vita impossibile. Per me è cominciato un incubo". "Questi sono problemi che stanno emergendo e su cui è necessaria un riflessione sia a livello politico, sia di sistema", ammettono ai piani alti dell'Agenzia delle Entrate. Che vi sia un abuso lo conferma l'avvocato Carmelo Calderone. Siede in quasi tutte le commissioni tributarie d'Italia, da Trieste a Messina, e da tempo denuncia le storture del sistema: "La vessazione è evidente. Nell'ultimo triennio Equitalia nel Lazio ha attuato l'ipoteca al 69 per cento dei proprietari raggiunti da una cartella. È così che la bandiera della presunta lotta all'evasione sventola fiera sui tetti degli immobili ormai diventati di Equitalia".
Il fatto è che per sopravvivere la piovra di Stato Equitalia deve fare budget. E per riuscirci non guarda in faccia nessuno. Al Capone e la vecchietta con 500 euro di pensione che non è riuscita a pagare la tassa immondizie per loro sono la stessa cosa. "Lo dice la legge", ripetono ai call center. È vero, è una società pubblica (51 per cento di proprietà della Agenzia delle entrate, 49 dell'Inps). Un baraccone all'italiana con 8 mila dipendenti, come un ministero, che ha raccolto i rami secchi del vecchio sistema di riscossione privato abrogato nel 2005 dal ministro Vincenzo Visco. Per mandarlo avanti l'unico introito sono proprio le cartelle esattoriali. Su ogni debito contestato, alla società spetta il cosiddetto aggio, ovvero un interesse del 9 per cento. Una specie di gabella che si calcola sull'importo già maggiorato dalle sanzioni e non sul debito reale che il cittadino ha contratto. Significa che più cartelle spediscono, più notifiche mandano, più avvisi recapitano e più incassi fanno.
Di gente tartassata così ce n'è a migliaia. E l'incubo che grava sul Paese ha i numeri di una catastrofe finanziaria. Basta guardare una cartella esattoriale per capire che il sistema è destinato a esplodere, col debito che aumenta anche di quattro o cinque volte. In un caso documentato, un piano di ammortamento datato 18 dicembre 2009 partiva da circa 350 mila euro. Contributi in ritardo perché l'impresa doveva scegliere fra licenziare a Natale metà dei dipendenti o sospendere l'Inps in attesa di tempi migliori. L'hanno fatto decine di migliaia di aziende del Nord. Per Equitalia è evasione fiscale. Così ha fatto i conti e l'importo iscritto a ruolo è salito a oltre 544 mila euro, poi a 726 mila con gli interessi di mora. In più, su ognuna di quelle cartelle, la società si porta a casa il famoso 9 per cento: 25 mila euro calcolati sull'importo iscritto a ruolo, cioè già gonfiato. A questo punto l'imprenditore accetta di rateizzare e il calcolo riserva l'ultima amara sorpresa: il debito sale a 828 mila euro.
Senza tirare in ballo le migliaia di cartelle "pazze", multe mai ricevute che riappaiono dieci anni dopo con importi cinque volte superiori, capita anche che la contravvenzione annullata dal giudice di pace prosegua comunque il suo iter di riscossione. E che Equitalia ti mandi la cartella esattoriale. Nessuno è tenuto a informarla che quella sanzione sia ormai illegittima. E l'unico che resta fregato è il contribuente. L'importo cresce anche del 120 per cento e, se non viene coperto entro i fatidici 60 giorni, scatta il blocco dei beni. L'avvocato Antonella Nanna della Federconsumatori è in prima linea nel denunciare le storture del sistema. Dal Lazio alla Toscana, da Napoli a Trento sono migliaia le segnalazioni: "Un nostro associato aveva ottenuto l'annullamento di una cartella esattoriale con liquidazione delle spese processuali a suo favore, eppure s'è visto notificare un fermo all'auto", racconta. Un altro, con tanto di sentenza favorevole della commissione tributaria che prevedeva il rimborso di somme che aveva già versato a Equitalia, non ha ottenuto la restituzione dell'importo perché non era possibile stabilire chi dovesse risarcirlo.
E così la rivolta torinese è ormai una rivoluzione nazionale. Dal Veneto alla Lombardia, dalla Toscana alla Puglia, le storie sono tutte simili e drammatiche. Un circolo vizioso, secondo il presidente dell'Api torinese Fabrizio Cellino, il primo industriale italiano a schierarsi apertamente contro Equitalia. "Nelle regioni produttive del Nord oggi pesa perfino più della crisi economica: se un artigiano o un commerciante è in difficoltà, magari perché proprio lo Stato ritarda i pagamenti, Equitalia pignora e segnala la posizione alla centrale rischi. Il debito aumenta e molti chiudono. O finiscono nelle mani degli usurai. Mentre lo Stato non paga mai", spiega. La loro proposta al ministro Giulio Tremonti è una moratoria che consenta ai vessati di uscire dal gorgo dei debiti, per ripartire con la caccia all'evasione quando le regole saranno più eque.
Che il problema esiste, l'Agenzia delle Entrate lo sa. Tanto che ha varato il cosiddetto "bon ton" del fisco. Il gran capo Attilio Befera, che è anche presidente di Equitalia, è dovuto ricorrere a una severa lettera di richiamo per riportare a modi più civili il comportamento dei suoi segugi. Non che gli evasori meritino il guanto di velluto, ma la mossa indica il bisogno di cambiare il clima tra erario e contribuenti, soprattutto in vista della nuova battuta di caccia che si aprirà a breve: tra il 2011 e il 2013 all'Agenzia tocca di scovare 20 miliardi di euro che oggi le sfuggono e riportarli a casa. E se per l'Agenzia il sistema funziona meglio non si può dire che Befera abbia ottenuto grossi risultati con Equitalia, anch'essa con un obiettivo ambizioso: aumentare le riscossioni di un miliardo entro il 2012 (oggi è a quota 8).
Mentre da un lato il mastino di Giulio Tremonti sul fronte del fisco si preoccupa di bon ton, dall'altro si rafforzano i poteri del braccio operativo di Equitalia. Già superiori a quelli della stessa Guardia di finanza. Arrivano, notificano, pignorano, sequestrano, ipotecano, bloccano i conti senza nemmeno la necessità di un giudice che firmi. Ma non è finita. Dal 2011 la società ha anche un'altra arma: quella di agire direttamente sul contribuente infedele con indagini finanziarie che fino a oggi erano riservate all'Agenzia e relegate alla procedura penale, e rispetto alle quali il contribuente godeva di garanzie e tutele. Gli esattori potranno eseguirle in via amministrativa e guardare così nei conti correnti e negli investimenti di chiunque.
Nel 2008 è nato pure il Fondo giustizia, che incamera tutti i denari bloccati da un provvedimento giudiziario e finora depositati nelle banche. Si tratta di 1,7 miliardi, che Equitalia dovrà investire come fosse un gestore finanziario (incassando un aggio del 5 per cento sull'utile). Sempre per il ministero retto da Angelino Alfano, la Spa guidata da Befera dovrà recuperare i crediti delle spese processuali e le sanzioni pecuniarie maturate alla fine di un processo. Fra i pezzi grossi di Equitalia vige la regola del silenzio. A Torino l'amministratore delegato Nicola De Chiara non riceve giornalisti. Al centralino puoi chiamare decine di volte, che tanto nessuno ti passa nessuno. L'unico modo per parlarci e andarci di persona. Ma niente contatto diretto. "Parlate con Roma", rimbalza la segreteria. Eppure, fuori microfono, qualcuno che ammette gli errori c'è. Una mail riservata, partita dagli uffici milanesi, invita a osservare una coincidenza quanto meno bizzarra: mentre Equitalia continuava ad accumulare ipoteche sulle case nei mesi dello scudo fiscale, buona parte dei capitali che rientravano dai conti dei veri evasori all'estero (pagando solo il 5 per cento del dovuto) è finita proprio sul mercato immobiliare. Vale a dire che, oltre a portarsi in Italia milioni di euro con meno di un ventesimo di quello che versano i contribuenti trasparenti, quei soldi sono spesso serviti ad accaparrarsi, sottocosto, ville e appartamenti messi all'asta da Equitalia. Un trend che al quartier generale dell'Agenzia delle entrate a Roma osservano a distanza: "C'è anche un aspetto positivo: quegli evasori rientrati dovranno pagare le imposte e noi ora sappiamo dove sono. E possiamo controllarli". Peccato solo che molte di quelle case le ha perse gente che i redditi li aveva almeno dichiarati.
L’Inps ha revocato il 13% delle pensioni d’invalidità e delle indennità di accompagnamento, con punte di quasi il 22% in Sardegna e Sicilia, del 19% in Calabria e del 15,5% in Campania e Puglia. Le prestazioni sono state annullate per il venir meno o per l’insussistenza dell’invalidità, accertata in seguito a una visita effettuata dai medici dell’Inps. Si tratta, dice il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, di «una campagna senza precedenti».
Come prevede l’articolo 80 della legge 133 del 2008, tutti e 200 mila i controlli previsti saranno conclusi, assicura il presidente. E si può stimare che, con una percentuale di revoche del 12-13%, si potranno risparmiare più di 100 milioni di euro all’anno. Le pensioni d’invalidità sono in tutto 2,6 milioni, per una spesa totale di circa 13 miliardi di euro. Se tutte fossero sottoposte a verifica, e pur scontando una percentuale complessiva di revoche inferiore (visto che il campione sottoposto a controlli e stato selezionato tra le situazioni più a rischio), si potrebbe tranquillamente arrivare a un risparmio di almeno un miliardo di euro all’anno, dicono i tecnici dell’Inps.
Anche alla luce dell’esperienza in corso, annuncia Mastrapasqua, l’Inps presenterà al governo una serie di proposte per migliorare la situazione. «A partire dal contenzioso: oggi ci sono più di 400 mila cause pendenti tra cittadini che rivendicano la pensione d’invalidità e l’amministrazione. E nella maggioranza dei casi noi perdiamo per semplice inefficienza. Per esempio, perché i fascicoli presso le Asl sono ancora cartacei e spesso non si trovano più o perché l’ente in questione non si presenta durante la causa».
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un c.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L'Inps ha i conti in rosso ma ai figli degli statali paga le vacanze all'estero. Mantenuto il privilegio previsto dall'Inpdap, anche se il buco è di 13 miliardi: campus e corsi di lingua estivi per 35mila ragazzi, scrive Antonio Signorini, Domenica 13/03/2016, su "Il Giornale". Vacanze pagate, parzialmente o totalmente, a beneficio di ben 35 mila ragazzi. Il tutto a spese dell'Inps. Per 22.520 studenti si apriranno le porte di corsi estivi di lingua all'estero, altri 12 mila e 730 si accontenteranno di vacanze in Italia. Detta così sembra una notizia fantastica visto che la maggioranza dei genitori, gravati da tasse e contributi, non possono permettersi di sostenere i costi di campus e corsi di lingua. Ma quella di «Estate InpSieme» è un'altra storia italiana, fatta di generosità selettive se non malriposte e di conti pagati da altri. La vacanza finanziata con i soldi della previdenza è infatti offerta esclusivamente ai figli di lavoratori pubblici, attivi o in pensione. Residuo di un'era in cui lo Stato sociale era generoso anche con le giovani generazioni. Salvo poi, una volta tirate le somme, pesare sulle stesse lasciandogli in eredità conti sballati. Prima si chiamava «Valore vacanza» ed era un bastione dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che nel 2012 è stato inglobato dall'Inps con il suo carico di bilanci in perdita e inefficienze. La fusione del mondo pubblico con quello privato non ha portato a una omologazione dei trattamenti e così le vecchie vacanze per i figli degli statali sono state confermate anche dalla gestione Inps, che non aveva e non ha niente di simile per i figli dei dipendenti privati. L'istituto si è perlomeno premurato di dare al «concorso» un nuovo nome. Qualche cambiamento c'è stato nei metodi di compilazione della graduatoria. Ora viene compilata sulla base di nuovi criteri di merito. Impossibile partecipare se lo studente è stato bocciato o se ha debiti. Quasi scontato, verrebbe da dire per chi pensa in termini privatistici. Ma non l'hanno pensata cosi centinaia di statali che tempo fa hanno presentato una class action contro questa novità introdotta dall'Inps e considerata «discriminatoria». Non è cambiato, invece, il numero di giovani che hanno accesso alle vacanze pagate, l'entità dell'aiuto Inps né il tipo di trattamento. L'offerta è rivolta a studenti della scuola secondaria superiore, per soggiorni da effettuare tra giugno e agosto in Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania e Spagna. L'Inps paga aereo, transfer dall'aeroporto, corso, college, vitto e assicurazione per un massimo di 2.400 euro per soggiorni di 15 giorni e di 4.000 euro per quelli di quattro settimane. Il programma italiano è meno generoso (il contributo è al massimo di 1.400 euro), ma l'impegno formativo è meno pressante (solo tre ore al giorno di corsi). Diritto acquisito, prestazione pagata con i contributi è l'obiezione che si potrebbe fare. Giusto, se non stessimo parlando di una gestione, quella dei pubblici dipendenti, che non sta in piedi da sola e che, seguendo una logica di equità, non potrebbe permettersi lussi. Il rosso dell'Inps sfiora i 13 miliardi di euro e la gestione delle pensioni pubbliche contribuisce a questo sbilancio per quasi sei miliardi di euro. La gestione dei parasubordinati, lavoratori con un futuro previdenziale più che incerto, contribuisce in positivo al bilancio Inps per sette miliardi di euro. Sono loro a tenere su la previdenza. E le vacanze dei figli se le pagano di tasca propria.
Baby pensioni: che cosa sono? Tutte persone che sono uscite dal mondo produttivo in base a finestre aperte dalla legge, oggi diventano una sorta di profittatori, gente colpevole di campare troppo a lungo e sulle spalle del sempre più esiguo e spremuto contingente di lavoratori in attività, scrive Stefano Filippi il 4 aprile 2016 su “Il Giornale”. L'Inps ha fatto sapere che in Italia oltre 474mila pensioni sono state liquidate prima del 1980: i relativi titolari, dunque, vivono di rendita da 36 anni e per di più dopo aver lavorato sicuramente meno. I dati sono presi dalle tabelle sugli assegni di vecchiaia e di anzianità e ai superstiti del settore privato (cioè la reversibilità): sono perciò escluse le pensioni di invalidità previdenziale e civile, quelle sociali al minimo e i trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Di conseguenza non sono conteggiati neppure i cosiddetti «baby pensionati», cioè le impiegate del pubblico impiego sposate con figli che fino al 1992 potevano congedarsi con un'anzianità di 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi. L'età media da cui le pensioni hanno iniziato a decorrere è molto inferiore all'attuale: quasi 56 anni per gli assegni di vecchiaia e poco più di 41 per quelle ai superstiti. Nel 2015 le pensioni di anzianità liquidate sono state 238.400 con un'età di decorrenza di 62 anni e mezzo. Nel settore privato supera gli 800mila il numero di pensionati in quiescenza da oltre 30 anni (decorrenza antecedente il 1986) cui si aggiungono altri 527mila assegni di reversibilità. L'effetto mediatico di questi numeri è evidente: sono troppi. Anche perché si tratta di pensioni «pesanti», calcolate con il metodo retributivo basato sugli ultimi stipendi e non sull'ammontare dei contributi effettivamente versati.
Che cosa sono le baby pensioni? Risponde Flavia Amabile il 28 ottobre 2011 su "La Stampa". In questi giorni se ne è parlato molto. Il termine baby pensioni però indica solo quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi 20 anni dopo, nel 1992 da Dini.
Chi ne aveva diritto?
Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.
In quanti ne godono?
Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni, avendo versato pochi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.
Chi sono i baby-pensionati?
Il 78,6% - quasi 8 su 10 - sono dipendenti pubblici. Di questi più della metà (il 56,5%) sono donne. Il restante 21,4% sono persone che godono di regimi speciali. Sono soprattutto persone che vivono al Nord, e non a caso la Lega punta i piedi contro ogni intervento in materia. Il 62,5% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi e un record assoluto di 2 baby-pensionati su 10. Al secondo posto c’è il Veneto con 56.785 assegni, il 10,7% del totale. Al terzo e quarto posto Emilia Romagna e Piemonte, rispettivamente con 52.626 e 48.414 assegni, il 9% del totale.
Quanto costano?
Cifre abnormi, se si considerano gli effetti sull’economia di quest’anomalia previdenziale. Costano allo Stato circa 163,5 miliardi, una «tassa» di 6630 euro a carico di ogni lavoratore, sostiene Confartigianato, se si calcola la maggiore spesa che le casse pubbliche sopportano rispetto ai pensionati ordinari. I baby pensionati infatti ricevono un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio. Se si calcola la maggior spesa pubblica cumulata per ognuno degli anni di pensione eccedenti alla media, si arriva a 148,6 miliardi di euro. A questa somma bisogna aggiungere la minore contribuzione, pari a 138.582 euro per ogni baby pensionato del settore privato. Sono circa 100 mila e vuol dire 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali. Se invece si vogliono considerare solo le rendite erogate, siamo a una spesa di 9,45 miliardi: 7,43 miliardi per quelle incassate dai lavoratori del pubblico impiego, 2,02 miliardi per i lavoratori sottoposti a regimi speciali. E’ una cifra considerevole, se si tiene presente che nel 2010 la spesa pensionistica, secondo la Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso per i baby-pensionati.
Quanto hanno lavorato?
Forse sarebbe preferibile rovesciare la domanda e chiedere quanto restano in pensione per avere un quadro più chiaro di quello che accade. In media il 48% della vita, ovvero più di 40 anni, se si considera una durata media della vita di 85,1 anni. Ma ci sono 16.953 fortunatissimi baby pensionati che si sono ritirati a 35 anni e che restano in pensione quasi 54 anni, ovvero il 63,4% della vita, molto più della metà della loro esistenza. Da non disprezzare anche la condizione di coloro che sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni: restano in pensione 47 anni, il 55,8% della loro vita.
Esistono baby pensionati famosi?
Sì e sono anche molti e spesso politicamente scomodi. Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60), e che incassa 2.644 euro lordi al mese. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, sposata con il leader della rivolta contro Roma Ladrona, è andata in pensione come insegnante a 39 anni. Su di lei si è scatenata l’ultima lite alla Camera. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che è andato in pensione a 42 anni. E persino Adriano Celentano non si è tirato indietro: è in pensione dal 1988 a 50 anni. A livelli diversi, anche come rendite percepite, l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Quando compì 48 anni decise di lasciare la Banca d’Italia, di cui era arrivato a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale. Un ottimo incarico che si è riflesso sulla pensione: 15 mila euro al mese per 24 anni di lavoro senza che questo impedisca di continuare a ottenere incarichi e stipendi mensili. Un percorso simile quello di Rainer Masera, andato in pensione a 44 anni, dopo una carriera in Banca d’Italia per diventare presidente dell’Imi, l’Istituto Mobiliare Italiano. Da allora lo Stato gli versa 18mila euro al mese.
La Casta dei baby-pensionati Costa 9 miliardi l'anno. Sono oltre mezzo milione gli ex lavoratori che percepiscono vitalizi per i quali non hanno pagato i necessari contributi, scrive Antonio Castro su “Libero Quotidiano" del 25 ottobre 2011. Trenta, quaranta, anche cinquant’anni di vita da pensionato. Paradossi di un Paese, l’Italia, che oggi deve tirare la cinghia. Ma che negli anni Settanta era molto, molto generosa. Mentre si discute se ritoccare per l’ennesima volta l’età pensionabile (ieri la richiesta è e stata reiterata dai giovani imprenditori di Confindustria nel tradizionale meeting autunnale di Capri), di quanti hanno la fortuna di avere un impiego, spulciare i dati dei 535.752 baby pensionati fa salire la pressione e incoraggia una riflessione. Oggi il nostro sistema previdenziale deve sostenere un esborso notevole (9,45 miliardi l’anno) per retribuire un esercito di oltre mezzo milione di (ex) giovani pensionati. E non si tratta di poca cosa, considerando che nel 2010 la spesa pensionistica complessiva, secondo i dati della Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso vero signori e signore che negli anni successivi al 1973 (decreto 1092 varato dal governo Rumor) riuscirono ad andare in pensione con una manciata di anni di lavoro. All’epoca bastavano alle impiegate pubbliche con figli appena 14 anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E indifferentemente dal sesso tutti i dipendenti statali potevano ambire alla pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno. Un po’ più sacrificati i dipendenti degli enti locali che potevano ritirarsi con 25 anni di contributi. Vista con gli occhi di oggi - e con la prospettiva di dover lavorare fino ai 70 anni come in Germania - un Eldorado previdenziale. Se a questo regalino previdenziale sommiamo poi l’allungamento dell’aspettativa di vita degli italiani (arrivata a 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le signore), ne viene fuori un salasso che rischia di protrarsi per altri 20/30 anni. Già durante la turbolente estate della manovra correttiva si parlò di mettere mano a quest’anomalia tutta italiana. Le tabelle del Tesoro (sulle quali si basa l’elaborazione realizzata per Libero dal Centro Studi Sintesi), sui signori baby pensionati vennero velocemente messe via quando Umberto Bossi oppose categorico il niet della Lega, alleato di peso e indispensabile per la tenuta della maggioranza. E non solo perché la signora Bossi, ex insegnante, è una delle baby pensionate. Manuela Marrone ha fatto l’insegnante fino a 39 anni, e da qualche decennio incassa un assegno mensile di 766 euro. La verità è che in Lombardia (110.497 baby pensionati), Piemonte (48.414), Veneto (56.785) ed Emilia Romagna (52.626), si concentrano una parte importante dei privilegiati. Una mappa che corrisponde più o meno con il bacino elettorale della Lega Nord. Comprensibile quindi i cavalli di Frisia eretti contro qualsiasi intervento dai lumbard. Ma dalle Alpi alla Sicilia la corsa alla baby è uno sport nazionale. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, un tempo sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che ha pensato bene di andare in pensione a soli 42 anni. O Adriano Celentano (in pensione dal 1988 a soli 50 anni). La Cgil - che di fiuto politico ne ha per i possibili interventi governativi che colpiscono i pensionati - ha già messo le mani avanti e ammonito a guardare altrove. Eppure un contributo di solidarietà del 5% su questi assegni (in media 1.357 euro al mese), peserebbe per poco meno di 60/70 euro. Ma consentirebbe di risparmiare quasi cinquecento milioni l’anno. Barricate leghiste a parte, tra gli indefessi paladini dell’assegno pensionistico giovanile troviamo anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che abbandonata la toga e sceso in politica optò per un prematuro pensionamento dalla magistratura e oggi incassa un assegno mensile di 2.644 euro (lordi) al mese. Non se la passa certo male l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, che quando festeggiò 48 anni pensò bene di mettersi a riposo e si deve barcamenare con una pensioncina di 15mila euro al mese. Ma l’Inps ha a libro paga anche banchieri famosi come Rainer Masera (andato in pensione a 44 anni) che devono “sopravvivere” con 18mila euro al mese. Ma l’elenco dei fortunati pubblicato nel libro di Mario Giordano (Sanguisughe, Mondadori), è molto più lungo. Certo questi sono casi limite. Poi c’è la maestra con la pensioncina da 800 euro scarsi al mese. Peccato che chi ha iniziato a lavorare da 20 anni (e dovrà faticare per altri 20) a stento riuscirà a portare a casa una pensione superiore al 60% dell’ultimo stipendio. I signori baby, invece, incasseranno in vita loro, assegno dopo assegno, il 300% di quanto hanno versato.
Baby pensionati, ecco i conti. Fino all’82 per cento in regalo. A chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema previdenziale «regala» l’82% dell’assegno, scrive Sergio Rizzo il 9 ottobre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati. Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore del centro studi Economia reale. Proprio nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare. Prendiamo il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro. E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby» sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione 328.400 e così via. All’opposto di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età, almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a 57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti, addirittura del 40%. Il che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del 26,9. A 54, del 43,1. «Ad oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel 2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente con il metodo retributivo. E questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi guadagnava meno.
Il presidente dell’Inps Boeri: «Serve un contributo dalle pensioni più alte». Boeri interpellato sul dato delle 500 mila persone in pensione da oltre 36 anni: «In passato sono state fatte concessioni eccessive. Sarebbe opportuno chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani», scrive Raffaella Polato, su "Il Corriere della Sera" del 3 aprile 2016. «Il testo deve essere pronto entro l’8 aprile». Cioè entro venerdì prossimo. Che non è solo la data fissata per la presentazione del Def, il Documento economico e finanziario cui sta lavorando il ministero dell’Economia e che, poi, il governo invierà anche all’Unione europea con l’obiettivo di ottenere il via libera alla «flessibilità» chiesta da Matteo Renzi. Su quel fronte, lascia intendere Tommaso Nannicini, l’esecutivo è certo che onorerà le scadenze. Soprattutto, è convinto di aver raggiunto «la quadra» rispetto ai paletti posti da Bruxelles. Anche se nel frattempo lo scenario generale non è migliorato. Al contrario: la «crescita ancora fragile», come la definisce lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si vedrà togliere qualche altro «zero virgola». Nannicini non ne fa cenno, dal palco di quel Festival Città Impresa che, poco dopo, assisterà a un nuovo «caso pensioni», sorta di duello a distanza tra il presidente dell’Inps Tito Boeri e i ministri presenti a Vicenza: il primo a sollecitare un «contributo di solidarietà», i secondi a bocciare seccamente l’uscita. Anche questo, d’altra parte, ha a che fare con la «crescita ancora fragile». Se il sottosegretario non la quantifica è perché occorrerebbero dei numeri nero su bianco. Numeri che sono però in arrivo. Venerdì, appunto, insieme al Def. Confermato che il governo aggiornerà le stime sul Pil 2016 e confermato, sebbene non ufficialmente, che la revisione sarà forzatamente al ribasso. Forse non seguirà l’entità dei tagli già annunciati da tutti i maggiori centri di ricerca (dall’Ocse in poi le ultime previsioni non vanno oltre il +1%). Di sicuro, però, una crescita dell’1,6% - cui Palazzo Chigi puntava - non è più un obiettivo raggiungibile. È inevitabile che sia questo quadro, a fare da sfondo ai dibattiti conclusivi del Festival Città Impresa. Il primo — cui partecipano Nannicini, Boeri, Francesco Giavazzi e il capo economista di Intesa San Paolo Gregorio De Felice — lo apre Giavazzi e l’esordio scelto basta a sintetizzare il «filo» dell’intera giornata. Oggi che sono certamente fattori esterni e tensioni internazionali, a frenare i nostri tentativi di ripresa, non dobbiamo dimenticare con quale peso ancora ci presentiamo alla sfida. Ovvero, ricorda l’economista: «I 30 punti di competitività persi in 15 anni rispetto alla Germania». È Nannicini a definirla «una zavorra strutturale», che solo «riforme strutturali potranno buttare a mare». Ma è qui anche — sul tema riforme — che «a lato palco» scoppia il nuovo caso pensioni. L’Inps ha appena diffuso un dato che fotografa oggettivamente l’allegro passato per cui oggi paghiamo il conto: quasi mezzo milione di italiani dev’essere stato a suo tempo un baby-pensionato, se è vero che il relativo assegno lo riceve da più di 36 anni. Su questo Boeri riflette e conclude: «Credo sarebbe opportuno chiedere a chi riceve importi elevati un contributo di solidarietà, per facilitare i giovani e la flessibilità in uscita». «Non è all’esame, né tecnico né politico», replica tranchant Nannicini. Seguito a ruota dal titolare del Lavoro, Giuliano Poletti: «Il contributo c’è già. È a scadenza e dovrà essere valutato, ma non è il caso di alimentare dannose incertezze».
Inps, mezzo milione in pensione da oltre 36 anni. Boeri: "Serve contributo da importi elevati". I dati solo sul settore privato non comprendono i baby pensionati del pubblico impiego, usciti dal lavoro prima del '92 con almeno 14 anni di contributi. Baretta "Legge Fornero va difesa" ma bisogna "agire sulla flessibilità in uscita". Così "è impraticabile", scrive il 3 aprile 2016 la Repubblica". In Italia ci sono oltre 474 mila pensioni liquidate prima del 1980, che quindi ricevono la pensione da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Un dato subito commentato dal presidente dell'Inps, Tito Boeri: "Siccome son state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - dice a margine del convegno Città Impresa - credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per rendere più facile a livello europeo questa uscita flessibile". Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude però nuovi prelievi: "Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c'è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio. Vedremo cosa fare sulla flessibilità". A Boeri era stato chiesto nel dettaglio se la presenza di una così vasta platea di pensionati di lunga data, non sia il caso anche di andare a rivedere i diritti acquisiti, anche per rendere più sostenibile il sistema pensionistico. "Abbiamo formulato delle proposte molto articolate, che guardano all'età, alla decorrenza della prima pensione - risponde Boeri -. Perché quando si guarda anche agli importi pensionistici bisognerebbe sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi. Possono essere anche importi limitati ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole". Per le pensioni di vecchiaia l'età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l'età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne spostate con figli. L'Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico. Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800 mila persone mentre altri 527 mila assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent'anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L'età media alla decorrenza era molto inferiore all'attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall'essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l'età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l'età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l'età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un'età media alla decorrenza di 73,89 anni. Per quanto riguarda gli importi, dopo le polemiche sull'alto numero di pensionati sotto i 750 euro al mese, quasi 6 su 10, il presidente dell'Inps Boeri invita a "guardare al dato medio per pensionato, e non alla pensione media", perché "la situazione è meno grave di quel che si possa pensare". "C'è stata una informazione errata, bisogna guardare al dato medio per pensionato, non alla pensione media - spiega -. In Italia sono molti i pensionati che percepiscono più di un trattamento, questo non vuol dire che le pensioni non siano basse in Italia, ma la situazione è meno grave di quel che si possa pensare prendendo il dato per pensione singola".
Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: cinque miliardi di welfare clientelare. Gli assegni di invalidità pagati in Calabria sono, in proporzione agli abitanti, almeno il doppio di quelli erogati in Emilia Romagna: l’allarme del commissario alla spending review trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Inps, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera" del 30 marzo 2016. L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità, squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna, «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolta del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità.
E poi, per ultimo ci sono i piccoli evasori-truffatori. L'esercito dei finti disoccupati. I costi dei raggiri all'Inps. Inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Rimborsi non dovuti, assegni e pensioni di parenti deceduti. Quello delle truffe all'Inps è certamente il settore che genera maggiore allarme visto che l'ammontare del deficit continua ad aumentare, nonostante l'intensificazione dei controlli. Perché è vero che il lavoro «nero» rappresenta una vera e propria piaga, ma anche gli illeciti compiuti grazie a false certificazioni o alla complicità di dipendenti dell'istituto di previdenza - soprattutto nelle sedi periferiche - provocano una vera e propria emorragia di fondi pubblici. In attesa dei dati consolidati per il 2011, sono le segnalazioni di infrazione già trasmesse al comando generale della Guardia di Finanza a dimostrare quale sia il livello degli illeciti compiuti. C'è chi ritira la pensione del parente morto e chi continua a percepire l'indennità di accompagnamento nonostante sia ricoverato in una struttura di lungodegenza a totale carico dello Stato. C'è chi ha ottenuto il rimborso per la sospensione della propria attività dopo il terremoto in Abruzzo e ci sono le migliaia e migliaia di falsi braccianti che causano ogni anno una perdita milionaria all'Erario. Il fenomeno è molto più esteso di quanto si creda: nel 2011 la Guardia di Finanza ha scoperto complessivamente più di 6.500 falsi braccianti agricoli che hanno provocato un danno alle casse dell'Inps di oltre 42 milioni di euro. L'indagine più capillare è stata certamente quella condotta dalla tenenza di Capo d'Orlando, in Sicilia, che ha esaminato circa 33.000 istanze di disoccupazione. I risultati sono stati sorprendenti. È stato infatti accertato come «1.759 individui avevano ottenuto circa 7,5 milioni di euro dalle casse dell'Inps, in quanto - pur essendo in realtà titolari di partita Iva e svolgendo attività professionali, commerciali o imprenditoriali - avevano presentato all'Istituto false autocertificazioni in cui dichiaravano di versare nella condizione di "disoccupato". Tutti i soggetti, che hanno percepito assegni che variavano tra i 1.500 e i 9.000 euro annui, sono stati denunciati all'autorità giudiziaria per falso e truffa ai danni dello Stato». Gli stessi reati sono stati naturalmente contestati ai datori di lavoro che, «al fine di dimostrare l'esistenza del rapporto facevano spesso ricorso a transazioni commerciali coperte da fatture false, utili da una parte a giustificare l'operatività di quei braccianti e, dall'altra, ad abbattere il reddito delle imprese». E questo ha fatto anche individuare «69 evasori totali e redditi non denunciati per circa 30 milioni di euro». Chi percepisce l'indennità di accompagnamento deve segnalare un eventuale ricovero in lungodegenza se si tratta di una prestazione erogata dal servizio sanitario nazionale. Una procedura che non sempre viene rispettata, come è stato scoperto dal nucleo di polizia tributaria di Lecce che ha effettuato 1.467 controlli sui «soggetti ricoverati in strutture sanitarie in regime di lungodegenza con retta a totale carico dell'Asl o di altre pubbliche amministrazioni, che risultavano essere anche percettori dell'"indennità di accompagnamento"». Alla fine delle verifiche sono state denunciate 443 persone per aver percepito complessivamente oltre 3 milioni e 800 mila euro di indennità non dovute. In particolare «26 persone hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale, di fatto, risultavano ricoverate in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello Stato. Gli stessi soggetti, attraverso la dissimulazione di circostanze esistenti hanno indotto in errore l'Inps che ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 270.823 euro. Gli altri 417 soggetti hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale erano anch'essi ricoverati in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello stato. A differenza dei primi, hanno omesso di comunicare all'Inps le informazioni dovute - in particolate l'avvenuto ricovero con pagamento della retta a totale carico dello Stato - e hanno indotto in errore il medesimo Istituto di previdenza che, pertanto, ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 3.550.892». La più determinata è una donna di Palermo che è riuscita a percepire la pensione della madre morta dieci anni prima. Ma sono decine e decine i casi scoperti dai finanzieri di Palermo di persone che grazie a un'autocertificazione con dati fasulli sono riusciti a riscuotere per lungo tempo la pensione del familiare morto. Le verifiche sono state effettuate ricostruendo i flussi finanziari transitati su centinaia di conti correnti postali e bancari per individuare il reale beneficiario e hanno consentito di scoprire che numerosi soggetti, proprio per sviare eventuali indagini, avevano fittiziamente spostato la residenza in altri Comuni del territorio nazionale o addirittura all'estero. Alla fine degli accertamenti sono state denunciate 441 persone con un danno erariale che supera gli 800 mila euro. «Il sistema di frode - è scritto nella segnalazione - ha consentito agli indagati di percepire le somme di danaro, con riscossione direttamente allo sportello, attraverso la redazione e sottoscrizione di una dichiarazione con cui si attestava falsamente l'esistenza in vita del titolare della pensione. In altri casi, invece, la morte del titolare della pensione veniva completamente taciuta e, quindi, mensilmente, continuava ad avvenire l'accredito diretto su conti correnti postali o bancari». Tra le agevolazioni concesse alle vittime del terremoto in Abruzzo del 2009 c'era anche l'indennità per chi era stato costretto a sospendere la propria attività. Ed è proprio per verificare il rispetto delle procedure che la Finanza ha avviato controlli su tutti coloro che ne avevano fatto richiesta. Si tratta di professionisti, lavoratori autonomi, artigiani e piccoli imprenditori, coltivatori diretti e commercianti, che avevano presentato l'istanza allegando «autocertificazioni attestanti danni a immobili, impianti e macchinari o altri impedimenti». Ma per 56 di loro quella documentazione si è rivelata falsa: gli investigatori hanno accertato che - nonostante avessero percepito indennità per 300 mila euro - avevano continuato a svolgere regolarmente il proprio lavoro». Sciacallaggio come quello compiuto da sei persone, denunciate nel corso della stessa operazione, che hanno ottenuto i 600 euro mensili previsti per chi non aveva più l'abitazione agibile con un danno complessivo già quantificato in 50 mila euro.
Le pensioni dei manager le pagano operai e precari: come stanno davvero le casse dell'Inps. La situazione della previdenza italiana non è drammatica come la dipingono alcuni, almeno per il momento. Ma ci sono categorie che vivono sulle spalle di altre. Vi raccontiamo quali sono e quanto finiscono per costare ai giovani, scrive Gloria Riva il 27 dicembre 2017 su "L'Espresso". Dopo anni di conti sul filo, nel 2017 il patrimonio dell'Inps è sceso sotto zero, a meno 7,9 miliardi. I soldi sono finiti e così, nella legge finanziaria, spunta il maquillage per riportare i conti in territorio positivo e poter continuare a garantire grasse pensioni a chi, durante la carriera, ha versato pochissimo e compromesso sempre più il futuro delle giovani generazioni. Il sistema delle pensioni è in equilibrio o no? Da un lato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, assicura che «il sistema previdenziale italiano è sostenibile nel lungo periodo ed è in equilibrio». Dall'altro c'è la Commissione Europea che presenta un rapporto sulla sostenibilità dell'Inps da far tremare le vene e i polsi. I risultati del dossier di Bruxelles sono terrificanti: dice che l'Italia è il paese messo peggio (insieme all'Austria) e che ogni anno la spesa per le pensioni pubbliche supera i contributi versati di ben 88 miliardi di euro. Se fosse vero, l'Italia sarebbe in default già da un pezzo. Fortunatamente si tratta solo di un colossale equivoco, che lo scorso 26 novembre il Corriere della Sera prende per vero: il giornale lancia l'allarme pensioni, praticamente intonando il de profundis per l'Inps e per l'Italia intera. L'Espresso, che si è andato a leggere i bilanci dell'Inps, vi racconta qual è effettivamente lo stato di salute della previdenza italiana. Partiamo rassicurando pensionati e futuri pensionati: non è vero che ogni anno la spesa delle pensioni supera quella dei contributi versati per 88 miliardi di euro. Quelli, in realtà, sono i soldi che ogni anno lo Stato trasferisce all'Inps per l'assistenza agli italiani in difficoltà, fra cui l'indennità di accompagnamento, la quattordicesima ai poveri, il contributo ai giovani e tutta una serie di aiuti che lo Stato, attraverso provvedimenti legislativi, decide di assegnare a favore delle categorie più svantaggiate. Nel 2016, ad esempio, lo Stato ha trasferito oltre 104 miliardi di euro per coprire quelle spese, di cui 86 utilizzati per l'assistenza e la restante parte (circa 17 miliardi) per l'accompagnamento agli anziani. L'Inps, in questa partita, fa solo da intermediario tra Stato e cittadino, accollandosi compiti che non hanno molto a che vedere con il proprio core business, cioè il pagamento delle pensioni agli anziani, la riscossione dei contributi dei lavoratori e la gestione al meglio di quei quattrini. Dunque, la situazione delle pensioni italiane non è così drammatica come viene dipinta dalla Commissione Europea, ma qualche problema c'è davvero. Ad esempio, nel 2017 il patrimonio dell'Inps chiuderà in passivo di 7,9 miliardi di euro e toccherà allo Stato dare una mano. Tutto deriva dalla pessima annata 2016, quando i lavoratori hanno versato nelle casse dell'Inps circa 314 miliardi, mentre i pensionati hanno incassato poco più di 320 miliardi: all'appello mancano 6,2 miliardi. Per pagare tutte le pensioni l'Inps ha dato fondo alle riserve, cioè al proprio patrimonio che, in base alle previsioni, dovrebbe attestarsi a meno 7,9 miliardi di euro nel 2017. Ad affossare il sistema sono quattro categorie che, per via di pregressi privilegi concessi soprattutto dal vecchio sistema di conteggio retributivo della pensione (che si basava su una stima calcolata in base agli ultimi anni di lavoro e non teneva conto dei contributi versati), ingollano più soldi di quanti ne abbiano accumulati negli anni. Ad esempio, i manager dell'ex cassa Inpdai, confluita nell'Inps nel 2003 perché aveva accumulato un buco da 600 milioni, incassano pensioni fino al 40 per cento superiori rispetto ai contributi versati. I dirigenti non sono gli unici a vivere al di sopra delle proprie possibilità. Oltre a loro, ci sono altre tre categorie: gli artigiani, i coltivatori, i dipendenti degli enti locali (comuni, province e regioni) si stanno mangiando - e si continueranno a mangiare - sia i risparmi di operai, precari, nonché i quattrini di riserva, che dovrebbero servire per coprire la cassa integrazione – utile in caso di crisi aziendale -, la malattia e la maternità dei dipendenti dell'industria. «Più che uno squilibrio generazionale, c'è un'ingiustizia fra categorie», spiega Gian Paolo Patta, membro del Civ, il Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell'Inps che ogni anno verifica la sostenibilità dell'Ente.
Se l'operaio paga la pensione del boss. La gestione principale dell'Inps si chiama Fpld, Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti, e nel 2016 ha chiuso con un leggero avanzo (690 milioni) grazie ai quattrini che gli operai riescono ad accantonare sia per la pensione (oltre 9,2 miliardi), sia per la Gestione Prestazioni Temporanee che sono i risparmi per la cassa integrazione e le indennità di maternità e malattia, che equivalgono a 3,4 miliardi. Peccato che quei soldi siano stati tutti spesi per la pensione degli ex fondi (trasporti, elettrici, telefonici) e per l'ex fondo Inpdai, quello dei manager e dei dirigenti d'azienda, che nel 2016 segna una voragine di 4,3 miliardi. Proprio i manager negli anni hanno accumulato un debito di 38 miliardi che crescerà sempre di più: «Diventeranno 138 miliardi nel 2035», dice Patta, leggendo un documento prodotto dall'Inps a proposito delle previsioni patrimoniali delle varie casse gestite dall'Inps. Ma il record assoluto di disavanzo lo produrranno gli artigiani. Nel 2016 chiudono con un rosso di 5,2 miliardi, che si aggiungono ai 61,3 miliardi accumulati negli anni «e che nel 2035 diventeranno ben 220 miliardi di passivo», spiega Patta. Altre gestioni amministrative in affanno sono quelle dei commercianti, dei coltivatori diretti e dei dipendenti pubblici. Chi tiene in piedi la baracca dell'Inps? Oltre alle tute blu, in soccorso all'ente corrono i parasubordinati, cioè i precari, i meno tutelati di tutti, che nel 2016 hanno creato un tesoretto da 6,7 miliardi, che nel 2025 diventerà di 190 miliardi. Un bel gruzzoletto che i collaboratori possono ammirare solo con un potente binocolo perché, stando alla nuova legge pensionistica (la controversa Legge Fornero), andranno in pensione superati i settantanni e con assegni piuttosto modesti, soprattutto per chi, nei primi anni di carriera, avrà versato contributi a singhiozzo per colpa di un arido mercato del lavoro. Sacrifici che vengono chiesti alle nuove generazioni proprio per coprire gli squilibri prodotti in passato e nel presente. Fra le casse più compromesse c'è quella dei lavoratori degli enti locali, che nel 2016 registra un risultato negativo di 7,1 miliardi e un buco patrimoniale di 12,9 miliardi che, nel 2025 diventeranno oltre 157 miliardi. «Sull'attività di comuni, province e regioni non c'è alcuna attività ispettiva e l'Inps non ha mai dato ascolto alla nostra richiesta di verificare se, effettivamente, le amministrazioni locali versano i contributi ai dipendenti», spiega Patta. Dunque, complessivamente il sistema, che si sostiene grazie agli accumuli di operai, parasubordinati e degli accantonamenti speciali, come quello per la cassa integrazione e per la malattia, produce ogni anno dei debiti che vengono coperti con delle anticipazioni dallo Stato. Nel 2016, ad esempio, le casse pubbliche hanno girato all'Inps 3,9 miliardi.
Avevano promesso trasparenza. Invece i signori della gestione privata continuano a governare 80 miliardi di euro senza controlli. E le regole per evitare investimenti sbagliati sono ferme da tre anni. «In circa settant'anni di attività lo Stato ha versato all'Inps circa 100 miliardi di anticipazioni, che con la Finanziaria 2018 verranno cancellati», racconta Patta, aggiungendo che, in questo modo, il governo Gentiloni intende riportare in segno positivo il bilancio dell'Inps e ridurre il debito pubblico, rimediando a un pasticcio nella stesura del bilancio dello Stato. Infatti da un lato la Tesoreria segnava quei cento miliardi anticipati all'Inps tra le spese definitive. Dall'altro lato l'Inps continuava a indicare quel prestito fra i debiti. «Dal momento che il bilancio dell'Inps fa parte di quello dello Stato, il debito pubblico risultava più alto di 100 miliardi». Il governo Gentiloni, con una norma inserita nella Finanziaria 2018 (quella in fase di approvazione in questi giorni), ha cancellato 88,8 miliardi di debito nei confronti dell'Inps. La mossa consentirà anche di alleggerire i conti in rosso che ogni anno l'Italia presenta a Bruxelles. E dal 2019, grazie alla cancellazione dei debiti, il patrimonio dell'Inps tornerà in territorio positivo. Magie di Stato.
Pensioni a rischio: ecco cosa stanno combinando le casse di previdenza. Avevano promesso trasparenza. Invece i signori della gestione privata continuano a governare 80 miliardi di euro senza controlli. E le regole per evitare investimenti sbagliati sono ferme da tre anni, scrivono Luca Piana e Gloria Riva il 14 dicembre 2017 su "L'Espresso". Nei cassetti del ministero dell’Economia c’è un dossier definito da tempo, pronto per diventare operativo, ma bloccato da un letale scontro d’interessi. Riguarda le regole che dovrebbero impedire alle casse pensionistiche private di sprecare i quattrini versati dai lavoratori, bruciandoli in investimenti opachi o sconsiderati. Il regolamento era previsto da una legge del 2011, governo di Silvio Berlusconi, varata quando stavano emergendo le ingenti perdite accusate dalle casse di molti professionisti - medici, agenti di commercio, ingegneri, agricoltori e altri ancora - con la crisi finanziaria globale, e in particolare con il fallimento della regina dei titoli tossici, la banca americana Lehman Brothers. Dopo un lungo periodo di gestazione, le nuove norme erano state messe nero su bianco nell’autunno 2014, con Matteo Renzi al governo e Pier Carlo Padoan al ministero dell’Economia, ed erano state sottoposte con una consultazione pubblica all’esame delle parti. Da allora non si è mosso più nulla. Il regolamento non è stato approvato; nessun obbligo è stato imposto alle casse; nessun sistema di vigilanza sui loro investimenti è diventato effettivo. Il risultato è uno di quei paradossi tipici delle istituzioni italiane. I fondi pensione integrativi, quelli dove finisce ad esempio il Tfr di molti lavoratori, sono sottoposti a un rigido sistema di controlli, addirittura con un’autorità di vigilanza ad hoc, la Covip. Le casse previdenziali no, nonostante gestiscano il grosso della pensione futura di due milioni di persone, commercialisti e notai, infermieri e medici, ingegneri e geometri, e così via. Nel grafico il rendimento annuo del patrimonio immobiliare e degli altri investimenti delle principali casse previdenziali private italiane. Complessivamente gestiscono circa 80 miliardi di euro per conto di due milioni di lavoratori. I dati sono tratti dai bilanci 2016; non tutte le casse indicano il rendimento netto, mentre in alcuni casi non possiedono immobili. Nel regolamento per la trasparenza della gestione delle casse, predisposto dal governo nel 2014 e mai entrato in vigore, era previsto un limite del 30 per cento del patrimonio agli acquisti in mattoni. Non è comunque facile comprendere l’effettiva salute degli investimenti immobiliari: molte casse hanno comprato quote di fondi chiusi, il cui rendimento sarà calcolabile solo alla scadenza del fondo. I motivi per cui il regolamento è stato impallinato in dirittura d’arrivo sono molteplici. Ce n’è uno ufficiale: le casse previdenziali sono contrarie. Essendo istituzioni private, temono di veder compromessa «la loro autonomia nelle politiche d’investimento», come hanno avuto modo di dire durante la consultazione del 2014 e ripetuto in ogni altra occasione possibile. Anche lo Stato, però, ha valide ragioni. Le casse, anche se private, gestiscono denari che i contribuenti sono obbligati a versare. Il fatto che non vengano dilapidati è cruciale, perché gli stessi lavoratori che oggi pagano i contributi avranno diritto a ricevere in cambio la loro pensione dopo molti anni, se non decenni. In più, quando una cassa va a rotoli, il costo ricade sulla collettività, cioè lo Stato, com’è accaduto qualche anno fa con l’Inpdai dei dirigenti d’azienda, confluita nell’Inps. Oltre a queste ragioni di principio, ad alimentare lo scontro hanno contribuito anche altri fattori. Il governo, o meglio, i governi hanno le loro colpe, perché hanno dato l’impressione di ritardare l’adozione di regole più stringenti su trasparenza, conflitti d’interessi e qualità degli investimenti in cambio di un tornaconto politico. Da sempre gli 80 miliardi di euro depositati nelle casse fanno gola ed è forte la tentazione di metterci le mani sopra per poterli dirottare su scopi politicamente sensibili. L’ultimo esempio è uno degli innumerevoli tentativi che sono stati fatti per salvare le banche in crisi. L’anno scorso l’associazione delle casse, che si chiama Adepp ed è presieduta da Alberto Oliveti, aveva condotto una trattativa per convogliare 500 milioni di euro nel fondo Atlante II, che avrebbe dovuto contribuire al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. L’intervento era certamente ben visto dal governo Renzi, che faticava nel trovare una soluzione alla crisi dell’istituto toscano. Il piano di Oliveti non andò in porto, anche perché diverse casse decisero di non aderire, rispondendo picche alla chiamata della politica. Anche le casse, però, hanno delle responsabilità. Dietro alla resistenza contro il regolamento insabbiato c’è la determinazione dei vertici di alcune di loro a non fare trasparenza sul modo in cui sono gestiti gli investimenti, una questione delicata che nel tempo è stata oggetto di diverse indagini della magistratura. Questo lato oscuro è descritto dalla relazione che la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione guidata da Mario Padula, si è adoperata a scrivere, spulciando i bilanci delle casse previdenziali. Dice l’autorità che i documenti relativi agli investimenti e alle scelte fatte dalle casse sono caratterizzati da «scarsa chiarezza, incongruenze e duplicazione dei contenuti» e che alcune di loro «non hanno ancora adottato una propria disciplina» su come investire i quattrini. Ecco perché, al governo, l’impresa di varare il nuovo regolamento non viene abbandonata, pur con mille cautele: «Una norma di questo tipo ha senso se è condivisa dai soggetti coinvolti. Negli ultimi mesi si è fatto un buon lavoro per trovare l’intesa necessaria a tirar fuori il decreto dal cassetto», dice all’Espresso Pier Paolo Beretta, sottosegretario all’Economia, secondo il quale «il decreto ha senso solo se siamo d’accordo tra la conduzione privatistica e la vocazione pubblica delle casse». Che è uno dei temi più spinosi: il governo vorrebbe contabilizzare gli 80 miliardi di patrimonio delle casse nel bilancio pubblico; ma queste non ci stanno, perché se così fosse rischierebbero, tra l’altro, d’incorrere nella spending review. Baretta mostra fiducia sulla possibilità di un accordo in extremis, anche negli ultimissimi giorni di vita del governo in carica: «In questi giorni abbiamo avviato contatti con i rappresentanti delle casse e contiamo di concludere l’iter di approvazione della norma entro la fine della legislatura, anche a Camere sciolte». Ma quali sono, nella vicenda, i nervi scoperti delle casse? Gli aspetti degni di nota sono diversi. Con le nuove regole, avrebbero avuto maggiori vincoli nell’assegnazione dei mandati di gestione, che avrebbero dovuto essere affidati garantendo «trasparenza e competitività», limitando la discrezionalità di presidenti, consigli di amministrazione e direttori generali, ai quali ancora oggi non vengono richieste particolari competenze finanziarie. Se si scorre l’elenco dei gestori ai quali, oggi, gli enti si affidano, balza agli occhi il successo ottenuto da società di piccole dimensioni, a volte fondate in anni relativamente recenti. Nomi come Optimum Asset Management, Eos Investment Management, Valeur, dicono poco a milioni di lavoratori, ma gestiscono quote rilevanti dei loro risparmi previdenziali. E hanno, spesso, in comune la caratteristica di essere state costituite da soggetti italiani che, per operare, hanno scelto di aprire uffici in Lussemburgo, a Londra o in Svizzera. Non mancano, però, anche nomi della prima repubblica, tornati improvvisamente sulla cresta dell’onda, come mostra il caso di Giancarlo Elia Valori e della sua Centrale Finanziaria, che di recente ha acquistato la società di gestione Serenissima Sgr. Un altro argomento bollente è quello del mattone, uno degli investimenti più tradizionali. La legge disegnata nel 2011 rappresentava un vero e proprio terremoto per le abitudini delle casse pensionistiche. Prevedeva infatti un limite del 20 per cento agli investimenti diretti in immobili, sul totale del patrimonio. Uffici pubblici, palazzi di abitazioni, edifici di importanza storica sono da sempre uno dei simboli del potere delle casse, ma la loro gestione è stata spesso oggetto di critiche, se non di inchieste giudiziarie, a causa di compravendite poco redditizie. Rientrare sotto il 20 per cento avrebbe voluto dire far piazza pulita di gran parte di questi investimenti, magari lasciando emergere le perdite dovute ai prezzi di carico troppo elevati con cui molti edifici sono iscritti a bilancio. Le casse hanno subito chiesto tempi lunghi per rientrare nei limiti, e sono poi riuscite a ottenere un innalzamento del tetto al 30 per cento. Nel frattempo, anche se il regolamento non è entrato in vigore, hanno iniziato a cedere parte del patrimonio. Anche qui, però, la situazione è intricata. Lo fa intuire il caso dell’Inpgi: l’ente previdenziale dei giornalisti sta vivendo una fase difficile: ogni 100 euro che incassa in contributi, ne spende 127 in pensioni. Il bilancio 2016 è stato chiuso con un avanzo di 9,4 milioni grazie alla cessione di una parte del patrimonio immobiliare. Una vendita particolare, anche se di un genere diffusissimo tra gli enti: i palazzi sono stati ceduti al Fondo Amendola, le cui quote sono di proprietà dell’Inpgi stesso. Nel passaggio c’è stato un notevole effetto di bilancio: il valore degli immobili è passato da 221 a 303 milioni, permettendo alla cassa dei giornalisti di segnare a bilancio la plusvalenza che le ha permesso di non chiudere in rosso. Molti fondi immobiliari sono spesso del tipo “chiuso”, che non prevede la quotazione in Borsa e rende difficile capire come questo genere di investimenti stia effettivamente andando. Un esempio viene dalla Cassa Forense, quella degli avvocati. A fine 2013 ha iniziato a girare i propri immobili - valutati 722 milioni - al Fondo Cicerone, gestito da Fabrica Immobiliare sgr, che fa capo al gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone. Come sta andando l’attività del fondo? Non è dato saperlo. «Non essendo disponibile il rendiconto del fondo Cicerone a fine 2016 in via di approvazione da parte di Fabrica sgr non è possibile al momento fornire ulteriori dettagli contabili», spiega una nota del bilancio di Cassa Forense dello scorso anno. Anche in questo quadro, c’è chi non rinuncia però al mattone. Nel 2016 Ofer Arbib, il gestore del fondo Ippocrate della cassa dei medici Enpam, ha acquistato metà del Principal Place di Londra, che ospiterà i dipendenti di Amazon. Costo dell’operazione 245,7 milioni di sterline, un investimento che, alla vigilia della Brexit e della conseguente svalutazione della sterlina, potrebbe rivelarsi un affare poco lungimirante. Qualche mese dopo, Amazon ha annunciato la nuova sede di Milano: anche qui in un immobile di Ippocrate. L’Enpam, dunque, ha ancora fame di immobili. Non contenta dello sbarco a Londra, proprio nelle scorse settimane ha comprato la sede di Banca Carige a Milano, investendo altri 107 milioni. Per la banca ligure, alle prese con un difficile aumento di capitale, è stata certamente una bella boccata d’ossigeno. Per le pensioni future dei medici, chissà.
DALLA PARTE DEI CONSUMATORI E DEGLI OPERAI?
IL SINDACATO OGGI: LA NUOVA CASTA. ESISTE ANCORA IL SINDACATO, NEL SENSO CLASSICO DEL TERMINE, CHE DIFENDE GLI INTERESSI DEI LAVORATORI?
ITALIA - Provate a fare una ricerca in un qualsiasi motore di ricerca e digitate la parola “sindacato”, troverete subito la definizione data Wikipedia, la grande enciclopedia online: “I sindacati sono organismi che raccolgono i rappresentati delle categorie produttive.
Esistono così sindacati dei lavoratori e sindacati dei datori di lavoro. La storia dei sindacati è però soprattutto la storia dei lavoratori (operai, contadini, impiegati) che si riuniscono allo scopo di difendere gli interessi delle loro categorie.” Quando parliamo di sindacato difficilmente pensiamo al sindacato degli imprenditori, poiché l’associazione è nei confronti dei lavoratori, in effetti i sindacati sono nati per difendere i lavoratori e non le altre categorie, i tempi poi però hanno fatto il resto.
Tralascio volutamente la parte puramente storica di questi organismi ed i collegamenti più o meno diretti coi vari partiti e mi prefisso solamente un obiettivo, parlare del sindacato ai giorni nostri.
Esiste ancora il sindacato, nel senso classico del termine, che difende gli interessi dei lavoratori?
I sindacati e le loro società ed enti controllati, sono finanziati da una parte dallo Stato e dall’altra dalle varie attività da essi svolte per un totale di circa 556 milioni di euro. Nello specifico, le entrate arrivano dalle ritenute sulle pensioni, dalle quote sulle prestazioni di disoccupazione agricola, dal tesseramento dei lavoratori in attività, dal finanziamenti statali ai patronati e sui distacchi sindacali.
Non finisce qui, altri introiti arrivano dai “privilegi” concessi in esclusiva dallo Stato di cui possono godere i sindacati, con questi intendo la presentazione della dichiarazione dei redditi delle persone fisiche (730 e UNICO) e i redditometri sulle pensioni (RED). Gli importi sborsati dallo Stato per ogni pratica vanno dai 14 ai 29 euro, un’uscita di circa 85milioni di euro.
Se aggiungiamo poi che il cittadino che si rivolge al sindacato per la compilazione della dichiarazione paga una certa cifra, l’affare è ancor più grosso. Le cifre sopra esposte sono del 2003, possiamo solo immaginare come in 5 anni possano essersi gonfiate, ovviamente poi tutti questi soldi sono divisi soprattutto tra CGIL e CISL, i due maggiori sindacati, segue poi la UIL e una miriade di mini-sigle. Prima ho parlato di distacchi sindacali, ma cosa sono? Ebbene, quando un lavoratore decide di non lavorare più per un’azienda per prestare la sua opera in un’associazione privata qual e’ il sindacato, i contributi glieli paga lo Stato.
In generale comunque i privilegi sindacali non sono solo distacchi ma anche permessi e aspettative e, almeno nella Pubblica Amministrazione, il sindacato sembra avere una certa buona dose di libertà, tutti questi “privilegi” sono uno strumento che conferisce ai dirigenti sindacali la facoltà di svolgere la loro attività esonerandoli dell'obbligo della prestazione lavorativa. Sarà per questo che nel settore pubblico c’è un vero e proprio pullulare di sigle sindacali? Proseguiamo oltre ed arriviamo ai tesseramenti.
C’è una strana tendenza oggi giorni per quanto concerne le iscrizioni al sindacato, il 60% degli iscritti sono pensionati, molto strano davvero visto che in linea generale i sindacati sono per lo più associazioni nate per la difesa e la tutela dei diritti dei lavoratori.. con questo non voglio dire che i pensionati non debbano avere i loro rappresentati che li tutelino, tuttavia non c’è trucco e non c’è inganno ma solo un semi-inganno, la stragrande maggioranza di chi presenta la domanda di pensione lo fa attraverso i sindacati e questi li iscrivono automaticamente.
Difficile togliersi, un esempio molto personale, sono riuscita a far togliere la trattenuta dell’iscrizione sindacale degli artigiani dalla pensione di mia madre dopo sei anni e ben tre richieste di disdetta. Ovviamente, ma non ci sarebbe manco bisogno di dirlo, il rinnovo della tessere vive sul silenzio-assenso. Continuiamo nella nostra analisi, arriviamo ai beni immobili dei sindacati. Inizialmente questi beni erano di proprietà dello Stato e concessi solamente in godimento, nel corso degli anni ’70 però, come una sorta di risarcimento morale dal ventennio fascista, il governo decide di trasferirne la proprietà alla maggior parte delle associazioni sindacali (legge n. 902 del 18 novembre 1977).
Di questo provvedimento riescono però anche a godere le associazioni sindacali imprenditoriali quali Confindustria, Confartigianato, Coldiretti e Lega Coop (che per dovere di cronaca fattura tanto quanto la Sony), solo per citarne alcuni, ovviamente tali beni dovevano essere esenti dal pagamento di qualsiasi tassa o imposta.. non lamentiamoci poi se la Chiesta non paga l’Ici sui suoi immobili! I privilegi dei sindacati, se non riguardano proprio l’ente in se e per se, riguardano sicuramente i sindacalisti e le loro pensioni. La prima legge del 1974 di un certo Giovanni Mosca, ex socialista e soprattutto ex Cgil, ha fatto in modo che con una semplice dichiarazione del rappresentante nazionale del sindacato (o del partito, la Legge riguardava anche questi organismi), potessero venire riscattati, al costo dei soli contributi figurativi, decenni di attività a partire dagli anni ’50. Ancora una volta, e ancora ovviamente, a suon di proroghe, la Legge si protrae fino agli anni ’80 e questa piccola sanatoria compie il miracolo!
Come Gesù moltiplicò pane e pesci, qualche centinaia di casi si moltiplicarono e divennero 40mila! Ringraziano sentitamente Napolitano, Cossutta, Marini, D’Antoni, Ochetto e Del Turco solo per citarne alcuni famosi e in orbita sindacale, nonché coloro che hanno dichiarato di aver iniziato a lavorare a 5 anni (inchiesta della Magistratura). Saldo Inps per i sanati: 10 miliardi di euro, e perché si capisca meglio lo trasformo in lire, 19.362.700.000.000. Proseguendo, arriviamo al 1996, decreto n. 564 del 16 settembre, il Tiziano Treu, Ministro del Lavoro in forte odor di Cisl, prevede che per i sindacalisti in aspettativa e distaccati, oltre ai normali versamenti dei contributi a carico dell’Inps, vi sia un ulteriore versamento stavolta però da parte del sindacato, risultato: pensione doppia per 1800 sindacalisti, dei quali ben 1300 Cgil.
Da notare come per entrambe le leggi, nessun politico o sindacalista abbia sollevato una qualsiasi contestazione. Il sindacato però è anche un ottima base di lancio verso la carriera politica, non solo Marini e Bertinotti sono gli ex sindacalisti più in vista del momento, ricordiamo tra gli altri anche molti ex Ggil tra i quali il Ministro della Solidarietà Sociale Paolo Ferrero, Cesare Damiano titolare del Ministero del Lavoro, l'ex segretario nazionale Sergio Cofferati è l’attuale sindaco di Bologna, Ottaviano Del Turco il Governatore dell'Abruzzo, il vice Ministro per lo Sviluppo Economico è Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl).
La lista potrebbe proseguire ma siccome non ho intenzione di annoiarvi, passo direttamente a dirvi che oltre a questi nomi, ce ne sono almeno un’altra dozzina che ricoprono un ruolo non proprio indifferente nelle politica italiana. Sembra dunque che tra politica e sindacato ci sia davvero feeling, in particolare sembra che la politica sia il porto di attracco della nave dei sindacalisti.
Tuttavia ci sono anche ex sindacalisti che sono passati dalla parte del nemico, ossia si sono dati al mondo dell’impresa: Mauro More ex Cgil è al vertice delle Ferrovie, Natale Forlani attuale amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi, questi ultimi due entrambi ex Cisl.
A fronte di una fortissima crisi di legittimazione dei partiti tradizionali, c’è per contro una legittimazione politica da parte del sindacato che è riuscito a conquistarsi un importante ruolo nella vita politica italiana. Ultimo aspetto che voglio portare alla vostra attenzione è il sindacato come impresa. Avendo migliaia di dipendenti, il sindacato è un vero e proprio datore di lavoro, ma, udite udite, esso non è obbligato ad applicare lo statuto dei lavoratori con i propri dipendenti.
Cosa vuol dire? Che se un impiegato del sindacato non piace ad un sindacalista abbastanza influente anche solo a livello locale, può essere licenziato senza giusta causa, senza preavviso e senza eventuale reintegro. Questa è una legge parlamentare del 1990. Aziende e pubbliche amministrazioni per essere trasparenti, dovrebbero avere l’obbligo di presentare i bilanci, tuttavia i bilanci dei sindacati non sono affatto trasparenti, e per come sono le cose ora, essi non possono essere messi sotto controllo. Avete mai sentito parlare di bilanci consolidati dei sindacati? Nel 1998 un deputato ci provò a far firmare un provvedimento che obbligasse i sindacati a far luce sui loro conti, ma questo voleva dire, oltre ad portare alla luce i veri introiti, anche censire un patrimonio immobiliare che ancora nessuno sa con precisione a quanto ammonti realmente.
Ma un po’ di malizia ce la possiamo anche mettere e se facciamo uno più uno, si può anche pensare che il sindacato paga alcuni dei propri lavoratori o collaboratori, in nero, del resto se nessuno controlla, o meglio, se nessuno può controllare, ogni ipotesi potrebbe anche non essere poi così assurda. Riassunto: entrate altissime, attività monopolistiche, privilegi e belle pensioni, patrimonio immobiliare immenso (e non conosciuto), nessun obbligo di bilanci trasparenti e di adesione allo statuto dei lavoratori, trampolino di lancio per la politica, questi sono diventati oggi i difensori dei lavoratori italiani. A che punto siamo dunque arrivati? Ritengo doveroso sottolineare come certe questioni riguardino solamente i sindacalisti di un certo livello, poiché il classico rappresentante sindacale di fabbrica forse è l’unico che davvero fa il sindacalista.
In nove anni di lavoro in un sindacato ne ho viste tante di cose, soprattutto, di tutti i sindacalisti, solamente uno ho visto fare questo lavoro con vera e propria passione, perché ci crede davvero e tiene a cuore i diritti dei lavoratori. Questo organismo è una vera e propria azienda e non c’è nessun privilegio per chi ci lavora come normalissimo dipendente, anzi! Nel novero delle caste, oltre a quella dei politici per eccellenza, possiamo ormai annoverare anche questa dei sindacalisti. Esultate metalmeccanici che come me questo mese avete avuto più di 100 euro in busta paga grazie alla mediazione dei sindacati. Ringraziate nuova la casta che continuate a pagare voi (e me) senza saperlo con lo 0,226 % dell’ammontare complessivo dei contributi sociali riscossi dagli istituti previdenziali. Ringraziate la nuova casta che dovrebbe fare i nostri interessi e che nemmeno sa quant’è ricca.
Ringraziate la nuova casta che ingrandisce il buco che noi lavoratori, piccole e microscopiche imprese dobbiamo riempire con le nostre tasse, con gli aumenti della benzina, il rincaro dei mutui e del grano. La nuova casta vive di gloria di 30 anni fa’, eppure gli anni ’70 sono passati da un bel po’, come pure lo spirito per il quale sono nati.
COSTANO QUASI 2 MILIARDI DI EURO ALL'ANNO.
Al posto di tutelare i lavoratori pensano ai soldi: privilegi, carriere, misfatti e fatturati da multinazionale. La denuncia di Stefano Liviadotti nel suo libro "L'altra casta"
Casta dopo casta si è arrivati alla fine a parlare di quella dei sindacati. Le granitiche confederazioni dei lavoratori Cgil, Cisl e Uil hanno fatturati da multinazionali, sono l'ottavo gruppo industriale per numero di lavoratori e costano al sistema-Paese un miliardo e 854 milioni di euro all'anno. A denunciarlo è Stefano Livadiotti nel suo libro "L'altra casta" edito da Bompiani nella collana Grandi Passaggi.
I privilegi del potere sono molto diffusi, praticamente ogni giorno spunta fuori una casta diversa, di recente quella dei membri della Corte costituzionale, o quella dei bidelli. Ma in che Paese viviamo?
Ci sono differenze rispetto alla casta politica. Nel mondo sindacale non si può parlare di arricchimento personale come per la politica. Parliamo di casta perché in Italia fare sindacato diventa una professione e questa è un'anomalia tutta italiana. In Italia quando inizi a fare il sindacalista lo fai per tutta la vita. "I delegati sono incentivati a rimanere nel ruolo" dice la Cgil. Il 35% lo fa da più di 8 anni ed è disponibile a farsi rivotare. Ecco perché nel sindacato non ci sono i giovani. Nel sindacato c'è un eccesso di burocratizzazione: i 3 sindacati hanno 20mila dipendenti a tempo indeterminato, come se fossero l'8° gruppo industriale. Poi c'è l'esercito dei delegati sindacali (700mila, sei volte più dei carabinieri che sono 110mila). I permessi sindacali dei delegati equivalgono a 1 milione di giornate lavorative al mese che costa al Paese un miliardo e 854milioni di euro all'anno. Per quello alla fine viene fuori il termine casta: e per dimensioni e per il fatto che a differenza dei politici non vengono votati, ma è un sistema basato sulla cooptazione.
Per fare nomi e cognomi chi sono i sindacalisti che hanno anteposto la propria carriera agli interessi dei lavoratori?
Nella passata legislatura la seconda e la terza carica dello Stato erano ricoperte da sindacalisti. Se hai la pazienza di leggerti tutte le biografie di deputati e senatori, avrebbero costituito il terzo gruppo alla Camera e il terzo al Senato. Se ci metti quanti erano i sottosegretari, i viceministri… A un certo punto c'è una stima di Cassese degli Anni '80 di 80-100mila posti occupati da sindacalisti nel 50% degli organi collegiali amministrativi.
Nel tuo libro "L'altra casta" si parla dei fatturati da multinazionale che hanno i sindacati? Ma se ci sono sempre meno iscritti, come fanno a fare così tanti soldi?
Innanzitutto perché trovano nuovi terreni di raccolta del denaro. Uno dei paragrafi è quello del 5 per mille: hanno creato una serie di Onlus e raccolgono denaro così. C'è il nuovo business degli immigrati, ci sono i Caf e i Patronati che gli fanno guadagnare dei bei soldi. E non è vero, come dicono che i Caf hanno guadagno zero. E infatti c'è la fila per accaparrarsi i contributi che lo Stato versa ai Caf. Il problema è la mancanza di trasparenza, non tanto le somme. Il sindacato non vuole che gli venga imposto di presentare un bilancio consolidato. Le proposte di legge sul tema sono rimaste tali. Non ci sono dei bilanci. L'articolo da cui nasce il libro che si intitolava "L'altra casta" diceva che la sola Cgil ha un bilancio stimato da 1 milione di euro. E forse è una stima al ribasso se l'Ugl (me lo diceva Renata Polverini che ho intervistato di recente) si attribuisce un giro di affari da 100 milioni di euro. Facendo le dovute proporzioni…
Nel tuo libro dici che grazie alla legge 30 l'occupazione è cresciuta del 13% negli ultimi 10 anni. Quella di Epifani sul precariato è davvero soltanto una crociata alla Beppe Grillo come scrivi?
Ti segnalo che è uscita un'intervista interessante sul Corriere del 9 maggio a Gennaro Delli Santi, numero 1 di Assolavoro, che dice che in media tra i lavoratori interinali 2 su 5 trovano un posto fisso. È meglio un lavoro precario o stare ai giardinetti? I dati dicono che da quando è stata introdotta prima la legge Treu e poi la legge Biagi, c'è stato un aumento dello 0,4% dall'86 al '90. Dal '90 al '95 la variazione annua è stata negativa, -1,1%. Tra il '97 e il 2006 in 10 anni secondo i dati Istat l'occupazione è cresciuta del 12,97% sono nati 2 milioni e 660mila posti di lavoro. La disoccupazione è calata di 479 unità tra le donne e di 431mila tra gli uomini. L'occupazione quindi è cresciuta. Dal libro, pagina 61, per una volta l'Italia ha fatto meglio dei partner continentali. Sono dati. Anche Pietro Ichino ha sfidato Grillo a un incontro pubblico perché i suoi esempi sul precariato non rientrano nella legge Biagi. Ma Grillo si è rifiutato.
Uno dei capitoli del tuo libro si intitola "Il fantastico mondo del pubblico impiego", vera roccaforte dei sindacati. Ci spieghi perché?
Un'anomalia importante, tutta italiana, dei sindacati è che la metà degli iscritti sono pensionati. La seconda anomalia è che una percentuale molto alta degli iscritti attivi è nel pubblico impiego. Alla Cgil il 14,9% degli iscritti è pubblico impiego, alla Cisl il 26,6% e alla Uil il 28%. Il mondo del pubblico impiego è fantastico perché il casino è tale che i dati della Corte dei conti non concordano neanche su quanti sono i pubblici impiegati: alla fine si prende per buono il dato di 3,6 milioni. Ci sono 62 travet ogni 1000 abitanti, in Germania ne bastano 39. Per farti un esempio, in Italia ci sono 1,5 milioni di agricoltori diretti, i travet che si occupano di agricoltura sono 1 milione e 200mila, praticamente uno ogni contadino. C'è un sondaggio che dice che il 70% sono troppi e sono troppe anche le famiglie che hanno un lavoratore pubblico al loro interno.
Poi c'è il problema dell'assenteismo e dei fannulloni…
Al catasto hanno un tasso di assenteismo 4 volte superiore a quello dei minatori. Questo tasso secondo i calcoli di Confindustria costa al Paese 14 miliardi e 120 milioni all'anno. Il discorso era che in Italia il pubblico impiego era una sorta di ammortizzatore sociale. Lo Stato diceva, ti assumo però ti pago poco. Non è più neanche vero però che sono pagati poco: negli ultimi anni le retribuzioni medie degli impiegati statali sono cresciute del 5% l'anno, più o meno il doppio dell'inflazione. A parità di qualifica un pubblico dipendente guadagna il 37% in più di un lavoratore privato.
Questo capitolo ha come epigrafe una frase di Sabino Cassese: "Chi vuole lavora, chi no, se ne astiene". Cioè?
È sotto gli occhi di tutti. Ogni giorno ne esce una nuova. Qualche mese fa Prodi parlando di assenteismo si è indignato. In una riunione ufficiale gli hanno detto che contro l'assenteismo si potrebbe istituire un premio di presenza. Allora Prodi ha sbottato e ha detto: e allora lo stipendio cos'è? Il fatto è che il premio di presenza esiste davvero.
Poste, Ferrovie, Alitalia, scuola pubblica. Se le cose vanno male è colpa dei sindacati?
Non è nello stesso modo in tutti quanti i posti. Ma nel caso di Alitalia i sindacati da sempre hanno un fortissimo peso sulla gestione. Se tu ti guardi queste cose che fanno infuriare i piloti (i privilegi come la giornata da 33 ore, ndr), sono tutte cose che hanno un peso sul bilancio. Quest'azienda che ha bruciato 15 miliardi di euro in 15 anni (270 euro di tassa per ogni cittadino italiano compresi i neonati), nel 2007 ha perso 364 milioni in 365 giorni. I sindacati sono riusciti a fare scappare prima Lufthansa e poi il più grande gruppo del mondo Air France-Klm. Si è anche parlato di una trattativa con la russa Aeroflot che ha scritto a Prodi nero su bianco che i sindacati italiani sono peggio di quelli dell'ex Unione Sovietica.
L 'ALTRA CASTA di Stefano Livadiotti
Fatturati miliardari. Bilanci segreti. Uno sterminato patrimonio immobiliare. E organici colossali, con migliaia di dipendenti pagati dallo Stato. I sindacati italiani sono una macchina di potere e di denaro.
Non trattiamo con la calcolatrice... Così, nei giorni scorsi, il grande capo della Cgil Guglielmo Epifani ha replicato a brutto muso alle pretese rigoriste di Tommaso Padoa-Schioppa sulla riforma delle pensioni. Il numero uno di corso d'Italia non è l'unico ad essere allergico ai moderni derivati del pallottoliere. Della stessa idiosincrasia fanno mostra i suoi pari grado di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti, almeno quando si tratta di affrontare l'annosa questione dei conti dei sindacati, che continuano a promettere bilanci consolidati, tranne poi guardarsi bene dal metterli nero su bianco. Forse perché i numeri racconterebbero come le organizzazioni dei lavoratori, difendendo con le unghie e con i denti una serie di privilegi più o meno antichi, si siano trasformate in autentiche macchine da soldi. Con il benestare di un sistema politico giunto ai minimi della popolarità e spaventato dalla loro capacità di mobilitazione. Che a sua volta dipende proprio, in grandissima parte, da un formidabile potere economico alimentato a spese della collettività: se c'è un problema di costi della politica, allora il discorso vale anche per il sindacato. Se non di più.
Quasi dieci anni fa, alla fine del 1998, un ingenuo deputato di Forza Italia, ex magistrato del lavoro, convinse 160 colleghi a firmare tutti insieme appassionatamente un provvedimento che obbligava i sindacati a fare chiarezza sui loro conti. Dev'essere che nessuno gli aveva ricordato come solo pochi anni prima, nel 1990, Cgil, Cisl e Uil fossero state capaci di ottenere dal parlamento una legge che concede loro addirittura la possibilità di licenziare i propri dipendenti senza rischiarne poi il reintegro, con buona pace dello Statuto dei lavoratori. Fatto sta che, puntuale, la controffensiva di Cgil, Cisl e Uil scattò dopo l'approvazione del primo articolo con soli quattro voti di scarto. "È antisindacale", tuonò con involontario umorismo l'ex capo cislino Sergio D'Antoni, oggi vice ministro per lo Sviluppo economico. Lesti i deputati del centro-sinistra azzopparono la legge, mettendosi di traverso alle sanzioni (tra i 50 e i 100 milioni) previste in caso di violazioni. Alla fine la proposta di legge è rimasta tale, così come tutte quelle presentate in seguito, anche in questa legislatura. "È il sindacato che detta tempi e modalità", titolava del resto nei giorni scorsi il confindustriale 'Sole 24 Ore', all'indomani dell'accordo sullo scalone pensionistico.
Il risultato è che i bilanci dei sindacati, quelli veri, non sono mai usciti dai cassetti dei loro segretari. "Il giro d'affari di Cgil, Cisl e Uil ammonta a 3 mila e 500 miliardi di vecchie lire", sparò nell'ottobre del 2002 il radicale Daniele Capezzone, "e il nostro è un calcolo al ribasso". Non ci deve essere andato molto lontano, se è vero che oggi Lodovico Sgritta, amministratore della Cgil, si limita a non confermare che il fatturato consolidato di corso d'Italia abbia raggiunto il tetto del miliardo di euro. E ancora: se è vero che quello del sistema Uil, non paragonabile per dimensioni, metteva insieme 116 milioni già nel 2004, esclusi Caf, patronati e quant'altro. Fare i conti in tasca alle organizzazioni sindacali, che hanno ormai raggiunto un organico-monstre dell'ordine dei 20 mila dipendenti, è difficile, anche perchè le loro fonti di guadagno sono le più disparate. Ma ecco quali sono i principali meccanismi di finanziamento. E le cifre in ballo.
Il sostituto d'incasso
La maggiore risorsa economica di Cgil, Cisl e Uil ("I tre porcellini", come ama chiamarli in privato il vice premier Massimo D'Alema) sono le quote pagate ogni anno dagli iscritti: in media l'1 per cento della paga-base; di meno per i pensionati, che danno un contributo intorno ai 30-40 euro all'anno. Un esperto della materia come Giuliano Cazzola, già sindacalista di lungo corso della Cgil ed ex presidente dei sindaci dell'Inps, parla di almeno un miliardo l'anno. Secondo quanto risulta a 'L'espresso', il solo sistema Cgil ha incassato nel 2006 qualcosa come 331 milioni. Una bella cifra, per la quale il sindacato non deve fare neanche la fatica dell'esattore: se ne incaricano altri; gratuitamente s'intende. Nel caso dei lavoratori in attività, a versargli i soldi ci pensano infatti le aziende, che li trattengono dalle buste paga dei dipendenti. Per i pensionati provvedono invece gli enti di previdenza: solo l'Inps nel 2006 ha girato 110 milioni alla Cgil, 70 alla Cisl e 18 alla Uil. Nel 1995 Marco Pannella tentò di rompere le uova nel paniere al sindacato, promuovendo un referendum che aboliva la trattenuta automatica dalla busta paga (introdotta nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori). Gli italiani votarono a favore. Ma il meccanismo è tuttora vivo e vegeto: salvato, in base a un accordo tra le parti, nei contratti collettivi. Le aziende, che pure subiscono dei costi, non sono volute arrivare allo scontro. E lo stesso ha fatto il governo di Romano Prodi quando, più di recente, Forza Italia ha presentato un emendamento al decreto Bersani che avrebbe messo in crisi le casse sindacali. In pratica, la delega con cui il pensionato autorizza l'ente previdenziale a effettuare la trattenuta sulla pensione, che oggi è di fatto a vita, avrebbe avuto bisogno di un periodico rinnovo. Apriti cielo: capi e capetti di Cgil, Cisl e Uil hanno fatto la faccia feroce. Il governo, a scanso di guai, ha dato parere contrario. E l'emendamento è colato a picco.
Lo strapotere dei Caf
I Centri di assistenza fiscale rappresentano per i sindacati un formidabile business. Per le dichiarazioni dei redditi dei pensionati vengono pagati dagli enti previdenziali. Solo l'Inps per il 2006 verserà ai 74 caf convenzionati 120 milioni. A fare la parte del leone saranno le strutture di Cgil, Cisl e Uil, che insieme totalizzeranno circa 90 milioni. Non basta. Per i lavoratori in attività i Caf incasseranno dal Fisco 15,7 euro per ognuna delle 12.261.701 dichiarazioni inviate agli uffici nel 2006. Il ministero sborserà dunque 186 milioni e spicci. Anche in questo caso, secondo i conti che 'L'espresso' ha potuto esaminare, la fetta più grande della torta andrà a Cgil (38 milioni, 195 e 177 euro), Cisl (30 milioni, 763 mila e 485) e Uil (12 milioni, 78 mila e 793 euro). Un piatto ricco, considerando che i Caf ricevono inoltre, come contribuzione volontaria, una media di 25 euro dalle tasche dei contribuenti aiutati nella compilazione del 730 (per un totale di 175 milioni, secondo Cazzola) e mettono insieme un'altra cinquantina di milioni per il calcolo di Ise e Isee (i redditometri per le famiglie che chiedono prestazioni sociali). Considerando le cifre in ballo, i sindacati hanno fatto fuoco e fiamme pur di tenersi ben stretto il giocattolo. Nel 2005, sotto l'incalzare della Corte di Giustizia europea, convinta che il monopolio dei Caf rappresentasse una violazione ai trattati comunitari, il governo di Silvio Berlusconi aveva aperto la porta a commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro. Una manovra talmente timida che la Commissione europea ha inviato all'Italia una seconda lettera di messa in mora. Sull'argomento gli uomini di Bruxelles hanno preteso e ottenuto, ancora nel gennaio scorso, un vertice a palazzo Chigi. Concluso, naturalmente, con un niente di fatto.
Intoccabili patronati
Se il monopolio dei Caf è sotto assedio, resiste saldo quello dei patronati, le strutture (quelle convenzionate con l'Inps sono 25) che assistono i cittadini nelle pratiche previdenziali (ma anche, per esempio, per la cassa integrazione e i sussidi di disoccupazione): una rete capillare, dall'Africa al Nordamerica passando per l'Australia, che alcuni sospettano abbia un ruolo non indifferente anche nell'indirizzare il voto degli italiani all'estero. Nel 2000 i radicali hanno lanciato l'ennesimo referendum abrogativo, ma si sono visti chiudere la porta in faccia dalla Consulta. Più di recente Forza Italia ha cercato, con un emendamento al decreto Bersani, di liberalizzare il settore. Se l'armata berlusconiana non fosse stata respinta con perdite, per il sindacato sarebbe stato un colpo mortale. I patronati, infatti, sono fondamentali per il reclutamento di nuovi iscritti tra i pensionati, che quando vanno a ritirare i moduli si vedono sottoporre la delega per le trattenute: "Con i patronati e gli altri servizi nel 2005 la Cgil ha raggranellato 450 mila nuove iscrizioni", sostiene Cazzola. Non bastasse, i patronati assicurano un gettito che non è proprio da buttare via: in pratica si dividono (in base al lavoro svolto) lo 0,226 del totale dei contributi sociali riscossi dagli enti previdenziali. A lungo questa cifra è stata calcolata solo sui contributi dei pensionati privati, per l'ottimo motivo che a quelli pubblici le scartoffie per l'assegno le ha sempre curate l'amministrazione (e proprio per questo motivo pochi di loro sono iscritti al sindacato). Poi, però, nel 2000, per gentile concessione del parlamento (con un voto a larghissima maggioranza) nel monte-contributi sono stati fatti confluire anche quelli dei lavoratori statali. E la cifra ha iniziato a lievitare: 314 milioni nel 2004, 341 nel 2005, 349 nel 2006. Solo l'Inps nel 2006 ha speso per i patronati (che ora, per arrotondare, si occupano anche del rinnovo dei permessi per gli immigrati) 248 milioni, 914 mila e 211 euro. Alla fine, secondo quanto risulta a 'L'espresso', l'Inca-Cgil ha incassato 82 milioni e 250 mila euro, l'Inas-Cisl 66 milioni e 150 mila euro e l'Ital-Uil 26 milioni e 600 mila euro.
Forza lavoro gratuita
È quella distaccata presso il sindacato dalla pubblica amministrazione, che continua graziosamente a pagarle lo stipendio. Compresi, e vai a capire perché, i premi di produttività e i buoni pasto. Oggi i dipendenti statali dati in omaggio al sindacato sono 3.077 e costano al contribuente (Irap e oneri sociali compresi) 116 milioni di euro. Ai quali vanno sommati 9,2 milioni per 420 mila ore di permessi retribuiti. Di regalo in regalo, per i dipendenti che utilizza in aspettativa, ai quali deve invece pagare lo stipendio, il sindacato usufruisce comunque di uno sconto: non paga i contributi sociali, che sono considerati figurativi e quindi a carico dell'intera collettività. Un privilegio che hanno perduto perfino le assemblee elettive (a partire dal parlamento). Ma i sindacati no.
Business formazione
Dall'Europa piove ogni anno sull'Italia circa un miliardo e mezzo di euro per il finanziamento della formazione professionale. In più ci sono i circa 700 milioni dell'ex fondo di rotazione, alimentato dallo 0,30 per cento del monte-contributi che le aziende versano agli enti previdenziali. Un tempo, non meno del 40-50 per cento di queste somme passava attraverso enti di emanazione sindacale, che non incassavano direttamente un euro ma gestivano comunque le assunzioni e la distribuzione degli incarichi. Oggi la concorrenza s'è fatta più dura. Ma i sindacati non mollano l'osso. Dieci dei 14 enti che si distribuiscono ogni anno circa la metà dei finanziamenti nazionali sono partecipati da Cgil, Cisl e Uil.
Casa mia, casa mia
L'assenza di bilanci consolidati non consente di far luce sull'immenso patrimonio immobiliare accumulato negli anni dai tre sindacati confederali, cui lo Stato a un certo punto ha pure regalato i beni delle corporazioni dell'epoca fascista. Fino a pochi anni fa i sindacati non potevano possedere direttamente gli immobili: li intestavano a società controllate. La legge che ha consentito loro il controllo diretto ha garantito anche un passaggio di proprietà al riparo dalle pretese del fisco. Oggi la Cgil dichiara di avere, sparse per tutto il Paese, qualcosa come 3 mila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. "Non so stimare il valore di mercato di un patrimonio che non conosco ma", afferma l'amministratore della Cgil, "deve trattarsi di una cifra davvero impressionante". La Cisl dichiara addirittura 5 mila sedi, tra confederazione, federazioni nazionali e diramazioni territoriali (pensionati compresi), quasi tutte di proprietà. La Uil è l'unica che ha concentrato il grosso degli investimenti sul mattone in una società per azioni controllata al 100 per cento. Si chiama Labour Uil e ha in bilancio immobili per 35 milioni e 75 mila euro (a valore storico; quello di mercato è tre volte superiore), ma non, per esempio, la sede romana di via Lucullo, che lo stesso tesoriere nazionale Rocco Carannante stima tra i 70 e gli 80 milioni di euro.
Il fatto certo, alla fine, è che Cgil, Cisl e Uil sono ricchi. Quanto, però, nessuno lo sa davvero. "Ci sono situazioni che talvolta non sono pienamente trasparenti", ha scolpito Epifani lo scorso 27 febbraio. E però si riferiva allo scandalo del calcio.
SINDACALISTI POTENTI. Il più potente sindacalista italiano, il capo della Cgil Guglielmo Epifani, guadagna 3.500 euro netti al mese. I 12 segretari confederali, la prima linea di corso d'Italia, circa 2.400 euro. La Cisl e la Uil pagano poco di meno i loro numeri uno (3.430 euro per Raffaele Bonanni e 3.300 per Luigi Angeletti), ma sono più generose con i dieci segretari confederali (2.850 quelli di via Po, 2.900 quelli di via Lucullo).
La mancanza di un bilancio consolidato non consente di fare chiarezza sugli stipendi dei circa 20 mila sindacalisti a tempo pieno delle tre grandi confederazioni. Della Cgil si sa solo che ne conta 14 mila (per il 40 per cento dirigenti, qualifica che scatta a partire dal grado di funzionario) e che il costo del lavoro è pari a circa il 40 per cento del fatturato. Ma un calcolo si può azzardare sull'organico del quartier generale. Dove i dipendenti sono 178 e il costo del lavoro è pari a 9 milioni e 109 mila euro: la media fa 51 mila euro.
Quanto ai benefit, in corso d'Italia ce ne sono pochi: se si escludono i segretari confederali, gli altri dipendenti dotati di cellulare hanno un tetto di spesa di 750 euro l'anno. Più fortunati, sotto questo aspetto, i 180 dipendenti della sede nazionale romana della Cisl (nella confederazione di Bonanni il costo del lavoro è un po' più del 30 per cento del giro d'affari), che dispongono di uno sconto sui trasporti pubblici e stanno per ottenere un asilo nido.
Dove i sindacalisti godono di più che un privilegio è in un sistema di welfare molto particolare. Come quello garantito dagli enti previdenziali, da sempre riserva di caccia quasi esclusiva per ex dirigenti di Cgil, Cisl e Uil in pensione. Solo all'Inps sono a disposizione 6 mila e 222 tra poltrone e strapuntini.
SINDACATO E CARRIERA POLITICA. La Cisl ha conquistato la seconda carica dello Stato con Franco Marini alla presidenza del Senato. La Cgil s'è accaparrata la terza con Fausto Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio. In Italia il sindacato è un buon trampolino di lancio. Lo conferma la pattuglia di ex sindacalisti che ha trovato posto nel governo di Romano Prodi e che ha la sua roccaforte nel ministero del Lavoro: il titolare Cesare Damiano viene dalla Cgil, così come il sottosegretario Rosa Rinaldi, mentre l'altro sottosegretario Antonio Montagnino ha un passato nella Cisl. A completare la squadra governativa ci sono poi il ministro della solidarietà sociale Paolo Ferrero (ex delegato Fiom-Cgil) e il suo sottosegretario Franca Donaggio (ex Cgil Trasporti); il vice ministro per lo Sviluppo Economico Sergio D'Antoni (ex numero uno della Cisl); il vice ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli (già alla Cgil Scuola); il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che viene dalla Cgil come il suo collega all'Economia Alfiero Grandi. Nutrita anche la rappresentanza parlamentare: la sola Cgil può schierare sei tra deputati e senatori: Titti Di Salvo, Teresa Bellanova, Pietro Marcenaro, Andrea Ranieri, Gianni Pagliarini e Maurizio Zipponi. Anche negli enti locali il primato è della confederazione di corso d'Italia: l'ex numero uno Sergio Cofferati ha conquistato il municipio di Bologna e Gaetano Sateriale (ex chimici e poi metalmeccanici) quello di Ferrara, mentre l'ex segretario aggiunto Ottaviano Del Turco è governatore dell'Abruzzo.
Se la politica è lo sbocco naturale, non mancano gli ex sindacalisti che si sono riciclati nel mondo dell'impresa. A partire da Mauro Moretti, ex Cgil, salito al vertice delle Ferrovie; Fulvio Vento, ex Cgil Lazio, diventato presidente dell'Atac; Natale Forlani, ex Cisl, planato sulla poltrona di amministratore delegato di Italialavoro; Raffaele Morese, anche lui ex Cisl, già deputato e sottosegretario al Lavoro, nominato al vertice di Confservizi, la confederazione tra le aziende che gestiscono i servizi pubblici locali.
Stipendi sindacalisti: quanto guadagnano Susanna Camusso e gli altri leader? Le buste paga dei segretari nazionali dei maggiori sindacati italiani, scrive Francesco Minardi il 2 Febbraio 2017 su "NANOPRESS". A quanto ammontano gli stipendi dei sindacalisti italiani? Quanto guadagnano i leader dei maggiori sindacati? La Cgil ha rivelato lo stipendio di Susanna Camusso. La Cisl, dopo lo scandalo sul reddito percepito dall’ex segretario nazionale Raffaele Bonanni, ha pubblicato le buste paga sul proprio sito. Così come la Fiom di Fabrizio Landini. Mistero, invece, attorno alla Uil delle presunte crociere a spese del sindacato.
CGIL: QUANTO GUADAGNA SUSANNA CAMUSSO? Nell’autunno 2015 la Cgil ha dato il via all’operazione trasparenza, svelando lo stipendio del segretario generale. Susanna Camusso, come ha rivelato il segretario confederale dell’organizzazione Nino Baseotto, guadagna 3.850 euro netti al mese. I segretari nazionali, invece, prendono poco meno di 2.800 euro. «Il regolamento del personale e i livelli stipendiali previsti sono disponibili sul nostro sito web: non ci si stupisca se risalgono al 2008. Non è un errore – ha spiegato Baseotto – La segreteria e il direttivo della Cgil hanno deciso di non procedere ad adeguamenti salariali, da allora ad oggi, per rispetto alle migliaia di lavoratrici e lavoratori colpiti duramente dalla crisi». La segretaria del più influente sindacato italianoguadagna quindi il triplo di un operaio e quattro volte un precario.
FIOM: QUANTO GUADAGNA MAURIZIO LANDINI? Qual è la situazione alla Fiom, la Federazione Impiegati Operai Metallurgici che fa capo alla Cgil? Lo stipendio di Maurizio Landini, battagliero segretario nazionale, ammonta a 2.250 euro netti al mesi. Gli stipendi sono pubblicati sul sito. Il doppio, più o meno, del metalmeccanico che difende.
GLI STIPENDI DELLA CISL. Passiamo alla Cisl, la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori di ispirazione cristiana. Il segretario generale Anna Maria Furlan, secondo la busta paga di febbraio 2016, guadagna 3.964 euro al mese. Poco meno degli altri segretari confederali. Insomma, un sindacalista Cisl guadagna circa 4mila euro al mese. Gli stipendi sono stati pubblicati sul sito della Cisl, dopo la bufera che ha travolto Raffaele Bonanni. L’ex segretario generale, dal 2006 al 2011, è arrivato a percepire un reddito lordo annuale di 336mila euro. Come i grandi manager. Per non parlare della pensione d’oro. Lui si difese: «Voglio precisare che la mia pensione netta ammonta a 5.122 euro mensili, dopo 47 anni di regolari contributi e frutto del calcolo sugli ultimi dieci anni di versamenti. Questa è l’unica cifra vera. Tutto il resto sono illazioni farneticanti».
STIPENDI SINDACALISTI UIL. E alla Uil? Mistero. Carmelo Barbagallo, segretario generale dell’Unione Italiana del Lavoro, affermò piccato: «Il mio compenso lo rileverò ai nostri iscritti e all’organizzazione. Guadagno molto meno di chi mi interroga». Ha però fatto sapere di percepire una pensione di 2.797 euro con 47 anni di contributi. Ricordiamo che Barbagallo, insieme al predecessore Luigi Angeletti e altri dirigenti, è indagato per appropriazione indebita: secondo l’accusa avrebbero usato soldi del sindacato per viaggi in crociera e acquisti personali.
LA CASTA DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI
Associazioni dei consumatori, una mappa per orientarsi nella jungla dell’offerta. Quelle nazionali sono vincolate al rispetto dei requisiti fissati dal codice del Consumo e possono partecipare a bandi per i fondi pubblici, dove "non c'è competizione". Attenzione ai procacciatori d'affari, alla qualità e al costo dei servizi e alla trasparenza dei conti, scrive Luigi Franco il 16 giugno 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Le associazioni dei consumatori proliferano, non c’è che dire. Altroconsumo, Federconsumatori, Assoutenti, Adoc, Lega consumatori, solo per citare quelle con più iscritti a livello nazionale. Ma a queste se ne aggiungono decine e decine attive a livello locale. Così scegliere quella a cui affidarsi diventa un grattacapo. Tanto più che si può finire in cattive mani. Come è successo quattro anni fa a una coppia di Udine che, dopo essersi rivolta al Movimento difesa del cittadino del Friuli Venezia Giulia per opporsi a un pignoramento, è stata messa in contatto con l’allora responsabile del dipartimento Fisco e finanza dell’associazione e con una sedicente avvocatessa cancellata dall’albo, entrambe finite alla sbarra per truffa. La coppia infatti è stata convinta a fare causa alla banca e a pagare un anticipo da oltre 4mila euro sulla parcella. Con un finale a sorpresa: finta avvocatessa irreperibile e causa finita male, nonostante le possibilità di successo fossero state spacciate per concrete. Il processo, iniziato ad aprile, stabilirà se si è trattato di raggiro. Ma il paradosso è chiaro: il consumatore si è ritrovato a doversi difendere proprio da chi avrebbe dovuto tutelarlo. Come fare a evitarlo? Ecco le cose da sapere per scegliere meglio la propria associazione. Fondi pubblici alle associazioni iscritte a elenco nazionale e registri regionali – Il grande mondo delle associazioni dei consumatori può essere diviso in tre livelli. Quelle più importanti sono iscritte all’elenco del ministero dello Sviluppo economico e fanno parte del Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (Cncu), un organismo presieduto dello stesso ministero. Per ottenere tale riconoscimento le associazioni devono soddisfare i requisiti previsti dal Codice del consumo (decreto legislativo 206 del 2005): tra le altre cose, devono essere attive da almeno tre anni, avere un numero di iscritti superiore al 5 per mille della popolazione nazionale, essere presenti in almeno cinque regioni e avere uno statuto che preveda una certa democraticità interna. Il riconoscimento pubblico a livello nazionale dà alcuni vantaggi, come la possibilità di rappresentare gli iscritti nelle conciliazioni paritetiche, una modalità stragiudiziale di risoluzione delle controversie, e la possibilità di partecipare ai bandi per i progetti a favore dei consumatori finanziati dal governo con parte delle sanzioni dell’Antitrust. Sul rispetto dei requisiti vigila il ministero – Niente che sia comunque in grado di garantire fino in fondo i consumatori, come dimostra il caso in cui è rimasto coinvolto il Movimento difesa del cittadino, una delle associazioni che fa parte del Cncu. Soddisfare i requisiti, inoltre, non è per nulla una missione impossibile, a guardare il numero delle associazioni iscritte all’elenco ministeriale: addirittura 19. “Un numero assurdo”, commenta Stefano da Empoli, docente di Economia politica e politica economica all’università Roma Tre e presidente dell’I-Com, l’Istituto per la competitività che cura un rapporto annuale sui consumatori. “Perché le associazioni possano avere la massa critica necessaria a svolgere un ruolo significativo, il quadro dovrebbe essere meno parcellizzato. La loro integrazione andrebbe incentivata”.
Ma non finisce qui. Oltre all’elenco del ministero, gran parte delle regioni ha un proprio registro a cui si possono iscrivere le associazioni attive a livello locale. Spesso queste sono le ramificazioni territoriali delle 19 nazionali, ma ce ne sono anche di nuove. Così si arriva a casi come quello del Lazio, dove le organizzazioni registrate sono più di 40. E forse non è un caso che proprio qui ne siano di recente finite sotto inchiesta quattro: Federconsumatori Lazio, Adoc Lazio, Unione nazionale consumatori Lazio e Coniacut, tutte sospettate di aver certificato prestazioni inesistenti per ottenere i finanziamenti regionali. “Alcune associazioni nascono solo per aggiudicarsi i soldi pubblici”, sostiene Marco Pierani di Altroconsumo, secondo il quale il problema non si limita al livello regionale, ma tocca anche quello nazionale: “Tutti i progetti presentati dalle associazioni appartenenti al Cnuc di solito vengono approvati e finanziati. Non c’è una vera competizione e alcune associazioni puntano strutturalmente ai fondi pubblici, con cui si mantengono in vita. Un effetto distorsivo, perché a beneficiare dei progetti deve essere il consumatore finale, non la struttura dell’associazione”.
Il terzo livello: le associazioni fuori dagli elenchi – Completano il quadro tutte le associazioni a cui di prassi non sono destinati i bandi per i progetti finanziati da Stato e regioni, perché non iscritte ad alcun elenco. Spesso sono piccole organizzazioni attive a livello locale o specializzate in determinati settori, come l’usura bancaria. Anche queste hanno tutto il diritto di esistere, sebbene non siano sottoposte a quel minimo di controlli previsti invece per iscriversi ai registri. Il loro è un modello alternativo: la mancata appartenenza al ‘sistema pubblico’ – fanno sapere dal ministero – non va considerato come punto di demerito.
Occhio ai procacciatori di affari. Un consiglio? Chiedere il bilancio – Tra i rischi per gli utenti, uno su tutti. Che l’associazione dei consumatori si trasformi in un sistema per procacciare affari agli avvocati a essa legati. Vale per tutte le organizzazioni, siano queste riconosciute o meno da ministero e regioni: “Definirsi paladini dei consumatori – spiega da Empoli – può essere una mossa di marketing dietro cui si nascondono gli interessi di singole persone, per esempio i professionisti”. Da valutare c’è poi la qualità e il costo dei servizi offerti, che insieme alle quote di iscrizione possono essere un’altra fonte di finanziamento. Ma su questo non c’è alcuna regolamentazione, come spiegano dal ministero: “Se un’associazione diventa esosa, non è lo Stato che lo deve dire. Il mondo associativo deve essere libero. Se un associato non è più soddisfatto, come arma ha quella di cancellare la propria iscrizione”. Ma allora come fare a scegliere l’associazione giusta? “L’adesione non va mai fatta la buio – rispondono dagli uffici del dicastero -. Può essere utile dare un’occhiata allo statuto e al sito dell’associazione. Si può provare anche a chiedere il bilancio. Se non viene mostrato, quantomeno è sinonimo di poca trasparenza”.
Riceviamo e pubblichiamo la seguente lettera di Antonio Longo, presidente del Movimento difesa del cittadino: Il Movimento difesa del cittadino (MDC) per statuto e prassi ormai trentennale limita la sua attività all’informazione e assistenza extragiudiziale dei cittadini, aiutandoli a tutelare i loro diritti attraverso strumenti come la conciliazione. Non “mette in contatto” e non indirizza nessuno ad avvocati, come si evince chiaramente anche dallo statuto e dal sito; non “procaccia affari” a nessuno studio legale. Indichiamo a chi ci contatta solo sedi provinciali e regionali dell’associazione, alle quali ci si può rivolgere. Del caso citato la sede nazionale era assolutamente all’oscuro e quindi non ha mai indicato e non poteva indicare alcun avvocato. Naturalmente chi si rivolge alle sedi locali e non può risolvere il suo problema in via conciliativa a volte chiede consiglio per la scelta di un avvocato. Il responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia ha ritenuto nella sua autonomia di indirizzare questi cittadini, che peraltro non sono mai stati iscritti all’associazione, ad un avvocato che ha agito come professionista e non certo come “responsabile del dipartimento Fisco e finanza”. Sull’operato di questo professionista e sulle vicende che hanno portato al procedimento penale si pronuncerà il giudice. Proprio facendo tesoro di questa vicenda, e per evitare casi analoghi peraltro mai successi in passato, ci siamo dotati di una convenzione con i legali di fiducia (che le allego), per garantire i cittadini sia riguardo la qualità delle prestazioni professionali che per gli onorari richiesti. In nessun caso comunque l’associazione entra nel rapporto professionale, che nasce e si sviluppa tra il cittadino e il professionista. MDC si è sempre caratterizzata come un’associazione che ha fatto della trasparenza la sua caratteristica. Pubblichiamo da molti anni il bilancio nazionale on line, insieme con il Cud del presidente. Negli ultimi anni abbiamo fatto battaglie per la legalità nella politica, ultime quelle ancora in corso per l’applicazione della Severino nei casi De Magistris e De Luca; in anni recenti contro la Giunta regionale del Lazio e la presidente Polverini che non volevano dimettersi dopo gli scandali dei rimborsi; ma anche contro il Consiglio regionale della Puglia (presidente Vendola) che voleva aumentare il numero degli eletti in contrasto con lo statuto regionale, interpretato in modo errato. I cittadini che si rivolgono a MDC possono stare tranquilli e continuare a rivolgersi ai nostri sportelli, certi di essere aiutati a risolvere al meglio i loro problemi. Prendiamo atto dei chiarimenti che tuttavia non smentiscono quanto scritto. Del resto, riguardo al caso che ha coinvolto l’avvocato Dalila Loiacono, ex responsabile del dipartimento Fisco e finanza del Movimento difesa del cittadino, nel decreto che ha disposto il suo rinvio a giudizio si legge che due dei soggetti che hanno presentato denuncia “si erano rivolti al Movimento difesa del cittadino del Friuli Venezia Giulia per un parere legale in ordine ad una procedura di pignoramento immobiliare”. Il presidente Longo scrive che “il responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia ha ritenuto nella sua autonomia di indirizzare questi cittadini ad un avvocato”. Al di là dell’autonomia del responsabile della sede di MDC Friuli Venezia Giulia, resta il fatto che questi cittadini si erano rivolti a lui proprio per il suo ruolo all’interno dell’associazione. Come dice il presidente Longo, il giudice si pronuncerà sulle vicende che hanno portato al procedimento penale. Procedimento in cui il difensore di Loiacono ha chiesto di essere autorizzato a citare 91 testimoni, 23 dei quali in virtù del loro ruolo all’interno degli organismi dirigenti del Movimento difesa del cittadino. Tra di loro anche il presidente Longo, che avrà modo di portare la sua testimonianza anche in tribunale. (Luigi Franco)
Associazioni di consumatori. Stretta sui finanziamenti. Il governo studia nuove regole per ridurne il numero. Obiettivo, spingere le associazioni a confederarsi, scrive Melania Di Giacomo il 24 agosto 2012 su "Il Corriere della Sera". Finora l'avevano scampata bella alla crisi. Le associazioni dei consumatori, nate sull'onda del movimento di Ralph Nader negli Usa nel '70, e proliferate nel nostro Paese dal decennio successivo in poi, potrebbero conoscere un drastico ridimensionamento, in stile spending review. Tutta colpa di un regolamento, cui sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico, che completerà il Codice del consumatore, e che richiederà una stringente procedura di tracciabilità degli iscritti di cui andranno ad esempio allegate le generalità e i codici fiscali. Un modo per rendere più rigoroso l'iter che lega le attività svolte ai finanziamenti pubblici. Oggi infatti per figurare nell'elenco del Cncu, il Consiglio nazionale dei consumatori, che è una sorta di patente di esistenza in vita, e dà tra l'altro diritto ai finanziamenti per i progetti, servono almeno 30 mila iscritti. Ora, anche se nessuno lo dice ufficialmente, sarebbe in atto una moral suasion da parte del ministero perché le associazioni si confederino, indirizzando i finanziamenti (residui) per i progetti a pochi anziché disperderli in mille rivoli. Anche qui siamo dunque a una forma di revisione della spesa. «Stiamo facendo un nuovo regolamento interno», conferma Giuseppe Tripoli, capo del Dipartimento per l'impresa e l'internazionalizzazione: «Non è una cosa contro le associazioni dei consumatori, tutt'altro. È un modo per aumentare la trasparenza». Si tratta di un meccanismo coerente con quello usato per le Camere di Commercio al cui interno siedono anche rappresentanti delle associazioni, che per dimostrare i requisiti devono consegnare tutta la documentazione. E si vuole garantire così anche i consumatori che aderiscono alle class action, in quanto i soggetti legittimati ad agire in forma collettiva sono proprio le associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale. E quelle iscritte al Cncu lo sono di default. Uno schema di regolamento circola già in via informale negli uffici delle associazioni. E i segretari delle stesse sanno che anche di questo si discuterà nella prossima riunione del Cncu, il 12 settembre, con il sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal 2003 le associazioni dei consumatori hanno cominciato a contare su una parte delle multe incassate dall'Antitrust e dall'Autorità per l'energia elettrica. Fino al 2007 ben 47,7 milioni per finanziare progetti di informazioni ai consumatori. Poi sono cominciate le ristrettezze e la finanziaria 2010 ha destinato quasi l'intera somma alla gestione delle emergenze. A maggio di due anni fa l'ultimo importo stanziato: 4,5 milioni per il finanziamento di «interventi diretti a facilitare l'esercizio dei diritti dei consumatori e la conoscenza delle opportunità e degli strumenti di tutela». Le associazioni si sono consorziate in quattro gruppi intorno a altrettanti progetti: «Diogene. La lanterna del consumatore», finanziato con 1.013.704 euro, «Guarda che ti riguarda», per 1,2 milioni, come per «Informa-con», e «Check-up diritti» per i quali lo stanziamento è 988 mila euro. Circa 250 mila euro ad associazione. Sempre dai proventi delle multe, altri 13 milioni vengono destinati alle Regioni per i loro progetti per i consumatori, dagli sportelli alle brochure, molti dei quali sono attuati proprio in collaborazione con le associazioni. Ma se i fondi vengono stanziati a fronte dei progetti svolti, che c'entra il numero delle tessere? Ai progetti possono partecipare solo le associazioni del Cncu, secondo l'articolo 137 del Codice del consumo che richiede quale requisito per l'iscrizione nell'elenco, tenuto presso il ministero, un numero di iscritti «non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale e una presenza sul territorio di almeno cinque regioni, con un numero di iscritti non inferiore allo 0,2 per mille degli abitanti». Il punto è: chi certifica gli iscritti? Per adesso esiste solo un'autocertificazione del rappresentante legale dell'associazione. E, inutile dirlo, qualcuno gioca al rialzo. «La Federconsumatori è la più rappresentativa - garantisce Rosario Trefiletti, che è d'accordo con i criteri più pressanti - abbiamo 160 mila iscritti. E i nostri sono veri, non come quelli che ne dichiarano 300 mila. La riduzione può avvenire se c'è un controllo sulle associazioni, se hanno sedi territoriali, se lavorano, se hanno iscritti o se sono tre quattro avvocati che si mettono assieme». Paolo Martinello di Altroconsumo premette che «il proliferare delle associazioni è dovuto all'assenza di controlli». Quindi appoggia anche lei l'operazione? «Certo, non si può arrivare al punto che le associazioni nascano solo per avere quei 200 mila euro l'anno». «Quando ci sono di mezzo soldi pubblici bisogna essere trasparenti», dice Pietro Giordano di Adiconsum, e «se noi lo richiediamo a partiti e pubblica amministrazione, dobbiamo esserlo per primi». Possibile che nessuno dica una parola contro? «Beh, certo. Se ci sono meno associazioni...». Ecco: quelle che restano ci guadagnano.
Consumatori, 47 milioni per fare da anti-Stato. Finanziate dal governo con i soldi delle multe dell’Antitrust, le associazioni dei consumatori sopravvivono solo grazie ai contributi statali, scrive Matthias Pfaender, Lunedì 14/07/2008, su "Il Giornale". Votate alla difesa del consumatore: agguerrite, preparate, specializzate; capaci di minacciare cause contro tutto e tutti. Le associazioni dei consumatori, i cani da guardia nel mercato dei beni e servizi, per difendere il cittadino che si barcamena tra beni e servizi non guardano in faccia a nessuno. Tranne che allo Stato. Perché da Roma le associazioni sono massicciamente finanziate.
FINANZIAMENTI A PIOGGIA. Eccola un’altra casta. Diversa, ma sempre casta: 47,7 milioni di euro in cinque anni, distribuiti a pioggia a partire da gennaio 2003, da quando alle associazioni va parte del ricavato delle multe dell’antitrust. Le società sbagliano, l’Authority le punisce e quei soldi che dovrebbero andare allo Stato vanno alle associazioni dei consumatori. Cioè quelle sigle che dal 1998 fanno parte del Cncu (consiglio nazionale dei consumatori e utenti, che ha sede presso il ministero dello Sviluppo economico). Fino all’80-85% dei bilanci delle associazioni, secondo una ricerca del Sole24Ore, sono garantiti dal denaro pubblico. «In queste condizioni - ha dichiarato Palo Martinello, presidente di Altroconsumo - è difficile contestare le scelte di governo o regioni. Così si rischia di diventare la foglia di fico delle amministrazioni». Quindi la domanda è immediata: ma se i soldi li prendono dallo Stato, come faranno a fare azioni e operazioni contro tutto quello che lo Stato controlla come Poste, servizi idrici, ferrovie, smaltimento, gestione rifiuti?
UN PROGETTO PER TUTTI. I soldi pubblici servono a finanziare molte cose, sostengono i vertici delle associazioni. Quali? Siamo andati a leggere i documenti dei finanziamenti dei progetti delle associazioni del 2005 per avere un’idea. Ne abbiamo trovati 27 e la prima cosa strana è che praticamente tutti hanno un contributo standard: mezzo milione di euro. E così, a prescindere dal lavoro svolto, tutti finiscono col portare a casa la stessa cifra (12 milioni nel solo 2005). Non ci dev’essere grande comunicazione tra le varie associazioni, poi, se in un anno tre progetti diversi hanno avuto però lo stesso contenuto: la lettura delle etichette. Un milione e mezzo di euro, quindi, per insegnare a leggere. Ma i soldi basta averli, se è vero che Carlo Rienzi, presidente del Codacons ha dichiarato all’Espresso: «Stare nel Cncu non serve a niente. È una scatola per dare soldi. E per fortuna li dà».
LE ISCRIZIONI FALSE. I consumatori insegnano a non fidarsi di nessuno. Seguendo questa logica non bisognerebbe farlo neanche con loro. E forse non sarebbe poi tanto sbagliato. «Gran parte degli iscritti sono falsi», ammettono gli stessi presidenti. Tanto nessuno controlla. Così si deduce che i 300mila iscritti spacciati da qualcuno, i 100mila da qualcun altro e così via, siano solo numeri in libertà, con buona pace della tanto invocata trasparenza.
GLI INTRECCI CON LA POLITICA. Molte sigle sono nate e cresciute all’ombra di poteri politico-sindacali: Federconsumatori è strettamente legata alla Cgil, mentre Adiconsum e Adoc rispettivamente alla Cisl e Uil. Il movimento Arci ha la sua organizzazione «personale» nel Movimento consumatori, mentre la Lega consumatori è collegata alle Acli. Ma c’è anche chi ha giocato la carta della politica pura: dal Codacons è nata la Lista Consumatori, che alle politiche del 2006 riuscì a far eleggere in Calabria addirittura un senatore, Pietro Fuda. Il presidente di Adusbef, Elio Lannutti, è tutt’ora in parlamento, senatore dell’Italia dei Valori e personaggio ammiccante all’antipolitica visto che ha in programma l’uscita di un libro La Repubblica delle banche, con introduzione di Beppe Grillo. Di centrodestra è la «Casa del consumatore», il cui presidente Alessandro Fede Pellone è un ex consigliere lombardo di Forza Italia. Era collaboratore del ministro Livia Turco, Stefano Inglese, ex presidente del Tribunale dei diritti del malato e legato a Cittadinanzattiva, mentre Donatella Poretti dagli uffici dell’Aduc è passata direttamente agli scranni di Montecitorio, nelle file della Rosa del Pugno. Infine Mara Colla, già sindaco socialista di Parma, eletta alle scorse elezioni regionali con l’Ulivo, continua a tenersi stretta la presidenza della Confconsumatori. Alla faccia della libertà.
Prendono soldi pure i soldi pubblici sull’editoria.
Contributi pubblici ai giornali: cosa prevede la nuova legge sull’editoria, scrive Andrea Zitelli su "Valigia Blu il 27 marzo 2017. Venerdì 24 marzo, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legislativo che ridefinisce la disciplina dei contributi diretti alle imprese editrici di quotidiani e periodici. Il provvedimento punta a rafforzare i requisiti di accesso alle risorse pubbliche ("richiedendo fra l’altro che l’edizione cartacea sia necessariamente affiancata da quella digitale, e prevedendo obblighi riguardo l’applicazione dei contratti di lavoro") e chiarisce quali imprese editrici possono essere destinatarie dei contributi all'editoria:
– Cooperative giornalistiche che editano quotidiani e periodici;
– Imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è detenuto in misura maggioritaria da cooperative, fondazioni o enti senza fini di lucro, limitatamente ad un periodo transitorio di cinque anni dall’entrata in vigore della legge di delega;
– Enti senza fini di lucro ovvero imprese editrici di quotidiani e periodici il cui capitale è interamente detenuto da tali enti;
– Imprese editrici che editano quotidiani e periodici espressione di minoranze linguistiche; imprese editrici, enti ed associazioni che editano periodici per non vedenti e ipovedenti;
– Associazioni dei consumatori che editano periodici in materia di tutela del consumatore, iscritte nell’elenco istituito dal Codice del consumo;
– Imprese editrici di quotidiani e di periodici italiani editi e diffusi all’estero o editi in Italia e diffusi prevalentemente all’estero. Il decreto elenca anche chi non può accedervi:
– Imprese editoriali quotate in Borsa. – Imprese editrici di organi d’informazione dei partiti, dei movimenti politici e sindacali.
– Le pubblicazioni specialistiche. Riguardo i criteri di calcolo dei contributi, questi verranno calcolati in parte come rimborso dei costi e in parte in base al numero di copie vendute. Nel comunicato stampa di Palazzo Chigi si legge che "al fine di sostenere la transizione dalla carta al web", ai costi connessi all'edizione digitale sarà riconosciuta una percentuale più alta. Inoltre, verranno previsti parametri diversi a seconda del numero di copie vendute e verrà introdotto un limite massimo al contributo, che in ogni caso non potrà superare il 50% dei ricavi conseguiti nell’anno di riferimento. Il decreto legislativo è stato approvato in attuazione della legge n.198 del 2016, che spiega il Post, istituiva un fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione e dava deleghe al governo per la ridefinizione, tra le altre cose, della disciplina del sostegno pubblico per il settore dell’editoria.
Finanziamento pubblico proporzionale alle tessere.
Quello strano giro di tessere tra Cgil e Federconsumatori. Capita che iscrivendoti al sindacato di lady Camusso ti arrivino a casa due "card". Una, ça va sans dire, non richiesta. Peccato che l'associazione di Trefiletti percepisca finanziamenti statali in base al numero di iscritti, scrive Francesca Carrarini il 28 ottobre 2017 su “L’Intraprendente”. Si può avere dei sindacati l’opinione che si vuole, ma risulta normale e conveniente rivolgersi a loro per sbrigare le più diverse pratiche burocratiche che a noi privati cittadini, diversamente, ci farebbero perdere intere giornate di lavoro senza risultati certi. Ovviamente, dal canto loro, niente per niente, quindi per avvalersi delle proprie consulenze è necessario tesserarsi: compilare il modulo con i dati personali, firmare il permesso dell’utilizzo dei dati sulla privacy, pagare la quota di iscrizione e per l’anno in corso e attendere l’arrivo della tessera a casa. O meglio, attendere l’arrivo delle tessere a casa. Plurale. Eh sì, perché pare esser divenuta abitudine per alcune di queste associazioni utilizzare formule del tipo “paghi uno prendi due”. A raccontarcelo è un cittadino padovano, che nel parlarci della sua esperienza cita due importanti sigle associative del territorio: la Cgil, Confederazione generale italiana del lavoro rappresentata pubblicamente dal segretario Susanna Camusso (è la maggiore confederazione sindacale italiana con oltre 5 milioni e 750mila iscritti – di cui 3 milioni sono pensionati – e circa 5 milioni di bilancio dichiarati nel 2011 tra fondi attivi, passivi e patrimoniali) e la Federconsumatori, altra associazione no profit presieduta da Rosario Trefiletti che, per informare e tutelare gli utenti iscritti nel registro regionale, dichiara un bilancio attivo di poco meno di 400mila euro solo in Veneto (poi ci sono tutte le altre regioni). «Qualche settimana fa mi sono recato con mia madre al Caaf della Cgil per sbrigare alcune pratiche relative l’atto di successione e, in quella sede, ho firmato tutti i documenti relativi il tesseramento» racconta il padovano. «Dopo qualche tempo mi arriva a casa una lettera speditami dalla Cgil. L’ho aperta, sapendo che vi avrei trovato la tessera che avevo richiesto ma, con sorpresa, mi sono accorto che le tessere contenute all’interno della busta erano in realtà due: quella della Cgil e quella della Federconsumatori». Tessera, quest’ultima, che il padovano non ricorda di aver mai richiesto: «Ho chiamato l’ufficio della Cgil per segnalare l’errore e la centralista mi ha risposto che non c’è stato nessun errore: prassi, mi ha detto». All’uomo nessun costo aggiuntivo, il tesseramento all’associazione di Trefiletti è avvenuta in modo del tutto automatico e gratuito, ma non indolore per le tasche dei contribuenti. Viene infatti da chiedersi perché la spedizione della doppia tessera associativa: «Oltre a riscontrare una palese violazione della privacy, esiste la questione dei finanziamenti – afferma Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti, associazione che agisce a difesa dei contribuenti su tutto il territorio nazionale e che ha rifiutato ogni finanziamento pubblico – lo Stato calcola i contributi alle associazioni in base al numero di tessere sottoscritte: più sono le adesioni, più alti sono i finanziamenti. Se Federconsumatori associa a sé ogni nuovo iscritto Cgil, capisce bene che gli zero a bilancio crescono in modo esponenziale». Ma il problema non finisce qui, perché oltre ai finanziamenti (la cui spesa inevitabilmente ricade sui contribuenti) vi è anche una questione di convenienza e etica: «C’è da dire che la maggior parte delle persone iscritte alla Cgil non sanno di essere anche associati Federconsumatori, e quindi non fruiscono dei servizi che possono essere offerti dall’associazione – commenta ancora Paccagnella, che aggiunge – l’associazione in questo trae il massimo guadagno dai soldi pubblici, non dovendo muovere un dito per aiutare i suoi iscritti che potremmo definire fantasma. Ma poi l’altro problema, forse il più grave: il CNCU». CNCU: Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti, organo dello Stato che fa capo al ministero per lo Sviluppo Economico e presieduto dallo stesso ministro, oggi Flavio Zanonato: «Il CNCU ha funzioni consultive sugli argomenti relativi ai diritti dei consumatori e presiede spesso i tavoli istituiti quando l’ira civile minaccia tempesta sulla casta politica» dice ancora il presidente di Federcontribuenti, che spiega che tutte le associazioni in Italia possono fare richiesta di entrare in questo organo e che tutte quelle fino ad oggi iscritte ricevono soldi pubblici: «Queste associazioni, tutte rigorosamente no profit, ricevono pochi se non pochissimi controlli. È vero che associarsi è una libertà inviolabile, ma è anche vero che tale organo limita ampliamente e arbitrariamente il diritto di ogni associazione di agire in piena libertà. Recenti visure camerali che abbiamo analizzato – infatti – hanno messo in evidenza gravi anomalie: noi temiamo che questo sistema alimenti i così detti bacini di voto e che organismi come il CNCU siano più vicine a lobby che a istituzioni a servizio del cittadino» conclude Paccagnella. Insomma, un affare per associazioni come Federconsuamatori o Cgil che incrementano il loro bilancio sfruttando pochi nominativi. Un affare per Zanonato, che in qualità di Presidente del CNCU potrebbe usare il suo incarico per far muovere consensi e un affare per lo Stato, capace così di mantenere inalterato il suo potere sul territorio. Un problema solo, per i cittadini, ma questo si sa, non fa più notizia.
Federconsumatori, Trefiletti lascia il testimone a Viafora, scrive Enrico Cinotti il 22 giugno 2017 su "Il Salvagente". Emilio Viafora è il nuovo presidente della Federconsumatori e subentra a Rosario Trefiletti, per 17 anni alla guida dell’associazione promossa dalla Cgil. “Una decisione importante e condivisa di cambiamento”, ha detto Trefiletti, che questa mattina al termine del direttivo nazionale dell’associazione ha lasciato il testimone nelle mani di Viafora, 64 anni, una lunga attività sindacale alle spale. Non c’è dubbio come in questi anni la Federconsumatori sia diventata un punto di riferimento per il consumerismo italiano e, sotto l’impulso della presidenza Trefiletti, sia diventata la più diffusa e presente associazione in Italia.
“Serve una vera rappresentanza europea”. “Un gioiellino”, come l’ha definita Trefiletti, che ora passa nelle mani di Viafora il quale ha riassunto in quattro direttrici il suo impegno programmatico. “Bisogna far fare un salto continentale al consumerismo: serve una forza di rappresentanza a livello europeo. Lo si vede anche sulla ratifica del trattato Ceta: è in Europa che bisogna essere in grado di far sentire la propria voce”. In seconda battuta “serve una nuova rappresentanza dei consumatori in Italia ovvero una normativa più stringente”. Più in generale, poi, “bisogna dare nuovi strumenti alla rappresentanza sociale” e rendere sempre più concreto il “dialogo con l’associazionismo: il nostro paese ha compiuti passi in avanti importanti quanto più sono state forti le reti di relazione”. Viafora ha poi ribadito l’importanza del dialogo con i soggetti economici ma ha anche rivendicato “l’autonomia e l’indipendenza dalle aziende” e la volontà di “pesare sempre più nelle scelte, ovvero di intervenire non solo a danno fatto rivendicando un risarcimento ma in modo preventivo, cioè per evitare che i danni avvengano”.
Il bilancio di Rosario. Durante alla conferenza stampa Rosario Trefiletti ha tracciato un bilancio della sua lunga e proficua esperienza. Quali sono stati la vittoria più bella e la sconfitta più cocente in questi 17 anni? “La vittoria più importante all’inizio degli anni 2000 quando vincemmo la battaglia della ricontrattazione dei mutui in Ecu consentendo a 2 milioni di persone di poter risparmiare tanti soldi. La sconfitta che più brucia quella recente al Tribunale di Trani contro le società di rating. In mezzo naturalmente tante battaglie, quelle condotte con Adusbef contro il risparmio tradito e le banche in primis, e tanti progetti che siamo riusciti a portare avanti a tutela del cittadino-consumatore”. L’impegno di “Rosario” prosegue alla presidenza dell’Iscon, l’Istituto per lo studio del consumo promosso dalla Federconsumatori ma al momento non in politica nonostante i rumors legati al suo dinamismo social e non solo: “Voglio solo stare nel dibattito politico perché sono in stato confusionale”.
Un “salto” continentale. La “mission” europea sembra comunque il punto principale di questo avvicendamento nella continuità alla guida della Federconsumatori. “I cittadini non possono essere rappresentati nell’Unione europea da imprese che si spacciano per associazioni”, ha rimarcato Trefiletti. “Vogliamo – conferma Viafora – continuare a difendere chi ha pagato di più la globalizzazione ma ha meno diritti. Nella regolazione dei nuovi mercati vogliamo portare il punto di vista dei consumatori, liberi da condizionamenti e consapevoli che dobbiamo tutti quanti far fare un salto continentale al consumerismo”.
IL PESCE D’APRILE DEL CODACONS ALLA FEDERCONSUMATORI, scrive il 3 aprile 2013 "Consumerismo.it". Questo sì che è un Pesce d’Aprile! Come sempre simpatica e geniale l’idea del Codacons di sottolineare la storica diatriba, tra il modello non sindacale e le associazioni di matrice sindacali (CGIL, CISL E UIL), da sempre ostili al cosumerismo attivista e di lotta giuridica, e più propensi alla “concilializione” e alla trattativa. Basta ripercorrere un po’ di storia per capire come stanno le cose. Molti ricorderanno il dossier di PANORAMA, oppure la recente discussione sul nuovo regolamento appena entrato in vigore che il Ministero dello Sviluppo Economico ha adottato, con un’evidente linea per l’associazionismo di matrice sindacalista, così come sottolinea il seguente articolo pubblicato sul Corriere della Sera. Tornando ai fatti odierni leggiamo il simpatico pesce d’Aprile con un comunicato di CODACONS.
COMUNICATO STAMPA. Cronaca nazionale 1 aprile 2013. CONSUMATORI: ROSARIO TREFILETTI NOMINATO PORTAVOCE DEL CODACONS. Rosario Trefiletti, già presidente di Federconsumatori, è stato nominato portavoce ufficiale del Codacons. Lo ha deciso sabato scorso l’assemblea dei soci del Codacons, riunita per individuare un nuovo nome che rappresentasse l’associazione. Trefiletti, che ha accolto con entusiasmo il nuovo incarico – spiega il Codacons – è stato scelto per le sue indubbie qualità’ di comunicatore, mai demagogico o populista, e per la sua immensa competenza su temi legali e consumeristici. La nomina è stata inoltre decisa dopo che il Pd, commettendo un gravissimo errore, non ha accolto l’autocandidatura di Trefiletti a portavoce del partito, scelta che forse avrebbe evitato l’attuale impasse politica del nostro paese (di seguito il twitter ufficiale con l’autocandidatura di Trefiletti: “Rosario Trefiletti@3filetti5 Mar Ma quando avrò l’incarico di rappresentare le posizioni PD nei media essendo il meglio per chiarezza concisione e determinazione? Mai? Peccato”). A partire da oggi, quindi, Rosario Trefiletti rappresenterà il Codacons in tutte le occasioni pubbliche, nei rapporti con le istituzioni e nelle partecipazioni ai programmi radiotelevisivi. Ovviamente un vero e proprio pesce d’Aprile. Come sanno gli addetti ai lavori, tra l’AVV. Rienzi e l’ex sindacalista Trefiletti, oggi Segretario uscente della Federconsumatori, non ci potrà mai essere un’associazione in comune, tanto-meno la stessa, figuriamoci poi se è il Codacons. Forse il Codancos avrà voluto ironizzare sul fatto che Trefiletti (noto per la sua costante presenza televisiva come opinionista) da tempo si diceva in corsa per una poltrona parlamentare per il PD, o sulle voci che lo davano accreditato a candidato Sindaco di Roma sempre per il PD, poi palesemente smentito dalla candidatura dell’ex giornalista Rai Sassoli.
Rosario Trefiletti CV su “Federconsumatori”.
INFORMAZIONI PERSONALI Nome Nazionalità Data di nascita Attuale impiego
Rosario Trefiletti Italiana 12 novembre 1943 Presidente Federconsumatori
ESPERIENZA LAVORATIVA Date (da – a) Nome e indirizzo del datore di lavoro Tipo di azienda o settore Tipo di impiego Principali mansioni e responsabilità
1963 - 1975 Raffineria di Rho Capo Impianto
1975 Sindacato CGIL Incarichi a livello nazionale nei sindacati dei settori: chimico, energia, telecomunicazioni e poste.
1996 SLC - CGIL È tra i fondatori del Sindacato dei lavoratori delle comunicazioni della CGIL.
1980 Delegato a Istanbul alla Conferenza Mondiale ONU sull’energia e lo scambio delle tecnologie. CGIL Responsabile Nazionale CGIL “Quadri ed Alte professionalità”, di cui ha curato anche le pubblicazioni.
1989 – 1993 CNEL Componente del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), Settore Politico – Economico.
2002 Mensile Robin della Federconsumatori Direttore Redazione di articoli ed editoriali.
2005 Consiglio Nazionale Consumatori Utenti Delegato È stato delegato del CNCU presso il WTO.
2006 CNCU Delegato Agroalimentare preso la Presidenza del Consiglio a Palazzo Chigi.
2008 Settimanale Federconsumatori News Direttore Redazione di articoli ed editoriali.
ISTRUZIONE E FORMAZIONE Date (da – a) Nome e tipo di istituto di formazione Principali materie oggetto dello studio Qualifica ottenuta
1961 Ha svolto stage in Olanda ed in Australia Diploma in Chimica
2007 Accademia Nazionale di Agricoltura di Bologna Autorevole riconoscimento per la competenza e la profonda conoscenza delle problematiche relative all’agricoltura italiana, raggiunte grazie all’attività di ricerca, di informazione e di riforma svolta in questi anni nel settore agroalimentare. Accademico Corrispondente
CAPACITÀ E COMPETENZE PERSONALI PRIMA LINGUA SECONDA LINGUA Capacità di lettura Capacità di scrittura Capacità di espressione orale
Italiano Inglese Eccellente Eccellente Eccellente Elevata capacità di pubbliche relazioni e di comunicazione attraverso tutti i mass media.
CAPACITÀ E COMPETENZE RELAZIONALI CAPACITÀ E COMPETENZE ORGANIZZATIVE/TECNICHE.
Ottima conoscenza del Sistema operativo Windows e degli applicativi pacchetto Office (Word, Excel, Power Point). Ottima conoscenza di Internet Explorer e dei programmi di gestione posta elettronica.
REDDITO.
Reddito Il Presidente Rosario Trefiletti matura un reddito netto annuo per pensione di vecchiaia pari a 30.102 Euro. Non percepisce alcun compenso dalle presenze televisive o per ogni altro evento a cui partecipa.
Giampiero Pettinari chiede a Federconsumatori il 13 novembre 2012: “relativamente a Rosario Trefiletti è possibile conoscere i suoi emolumenti annui complessivi (stipendio, indennità, premi, rimborsi spese, ecc.)?
Questo non è dato sapere, ci si riporta solo e soltanto alla sua pensione.
Federico Rufolo il 25 luglio 2017 su "Italiaspa.org": "Molto interessante. Con quel po'po' di palmares (tipico di chi attraverso il sindacato ottiene in questo paese incarichi a dritta e a manca come chiaramente si evince) questo signore - che pressochè quotidianamente compare in tv e salotti mediatici vari, s'incazza e nervosamente distribuisce stentoree invettive populiste - ha lavorato per 12 anni in una raffineria di Rho (opreaio, quadro, o altro?) fruisce di una pensione di vecchiaia di soli 2.550 euro netti al mese (pensione d'oro?)".
Pensioni, ecco le bufale smerciate in tv, scrive Giuliano Cazzola su "Formiche.net" il 5 novembre 2014. La sera scorsa ho cenato con un amico che, come me, si occupa di previdenza. Era scandalizzato per aver assistito ad una puntata di ‘’Quinta Colonna’’: una trasmissione che io non guardo perché la trovo di una demagogia vomitevole, come tante altre del resto (infatti ho sempre la televisione spenta). L’eroina di quella serata – per come mi è stato raccontato – era un’anziana signora che lamentava di dover tirare avanti con una pensione di 500 euro mensili. Intorno a quel caso si è costruita la puntata e scatenata la polemica sui vitalizi dei parlamentari e dei consiglieri regionali, che diversamente dalla signora percepiscono laute pensioni. E’ bene, allora, di fare un po’ di chiarezza. Si vogliono abolire gli assegni vitalizi ben oltre le modifiche che già sono state previste e attuate? Nessun problema. Vuol dire che – per il periodo del mandato (visto che non si può negare che si tratti di un lavoro a tempo pieno) – si pagheranno i contributi sulla precedente posizione individuale del soggetto. Cominciamo, però, a riconoscere che – se qualche comune mortale percepisce pensioni modeste – ci sono delle ragioni che, almeno in parte, investano la sua responsabilità. La signora, eroina di ‘’Quinta colonna’’, aveva versato contributi per 19 anni, poi aveva smesso di lavorare. Il suo calcolo della pensione è stato fatto con il metodo retributivo e la collettività sull’assegno a cui avrebbe avuto diritto ha aggiunto un importo per assicurare il livello della pensione minima. Questa azione solidaristica nei confronti delle persone che, con i loro versamenti, non arrivano a percepire la pensione minima legale, costa alla collettività, attraverso le tasse, ben 25 miliardi all’anno. Il trattamento pensionistico è un diritto costituzionale riconosciuto ai lavoratori, per determinare il quale sono previsti dei requisiti di età e di anzianità contributiva. In sostanza, la pensione ce la costruiamo durante la vita lavorativa. Purtroppo quell’ambìta prestazione non è una sorta di vendicatore mascherato che si presenta al nostro cospetto, da anziani, a raddrizzare tutti i torti che abbiamo subito o ci siamo fatti con le nostre mani. Il sistema non funziona così: ‘’dimmi quanto ti serve e io te lo garantisco’’. Sarebbe bene, allora, che i conduttori delle trasmissioni populiste approfondissero di più i casi personali che ‘’sbattono’’ sul video, perché nessuno campa con 500 euro al mese. E se lo dice, mente. Ci basti far notare un solo aspetto: in Italia i pensionati sono 16,5 milioni, le pensioni e gli assegni circa 23 milioni. Vogliamo usare la media del pollo e calcolare quante sono le pensioni (quasi sempre di reversibilità nel 90% dei casi erogate a donne) che si redistribuiscono sulle stesse persone?
Nella medesima puntata di "Quinta colonna’’ l’esimio Rosario Trefiletti, imperituro leader di Federconsumatori, in uno slancio di demagogia a buon mercato ha dichiarato che lui il parlamentare lo farebbe gratis. Perché non comincia a svolgere gratis la sua missione al servizio dei consumatori italiani?
Mediaset alla ricerca del suo Santoro, scrive Aldo Grasso il 12 settembre 2012 su "Il Corriere della Sera". «Quinta colonna» punta su demagogia e populismo: Del Debbio punta ad assecondare gli umori della piazza. Facessi l'analista politico non avrei dubbi: Silvio Berlusconi si presenterà alle prossime elezioni. Altrimenti non andrebbe in onda un programma come «Quinta colonna» condotto da Paolo Del Debbio (Rete4, lunedì, ore 21.10). Mi occupo d'altro e dal punto di vista televisivo il talk è molto istruttivo. Mediaset è alla ricerca del suo Santoro e «Quinta colonna» fa di tutto per pestare i tasti della demagogia, del populismo, della piazza berciante. Il fine ultimo del programma sembra essere questo: entrare nel ventre molle del Paese, scatenare gli umori più incontrollabili per screditare il governo Monti. E dunque l'inviata Nausica Della Valle è a Roma, nel cuore del Tufello, a raccogliere gli sfoghi più sanguigni sul caro-casa (Imu, mutui); Roberto Poletti accende i peggiori istinti di un gruppo di veronesi (a proposito, non riesco a capacitarmi di come Poletti, visti i suoi testacoda politici e professionali, possa essere finito a Mediaset); Valerio Minelli e la piazza di Battipaglia. Certo se non si fa pagare l'Ici si vincono le elezioni, ma poi i Comuni vanno in rosso e si devono per forza aumentare le tasse. Ovviamente questo ragionamento non sfiora né il conduttore né i suoi ospiti: il peggiore di tutti pare Rosario Trefiletti, come se le disgrazie del Paese lo rafforzassero nel suo ruolo, seguito a ruota dai vagheggiamenti politici di Maurizio Zamparini (nessuno in studio, ovviamente, gli chiede conto della gestione del Palermo calcio). Mai vista una trasmissione Mediaset così impegnata ad assecondare gli umori della piazza, a cavalcare il malcontento, a intercettare le suggestioni emotive della folla, indossando ora la maschera di Santoro ora, comicamente, quella delle Iene. Certo, la parte del leone la fa lui, Paolo Del Debbio, grande cultore della tv trash, ma sempre con quell'arietta compunta del vecchio liberale della Lucchesia che si trova nella mischia solo per salvare il mondo.
Rosario Trefiletti in tv fa ampia visibilità, autopubblicità e autopromozoione politica e sindacale, con la sua demagogia (a dire di Giuliano Cazzolla).
Trefiletti, consumatori e tv E' l'ultimo sosia di Tonino. Rosario Trefiletti, di Federconsumatori, dice la sua in ogni trasmissione tv. E fa il tribuno anti-Cav con la scusa del caro-prezzi. Critica il governo su clandestini, Rai e pure sulla social card. A costo di dire il contrario di quanto sosteneva durante l’era Prodi, scrive Marco Zucchetti, Venerdì 22/01/2010 su “Il Giornale”. Narra la leggenda che la forza di Rosario Trefiletti, la virulenza con cui difende i consumatori dall’iniquità dei governi, affondi le sue radici all’ufficio anagrafe. Pare che in realtà il presidente di Federconsumatori fosse registrato come Seifiletti, ma che un infame emendamento in una Finanziaria (ovviamente di centrodestra) gli abbia dimezzato il potere d’acquisto del cognome, dando il via alla sua ira funesta. Non si spiegano altrimenti la ferocia e la costanza da asceta con cui si presenta in ogni trasmissione per lanciare strali e maledizioni contro ministri, istituzioni e compagnia legiferante. Eloquio lucido e sferzante, allergia alla cravatta, accento lombardo e gestualità da karateka pronto a spezzare mattoni e reni ai potenti: Trefiletti è quel signore che fa capolino dal vostro televisore snocciolando numeri e anatemi ogni volta che l’Istat fa una rilevazione. Lo fa a Cominciamo bene prima che Frizzi annunci una canzone di Shel Shapiro, lo fa mentre voi bevete il caffelatte mattutino sbirciando una puntata di Omnibus sugli eccessi del calciomercato, lo fa pure dopo che Sveva Sagramola ha lanciato un servizio sui leoni marini a Geo&Geo. È più presente lui in tv che le merendine del Mulino Bianco a scuola. E, d’accordo che la visibilità fa parte del ruolo di paladino del popolo acquirente, ma quello della sua immagine è ormai l’unico consumo in costante crescita. Trefiletti, nomen omen, ha un proprio peculiare rosario televisivo, che sgrana soprattutto durante il Tg3 Linea notte condotto da Maurizio Mannoni. Lì, complice l’antiberlusconismo latente, si lascia andare e viene definito «L’Implacabile», come Schwarzenegger: «Ci indignano le forze politiche troppo impegnate a cercare soluzioni per l’immunità». Lì, Trefiletti si esalta e ogni sera abbatte un totem nuovo, senza peritarsi di ricordare se in passato aveva sostenuto qualcosa di opposto. L’aumento dei limiti di velocità in autostrada? «Nettamente contrari, perché aumenta i consumi, aumenta l’effetto serra ed è pericoloso». Peccato che proprio lui avesse chiesto di «eliminare l’obbligo di accendere i fari di giorno». Il pericolo, in quel caso, non era il suo mestiere. La questione è che ogni tribuno deve saper alzare la voce quando serve. E a Trefiletti riesce bene, quasi sempre senza perdere la sobrietà e il sorriso. C’è il numero uno di Mediolanum Ennio Doris in collegamento? E lui lo incalza tonitruante sui rimborsi, sempre insufficienti. Propongono di armare i vigili di Roma? E lui sbotta: «Aberrante. Mi meraviglio non ci sia stata un’opposizione più forte». Forse i consumatori rapinati li difenderà lui, a colpi di karate e cifre sulla stagflazione. Insomma, ne ha una per tutti. O meglio, per tutti quanti stanno al governo. Loro nel mirino ci finiscono anche per vicende che con Federconsumatori c’entrano poco. «In Italia c’è una regressione della cultura, i tagli al Fus sono abominevoli, non si può ridurre tutto a economicismo», spiega appena dopo aver finito di citare una decina di percentuali catastrofiche e subito prima di sostenere «il diritto all’accoglienza». Già, perché a lui non basta il compitino di segnalare gli aumenti di benzina, pane, latte, pasta ed elettricità. No, Trefiletti ha una verità per ogni argomento, di norma annunciata da un «lo chiediamo da anni», «ce ne eravamo accorti da parecchio». Critica il nucleare «furbata incredibile», propone di coniare il reato di clandestinità finanziaria per chi usa lo scudo fiscale, critica perché nessuno ha commissariato i Comuni del Messinese teatro della frana, critica perché i palinsesti Rai mancano «di informazione plurale», critica per le scelte «sgangherate» sui prefetti messi a vigilare le banche, fa ricorso contro la Caf, chiede «una moralità nuova». Fatto del giorno, Raidue; Domenica In...sieme, Raiuno. «Indignatissimo», «indecente», «inaccettabile». Mattina in famiglia, Raidue; Italia allo specchio, Raidue; Radio Anch’io, Radiouno. Un fiume in piena. Intendiamoci, parte dei suoi interventi e delle sue battaglie è fondata. L’idea di «non assegnare il Nobel per l’economia per tre anni» dopo la crisi, è pure sagace. I consigli sulle vacanze, sui risparmi energetici e sui ricorsi, sono utili. Poi, però, a forza di sentirlo, per inerzia o per osmosi, ti accorgi che qualcosa non torna. Il decreto Ronchi sulla liberalizzazione dei servizi come acqua e rifiuti dovrebbe portare alla concorrenza e quindi al calo dei costi. No, per Trefiletti è «improponibile». Detassare gli straordinari? «Una sciocchezza». La Social Card per i consumi dei nuclei familiari disagiati, però, è un segno concreto. No, per Trefiletti «è inadeguata e incide sulla dignità delle persone: non è nulla e comunque quei soldi sono stati ripagati dai consumatori con gli aumenti sui carburanti Eni». Bah. Sorge il dubbio: o è masochista, o il paladino di chi fa la spesa si sta preparando un futuro politico nel Partito Preso.
Indizio numero uno: dopo il caos rifiuti in Campania, con i napoletani esasperati, la sua firma si trova accanto a quella di Dario Fo e Asor Rosa in un manifesto di solidarietà al ministro Pecoraro Scanio. Indizio numero due: sulle intercettazioni, illo tempore dichiarava: «Meglio un mascalzone libero piuttosto che un danno a un cittadino incolpevole, vanno distrutte le registrazioni illegali»; oggi, invece, bolla il ddl che le regolamenta come «inaccettabile, un regalo ai truffatori». Indizio numero tre: spigolando tra le pieghe dei suoi peana televisivi, si trova la seguente dichiarazione: «In Italia bisogna essere sempre forcaioli perché si vuole giustamente che sia fatta giustizia e qualche manetta in più non guasterebbe». Puro dipietrese.
Tre indizi, una prova. Per cui si trova pure riscontro investigativo. Basta dare un occhio alla conferenza di presentazione di Franco Leone, presidente regionale abruzzese di Federconsumatori, candidato nel 2008 per l’Idv. Ovviamente presente Trefiletti, che - forse sperando di seguire le orme del fondatore di Adusbef Elio Lannutti (ora senatore Idv) - ringrazia i dipietristi «per l’opportunità» e nega di voler creare un partito proprio: l’Idc, Italia dei Consumatori, per adesso è rinviata. Che Trefiletti sia palesemente schierato, lo si evince anche dalla lunga carriera nelle file della Cgil (responsabile quadri e poi segretario generale dei postelegrafonici) e dal fatto che la sua associazione ha annunciato azioni legali a supporto de L’Unità e La Repubblica nella causa per diffamazione intentata da Berlusconi. Nonché dalla nota contro Mara Venier che nel 2005 lodò la «generosità» del premier in diretta. Per tacere del tono diverso di cui faceva sfoggio nelle dichiarazioni durante il governo Prodi, da cui fu nominato delegato agroalimentare presso la presidenza del Consiglio. Allora, Trefiletti si esprimeva tra un «siamo soddisfatti» e un «non capiamo l’opposizione», senza dimenticare i ripetuti «bene Bersani». D’altronde è facile: le cifre del consumo sono così tante e così eterogenee che possono servire a sostenere ogni tesi. È il dramma del cane da guardia che abbaia al lupo solo quando il predatore in agguato ha il pelo di un certo colore. Mentre quando ha tonalità più gradevoli, lo scambia per un cerbiatto. A meno che Trefiletti non voglia convincere i consumatori che i morsi dei lupi di centrosinistra sono più gradevoli dei morsi di centrodestra. Potrebbe cercare di parlarne la prossima volta che sarà invitato a Geo&Geo.
Nuovo governo fisso. Dopo le dimissioni di Renzi Mattarella affida l’esecutivo a Trefiletti, che però dura solo 10 giorni. L’arrivo di monsignor Ravasi a Palazzo Chigi salva l’Italia (forse). Nel dubbio, vado a Tenerife, scrive Maurizio Milani il 6 Dicembre 2016 su “Il Foglio”. Mattarella, su consiglio anche del colonnello dei Corazzieri (mio zio) convoca Rosario Trefiletti (presidente dei Federconsumatori) per un incarico esplorativo. Trafiletti dice Sì subito, senza sapere quale maggioranza sosterrà il suo governo. Il presidente Mattarella rimane perplesso, però gli dice: “Ok, vediamo cosa combina”. Trefiletti chiede subito la fiducia alla Camera. Il suo governo passa. Votano a favore: 5 stelle, Lega, Bersani, Cuperlo e 200 deputati Pd, Forza Italia. Al Senato uguale (tranne Carlone Rubbia). Subito Trefiletti va a Francoforte per obbligare (urlando) Mario Draghi a fare una cosa: rimborsare le obbligazioni del Centro Tori di Magenta (Mi), il più grosso crac di una municipalizzata, 152 miliardi di bond emessi e mai restituiti. Anche i quattro tori che facevano da garanzia patrimoniale sono spariti. Qualcuno comincia a parlare di conflitto d’interesse del premier: il presidente Trefiletti era fino a ieri difensore dei risparmiatori truffati (non per vantarmi, io ci sono). Draghi non si spaventa, anzi fa causa a Trefiletti e alla sua associazione di consumatori per avere sabotato l’economia italiana dal 1986. Trefiletti si offende e rassegna le dimissioni a Mattarella. Vengono respinte. Trefiletti scappa, ma viene catturato e obbligato. Ecco la composizione del governo Trefiletti (1 bis). Alla Farnesina Delrio. Al Viminale Jakov (veggente di Medjugorje) con delega ai Servizi. Alla Giustizia il rettore del seminario vescovile di Venezia. Alla Difesa Oscar Farinetti. Ai Lavori pubblici il rettore del seminario vescovile di Acireale. All’Economia (Bilancio, Tesoro, Funzione pubblica Cultura) monsignor Gianfranco Ravasi. Al Commercio estero Padellaro, con delega all’industria. Il più attivo e autorevole di questo curioso esecutivo si dimostra subito monsignor (vescovo) Ravasi: molto ascoltato a Bruxelles, Mosca, Washington e Nuova Delhi. Qui riesce a far comprare al governo indiano 2.000 miliardi di cct (garantiti dal Tesoro) con scadenza rimborso tra 500 anni. Questo solleva le finanze dall’enorme debito pubblico. In India alcuni chiedono perché il governo ha firmato un accordo così sbilanciato a favore dell’Italia. Il primo ministro indiano risponde: “Se non ci aiutiamo tra noi terrestri che scopo ha la vita?”. Il Parlamento indiano approva il prestito (garantito anche da Berlusconi). Finalmente in qualità di ministri i veggenti veggenti di Medjugorje vengono ricevuti dal Papa, che a sorpresa li nomina vescovi (i due maschi) e superiori generali dell’ordine delle carmelitane. Trefiletti è contro. La Consob e Bankitalia a favore.
Trefiletti va da Mattarella e rassegna le dimissioni. Il suo governo è durato dieci giorni. Visto il parere favorevole di tutte le forze politiche Mattarella dà l’incarico a monsignor Ravasi. Maggioranza totale a Camera e Senato. Ministri confermati tutti, al Lavoro mette Stefano D’Orazio dei Pooh, che prende il posto di Fassina (che si lamentava, non si capisce questa volta per cosa). Lo spread scende a zero. Facebook, Instagram, Google e Twitter decidono di mettere la sede centrale a Pomezia (Roma) e anche la British Petroleum, la miglior marca di benzina dopo l’Agip. Vengono bandite le auto elettriche, solo il rumore mi dà fastidio, che bello il rumore dei motori a scoppio. Rispettando il volere degli elettori il governo fa tenere la sanità alle regioni (ma non tutti i disturbi). Da oggi alle regioni compete interessarsi delle seguenti malattie: tromboflebile, mal di palle. Tutto il resto passa al governo centrale: le regioni avranno competenza totale su caccia e pesca e basta. La conferenza stato-regioni viene abolita. Se vogliono lamentarsi i presidenti di regione che si facciano uno staterello a parte come a Montecarlo.
Qui, dispiace dirlo, i profughi non vanno: infatti un cono gelato che a Ventimiglia costa 2,5 euro a Monaco uguale viene 30 euro. Come si fa a campare con questi prezzi? Puoi sempre ciulare la barca a Montezemolo, ma dopo a chi la vendi? Finisci che la smonti e vendi il rame del frigo bar. Conviene fare un reato così per 10 kg di rame? Per me sì, ma per tanti no. [Maria Elena, amore, spero che diventi tu commissaria europea per i rapporti con il Terzo mondo, così ti vedo ancora in tv: sei stata la più bella ministro della storia.] Nel frattempo il Pd si spacca in diversi tronconi. Pippo Civati va a disturbare l’attività del sindaco Sala (mettendo in difficoltà la giunta). Massimo D’Alema va a disturbare l’attività della Serracchiani: non va bene, vuole farlo lui il presidente del Friuli. Bersani va a disturbare la giunta dell’Emilia-Romagna: pur essendo Bonaccini del Pd, vuole andare lui a cavallo dell’asino (già stato, ma non si accontenta). Gotor invece va a vantarsi con altri disfattisti (Speranza, eccetera) in Campania: De Luca non va bene. Ragazzi, ma questi cosa vogliono? Trump intanto che loro discutono è arrivato, e noi stiamo con lui. Grande delusione il nostro Berlusca: ma non poteva telefonare a Putin per far vincere il Sì? Risponde Cicchitto: “No, l’avrei stoppato io tramite Fabio Capello”.
Parto oggi per Tenerife, vi seguo da là. Mi raccomando continuate a disfare e spaccare fuori tutto. Come divertimento è sano. Dispiace che i fondi locusta ci saltano addosso dicendo: “Ragazzi noi pensavamo che gli italiani facevano apposta a rappresentarsi come Tafazzi, invece sono così davvero. A questo punto saccheggiamo i loro risparmi, Tremonti permettendo”. In seguito all’esito referendario viene sostituito il ct della Nazionale Ventura e il suo posto rimane vacante. Le convocazioni a Coverciano le fa monsignor Ravasi, che delega Beppe Di Corrado. Beppe Di Corrado per cortesia istituzionale riconferma l’ultima rosa di mister Ventura, che intanto va ad allenare il Nottingham Forest senza avvertire prima la società.
Arriva al campo di allenamento all’improvviso e per cortesia viene ingaggiato. A “Porta a Porta” spiegherà i motivi che l’hanno spinto a votare 5 stelle alle ultime elezioni a Roma. La Raggi rimane delusa per non essere stata nominata ministro per le Aree metropolitane e fa apposta a sbagliare, cioè firma tutto senza leggere. Per me fa bene: tutti i sindaci dovrebbero firmare ogni genere di atto senza leggerlo. Tanto cosa cambia? Per questa fase di transizione, su benestare di Lega e 5 stelle entra in vigore il tallero ugandese: ogni esercizio commerciale sarà obbligato per legge ad accettare anche questa moneta. Il tallero ugandese, garantito dalla Banca Centrale d’Uganda, vale mezzo euro. Per le prime volte il consumatore si deve abituare: se qualche ambulante al mercato vede il tallero come pagamento te lo tira dietro. Per questo rivolgersi al consumatore, che giustamente fa causa all’ambulante e lo fa chiudere fisso. Così sarete contenti, cari i miei comunisti miliardari.
PARLIAMO DI LADRONIA: OSSIA DI GOVERNO E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE.
Così Pellizza mise il popolo al centro dell’opera d’arte, scrive Vittorio Sgarbi, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel 1901, dipinge Il quarto stato, oggi esposto al Museo del Novecento a Milano. In questa tela di grandi dimensioni abbiamo di fronte il popolo italiano, pochi decenni dopo l’Unità d’Italia, raffigurato come un popolo di lavoratori. Un dipinto che non solo apre cronologicamente il ventesimo secolo, ma conclude anche una grande tradizione figurativa che vede l’espressione artistica al servizio di una concezione religiosa nella quale l’uomo è protetto da Dio. Da Giotto in avanti, le pale d’altare si sviluppano verso l’alto, in verticale, perché l’umanità si rivolge al cielo per ricevere protezione. Nella parte superiore sono raffigurati la Madonna, Cristo, i Santi, tutto quello che rappresenta l’aiuto celeste all’uomo. All’inizio del secolo senza Dio, che è ancora il nostro tempo, l’immagine religiosa non è più protagonista della pittura, le avanguardie – Cavaliere azzurro, Cubismo, Futurismo, Dadaismo – sono travolte da un formalismo che è più importante del contenuto. IlQuarto Stato di Pellizza da Volpedo risolve la lunga esperienza delle pale d’altare con un rovesciamento: la pala non è più verticale ma orizzontale. Guardiamo un dipinto che si svolge nel senso della larghezza, in cui l’umanità avanza verso il proprio destino senza la protezione di Dio. Non è detto che Dio non sia presente nella coscienza degli individui, ma è l’umanità a conquistare, attraverso la forza dei lavoratori, quello che le spetta. Conquista nuovi diritti, conquista un salario, e avanza senza che ci sia più nessuno a proteggerla. Questo quadro è lafine di un’epoca e l’inizio di un’epoca nuova. Non è ancora un dipinto d’avanguardia, ma è un’opera in cui l’unico dio che l’uomo ha è se stesso, e il taglio ribaltato, orizzontale invece che verticale, lo testimonia chiaramente. Per di più, quel popolo sembra marciare verso il Palazzo, per entrare e conquistare il potere. «Palazzo» è una parola che Pasolini fu il primo a usare, in un intervento sul Corriere della Sera nel 1975, per indicare il luogo del potere, un termine che ricorda il Palazzo d’Inverno dimora degli zar. La marcia dei lavoratori del Quarto stato è propriamente una conquista di uno spazio del potere da parte del popolo. Fedele a questa lettura, nel 2007 trasportai il dipinto dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano, dov’era conservato all’epoca, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale. L’idea di allestimento che avevo prevedeva di eliminare l’altare e appoggiare il quadro direttamente a terra, in maniera tale che chi entrava in quella sala andasse incontro al popolo che andava verso di lui. Si stabiliva un rapporto allo stesso livello tra le persone reali e le persone dipinte. Mettendo il quadro in posizione rialzata si sarebbero visti i personaggi calare. L’allestimento giusto per quel quadro era a terra. L’effetto della collocazione dell’opera in una sala che porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era straordinario, perché realizzava l’occupazione del popolo che distrugge i simboli del potere, il soffitto caduto come il cielo infranto. Giuseppe Pellizza da Volpedo, nato nel 1868, studiò all’Accademia di Brera, fu influenzato dalla Scapigliatura e da Daniele Ranzoni; a Bergamo fu allievo di Cesare Tallone e a Firenze (1893-95) frequentò Silvestro Lega e Plinio Nomellini. Interessato al realismo sociale divenne noto con Fienile (esposto a Milano nel 1894), nel quale sperimentò la tecnica divisionista, stimolato da Angelo Morbelli; aderì quindi al Simbolismo, influenzato da Gaetano Previati (Lo specchio della vita, 1895-98). Attento alle problematiche sociali e ispirandosi a Emilio Longoni, dipinse Ambasciatori della fame (1891-92), poi Fiumana (1896), e infine Il cammino dei lavoratori o Quarto stato (1896-1901), di cui sono notevoli anche i bozzetti e i disegni preparatori. Il sole nascente (1904, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna) è l’opera nella quale Pellizza apre alle nuove avanguardie e, in particolare, ai futuristi che vedranno in lui un profeta.
Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere.
Cosa si nasconde dietro la targa Unesco. Il marchio di Patrimonio dell'umanità garantisce fama e soldi. Ma la selezione dei siti è un trionfo di sprechi e burocrazia, scrive Emanuela Fontana, Lunedì 01/08/2016 su “Il Giornale”. L'unico brivido è arrivato dal golpe. E non è stata una suspense piacevole, né prevedibile per la quarantesima assemblea del World Heritage Committee dell'Unesco. Il comitato ogni anno decreta i nuovi siti artistici e naturali da inserire nella lista del Patrimonio mondiale dell'agenzia Onu. Un paio di settimane fa era riunito a Istanbul: mentre il verdetto stava per essere emesso, i carri armati occupavano le strade e Recep Tayyp Erdogan parlava via smartphone da un luogo ignoto. Panico, interruzione dei lavori per una giornata, ma, colpo di Stato a parte, era tutto già scritto: sempre più organismo politico (sono i diplomatici, da qualche anno, a far parte delle delegazioni, non i tecnici), con un budget che destina al lavoro di scelta dei siti e alle riunioni più soldi che all'assistenza internazionale, l'organismo dell'Onu delegato alla tutela della bellezza mondiale decretava i «vincitori» del 2016: ventuno nuovi siti che da ora avranno il marchio Unesco, garanzia di visibilità, turismo e soldi. Soldi che però, almeno per i Paesi occidentali, non arrivano dal World Heritage, che pure li inserisce nel gotha della bellezza universale, ma in gran parte dagli Stati di appartenenza. Mettersi all'occhiello il logo di Patrimonio dell'umanità Unesco è ormai un prezioso richiamo turistico e l'inserimento nella world list è diventato una sorta di vittoria nel Risiko della cultura mondiale, ma in realtà il bilancio del fondo speciale dedicato alla salvaguardia dei luoghi più preziosi dell'umanità rappresenta meno del 5% del budget complessivo dell'organizzazione: circa 30 milioni di dollari contro gli 802 del mastodontico conto economico dell'agenzia dell'Onu, in cui il 45% delle spese, quasi 400 milioni, sono destinate al personale. Dei 30 milioni del fondo 7,8 vengono spesi per la valutazione delle candidature e i meeting, 5,5 milioni per l'assistenza. Rivolti quasi esclusivamente ai Paesi più bisognosi. A ricevere la fetta maggiore dei finanziamenti sono Tanzania, con oltre un milione e trecentomila dollari, Costarica, Ecuador, Brasile, Perù, Egitto e Cina (45 programmi, quasi un milione di dollari). Quanto all'Italia, come la maggior parte delle nazioni europee e gli Stati Uniti, non percepisce fondi dalla speciale riserva che si occupa del patrimonio planetario. L'ultimo versamento al nostro Paese nel capitolo International assistance risale al 1994: 20mila dollari per un corso di formazione. Proprio la Penisola è stata la grande assente nelle nomination 2016, e per di più ha ricevuto una sorta di ammonizione relativa a uno dei suoi gioielli, Venezia, a rischio esclusione dai patrimoni del globo terrestre se non si corre ai ripari (vedi anche l'altro articolo in pagina). Eppure dall'Italia va all'Unesco un fiume di soldi: siamo il secondo contribuente dopo il Giappone con 52 milioni di euro di versamenti complessivi. A questi si aggiungono quelli previsti da una legge italiana, la 77/2006, che dispone il finanziamento di una selezione annuale di progetti presentati dai cinquantuno siti della Penisola riconosciuti come patrimonio dell'umanità. Dal 2011 a oggi, il ministero dei Beni culturali ha versato 11 milioni 82mila euro totali alle località patrimonio Unesco. In vetta alla classifica dei super premiati figurano due siti: «I Longobardi, i luoghi del potere» (un milione di euro in un quinquennio; vedi le tabelle in queste pagine) e Siena con val d'Orcia, San Gimignano e Pienza, dove si è svolto il Festival Unesco delle Terre di Siena (un milione 54mila euro totali, 273mila al festival). Seguono i dipinti rupestri della val Camonica, Mantova con Sabbioneta, e le residenze sabaude. Scendendo nella classifica dei siti maggiormente finanziati si trovano poi Modena (515mila euro), sotto i 500mila euro ci sono Venezia, Matera e Piazza Armerina. Mantova e Sabbioneta hanno avuto quasi il doppio di Assisi (357mila), mentre i trulli se la sono cavata con 324mila euro. A pagare l'onore di ricevere il marchio Unesco è dunque l'Italia. Anche qui, però, la crisi si è fatta sentire. Fino a cinque anni fa gli elenchi dei beneficiari dei fondi per i siti premiati erano lunghi almeno tre pagine. Oggi un paio di righe. Il fiume è diventato un rivolo e per il 2016 nel bilancio dello Stato italiano solo 143mila euro sono stati per il momento assegnati. La maggior parte a «Modena, cattedrale, torre civica e piazza Grande per la riqualificazione del bookshop e della biglietteria» e per «un nuovo ingresso per la Ghirlandina», il resto ad Assisi. Per fare qualche confronto, solo nel 2011 i fondi avevano superato i sei milioni e mezzo. E nel 2012 ci si poteva permettere di versare a Siena 63mila euro per pulire le strade e i vicoli «dagli escrementi dei colombi». O a Monte San Giorgio, confine italo-svizzero, 98mila euro per il progetto «Paleontologi per un giorno». Anche oggi, comunque, e nonostante la stretta finanziaria, entrare nella lista dell'Unesco dà un vantaggio tutt'altro che irrilevante: poter accedere al fondo riservato del ministero dei Beni culturali passando davanti ad altri potenziali rivali. Senza contare i finanziamenti regionali e i progetti dei comitati privati: Venezia ne ha da sola 26. In più c'è la ricaduta in termini di maggiore afflusso turistico. Secondo uno degli ultimi studi, svolto dall'Accademia Aidea su Villa Adriana a Tivoli, Pompei e val Camonica, i maggiori guadagni legati al marchio Unesco sono pari a circa il 30%. Tivoli, per esempio, con oltre 224mila visitatori, avrebbe una spesa turistica riconducibile solo al marchio Unesco di 480mila euro. Pompei addirittura di 9,4 milioni. Perfino in Valcamonica, dove i visitatori sono pochi, circa 44mila, il maggiore incasso ottenuto tramite il «logo» è di 90mila euro. Tutto bene, dunque? Niente affatto. Un recente studio di Pricewaterhouse Coopers rileva che i siti Unesco del nostro Paese godono di uno scarso ritorno commerciale: sedici volte inferiore a quello dei siti americani (che sono la metà), sette di meno di quello dei beni inglesi e quattro di quello dei francesi. Forse perché grande contribuente dell'Unesco in generale, l'Italia non compare tra i finanziatori volontari dello specifico fondo World Heritage dell'organismo della Nazioni Unite (ci sono Francia e Germania). Il nostro Paese ha ridotto anche i contributi obbligatori a 122mila euro annui (non ancora versati al 30 giugno 2016). Quattro anni fa erano 163mila. Il Giappone ne versa 316mila, l'Inghilterra appena più di noi, la Cina, che ci tallona per numero di siti (50), paga il doppio della Penisola. Sono cifre comunque minime, che non condizionano le scelte dell'organizzazione dell'Onu. A concorrere alla decisione sulla lista dei siti vincitori sono in realtà un insieme di fattori: la dimensione della delegazione, i rapporti sottotraccia che vedono gli ex Paesi del Terzo mondo regolarmente schierati in opposizione all'Europa, la capacità di creare candidature di sistema. Insomma, contano diplomazia e relazioni. Più la politica che la bellezza. Tra versamenti obbligatori e volontari degli Stati e finanziamenti per progetti dedicati, le entrate del World Heritage Fund per il biennio 2014-2015 ammontano a 8,2 milioni. Ma mamma Unesco destina al WHF altri 22 milioni di euro, di cui sei solo per il personale. Ci sono anche contributi privati, come i centomila euro della giapponese Evergeen Digital, che realizza documentari sul patrimonio mondiale in partnership con l'Unesco, o come l'agenzia pubblicitaria, sempre giapponese, Kobi Graphis (altri centomila dollari). In cinque anni il fondo del World Heritage ha perso oltre un milione di contributi volontari. E anche quelli promessi arrivano a rilento: a marzo 2016 le quote versate erano appena il 15%. Come vengono spesi questi soldi? Con tutte le deformazioni tipiche dei bilanci delle pachidermiche agenzie sovranazionali. Solo per l'organizzazione delle riunioni, compreso il meeting annuale (a Istanbul è stata rinnovata la proposta di svolgerlo ogni due anni per risparmiare), si superano i due milioni di spesa. A questi costi «burocratici» si aggiungono quelli per la selezione dei siti candidati: altri 5,74 milioni. Il totale si avvicina agli otto. Una cifra che supera di gran lunga le spese dedicate all'assistenza internazionale, indicate nel bilancio consuntivo in 5,51 milioni per il biennio, di cui meno di un quinto strettamente riservati ai Sites in danger, i siti in pericolo. Due milioni e mezzo vanno a programmi di comunicazione e promozione di partnership. Quanto ai report di controllo sui siti per verificarne la conservazione, si sfiora il milione e quattrocentomila dollari. Le spese maggiori sono insomma assorbite dalla frenetica attività degli ispettori spediti in giro per il mondo. Nel 2015 le uscite per le missioni sui siti candidati alla World List si sono aggirate tra i 20 e i 45mila dollari per ogni singolo dossier. Per il 2017 la valutazione itinerante di 24 nomination richiederà 1,3 milioni. Nel bilancio preventivo è inserito anche un viaggio in Italia: la visita alle «fortificazioni veneziane costruite tra il XV e il XVII secolo», candidatura della Penisola, costerà intorno ai 31mila dollari.
Il giallo dei gettoni d’oro alla Rai. «In ogni chilo 5 grammi in meno». L’inchiesta sui premi dei giochi in tv. Il fornitore? Banca Etruria. Tutto inizia con la signora Maria nel 2013: ha vinto 100 mila euro e ne incassa poco più di 64 mila, scrive Sergio Rizzo il 23 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”. Dove vanno a finire quei cinque grammi spariti da ogni chilo d’oro fino che la Rai compra per distribuire fin dal lontano 1955 gettoni di metallo prezioso ai concorrenti dei giochi a premi, è mistero. Non meno misterioso è il modo in cui spariscono. Ma che qualche vincitore si sia ritrovato in mano gettoni d’oro taroccati, e che lui e la Rai abbiano subito una frode bella e buona, è fuor di dubbio. La sconcertante vicenda l’ha scoperta Sigfrido Ranucci, autore di un servizio televisivo che Report di Milena Gabanelli manda in onda stasera su Raitre. Tutto comincia quando alla signora Maria Cristina Sparanide, che nel 2013 ha vinto 100 mila euro alla trasmissione Red or Black su Raiuno arriva una lettera della Zecca, incaricata dalla Rai di coniare quattro gettoni d’oro del valore unitario di 20 mila euro per saldare il conto. Perché 80 mila euro e non 100 mila? Semplice: ci sono le tasse, ma questo il concorrente lo sa. Quello che invece apprende solo quando legge la lettera del Poligrafico dello Stato è che deve pagare pure l’Iva sebbene, spiega il servizio di Ranucci, l’imposta non sia dovuta sull’oro per investimento, cioè quello definito da una direttiva comunitaria come «lingotto o placca». E non ha ragione forse la Treccani a definire il gettone d’oro una «placca»? A questa domanda, però, a quanto pare nessuno sa, può o vuole rispondere. Non il ministero dello Sviluppo. Non le Finanze. Né l’Agenzia delle Entrate. Oltre alle tasse, all’Iva e al costo del conio del gettone c’è poi un’altra voce a carico del vincitore: il calo del 2 per cento dovuto alla fusione. Come se su un chilo d’oro si perdessero 20 grammi ogni volta che si fonde il metallo. Decisamente curioso. A conti fatti, la vincita di 100 mila euro si riduce così a poco più di 64 mila. Ma se l’Iva e quel fantomatico calo, sono questioni legate a interpretazioni astruse di norme astruse, ben altra storia è quella della qualità del metallo. I gettoni che escono dalla Zecca sono marcati come oro fino: 999,9. Quando però la signora Sparanide li porta a un’azienda orafa per farli valutare, il risultato la lascia di stucco: non è oro purissimo. Lo conferma anche un laboratorio specializzato accreditato dal ministero per le analisi legali. Il risultato è identico: si tratta di oro 995. Significa che per ogni chilo ci sono 5 grammi di altro metallo non prezioso. Il bello è che la Rai, c’è scritto nero su bianco nel contratto, l’ha acquistato (e pagato) come oro 999,9. Dunque, in questa incredibile vicenda, è chiaramente parte lesa. La faccenda è pelosissima. Milena Gabanelli precisa che la Rai compra ogni anno dai 6 ai 10 milioni di euro di gettoni d’oro dalla Zecca, che a sua volta si rifornisce del metallo in lingotti sul mercato. Da chi? Da Banca Etruria, fornitore storico degli orafi di Arezzo. Da quell’istituto travolto da una bufera nei mesi scorsi per le obbligazioni subordinate la Zecca ha acquistato «milioni di euro in lingotti d’oro per trasformarli in gettoni della Rai», dice Ranucci, «per anni e senza bando di gara». Perché «è la banca che ci fa il prezzo più basso», replica la Zecca. Aggiungendo che dei lingotti forniti da Banca Etruria «il 20 per cento è stato controllato in ingresso, secondo le nostre procedure di qualità, ed è risultato oro 999». Saranno dunque le procedure, ma resta il fatto che l’80 per cento non è stato controllato. A scanso di equivoci la Zecca si è premurata di presentare un esposto alla procura. E la cosa non finirà qui.
Checco Zalone, La prima Repubblica è la colonna sonora di Quo Vado? Scrive Giulio Pasqui lunedì 21 dicembre 2015. Checco Zalone non solo ci ha aiutati a film sbanca-botteghino, ci ha abituati anche a colonne sonore, scritte e cantate dallo stesso, degne di nota. E Quo Vado?, il nuovo film prodotto da TaoDue e distribuito da Medusa, poteva farne a meno? Ovviamente no. Domenica 20 settembre, in occasione dell'ospitata a Che tempo che fa, il comico barese ha presentato La prima Repubblica. "E' una canzone che ho scritto per Adriano Celentano - ha detto, scherzando - è il mio mito di sempre. Ma c'è un problema: lui non lo sa. Ha un ritornello orecchiabile...". E in effetti alcuni passaggi del brano/colonna sonora ricordano tanto lo stile del Molleggiato eFatti mandare dalla mamma. La Prima Repubblica viene definito come "un brano apocrifo che racconta con nostalgia quello che era il modo di vivere in Italia negli anni ‘80. Lo stile di vita di un paese che durante la Prima Repubblica viveva spensierato, godendo di un modo di fare diffuso in tutta la penisola. E’ un coro di persone felici che cantano allegramente la bellezza di quei momenti passati, non potendo scordare le consuete modalità che per un ventennio hanno caratterizzato l’Italia, diventando così il DNA del nostro Paese. Perché tutto cambia, ma in realtà nulla cambia veramente".
Checco Zalone, La prima Repubblica, Lyrics
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu cosa ne sai
Dei quarantenni pensionati
che danzavano sui prati
dopo dieci anni volati all'aeronautica
e gli uscieri paraplegici saltavano
e i bidelli sordo-muti cantavano
e per un raffreddore gli davano
quattro mesi alle terme di Abano
con un'unghia incarnita
eri un invalido tutta la vita
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu cosa ne sai
Dei cosmetici mutuabili
le verande condonabili
i castelli medioevali ad equo canone
di un concorso per allievo maresciallo
sei mila posti a Mazzara del Vallo
ed i debiti (pubblici) s'ammucchiavano
come i conigli
tanto poi
eran cazzi dei nostri figli
Ma adesso vogliono tagliarci il Senato
senza capire che ci ammazzano il mercato
senza Senato non c'è più nessun reato
senza reato non lavora l'avvocato
il transessuale disperato
mi perdi tutto il fatturato
ed al suo posto c'è un Paese inginocchiato
Ma il Presidente è toscano
ell'è un gran burlone
ha detto “eh, scherzavo”
piuttosto che il Senato
mi taglio un coglione
La prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
era bella assai
la prima Repubblica
non si scorda mai
la prima Repubblica
tu che ne sai
Ma davvero Quo Vado di Checcho Zalone racconta l'Italia di oggi? Il 1° gennaio arriva l'attesissimo nuovo film di Checco Zalone, "Quo vado?", atteso dai fan ma anche dagli esercenti dal momento che il suo ultimo film ha incassato la cifra record di 51 milioni di euro. Il nuovo film racconta la storia di Checco, un ragazzo che ha realizzato tutti i sogni della sua vita: vivere con i suoi genitori evitando così una costosa indipendenza, rimanere eternamente fidanzato senza mai affrontare le responsabilità, un lavoro sicuro ed è riuscito a ottenere un posto fisso nell’ufficio provinciale caccia e pesca. Un giorno però tutto cambia: uìil governo vara la riforma della pubblica amministrazione che decreta il taglio delle province, Checco viene trasferito al Polo Sud. Il regista e attore barese ha scelto però di non fare promozione tradizionale e al posto del trailer sta diffondendo sulla sua pagina Facebook dei piccoli spot ironici autopromozionali. Il film comico spiega il Paese meglio degli studiosi secondo alcuni osservatori. Abbiamo chiesto a uno di loro, Ilvo Diamanti, che ne pensa, scrive Ilvo Diamanti il 15 gennaio 2016 su "L'Espresso". Ho assistito con attenzione “professionale” alla proiezione di “Quo vado?”, il film di Checco Zalone, diretto da Gennaro Nunziante. Naturalmente, io non sono un critico cinematografico. E neppure un esperto. Lo ero, di più, da giovane, quando seguivo e, a volte, conducevo i cineforum, nella provincia veneta. Ma, poi, il lavoro e i viaggi (per lavoro: insegno in sedi universitarie diverse, lontane da dove risiedo) hanno preso il sopravvento. E ho ripiegato sui dvd e sugli streaming. Che ti seguono nei viaggi e in ogni trasferta. Anche se i film vanno guardati nelle sale cinematografiche. Al buio, in silenzio. Così, da qualche anno, anzi, da molti anni, al cinema ci vado saltuariamente. Spinto da mia moglie. Perlopiù, a vedere film diretti o interpretati da amici. Io, peraltro, ho perfino partecipato all’ultimo film di Carlo Mazzacurati. Amico carissimo (e in-dimenticato). “La sedia della felicità”. Dove, per venti secondi, ho recitato la parte di… me stesso. L’esperto che analizza la società (del Nordest). Così, ho accettato di vedere e commentare il film di Zalone con l’occhio dell’analista sociale. E politico. Come di fronte a un ritratto dell’italiano medio, dei suoi miti, dei suoi desideri, dei suoi valori. D’altronde, com’è noto, è già avvenuto in passato. La commedia all’italiana: ha raccontato l’Italia della ricostruzione e del miracolo. Con realismo e ironia. Ma ciò è avvenuto anche in tempi recenti. Basti pensare a Paolo Villaggio e al suo personaggio più noto: Fantozzi rag. Ugo. Io stesso, nell’ambito del mio corso di Comunicazione Politica, all’Università di Urbino, ho organizzato un seminario intitolato: “Politica e spettacolo”. Anzi, “Politica è spettacolo”. Dove ho invitato, fra gli altri, Antonio Albanese. Inventore e attore di alcune straordinarie maschere del nostro tempo. Delineate, oltre che interpretate, con la cura del sociologo. O dell’antropologo. Penso a Ivo Perego, idealtipo del piccolo imprenditore della provincia lombardo-veneta. O, per altro e diverso “verso”, a Cetto La Qualunque. Maschera esemplare del politico-politicante del Sud (ma non solo), buffo e un po’ buffone. Al proposito, Albanese rivelò ai miei studenti, che «nessuna parola e nessuna frase è mia. Ho raccolto registrazioni in occasione di diverse elezioni locali. Nel Sud. La sceneggiatura è loro. Dei Cettilaqualunque presenti sul nostro territorio». E che dire di Neri Marcorè (anch’egli invitato ai miei corsi). Autore di “imitazioni” di successo, imitate dagli stessi imitati. Come Maurizio Gasparri. Ma lo stesso discorso, oggi, vale per Maurizio Crozza. Come dimenticare l’indimenticabile maschera di Bersani? Più efficace dell’originale, purtroppo per l’interessato. Mi accorgo, ora, che il tentativo di spiegare il motivo per cui un in-esperto di cinema, come me, venga invitato a commentare un film, per quanto “eccezionale”, per numero di spettatori e volume di incassi, mi ha portato lontano. Tanto lontano, che ora rischio di perdermi. D’altronde, Francesco Anfossi, su “Famiglia Cristiana”, ha scritto che «Zalone e il regista Nunziante spiegano l’Italia meglio di Ilvo Diamanti o Giuseppe De Rita». Naturalmente, De Rita non ne ha bisogno, ma io ci tengo a imparare dai maestri. Tanto più se realizzano analisi di successo, come “Quo Vado?”. Così ho guardato il film cercando di capire quanto l’Italia di Nunziante e Zalone coincida con le mie rappresentazioni. E interpretazioni. Premetto che mi sono divertito. Ho riso molto. E ho provato a riflettere. Su quanto sia realistica e attuale «l’Italia malinconica e meschina di Checco Zalone», come la definisce Goffredo Fofi su “Internazionale”. L’Italia fondata sul “posto fisso”. («Cosa vuoi fare da grande»? Chiede il maestro al giovane Checco. E lui, prontamente: «Il “posto fisso”»). L’Italia che, mira, anzitutto, al pubblico impiego, nei servizi dello Stato. Checco Zalone, impiegato alla Provincia (chiusa per legge), disposto a girare per il mondo, fino in Norvegia, fino ai ghiacci del Polo Nord, pur di non rinunciare al “posto fisso”. Come gli ripete e gli “raccomanda” il suo amico e protettore politico, interpretato da Lino Banfi. L’Italia fondata sulla mamma e sulla famiglia. Ebbene, la prima impressione è che questa raffigurazione è, forse, puntuale, ma caricaturale. Ancora: valida soprattutto per alcuni settori sociali e territoriali (gli adulti, il Mezzogiorno). E, comunque, datata. Perché l’Italia dei giovani, è “precaria”. Non si ferma in un “posto fisso”. I giovani, appena possono, se ne vanno dalla famiglia. Si trasferiscono altrove. In Europa, nel mondo. Non per imposizione. Nessuno li caccia. In un Paese di figli unici, figurarsi... Partono per scelta e necessità. Perché 7 italiani - e 8 giovani - su 10 ritengono che, per fare carriera, per trovare un impiego adeguato alle loro aspirazioni, i giovani debbano andarsene. All’estero. Tuttavia, a guardare i sondaggi realizzati da Demos, che utilizzo regolarmente per le mie ricerche, l’Italia di Nunziante e Zalone pare meno manierista e fantastica di quel che si potrebbe pensare. Proviamo a scorrere alcuni dati. Fra le caratteristiche che orientano la scelta del lavoro, secondo gli italiani (aprile 2015), la più importante è (appunto…) «che sia sicuro, senza rischio di perderlo e rimanere disoccupati». La prima, per il 39% degli intervistati. La seconda, per un altro 22%. Se sommiamo i due principali requisiti del lavoro, dunque, oltre il 60% degli italiani attribuisce effettivamente al “posto fisso” un ruolo importante. Anche se tra i giovanissimi (15-24 anni) conta di più la “soddisfazione”. Potendo scegliere un’occupazione per sé o i propri figli, inoltre, il 29% preferirebbe «un lavoro alle dipendenze di un ente pubblico». (La quota sale a circa il 32% nel Sud.) Anche in questo caso, si tratta della scelta più apprezzata. Seguita dal «posto in una grande impresa» (22%). E dal lavoro in proprio o da libero professionista (18%, in entrambi i casi). Di nuovo, però, la gerarchia delle preferenze cambia fra i giovanissimi. Attirati soprattutto dalla libera professione. Infine la famiglia. Secondo il 36% degli italiani, è ancora il soggetto che tutela maggiormente i lavoratori. Più dello stesso sindacato, indicato dal 16% del campione. D’altronde, «cosa distingue maggiormente gli italiani dagli altri popoli»? Naturalmente la famiglia (28%). Poi, «l’arte di arrangiarsi» (17%). Anche perché, agli italiani, è possibile “arrangiarsi”, soprattutto grazie alla famiglia. È interessante osservare che il ruolo della famiglia è riconosciuto anche dai giovani. E dai giovanissimi. In misura maggiore della media. Il profilo che emerge da questi dati, dunque, rende il “ritratto dell’italiano medio” secondo Zalone meno caricaturale del previsto. L’Italia appare ancora ispirata dal mito del lavoro fisso, nei settori pubblici, statali. Attaccata alla famiglia. Soprattutto se facciamo riferimento alle generazioni adulte e, ovviamente, anziane. A maggior ragione (ma non solo) del Sud. Questo modello, però, si adatta molto meno ai più giovani. Abituati alla flessibilità, alla precarietà. Al nomadismo. Per motivi di studio e lavoro. Ma, ormai, anche per passione. Eppure anch’essi possono sperimentare la condizione di “professionisti dell’incertezza” perché alle spalle hanno una famiglia. Un genitore o (meglio) due con lo stipendio fisso. Impiegati, magari, nel settore pubblico. Un nonno o una nonna con la pensione. Con una casa di proprietà. L’Italia di Zalone riflette, dunque, i valori e i riferimenti economici e sociali che hanno accompagnato la nostra società, nel dopoguerra. Oggi erosi dall’incertezza e dalla crisi. Ma ben piantati nella nostra storia. E ancora resistenti. Appigli necessari per vivere e sopravvivere. A chi resta - i più anziani. E a chi se ne va - i più giovani. I quali sanno, comunque, di poter tornare. A casa. Dove c’è sempre qualcuno ad attendere.
"Vinsi un miliardo di lire 35 anni fa al Totocalcio, ma non mi hanno mai pagato. Ora voglio 10 milioni di euro". Parla Martino Scialpi il miliardario mancato: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione...", scrive Giuseppe Caporale il 3 marzo 2016. Ora che i suoi “nemici” di una vita sono finiti nel registro degli indagati, ora che un pezzo di Stato (presidenti e dirigenti del Coni, cancellieri e giudici di diversi tribunali e avvocati) è dentro una inchiesta giudiziaria che promette di mettere la parola fine alla sua assurda vicenda, Martino Scialpi tira finalmente un sospiro. “Sono 30 anni che lotto, dottore... non so se lei può comprendere la mia amarezza. La mia rabbia”. Non si è mai trasformato in un assegno circolare il 13 al Totocalcio fatto nel 1981 da questo commerciante di Martina Franca (Taranto). Di quel miliardo di lire vinto sulla carta, non ha mai ottenuto nemmeno un centesimo. Ed ora che sono trascorsi tre decenni e si ragiona ormai da un bel pò in euro, lui spera di incassare parecchi soldi in più: “Ho chiesto 10 milioni di euro come risarcimento. Guardi, non sono pochi. Solo di spese legali in questi anni avrò sborsato un milione... Non mi crede? Ho dovuto sostenere 33 cause. Perfino quando un tribunale di Roma ha chiesto al Coni di trovare una conciliazione con il sottoscritto, questi signori si sono negati. E ora per tutti i loro tentativi maldestri di non pagarmi sono finiti nei guai con la giustizia penale....” Il Coni sostiene che la matrice del tagliando non sia mai arrivata all’archivio corazzato del Totocalcio, ma la schedina, dopo una serie infinita di traversie giudiziarie, nel 1987 fu dichiarata autentica. Scialpi denuncia invece una serie di “anomalie e discrasie” che avrebbero “influenzato” la decisione del tribunale civile di Roma che, il 25 novembre del 2014, ha accolto l’istanza presentata dal Coni di sospensione dell’efficacia del titolo esecutivo sul quale si fonda il pignoramento presso la Bnl, conto terzi, della somma di 3,9 milioni di euro nella disponibilità del Coni: “Come è possibile - dice ancora Scialpi - che questa somma sia ancora bloccata grazie, tra l’altro alla presentazione di documenti falsi, quando è ormai acclarato che quei soldi me li devono dare. Quanto vogliamo ancora andare avanti con questa farsa”. Nella denuncia si rammenta che il 14 febbraio del 2012 un giudice civile ordinò al Coni di pagare nei confronti di Scialpi la somma di oltre 2 milioni e 300mila euro, ma l’efficacia esecutiva del titolo fu sospesa (dopo l’opposizione dello stesso Coni) dal giudice Massimiliana Battagliese il 2 agosto 2013. Il provvedimento però non fu “mai notificato” allo scommettitore, al suo legale e all’avvocato domiciliatario a Roma. Secondo i denuncianti il Coni avrebbe presentato documenti falsi per attestare l’avvenuta notifica dello stesso provvedimento alle controparti e condizionare la sentenza del giudice. Il Coni però ribatte e fa presente che “pretese economiche del sig. Scialpi sono già state respinte con sentenze del Tribunale di Roma del 1983 e della Corte d’appello di Roma del 1985, passata in giudicato. Avverso tale ultima pronuncia il sig. Scialpi ha proposto ben tre domande di revocazione, tutte respinte dalla Corte d’appello di Roma, con sentenze confermate dalla Corte di Cassazione (da ultimo nel gennaio 2012). L’unico provvedimento, a carattere provvisorio (si trattava di un’ingiunzione di pagamento), che ha condannato il Coni, adottato dal Tribunale di Roma il 9 febbraio 2012, è stato revocato dallo stesso Tribunale pochi giorni dopo, con ordinanza del 14 marzo 2012. Pertanto, il sig. Scialpi non ha diritto di pretendere alcunché dal Coni”. Ora però è intervenuta la procura di Potenza: sono 36 gli indagati per abuso d'ufficio legati all'infinita vicenda giudiziaria della mancata corresponsione della vincita. Tra gli indagati vi sono i vari presidenti del Coni che si sono succeduti in oltre 30 anni di cause, 11 magistrati dei tribunali di Taranto, Bari e Roma, ufficiali della Guardia Finanza, un dirigente dell'Azienda Monopoli di Stato e alcuni avvocati del foro di Roma, di Taranto e dell'Avvocatura dello Stato. L’inchiesta penale è approdata a Potenza perché la sede giudiziaria competente ad indagare su vicende che riguardano magistrati in servizio presso il distretto della Corte di appello di Lecce, al quale Taranto appartiene.
Corruzione, Italia bocciata. Nella Ue fa peggio solo la Bulgaria. La pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con "gravi problemi". Rispetto al 2014 siamo migliorati di un punto, ma non basta per la sufficienza. Ecco come funziona l'indicatore, che misura reputazione e competitività, riconosciuto a livello mondiale, scrive Gianluca De Feo il 27 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Come è lontano l'Occidente. Certo, l'Italia dell'onestà nell'ultimo anno ha fatto qualche passo in avanti. Ma la distanza dai paesi “normali” è ancora abissale. E la pagella di Transparency International ci relega nel girone delle nazioni con “gravi problemi di corruzione”. Il voto è migliorato rispetto al 2014: un punto in più, arrivando a 44. Che però non basta per la sufficienza, fissata a quota cinquanta. Il risultato ci fa salire nella classifica mondiale, superando altri otto stati fino alla sessantunesima posizione. Ma l'Europa resta un miraggio: solo la Bulgaria è considerata peggio di noi, tutti gli altri ci guardano dall'alto in basso. E sullo stesso scalino ci ritroviamo in compagnia di Lesotho, Senegal, Montenegro e sud Africa. Insomma, siamo messi decisamente male. La questione non è secondaria. Ormai l'indice di Transparency è diventato un indicatore riconosciuto a livello internazionale, con un peso nella valutazione di un paese e della sua competitività. La bocciatura incide nella capacità di attrarre investimenti, perché una nazione corrotta non dà garanzie nei contratti, non offre correttezza nelle gare di appalti. E non è un caso se oggi i capitali che entrano sul mercato italiano arrivano soprattutto da nazioni che sono addirittura considerate peggio di noi in quanto a moralità, come la Cina (posizione 83), la Russia (posizione 119) o il Kazakhistan (posizione 123). Qualche dubbio può nascere se andiamo a vedere alcune petrolpotenze arabe, tutte posizionate più in alto di noi: il Qatar (posizione 22), Emirati (23), Arabia Saudita (48), il Kuwait (55). Possibile che anche gli sceicchi siano più rigorosi di noi? Il cuore della questione però è la natura di questo indicatore di moralità: non misura la corruzione, la quantità di tangenti o il numero di arresti per bustarelle, ma un valore immateriale come la percezione della corruzione. È un termometro della nostra reputazione, del modo in cui veniamo visti. Così gli arbitri della nostra immagine di legalità diventano una serie di istituti privati, che pongono domande a esperti qualificati e poi elaborano i sondaggi fino a distillare una loro classifica. Gli specialisti di Transparency a loro volta fondono le singole hit fino a stilare la graduatoria finale, con “metodologie perfezionate nel corso degli ultimi venti anni”. Nella giuria c'è per esempio la Fondazione Bertelsmann, con il suo indice di governance sostenibile, che valuta più elementi: se esiste “un meccanismo di integrità legale, politico e pubblico che efficacemente previene gli abusi dei funzionari pubblici”; “fino a che punto chi viola le leggi viene perseguito e condannato”; “quali sono i risultati del governo nel contrastare la corruzione”. E qui è difficile che l'Italia non venga stroncata, tra processi lenti, sentenze inefficaci o vanificate dalla prescrizione, condannati che riescono a farsi eleggere governatori di regioni chiave. C'è poi l'analisi dei rischi formulata dall'Intelligence Unit del centro ricerche del settimanale britannico Economist, focalizzata sulla gestione dei fondi pubblici, sull'indipendenza dei funzionari che si occupano di appalti ed enti, sull' “esistenza di una tradizione nel pagare mazzette per vincere i contratti e ottenere favori”. Un parametro quest'ultimo che automaticamente ci mette in cattiva luce, perché la nostra storia ha le mani poco pulite la questione morale è uno slogan che non si è mai trasformato in battaglia, neppure tra gli eredi di Enrico Berlinguer. Un report simile viene stilato dal gruppo di informazione economica Ihs che stima l'incidenza della corruzione nelle attività delle compagnie private mentre la business school svizzera Imd misura la competitività di un paese “attraverso 333 criteri”. Ci sono poi le analisi della Political Risk Services statunitense che stabiliscono i rischi politici, economici e finanziari prendendo in esame pure le mazzette. Quindi il World Economic Forum, con l'attenzione all'abuso di fondi pubblici, alle bustarelle per evadere le tasse, per vincere gli appalti e per comprare le sentenze dei tribunali. Più mirato lo screening del World Justice Project che cerca di capire la ricerca di profitti da parte di governi, magistrati, polizie, militari e parlamentari. Insomma, un gran calderone di centri studi – tutti privati, tutti con buona reputazione accademica - da cui poi Transparency distilla le sue pagelle. All'Italia quest'anno è stato dato quello che i professori spesso chiamano “un voto di incoraggiamento”. L'alchimia statistica degli arbitri internazionali sembra catturare il riflesso di alcuni cambiamenti, legati al pieno funzionamento dell'Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone e alle norme sulla trasparenza nella pubblica amministrazione, ma per scalzare la pessima fama bisogna fare molto di più. Perché all'estero arriva più spesso l'eco degli scandali, dalle retate di Mafia Capitale a quelle di Expo, che non l'efficacia delle indagini che li hanno svelati. Ma soprattutto perché è inutile cercare alibi negli arcani che muovono la graduatoria: nel nostro paese la corruzione c'è, ovunque, le gare d'appalto sono lente e oscure, le figure che gestiscono gli enti statali e locali spesso hanno più meriti politici e interessi di cordata che non professionalità. E questa è una tassa occulta che tutti paghiamo, un freno allo sviluppo che mette in discussione il nostro benessere presente e futuro. «Per compiere un salto di qualità importante occorre un ruolo più forte della società civile che deve acquisire la consapevolezza che un sistema dove è grande la corruzione non crea ricchezza e alimenta profonde distorsioni del mercato», dichiara il presidente di Unioncamere Ivan Lo Bello. Gli scandinavi, gli stessi che a Bruxelles ci fanno di nuovo le pulci sul debito statale, possono vantare un pedigree di rigore irraggiungibile: la Danimarca è la prima della classe, con 91 punti su cento, mentre Finlandia e Svezia la tallonano con 90 e 89. Ma persino la Grecia della grande crisi, forse per merito della Troika teutonica, si mostra dinamica e ci distanzia di tre posizioni. La Spagna a quota 58 è lontanissima, Polonia e Portogallo hanno venti punti più di noi. Ma anche ungheresi, sloveni, croati, romeni sono visti come più integerrimi. Nella Ue, ci è dietro soltanto la Bulgaria. «Come dimostra la cronaca, la strada è ancora molto lunga e in salita, ma con la perseveranza i risultati si possono raggiungere», commenta Virginio Carnevali, presidente di Transparency Italia: «In questi giorni la Camera ha approvato le norme sul whistleblowing, le pubbliche amministrazioni stanno diventando via via più aperte e trasparenti, una proposta di regolamentazione delle attività di lobbying è arrivata a Montecitorio». Insomma, la rotta è questa ma bisogna proseguire fino a trasformare le buone intenzioni in riforme concrete. E – parafrasando una frase attribuita ad Alcide De Gasperi – aggrapparci all'Europa per non scivolare nell'Africa.
Truffe degli statali tra sanità e appalti. In 10 mesi un buco da 4 miliardi. Appalti truccati, assenteismo e consulenze inutili: i dipendenti pubblici infedeli finiscono nel dossier della Guardia di Finanza per il 2015, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 31 gennaio 2016. Ormai si sfiorano i quattro miliardi di euro, cifra record di «buco» nei conti dello Stato. È la voragine creata dall’attività illecita di circa 7.000 dipendenti pubblici infedeli. Funzionari corrotti oppure impiegati che non hanno rispettato la legge nello svolgimento delle proprie mansioni e dunque hanno compiuto illeciti che vanno dalle omissioni agli abusi. Ci sono le truffe nel settore sanitario, i mancati controlli nell’erogazione di pensioni, indennità ed esenzioni, le procedure truccate per la concessione degli appalti. Ci sono gli appalti gonfiati e i medici assenteisti, le consulenze inutili e i doppi incarichi tra i casi più eclatanti scoperti dagli investigatori della Guardia di finanza. Sono gli ultimi dati relativi alle verifiche compiute nel 2015 a raccontare l’Italia dell’illegalità e degli sprechi che provoca danni alla collettività. Mostrando un andamento che inquieta: in soli quattro mesi, da giugno a ottobre dello scorso anno, la cifra contestata è salita di oltre 500 milioni di euro. Vuol dire oltre 100 milioni ogni trenta giorni a dimostrazione che molto ancora c’è da fare — soprattutto negli uffici pubblici più periferici — per stroncare il malaffare. Basti pensare che sono ben 3.590 le persone denunciate per aver compiuto reati nel settore delle gare pubbliche.
A Modena è stato denunciato un medico che — pur risultando in servizio — rimaneva in ospedale appena un paio d’ore. Da almeno cinque anni «la regolare presenza veniva garantita solo una volta a settimana» e per cercare di giustificarsi «ha portato i tabulati del marcatempo di un’altra struttura ospedaliera dove svolgeva attività libero professionale intramoenia». Gli sono già stati sequestrati 40 mila euro, ma i controlli sono tuttora in corso. A Imperia i dottori del dipartimento di Medicina legale «certificavano la morte delle persone pur non avendo effettuato alcuna analisi perché erano altrove». Sono decine i documenti falsi trovati nel corso delle perquisizioni.
La truffa scoperta a Milano nel giugno scorso era ben più articolata e ha provocato un danno immenso. In una struttura sanitaria convenzionata con il servizio nazionale «sono stati eseguiti oltre 4.000 interventi chirurgici in violazione delle norme di accreditamento relative alla presenza minima di operatori e anestetisti, nonché di impiego di medici specializzandi». L’azienda ha comunque «autocertificato il mantenimento dei requisiti richiesti per l’accesso al rimborso della prestazione sanitaria offerta, ottenendo indebiti rimborsi per oltre 28 milioni di euro». A Brindisi si è scoperto che la prescrizione di 15.541 farmaci per l’ipertensione era stata compiuta in maniera illecita. Sono 482 i medici denunciati per un danno alla Asl pari a 194 milioni di euro.
Quello dei benefit percepiti grazie a certificazioni false è ormai un vero e proprio affare che coinvolge migliaia di persone in grado di contare sui dipendenti pubblici amici o parenti. A Potenza si è scoperto che molti anziani prendevano l’assegno sociale previsto per i residenti, pur avendo deciso di trasferirsi all’estero, grazie agli impiegati che avevano contraffatto i documenti. Soldi rubati: 259 milioni di euro. Addirittura 500 milioni di euro sono stati sottratti alle casse dell’Inps a Viterbo dove venivano «modificati i moduli per il riscatto della laurea o la ricongiunzione di periodi contributivi per ottenere indebitamente un notevole “sconto” sull’effettiva somma da versare all’Istituto previdenziale, per il riconoscimento di ulteriori periodi contributivi utili ai fini pensionistici». A Potenza un dipendente del Comune svolgeva attività privata negli orari in cui avrebbe dovuto essere in servizio. Faceva il geometra. Compensi rubati: 70 mila euro. A Milano un dirigente della Regione truccava gli appalti e in cambio riceveva favori personali. L’ultimo, la ristrutturazione da favola del suo appartamento. Valore accertato: 150 mila euro.
Auto dei vigili senza assicurazione: Striscia la Notizia arriva a Capaccio. L'inviato del tg satirico di Canale 5 è tornato in provincia di Salerno per chiarire il caso scoppiato sulla mancata copertura assicurativa di diversi veicoli in dotazione alla locale amministrazione, scrive il 29 gennaio 2016 "Salerno Today". Dopo il blitz di qualche settimana fa al Comune di Agropoli, l’inviato di Striscia la Notizia Luca Abete è tornato in provincia di Salerno. Questa volta si è recato nella città di Capaccio per occuparsi del caso scoppiato su alcune volanti dei vigili urbani e dello scuolabus, che verrebbero utilizzate nonostante prive di copertura assicurativa. Il tg satirico di Canale 5, spulciando il “portale dell’automobilista” del Dipartimento Trasporti del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ha scoperto infatti che, digitando il numero delle targhe delle auto in dotazione alla polizia municipale capaccese, queste ultime risultavano essere senza assicurazione. Il comandante dei vigili urbani e una funzionaria dell’amministrazione, intervistati da Abete, hanno confermato davanti alle telecamere, invece, che tutte le macchine dell’amministrazione "sono in regola". Sul posto sono giunti anche i carabinieri, che dopo un vertice con i dirigenti comunali, hanno spiegato al simpatico giornalista di Canale 5, che si sarebbe verificato un ritardo di comunicazione del rinnovo delle polizze tra la sede centrale dell’Agenzia assicurativa e l’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici). Dopo un po’ di tempo Abete è tornato a controllare le targhe sul “portale dell’automobilista” e tutte le auto improvvisamente sono risultate assicurate.
Vigili in giro con l’assicurazione scaduta. Nel deposito dei Monti Tiburtini 9 auto su 14 hanno il contrassegno non valido dal 31 ottobre, scrive Silvia Mancinelli il 17 novembre 2014 su “Il Tempo”. Ma se i vigili fanno le multe, a loro – in giro con l’assicurazione scaduta – la contravvenzione chi la fa? La domanda sorge spontanea, senza un velo di sarcasmo, laddove le auto della Polizia Locale di Roma Capitale circolano senza copertura assicurativa. Nel caso specifico dell’autoparco di via dei Monti Tiburtini, ad esempio, nove macchine su quattordici – parliamo di quelle in leasing e utilizzate dagli agenti dei Gruppi Tiburtino e Sapienza – espongono l’assicurazione scaduta il 31 ottobre 2014, oltre i quindici giorni di tolleranza. «Mentre alcune pattuglie erano chiamate a controllare il rispetto del blocco del traffico, le stesse erano in violazione di legge – conferma Stefano Giannini, sindacalista Sulpl -. Per una violazione del genere qualsiasi cittadino sarebbe stato multato. A noi le contravvenzioni dal terminale non spariscono di certo. Tra l’altro una situazione identica è riscontrabile anche nei Gruppi Aurelio, Appio e I Trevi. Solo ad Ostia i vigili possono stare tranquilli: a loro le assicurazioni scadono nel 2015. Alcuni colleghi già domani si stanno rifiutando di uscire in macchina, e d’altronde chi gliele paga le sanzioni da 41 euro?». «Questa incredibile vicenda segna un’ulteriore drammatica accelerazione dello sfacelo amministrativo che sta vivendo Roma – commenta Sveva Belviso, leader di Altra Destra e consigliere capitolino -. La macchina comunale è completamente impazzita, non funziona più nulla, la città è totalmente allo sbando e senza guida. E sarebbe ignobile prendersela con la polizia municipale, cui va anzi la nostra solidarietà essendo i vigili senza copertura assicurativa. L'unica responsabilità è di tipo politico e di un sindaco inetto che sta distruggendo ogni tessuto civico e amministrativo della città. Ormai siamo a livelli di pericolosità sociale, e se il Pd non caccia Marino si assumerà una responsabilità morale enorme. I romani non li perdoneranno mai». «Non vogliamo essere multati al posto del sindaco Marino – ribadisce Giannini, Sulpl - . Lui può non pagarle alcune contravvenzioni, noi non ce lo possiamo permettere». Ma le assicurazioni scadute non sono certo l’unico problema con il quale devono convivere gli agenti della Polizia Locale. Senza un vestiario adatto, spesso in servizio con giubbotti gialli in mancanza di altro. Costretti a fotografare gli incidenti con i propri cellulari, succede agli uomini del Gruppo Intervento Traffico, in attesa di una nuova macchinetta digitale, e in giro con mezzi di servizio non idonei al trasporto degli arrestati o troppo piccoli, con i furgoni per i rilievi degli incidenti stradali fermi per manutenzione. Senza visite mediche che attestino la loro idoneità al servizio in strada, impossibilitati ad usare mascherine che li proteggano dallo smog, «ma soprattutto insufficienti, considerata la cronica carenza di personale, a coprire le esigenze di una Capitale europea – aggiunge Giannini -. Per noi Roma, se non è in grado di essere Capitale, può chiudere i servizi come un Comune qualsiasi alle 20 del venerdì. Sfidiamo il Sindaco su questo tema: basta straordinari e servizi notturni per la Polizia Locale. Ci pensasse lo Stato».
“E il tagliando dell’assicurazione?”. Le auto dei vigili ne fanno a meno. Il comandante Donati: “Una dimenticanza, mica siamo a Napoli. Ora provvederemo ad esporli”, scrive Vincenzo Chiumarulo il 7 febbraio 2013 su “La Repubblica”. Che ogni auto sul suolo pubblico debba tenere bene in vista il contrassegno dell'assicurazione, ce lo confermano due vigili urbani in piazza Umberto, appena usciti da un'auto di servizio: una Punto blu col parabrezza talmente pulito, che gli agenti devono aver pensato fosse un peccato rovinarlo con il porta assicurazione. Ma questa non è l'unica vettura dei vigili col parabrezza spoglio in giro per la città. Davanti alla Prefettura ci sono tre auto e un furgoncino della polizia municipale, ma del contrassegno dell'assicurazione non c'è nessuna traccia. Perfino fuori dal comando della polizia municipale, al quartiere Japigia, seduto nella sua auto senza contrassegno, se ne sta un agente incurante di violare lo stesso codice della strada che è tenuto a far rispettare ai cittadini. Se un comune mortale dimenticasse di esporre il contrassegno dell'assicurazione, infatti, si beccherebbe una multa che, secondo l'articolo 181 del Codice della strada, oscilla tra i 24 e i 94 euro. E poiché la legge è uguale per tutti, almeno sulla carta, come mai la polizia municipale di Bari non usa esporre l'assicurazione? "E' stata una nostra mancanza", spiega il comandante dei vigili urbani, Stefano Donati che assicura: "Dopo la vostra segnalazione, stiamo provvedendo a far esporre i contrassegni in tutti i mezzi": un parco auto di un centinaio di autovetture. Le nostre, aggiunge, "sono auto come tutte le altre e quindi anche noi abbiamo l'obbligo di esporre l'assicurazione". Fino a ieri, però, "la prassi era un'altra e il contrassegno lo tenevamo nel libretto e, all'occorrenza, lo tiravamo fuori". Un'usanza di cui sono convinti anche gli agenti in servizio ai quali chiediamo spiegazioni sul contrassegno fantasma: "Non siamo obbligati a esporlo", dicono contraddicendo il loro stesso comandante: "Tanto si sa che le auto pubbliche sono assicurate". Eppure Donati tiene a precisare che "non siamo mica a Napoli, dove non c'erano i soldi per assicurare le auto: la nostra è stata una dimenticanza ma ora è tutto a posto". Non proprio tutto, però, dal momento che mentre parliamo con lui ci sfreccia davanti un'altra auto senza tagliandino. "Non è possibile", tuona il co-mandante che ci invita "a controllare anche le auto delle altre forze dell'ordine, della Prefettura e del Comune di Bari", per verificare che la "prassi di non esporre il contrassegno" è diffusa "tra le auto pubbliche". Seguiamo il consiglio e troviamo subito un'auto della polizia di Stato, in via Piccinni, in effetti senza il tagliando sul parabrezza. Mentre altre tre vetture, due del Comune e una della Prefettura, in piazza Libertà, espongono il contrassegno in bella vista. Proseguendo la passeggiata a caccia di tagliandi, incrociamo anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, al quale chiediamo spiegazioni: "Probabilmente - dice - la polizia municipale non ha l'obbligo di esporre il contrassegno ma garantisco che le auto sono assicurate, altrimenti la responsabilità ricadrebbe sui dirigenti del Comune, i quali, stia sicuro, preferirebbero non far uscire le auto piuttosto che mandarle in giro senza assicurazione". Non "avevo idea di questo problema fino a oggi, ma credo si tratti di una mancanza grave della polizia municipale", rileva il direttore generale del Comune, Vito Leccese, promettendo che "darà disposizioni affinché siano immediatamente esposti i contrassegni dell'assicurazione in tutte le vetture dei vigili urbani".
Quei burocrati che salvano se stessi, scrive Sergio Rizzo il 28 gennaio 2016 su "Il Corriere della Sera". In nessun Paese al mondo le burocrazie si suicidano. Fra tutte le leggi fondamentali che regolano l’esistenza della pubblica amministrazione, ecco la più importante. Dunque per impedire che una riforma abbia successo c’è un metodo infallibile: affidarne l’applicazione agli stessi burocrati. Viene deciso che la pubblica amministrazione si deve avvalere per i rapporti con i cittadini della posta elettronica certificata? Ecco che salta fuori qualche misteriosa disposizione interna per cui la richiesta agli uffici si può certamente fare per mail, ma la domanda è ritenuta valida solo se presentata di persona o tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Si introduce lo sportello unico per le imprese, che dovrebbero poter svolgere tutte le pratiche per via telematica con un risparmio enorme di tempo e denaro? Ecco allora che qualche Regione alza un muro a difesa della propria piattaforma informatica, ovviamente diversa da quella della Regione accanto: con il risultato di complicare ancora di più le cose. Vale per le burocrazie locali, come per le amministrazioni centrali. Vale per aprire un’attività, dismettere un’utenza, ottenere una cartella clinica, chiedere un permesso di costruzione, regolare i conti con il fisco... E la politica, qui, ha enormi responsabilità. Non perché siano i politici a scrivere regolamenti e circolari che stabiliscono come si devono compilare i moduli o le procedure per smaltire una tettoia di eternit. Ma perché la politica delega decisioni frutto della volontà popolare, come le leggi approvate dal Parlamento, agli stessi che dovrebbero subirle. Il caso del regolamento edilizio unico per tutti i Comuni italiani è una micidiale cartina tornasole. Finalmente il governo prende atto che è impossibile far funzionare come in tutti i Paesi civili un sistema per cui ognuno degli 8.003 municipi italiani amministra questa materia con norme differenti l’uno dall’altro, sovente contraddittorie. Si arriva all’assurdo che neppure le circoscrizioni di uno stesso Comune capoluogo applicano le stesse regole. Non sono diverse soltanto le altezze dei parapetti o le cubature minime delle stanze, ma le definizioni stesse: in un Comune con «superficie utile» si indica una determinata cosa, mentre nel Comune confinante lo stesso termine indica una cosa diversa. Per non parlare di certe follie di cui è disseminato lo sterminato panorama di articoli, commi e lettere, conseguenza quasi sempre di qualche solerzia amministrativa la cui logica è però raramente ritracciabile nelle pieghe del buon senso. Un caso? L’articolo 31 del regolamento edilizio del Comune di Fiumicino afferma che «è permessa la costruzione di cortili secondari o mezzi cortili allo scopo di dare luce e aria a scale, latrine, stanze da bagno, corridoi e a una sola stanza abitabile per ogni appartamento, nel limite massimo di quattro stanze, per ciascun piano, sempreché l’alloggio, di cui fanno parte, consti di non meno di tre stanze oltre l’ingresso e gli accessori». Tutto questo, però, «fatta eccezione per le case di tipo popolare». Il che starebbe a significare che il cortile, a parte la maniacale descrizione dei limiti (perché al massimo quattro stanze per piano, e perché l’alloggio deve averne almeno tre?) è una cosa da ricchi. Insomma un guazzabuglio infernale, al quale si ritiene di mettere conclusione imponendo, come in Germania, regole uniche valide su tutto il territorio nazionale. Regole semplici e facilmente attuabili. L’intenzione è lodevole. Si commette però il solito errore: siccome la questione è molto complicata e oltre alle leggi nazionali ci sono di mezzo centinaia di norme locali per decine di migliaia di disposizioni, il compito di mettere a punto il testo viene assegnato a un pool di funzionari competenti. Ma sono gli stessi che hanno le chiavi del labirinto, i custodi dei segreti delle burocrazie regionali e comunali, il cui potere e la cui funzione verrebbero meno se il regolamento unico vedesse effettivamente la luce, fosse semplice e facilmente applicabile in tutti i Comuni italiani. Cominciano allora le eccezioni, i distinguo, i cavilli. Ognuno butta in faccia all’altro un dpr, una legge regionale, un ingorgo urbanistico, una specifica costruttiva, un divieto lessicale, un ostacolo strutturale, un compendio normativo, una deroga altimetrica... E dopo un anno tutto è ancora fermo. La burocrazia ha raggiunto il suo obiettivo. Il resto degli italiani, che però sono la stragrande maggioranza, purtroppo no. Che serva di lezione, ma sia l’ultima. Lo diciamo ai politici: le riforme non possono esaurirsi, come quasi sempre accade, in un annuncio roboante che all’atto pratico si sgonfia miseramente. Se vogliono davvero cambiare le cose, si rimbocchino le maniche assumendosi l’onere di compiere le scelte. Perché di scelte politiche si tratta. Se poi la materia, come in questo caso, appare troppo complicata, si facciano pure aiutare dagli esperti, ma indipendenti: ce ne sono dappertutto, bravissimi e con le idee chiare. Basta guardarsi intorno, le nostre università abbondano di intelligenze pronte all’uso. Di sicuro non si può pretendere che a semplificare sia chi è pagato per complicare, e complicando assicura la sopravvivenza al proprio ruolo. Perché allora è assicurato anche il fallimento.
Il licenziamento del professore perché fece pipì in un cespuglio. Padre di tre figli, insegnava filosofia a Bergamo. L’episodio risale a 11 anni fa, scrive Gian Antonio Stella il 3 febbraio 2016 su “Il Corriere della Sera”. La scure della giustizia, che troppe volte aveva graziato bancarottieri, ladri, trafficanti di droga e truffatori, s’è finalmente abbattuta. Implacabile. E ha mozzato la testa a un professore padre di tre figli che undici anni fa, alle due di notte, in un borgo di poche anime, aveva fatto pipì in un cespuglio. Licenziato in tronco. Vi chiederete: è uno scherzo? Magari! Il protagonista di questa storia (meglio: la vittima di questa giustizia ottusamente ingiusta) si chiama Stefano Rho ed è nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per quella straordinaria organizzazione che è il Cuamm-Medici con l’Africa. Anzi, loro stessi avevano messo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati e aver chiesto agli amici, nella «lista nozze», il dono di «22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio...». Rientrato con i genitori in Italia, a Bergamo, Stefano si è laureato in Filosofia alla Cattolica e si è messo in coda, di concorso in concorso, di supplenza in supplenza, per avere un posto da insegnante. Problemi? Zero. Lo dichiara lo stesso «Certificato penale del Casellario giudiziale» dove è scritto chiaramente: «Si attesta che nella Banca dati del Casellario giudiziale risulta nulla». Torniamo a scriverlo: «nulla». Undici anni fa però, qualcosa successe. Un episodio così marginale, in realtà, che quasi tutti ce lo saremmo dimenticati. O ne avremmo riso con gli amici: «Pensate che una notte...». È la sera di Ferragosto 2005. Il paesello di Averara, un pugno di case con 182 abitanti in una valle laterale della Val Brembana, ha organizzato per i concittadini e la gente dei dintorni una sagra paesana con un ospite d’onore, un cabarettista di Zelig. Pienone. Al punto che molti giovani, tra cui Stefano e il suo amico Daniele, non riescono a entrare. Gironzolano nei dintorni, e finalmente, sul tardi, un attimo prima che lo stand chiuda, riescono a bere una birra. Poi, come tutti i ragazzi del pianeta, si fermano un po’ a chiacchierare e tirano tardi. Alle due di notte, mentre gli ultimissimi nottambuli risalgono sulle loro auto per andarsene, «gli scappa». Si guardano intorno. La festa ha chiuso. Il paese, salvo un lampione qua e là, è immerso nel buio. Non c’è un bar aperto a pagarlo oro. Men che meno dove stanno, al limite della contrada. Che fare? Stefano e Daniele fanno pipì su un cespuglio. In quell’istante passa una pattuglia di carabinieri. «Ci hanno visto, chiesto i documenti, fatto una ramanzina bonaria rimproverandoci perché secondo loro c’era un lampione che un po’ di luce la faceva e ciao». Un anno dopo i due si ritrovano imputati, davanti al giudice di pace di Zogno, «perché in un piazzale illuminato adiacente alla pubblica via compivano atti contrari alla pubblica decenza orinando nei pressi di un cespuglio». Duecento euro di multa: «Non abbiamo neanche fatto ricorso e neppure preso un avvocato di fiducia. Ci sembrava una cosa morta lì». Il 2 settembre 2013 il professor Rho, da quattordici anni precario come insegnante di filosofia in varie scuole superiori della bergamasca, firma per il Ministero un’autodichiarazione dove spunta la voce in cui dice «di non aver riportato condanne penali e di non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l’applicazione di misure di sicurezza e di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi scritti del Casellario giudiziario ai sensi della vigente normativa». Tra mesi dopo, il dirigente scolastico gli comunica che da un controllo è risultato che lui, il professor Rho, risulta «destinatario di un decreto penale passato in giudicato». E lo invita a presentarsi a fine gennaio del 2014 per spiegarsi. Avute le spiegazioni, il dirigente riconosce che «appaiono plausibili le motivazioni addotte a propria discolpa» e che «se anche il prof. Rho avesse correttamente dichiarato le condanne avute le stesse non avrebbero inciso sui requisiti di accesso al pubblico impiego». Per capirci: a dichiarare il falso, perfino se fosse stato in malafede, non ci avrebbe guadagnato nulla. Anzi. Quindi, «tenuto conto del principio della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in rapporto alla gravità delle mancanze», decide di dare al malcapitato il minimo del minimo: la censura. Buon senso. Ma la legge italiana, che riesce a sbattere in galera un trentacinquesimo dei «colletti bianchi» incarcerati in Germania e arriva a scarcerare sicari mafiosi perché ha scordato una scadenza dei termini e non ce la fa quasi mai a processare i bancarottieri prima che cada tutto in prescrizione, decide che no, Stefano Rho non può cavarsela così. E la Corte dei conti, del tutto indifferente al tipo di condanna, che non prevede neppure l’iscrizione nella fedina penale (rimasta infatti candida) né un «motivo ostativo» all’assunzione nei ranghi statali, ricorda alle autorità scolastiche che Rho va licenziato. E così finisce. Il dirigente scolastico di Bergamo, Patrizia Graziani, prende atto della intimazione dei giudici contabili e dichiara la decadenza «senza preavviso» dell’insegnante, la perdita delle anzianità accumulate negli ultimi anni insegnando con continuità negli istituti bergamaschi «Natta» e «Giovanni Falcone», la cancellazione del «reo» da tutte le graduatorie provinciali eccetera eccetera... Il tutto in un Paese dove, per fare un solo esempio fra tanti, i dipendenti pubblici furbetti (agenti di custodia, bidelli, maestri...) che grazie alle clientele politiche riuscirono a farsi piazzare nel Cda dell’area sviluppo industriale di Agrigento (così da avere il trasferimento vicino a casa) sono stati assolti nonostante avessero firmato di loro pugno di avere la laurea (falso) ed «esperienza almeno quinquennale scientifica ovvero di tipo professionale o dirigenziale» o addirittura la «qualifica di magistrato in quiescenza». Assolti! Il che impone una domanda: la legge italiana è davvero uguale per tutti o dipende dal giudice che capita? Non manca, in coda a questo pasticciaccio brutto, il dettaglio paradossale: il professor Rho, che come dicevamo ha una moglie e tre figli da mantenere ed è stato buttato fuori con così feroce solerzia l’11 gennaio da un pezzo dello Stato, era stato definitivamente assunto da un altro pezzo di Stato il 24 novembre. Della serie: coerenze...
Assenteismo alla Asl, in servizio i 36 condannati a Brindisi: un oculista è stato promosso. Non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, scrive il 25 gennaio 2016 "La Repubblica" e "La Gazzetta del Mezzogiorno". Le immagini delle microcamere nascoste furono proiettate nell'aula di giustizia in cui è iniziato due anni fa e si è concluso la scorsa estate il processo di primo grado per assenteismo: si scorgevano le addette alle pulizie che strisciavano i badge altrui nella macchinetta marcatempo, all'ingresso di una delle sedi della Asl di Brindisi. Ma anche medici, infermieri, tecnici, fisioterapisti che dopo aver timbrato il cartellino si recavano a casa, a fare la spesa al discount, ad accompagnare i bambini a scuola. Per quei fatti 36 dipendenti pubblici sono stati condannati in primo grado, nel giugno scorso, a pene comprese tra sei mesi e tre anni: le accuse formulate dal pm Milto Stefano De Nozza sono a vario titolo truffa in danno dello Stato e violazione del decreto Brunetta. Inizialmente erano 48 gli imputati. Sono tutti ancora in servizio presso la stessa azienda sanitaria. Anche coloro i quali sono stati ritenuti assenteisti. Uno di essi, un oculista, ha ottenuto perfino una progressione di carriera. Uno scatto in avanti previsto dal contratto nazionale del lavoro: atto dovuto che non è stato possibile evitare, a quanto si è appreso dalla direzione generale Asl, proprio perché per i lavoratori in questione non c'è stato alcun provvedimento punitivo. I procedimenti disciplinari avviati nel 2010, quando nell'ambito della stessa inchiesta furono eseguite 26 ordinanze di custodia cautelare dai carabinieri dei Nas di Taranto, furono già allora congelati in attesa di un verdetto definitivo che è però ancora lontano dall'essere emesso. Ci sono però le motivazioni della sentenza di primo grado depositate a settembre, in cui il giudice monocratico Giuseppe Biondi ha fatto una disamina puntuale di ogni singola posizione. Le difese hanno già impugnato la decisione del tribunale e attendono che venga fissato l'appello. Viene attribuito dal giudice un rilievo di maggiore gravità ai medici coinvolti, a uno dei quali, un odontoiatra, è toccata la pena massima inflitta: tre anni di reclusione. In quanto dirigenti avrebbero dovuto controllare, a quanto è riportato, il rispetto delle regole da parte dei sottoposti. E avrebbero dovuto dare l'esempio. Tutti, poi, sottraendo ore che avrebbero dovuto essere di esclusiva proprietà del datore di lavoro, avrebbero provocato all'Azienda sanitaria locale, quindi a una pubblica amministrazione, un danno patrimoniale. Oltre che un danno di immagine dovuto - si legge - al fatto che avrebbero agito sempre "alla luce del sole". Per altro il fatto che non fosse emersa durante il dibattimento la prova di conseguenze dirette nella qualità del servizio, non avrebbe avuto alcun valore riguardo le contestazioni per cui si è proceduto: la truffa e le irregolarità nell'utilizzo del cartellino marcatempo. Nel frattempo nulla è cambiato in quel di via Dalmazia e più in generale presso l'Azienda sanitaria di Brindisi. "I procedimenti disciplinari - ha spiegato il direttore generale Giuseppe Pasqualone - sono stati riaperti". Ma non è chiaro se anche all'elenco di presunti assenteisti in camice, fra i primi in Italia a subire una condanna penale, potranno essere applicate le ultime disposizioni previste dalla riforma Madia, che prevede una linea durissima, ancor di più rispetto al passato, per i cosiddetti furbetti del cartellino.
Palermo, inquinamento: tre anni di processo inutile. "Il pm ha sbagliato imputati". Le motivazioni dell'assoluzione per gli ex governatori Cuffaro e Lombardo. Il presidente del tribunale: “Alla sbarra dovevano andare i dirigenti, non i politici”, scrive Alessandra Ziniti il 26 gennaio 2016 “La Repubblica”. Per anni in tutto il territorio siciliano c’è stato un superamento sistematico dei limiti di inquinamento ambientale e per anni c’è stata "una evidente e macroscopica negligenza dell’apparato regionale e dell’Arpa, dando prova di palese negligenza a danno di tutti i cittadini siciliani". Ma il processo che vedeva alla sbarra gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo e gli ex assessori al Territorio e Ambiente Cascio, Interlandi, Sorbello e Di Mauro è finito in un nulla di fatto perché la procura ha sbagliato imputati e imputazioni. Sono durissime le motivazioni della sentenza con le quali il presidente della quarta sezione del tribunale Vittorio Alcamo ha motivato l’assoluzione di tutti gli imputati. "Tenuto conto della delicatezza della materia e della serietà delle possibili conseguenze a carico della salute collettiva, avrebbero meritato un ben più centrato procedimento a carico dei soggetti realmente responsabili", scrive Alcamo. Rifiuto di atti d’ufficio era il reato che la procura aveva contestato ai politici per "essersi indebitamente rifiutati di predisporre e far approvare" i piani per combattere l’inquinamento ambientale. I pm avevano invece chiesto l’archiviazione per i dirigenti e i funzionari amministrativi. Ma — sottolineano i giudici — erano proprio loro i soggetti competenti ad istruire e predisporre i piani mentre ai presidenti della Regione e agli assessori la legge assegna il compito di "esercitare le funzioni di indirizzo politico-amministrativo e definire gli obiettivi ed i programmi da attuare". Nel corso del processo, i giudici si sono ben presto resi conto di ritrovarsi davanti come testimoni quelli che avrebbero dovuto essere gli imputati (cioè i dirigenti e i tecnici) e come imputati i politici che avrebbero dovuto essere testimoni. O ai quali, in alternativa, avrebbe dovuto essere contestata un’altra condotta: "L’unico potere-dovere previsto in capo agli assessori ed al Presidente della Regione — scrivono i giudici — è quello, residuale ed eccezionale, di fissazione di un termine perentorio nell’eventualità
di gravi inerzie da parte dei dirigenti ed, in caso di ulteriori inerzie, di nomina di un commissario ad acta". Contestazione che la procura ha provato a rivolgere loro ormai in prossimità della sentenza, quando — contestualmente — il gip ha rigettato la richiesta di archiviazione nei confronti dei dirigenti sollecitata dalla procura. Ora il reinvio degli atti ai pm è sostanzialmente vano perché i fatti contestati sono già andati in prescrizione.
Il record dei voltagabbana ai tempi di Renzi. Dall'inizio della legislatura 234 parlamentari hanno cambiato casacca: l'inchiesta di copertina di Panorama in edicola dal 18 febbraio, scrive il 17 febbraio 2016 "Panorama". Dal 2013 ben 234 parlamentari hanno cambiato casacca e tradito il mandato dei cittadini, lasciando il gruppo parlamentare di appartenenza. E non solo una volta: alcuni di questi senatori e deputati si sono infatti riposizionati più volte con il risultato che i cambi di casacca totali risultano essere 329. Un record mondiale. È questo il risultato di un’indagine condotta da Panorama e pubblicata sul numero in edicola da giovedì 18 febbraio. Il caso è particolarmente accentuato a Palazzo Madama, dove il 30 per cento dei senatori ha cambiato casacca, alcuni anche cinque o sei volte. Il 43,6 per cento dei transfughi ha scelto di allearsi con il Partito democratico e i loro voti sono spesso fondamentali per il governo Renzi. Sono nati anche nuovi gruppi parlamentari. Sempre a Palazzo Madama, su 10 gruppi, soltanto 4 hanno partecipato alle elezioni con proprie liste. Il recordman di questa legislatura è il senatore Luigi Compagna con sei passaggi da una sigla all’altra.
Il M5S e Grillo: uno, nessuno, centomila. Da Rodotà a Farage. Dal Mein Kampf fino all'ultima capriola sulle unioni civili. La schizofrenia a 5 stelle riflette la personalità del suo leader, scrive il 17 febbraio 2016, Paolo Papi su "Panorama". Grillo, quale? Quello che candidò, non appena i suoi misero piede in parlamento, l'esimio e laicissimo professore Rodotà al Colle? O quello che, dopo aver assicurato che i suoi senatori avrebbero votato la legge sulle unioni civili purché non venisse stralciata dalla stepchild adoption, ha compiuto una stupefacente piroetta sul blog, garantendo assoluta libertà di voto ai suoi parlamentari? Grillo, chi? Quello che tuonava contro lo scandalo dell'esenzione dell'Ici per le proprietà immobiliari della Chiesa e giunse persino a proporre nel 2012 una radicale revisione dei Patti lateranensi? Oppure il Grillo trasformista che giunse nel 2009, ben prima che si insinuasse l'idea di fondare un movimento nazionale, acandidare Tarcisio Bertone al soglio di Pietro? Grillo, quale? Quello che nel 2005, ai tempi del governo Berlusconi, difendeva con le unghie l'articolo 67 sull'assenza del vincolo di mandato in Costituzione o quello che, nel 2015, sostiene che solo il vincolo di mandato può salvare la democrazia italiana? Dicono che i movimenti carismatici riflettano vizi e virtù della personalità dei loro leader-fondatori. Nel caso del M5S, un partito che fino a qualche giorno fa aveva fatto di una laicità con venature anticlericali una delle sue tante bandiere politiche, questa apparente schizofrenia - giustificabile a teatro per un'artista, ma assai meno in Parlamento - trova la sua plastica rappresentazione in una serie di vignette che stanno facendo il giro dei social network. Come questa. Il M5s, quale? Quello che, per bocca di uno dei suoi volti più noti, Alessandro Di Battista, giunse a sostenere, all'indomani dell'esecuzione del reporter James Foley, che la "violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dal giornalista Usa è figlia della violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dai detenuti nel carcere di Abu Ghraib"? È lo stesso Di Battista che sulla crisi dei profughi, anziché sostenere per coerenza logica che le grandi ondate migratorie dai Paesi mediorientali sono figlie (anche) delle scelte occidentali, è giunto a sostenere sempre su Facebook, come avrebbe detto il Gianfranco Fini ai tempi del Msi, che "i fratelli africani devono stare a casa loro, e per farli stare a casa loro devono avere risorse e sviluppo a casa loro"? E ancora, Grillo, quale? Quello stesso Grillo che dieci anni orsono scriveva un post con un'intera citazione del Mein Kampf di Adolf Hitler, definendolo una "voce del passato per capire il nostro presente"? Quello che si è alleato in Europa con gli ultranazionalisti xenofobi di Nick Farage, dopo aver candidato Rodotà al Colle? È lo stesso leader del MoVimento che ha fatto arrampicare i suoi sul tetto di Montecitorio in nome del rispetto della Costituzione repubblicana e antifascista? Qualcosa forse non torna. Non solo nel M5S, ma in tutta la politica italiana. Ma le capriole grilline fanno pensare a Pirandello: uno, nessuno, centomila. Un partito dalle mille identità, riflesso della personalità bifronte del suo leader, straordinario Zelig, ma solo sul palcoscenico.
SCANDALO ENI TOTAL. La Procura di Potenza indaga per disastro ambientale. Il riferimento è al «risparmio dei costi - scrive il gip nell’ordinanza - del corretto smaltimento dei rifiuti prodotti dal centro oli» con «rifiuti speciali pericolosi» che venivano «dal management Eni qualificati in maniera del tutto arbitraria e illecita», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 3 aprile 2016. Interrogatori, agenda da riempire e un ricorso da depositare: la settimana che comincia domani sarà per i pm di Potenza impegnati nell’indagine sul petrolio - che ha risvolti politici non meno delicati di quelli giudiziari - molto importante proprio per il futuro dell’inchiesta stessa, che ha portato giovedì scorso sei persone agli arresti domiciliari con due ordinanze del gip e all’iscrizione di 60 persone nel registro degli indagati. Gli interrogatori di garanzia e l’agenda dei pubblici ministeri sono collegati: prima cominceranno quelli degli arrestati, ma l’attenzione generale è già concentrata sull'interrogatorio dell’ex ministra Federica Guidi - che si è dimessa il giorno stesso degli arresti - e della ministra Maria Elena Boschi, citata dalla sua collega quando era prossimo l'inserimento nella legge di stabilità di un emendamento necessario a far procedere i lavori a Corleto Perticara (Potenza), dove la Total sta costruendo il secondo centro oli lucano per sfruttare 50 mila barili di petrolio all’anno dal 2017. All’emendamento era molto interessato l’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli, compagno della Guidi, che, infatti, appena la compagna gli confermò che sarebbe stato inserito, telefonò al dirigente di una società petrolifera. Guidi e Boschi saranno sentite a Roma: nei prossimi giorni sarà fissata la data, mentre riguardo al premier Renzi, che in tv ha dichiarato «l'emendamento è mio, se vogliono i pm mi ascoltino», in ambienti vicini alla procura si apprende che i pubblici ministeri di Potenza «non pensavano» di sentirlo. Attesa, da domani, anche per il ricorso dei pm contro la decisione del gip, Michela Tiziana Petrocelli, che ha rigettato la richiesta di arresto per Gemelli. Dalle parole dei sei arrestati - l’ex sindaco di Corleto Perticara, Rosaria Vicino (Pd), e cinque dipendenti dell’Eni (sospesi dalla compagnia) - i pm si aspettano elementi utili per portare avanti altri accertamenti e approfondimenti. Vicino è finita ai domiciliari nell’ambito del filone di inchiesta che riguarda la costruzione del centro oli di Corleto; gli altri cinque in relazione all’accusa di traffico illecito dei rifiuti prodotti nel centro oli dell’Eni di Viggiano (Potenza), dove da giovedì è sospesa la produzione di 75 mila barili al giorno di petrolio (con centinaia di operai e tecnici in ansia per il lavoro e migliaia di abitanti della zona e ambientalisti soddisfatti). La compagnia ha preso una posizione netta: gli accertamenti che ha fatto condurre da esperti nazionali e internazionali parlano di «qualità dell’ambiente ottima» e di operazioni di smaltimento rispettose delle leggi. I pm aspettano altre analisi dei Carabinieri del Nucleo operativo ecologico: diranno loro se l’ombra dell’accusa di disastro ambientale potrà concretizzarsi. Infine, il filone per il momento meno chiaro dal punto di vista delle notizie trapelate e su cui il riserbo degli investigatori è più stretto: lo scenario è il porto di Augusta, punto di riferimento di diverse compagnie petrolifere. Fra gli indagati vi sono Gemelli e il capo di stato di maggiore della Marina militare, l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi: da mesi i pm di Potenza, Laura Triassi e Francesco Basentini, indagano per associazione per delinquere e traffico di influenze sullo stesso Gemelli, su De Giorgi, su Nicola Colicchi, considerato un "lobbista», e su un consulente del Ministero dello Sviluppo economico, Valter Pastena. E’ la parte dell’inchiesta che potrebbe riservare rilevanti sorprese.
Il «comitato d’affari» e i politici: così venivano favorite le aziende. Le conversazioni tra Colicchi e Gemelli. E il ministro si preoccupa per due assunzioni. Il compagno della Guidi «si mostra attento agli emendamenti del settore energetico», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Un vero e proprio comitato d’affari che si muoveva dietro le quinte di governo e Parlamento per garantire gli interessi delle aziende petrolifere, prima fra tutte la Total. Su questo si concentrano le indagini della magistratura di Potenza, come viene ben ricostruito nelle carte processuali su quanto accaduto per il progetto «Tempa Rossa». Rivelando come l’emendamento che ha costretto il ministro Federica Guidi alle dimissioni — visto che ne parlava come un «favore» fatto al compagno Gianluca Gemelli — non fosse l’unico che gli imprenditori volevano far approvare. I giorni chiave per gli affari messi in piedi dallo stesso Gemelli sono quelli di metà dicembre 2014, quando il provvedimento viene inserito nella legge di Stabilità. Il 12 parla con Nicola Colicchi, consulente della Camera di Commercio di Roma, indagato in uno dei filoni dell’inchiesta per associazione a delinquere finalizzata al traffico d’influenza e all’abuso d’ufficio. Gli chiede delucidazioni su un emendamento presentato dal parlamentare di Ala, il braccio destro di Denis Verdini Ignazio Abrignani. Si preoccupa che possa danneggiare i suoi «soci». Colicchi lo rassicura. Annotano gli investigatori della squadra mobile che trascrivono le intercettazioni: «Non è una cosa di sistema... capito? Cioè, cioè alle imprese, allora per capirci, alle imprese serie quelle grosse, di avere il finanziamento con la garanzia non gliene frega niente, perché quelli... chi fa, chi fa sto lavoro qua, i soldi non può non averli, capito?». Sottolinea il giudice: «La conversazione rileva più che altro per il semplice fatto che Gemelli si mostra particolarmente attento a degli emendamenti che interessano comunque il settore energetico. E la circostanza che il Colicchi abbia rassicurato Gemelli che l’emendamento in questione (presentato da Abrignani) non interessasse i “grossi”, lascia presumere che l’intento di quest’ultimo fosse proprio quello di sincerarsi che non si trattasse dello stesso emendamento di cui aveva pur avuto modo di discutere con Cobianchi Giuseppe della Total, lo stesso emendamento che sarebbe dovuto essere ripresentato al Senato in sede di approvazione della legge di stabilità, o in ogni caso di qualsiasi altro e ulteriore emendamento che sarebbe tornato utile ai “grossi”, vale a dire alle grosse realtà imprenditoriali». Per questo, dopo aver interrogato gli arrestati, gli inquirenti convocheranno anche i componenti della «rete» che si muoveva per indirizzare i provvedimenti. Dovranno chiarire la propria posizione, alcuni come Walter Pastena, dirigente della Ragioneria di Stato, dovranno difendersi dall’accusa di associazione per delinquere. Tra le «contropartite» pretese da alcuni amministratori locali — prima fra tutte Rosaria Vicino, il sindaco di Corleto Perticara finita agli arresti proprio per aver pilotato le autorizzazioni sul progetto — ci sono le assunzioni di parenti e amici. Lo stesso Gemelli cede alla richiesta del primo cittadino. Lo rivela lui stesso in una conversazione con la compagna, l’allora ministro Guidi, quando si preoccupano per aver saputo che è stata aperta un’inchiesta. È il 23 gennaio 2015. Annotano gli investigatori: «Guidi chiedeva se lui avesse già preso della gente locale (anche in questo caso si ritiene che il riferimento fosse fatto alle assunzioni di personale da parte della società ITS da inviare nei cantieri della Total a Corleto Perticara). Gemelli rispondeva di sì, di aver preso due persone, che non erano neanche del posto, ma di Comuni limitrofi e precisava che si era trattato peraltro di curricula da lui inviati e poi scelti dal cliente (Tecnimont). La Guidi gli chiedeva se fossero dei contratti personali. Gemelli rispondeva di sì, che si trattava di persone assunte da lui direttamente, che il rapporto era tenuto con il singolo professionista segnalato dal cliente».
Il fastidio di Renzi con i pm per la convocazione di Boschi. Lo sfogo con i collaboratori: Abbiano il coraggio di chiamarmi, così ci divertiamo un po’, scrive Maria Teresa Meli su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. Davanti alle telecamere, con Lucia Annunziata che lo incalza con abilità e tenacia, Matteo Renzi non si lascia sfuggire i suoi più reconditi pensieri sulla vicenda giudiziaria che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi. Dice di non credere ai complotti e alla giustizia a orologeria. Ma ha un’aria di sfida che non passa inosservata quando invita i giudici a chiedergli di ascoltarlo. Non solo su quella storia, ma anche su «tutto il resto: la Salerno-Reggio Calabria, la Napoli-Bari, la Variante di Valico». Ed è proprio da quel «tutto il resto» che traspare il tono della sfida nei confronti dei pm della Procura di Potenza. I quali, non a caso, più tardi fanno filtrare che non è nelle loro intenzioni ascoltare il premier. Renzi è con i collaboratori quando arriva quella replica e sorride: «Perché non vogliono interrogarmi? Ho detto che quell’emendamento era mio, abbiano il coraggio di chiamarmi, dopo quello che ho detto, così ci divertiamo un po’. Visto che vogliono sentire la Boschi proprio per quell’emendamento, perché non me? Forse avrebbero bisogno di una lezione su come funziona il Parlamento... È allucinante voler ascoltare Maria Elena...». I collaboratori che gli stanno di fronte annuiscono. Non capiscono il motivo per cui i pm della Procura di Potenza abbiano deciso di tirare in ballo la Boschi. Ma il premier ha un’idea del perché. E la illustra ai fedelissimi. È un convincimento andato maturando dopo che è scoppiato il «caso Guidi» e che non formulerebbe mai ad alta voce di fronte ai giornalisti. È l’unica spiegazione che è riuscito a darsi: «La verità è che c’è un disegno organico dietro tutto ciò. L’obiettivo è quello di far raggiungere il quorum al referendum sulle trivelle nella speranza di darmi un colpo». Il presidente del Consiglio non contesta l’inchiesta: «Non spetta a me mettere bocca su un’indagine». Ma è la decisione dei magistrati di coinvolgere la ministra che rappresenta in modo più significativo la novità dell’esecutivo Renzi che lo ha lasciato perplesso. Come lo ha sconcertato anche il fatto che dopo aver pubblicamente detto che l’emendamento era opera sua, ora i pm non chiedano di ascoltare pure lui. Della sua «performance» in tv è contento: «Pensavano che mi presentassi tutto intimorito e piagnucolante e invece no. Ho voluto dare un messaggio molto duro». Questa volta il presidente del Consiglio si riferisce ai grillini, ai leghisti e a tutti quelli che hanno «utilizzato questa vicenda per fare un polverone pazzesco». Renzi ce l’ha in particolar modo con i Cinque Stelle. Ma per loro ha già pronta la controffensiva: «Domani (oggi per chi legge, ndr) Bonifazi sarà a Milano per chiedere il risarcimento danni a Grillo e David Ermini sarà a Massa Carrara per querelare Di Maio, che ha avuto la faccia tosta di dire che prendiamo i soldi dai petrolieri. A lui il Pd chiederà di rinunciare all’immunità. Del resto, loro sono sempre pronti a dire che bisogna rinunciarci...». Non una delle parole che vengono pronunciate al chiuso di una stanza, davanti a persone di assoluta fiducia del premier, è stata proferita in televisione. Ma dall’Annunziata Renzi si è lasciato sfuggire qualche indizio sul suo stato d’animo. Quando ha detto di sperare che l’indagine sia «una cosa seria». E ha fatto l’esempio del senatore Salvatore Margiotta, accusato e condannato, sempre a Potenza, per la costruzione del Centro Oil della Total e poi assolto dalla Cassazione. Non è escluso che oggi, in direzione, citi di nuovo questo esempio. Senza fare nessun attacco ai magistrati, però.
L’ammiraglio De Giorgi indagato per una fornitura. La sindaca: ho solo aiutato. Parte il ricorso per l’arresto di Gemelli. Trucchi per celare i veleni, scrive Virginia Piccolillo su “Il Corriere della Sera” del 3 aprile 2016. «Ma quando vengono i magistrati a sentire Rosaria Vicino?». A Corleto Perticara, da una settimana passata dalla tranquillità di paesino da 2.500 anime a centro delle cronache giudiziarie, si accomuna la ex sindaco ai domiciliari che deve subire l’interrogatorio di garanzia al ministro delle Riforme che, per cortesia istituzionale, riceverà la visita dei magistrati a Roma. Lei no. Dovrà uscire dalla villa videosorvegliata e fare i 60 chilometri di tornanti che portano a Potenza. La sua difesa la ripetono in molti: «Ha solo aiutato i ragazzi a trovare un posto di lavoro». Altrettanti però replicano: «Solo quelli che voleva lei. Ad altri, magari più preparati, ha impedito che gli venisse dato». E ripetono quella intercettazione in cui Rosaria Vicino, all’offerta di un posto per un geologo, rilancia con un suo protetto: «È geometra. Ma è sveglio». Oggi a Corleto ci sarà anche una manifestazione dei Cinquestelle ed è atteso Di Maio. Ma i riflettori sono tutti puntati sulla Procura di Potenza. Sarà una settimana di interrogatori per l’indagine sul petrolio lucano, ma non ci sarà quello del premier Matteo Renzi. Che i magistrati «non pensavano» proprio di ascoltare. Da ambienti investigativi filtra che questo non è un «processo all’emendamento allo sblocca Italia», all’origine dei guai dell’ex ministra Guidi. Lei lo aveva annunciato in anteprima al suo compagno Gianluca Gemelli, in un’intercettazione nella quale diceva di averne parlato anche con il ministro dei Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Informazione poi spesa da Gemelli per ottenere, secondo la Procura, utilità. Su quella frase verrà ascoltata, come atto dovuto, la Boschi, già nei prossimi giorni assieme alla Guidi. E, a microfoni spenti, si raccomanda di non confondere le ricostruzioni giornalistiche con le carte dell’inchiesta. Né sul filone politico, né su quello della «lobby» che agiva in vista del business del «dopo emendamento». In questo ambito è stato indagato per abuso d’ufficio il capo di Stato maggiore della difesa, Giuseppe De Giorgi per una vicenda legata a forniture. Per Gemelli, molto attivo a facilitare affari, oggi stesso potrebbe essere presentata la richiesta di appello conto la mancata autorizzazione all’arresto. Intanto c’è da ascoltare anche i cinque arrestati dell’indagine sui veleni spacciati per acqua sporca, nel centro Oli di Viggiano. È una tranche delicatissima che, dopo i risultati dell’indagine epidemiologica, potrebbe portare all’incriminazione per disastro ambientale. Per ora a testimoniare i trucchi compiuti per trasformare i codici dei rifiuti tossici e reiniettarli così nel pozzo di smaltimento delle acque reflue oppure degli «incidenti» ripetuti per il malfunzionamento dell’impianto con lavoratori finiti intossicati al pronto soccorso ci sono le parole degli stessi funzionari Eni intercettati. Anche se la compagnia parla di «qualità dell’aria ottima» e certificata.
Guidi, due incontri con i petrolieri. Poi i "favori" a Gemelli. I verbali. Il compagno della ministra avrebbe ottenuto commesse pure a Augusta. E in cambio l'ammiraglio De Giorgi puntava allo sblocco dei fondi per le nuove navi militari, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati il 04 aprile 2016 su " La Repubblica". Non è stata solo una leggerezza, una telefonata inopportuna a costare il posto a Federica Guidi. Dalle carte di Potenza emerge infatti un attivismo da parte dell'ex ministro che va ben oltre l'ingenuità di una chiamata di troppo. In almeno due occasioni avrebbe incontrato potenti esponenti della "lobby petrolifera", promettendo loro interventi del governo e, stando a quanto si deduce dalle intercettazioni, ottenendo in cambio "cortesie" destinate a favorire gli affari del compagno. Il mafioso. Il grande regista di questi incontri è Gianluca Gemelli, il fidanzato della Guidi che con le sue due società non solo, come noto, aveva appena ottenuto dalla Total un importante subappalto (2 milioni e mezzo di euro) ma aveva anche intenzione di diventare "fornitore di servizi ingegneristici" per la compagnia del petrolio, per il futuro. Ovviamente sfruttando il ruolo della compagna. La cosa diventa esplicita nella telefonata dell'23 ottobre 2014. Al telefono ci sono Franco Broggi - capo ufficio appalti della Tecnimont l'azienda che gestiva per conto della Total i subappalti in Basilicata - e Gemelli. Quest'ultimo ha appena chiesto di poter "fare tutto ciò che riguarda l'ingegneria per eventuali lavori successivi". Broggi risponde in maniera netta: "Sì. Tu fai. Non ti preoccupare. Se c'è quell'incontro a breve, tra chi sai tu e chi sai tu... Tutto si fa nella vita". Gemelli ringrazia: "Tu sei un mafioso siciliano!". "Da una telefonata successiva - scrive il gip - si capisce come l'incontro sarebbe dovuto essere tra il ministro Guidi e un rappresentante Tecnimont". Insomma, l'accordo tra Broggi e Gemelli era chiaro. La coppia Gemelli-Guidi aiutava Tecnimont (intervenendo presso Total, a cui avrebbe poi regalato in cambio l'emendamento) e la Tecnimont avrebbe restituito il favore "spingendo" le ditte di Gemelli. Mimì e Cocò. Il 4 novembre, è ancora una telefonata tra Broggi e Gemelli a raccontare gli incontri della Guidi. "Senti - chiede Broggi - sai se Mimì e Cocò si sono incontrati, poi?". "No, non si sono incontrati, questo tizio è allucinante", risponde Gemelli svelando che "questo tizio", l'uomo di Tecnimont, aveva rinviato l'appuntamento. Che si è tenuto una decina di giorni dopo. "I due dell'Ave Maria si sono visti", esordisce trionfante Broggi, aggiungendo però di essere un po' infastidito perché la cosa è "adesso è anche di dominio pubblico, sta circolando corrispondenza interna dove si dice che la persona interverrà a nostro favore verso Total. Da un certo punto di vista va bene, è l'istituzione che dice 'prendi una società italiana'; però c'è modo e modo". "La Guidi li stanerà". L'altro incontro della ministra è con Nathalie Limet (ad Total) e Giuseppe Cobianchi, numero due della compagnia, quest'ultimo è l'interlocutore di Gemelli nella famosa telefonata in cui il fidanzato della ministra annunciava l'inserimento dell'emendamento Tempa Rossa nella Legge di Stabilità. L'incontro avviene presso il Mise. È Colbianchi a parlarne con un collega, il 19 novembre: "Nathalie le ha rappresentato le difficoltà con le Regioni Basilicata e Puglia". "E il ministro - scrive il gip - ha detto che avrebbe convocato le Regioni (...) Poi avrebbe avuto due incontri separati con Eni e Total, infine li avrebbe messi intorno a un Tavolo e li avrebbe stanati". In particolare, dice ancora Cobianchi, il ministro si è detta "assolutamente disponibile a risolvere il problema di Taranto"". "L'incontro è andato bene", riferirà in un'altra telefonata, Colbianchi a Gemelli. Anche Federica "a me ha detto che è andato tutto bene", la risposta. Lo sblocco dei fondi navali. Sull'asse Gemelli-Guidi non si muovono solamente gli interessi dei petrolieri. Ma anche i vari appetiti prodotti dal "programma navale per la tutela della capacità marittima della Difesa". Stiamo parlando del filone di indagine in cui è indagato, tra gli altri, il capo di stato maggiore della marina, Giuseppe De Giorgi. L'ipotesi dell'accusa è che Gemelli attraverso Niccolò Colicchi - presidente della Compagnia delle Opere di Roma, consulente della Camera di Commercio di Roma, già indagato dalla procura di Milano per una vecchia storia legata al papavero democristiano Massimo De Carolis - fosse riuscito ad allacciare una proficua relazione con De Giorgi e con il suo amico Valter Pastena, burocrate di Stato, al tempo in servizio presso il ministero della Difesa. "Venne da me Colicchi - racconta Pastena - e mi propose di conoscere Gemelli. Accettai. Del resto era il compagno della Guidi". Secondo la procura, attraverso De Giorgi, Gemelli riuscì a ottenere commesse di lavoro al porto di Augusta. In cambio De Giorgi avrebbe ottenuto lo sblocco dei fondi - che transitavano presso il Mise della Guidi - per il programma navale (a cui teneva). Lo sblocco sarebbe stato agevolato, dal punto di vista burocratico, da Pastena. Il 12 dicembre 2014, proprio nel periodo chiave dell'intera vicenda, la ministra Guidi invia al presidente del Senato, Pietro Grasso, uno "Schema di decreto ministeriale concernente le modalità di utilizzo dei contributi pluriennali relativi al programma navale" (5,4 miliardi di euro in 20 anni), per il "parere preliminare delle Commissioni". Parere che la Guidi definisce "urgente", auspicando che l'iter si concluda "al più presto con la stipula dei contratti e degli impegni formali di spesa". Tre mesi dopo quel documento, a Pastena verrà fatto un contratto come consulente del Mise.
Estrazioni del petrolio, la ministra Guidi pilotava il governo per aiutare il fidanzato. La responsabile dello Sviluppo economico e l'imprenditore Gemelli parlano anche di accordo con la ministra Boschi Ecco le intercettazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". «E poi dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato, se è d'accordo anche “Mariaelena” (il ministro Boschi ndr), quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte, alle quattro di notte...! Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempra Rossa, dall'altra parte si muove tutto»: così parlava la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidial telefono con il suo compagno, Gianluca Gemelli, a proposito dell'emendamento che il governo stava per inserire nella Legge di Stabilità relativo ai lavori per il centro oli della Total in contrada “Tempa rossa”, a Corleto Perticara (Potenza), nei quali Gemelli stesso aveva interesse essendo alla guida di due società del settore petrolifero. L'imprenditore chiedeva alla sua compagna-ministro se la cosa riguardasse pure «i propri amici della Total, clienti di Tecnimont» e la Guidi rispondeva: «Eh certo, capito? Certo, te l'ho detto per quello!». Gemelli a questo punto, dopo aver parlato con la ministra Guidi chiama al telefono Giuseppe Cobianchi, dirigente della Total e gli svela la notizia della volontà del governo di inserire nella legge di Stabilità, in discussione all'epoca in Senato, l'emendamento che avrebbe sbloccato “tempra rossa”, tirando in ballo anche la ministra Boschi: «La chiamo per darle una buona notizia, si ricorda che tempo fa c'è stato casino, che avevano ritirato un emendamento, per cui c'erano problemi su Tempra rossa, pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al Senato, ragion per cui, se passa... e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni... è tutto sbloccato». Le intercettazioni sono agli atti dell'inchiesta della procura di Potenza sullo smaltimento dei rifiuti legati alle estrazioni petrolifere. Guidi, che non è indagata nell'inchiesta, informa spesso il compagno, per il quale il gip di Potenza ha rigettato la richiesta di arresto, sui provvedimenti del governo per quanto riguarda le estrazioni petrolifere. Per questi affari Gemelli è indagato per aver sfruttato l'interesse della sua compagna-ministro e di aver fatto affari per oltre due milioni e mezzo di euro. Secondo il giudice per le indagini preliminari, che commenta queste intercettazioni sull'emendamento ritirato, precisa che: «non essendo stato possibile farlo “passare" nel testo del decreto "Sblocca Italia" il Governo (per iniziativa del ministro Guidi con l'intesa del ministro Boschi (“è d'accordo anche Mariaelena”), lo aveva sostanzialmente riproposto nel testo del disegno della legge di Stabilità (“Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità”), finendo con l'essere, unitamente alla legge di Stabilità, approvato a fine dicembre 2014. Il nuovo tentativo di inserimento, infatti, aveva esito positivo». La ministra Guidi si interessa del lato economico e finanziario del suo compagno Gemelli, al quale chiede come è messo “economicamente” e perché “è sempre sofferente in banca”. Guidi però insiste, vuole capire meglio e l'imprenditore spiega che ha “troppi mutui” da pagare. A questo punto la Guidi suggerisce: «Eh, per quello dico che dovresti riuscire a prendere altri lavori Gianluca...!»; Gemelli rispondeva "eh lo so gioia, non è che mi sono fermato, l'hai visto...».
Quella clamorosa intercettazione della Guidi. Le opposizioni: «Ora si deve dimettere». La ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi rassicura il compagno, interessato ai lavori, sul destino di un impianto di estrazione di Total in Basilicata: verrà approvato un emendamento alla legge di Stabilità. «È d’accordo anche Maria Elena», dice riferendosi a Boschi. Le opposizioni gridano al conflitto di interessi: «Si dimetta. E al referendum votiamo Sì», scrive Luca Sappino il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Non è nuova alle polemiche sul conflitto d’interessi, Federica Guidi, ministro dello Sviluppo economico del governo Renzi. Appena nominata, il 22 febbraio 2014, in molti notarono la scarsa opportunità della scelta del presidente del consiglio di mandare negli uffici di via Molise proprio la vicepresidente di Confindustria, figlia di Guidalberto Guidi, anch’egli a lungo vicepresidente di Confindustria e presidente della Ducati Energia, azienda di famiglia. Federica Guidi lasciò ogni incarico formale, ovviamente, e si difese dicendo di non esser socia ma solo dipendente delle varie aziende: «Sto battendo ogni record», si vantò, «il governo ha appena ottenuto la fiducia e contro di me sta già arrivando la prima mozione di sfiducia individuale». Mozione però mai calendarizzata. È però adesso un’intercettazione di una telefonata avuta con il compagno Gianluca Gemelli, a riaprire il dibattito. Gemelli, interessato ai subappalti per le sue aziende, stava infatti seguendo con attenzione il destino dell’impianto Total di Tempa Rossa, giacimento petrolifero nell'alta valle del Sauro, nel cuore della Basilicata, e viene chiamato dal ministro per ricevere rassicurazioni. Nella telefonata, negli atti di un'inchiesta in cui è indagato anche lo stesso Gemelli, per "traffico di influenze illecite" perché avrebbe "sfruttato la relazione di convivenza che aveva col Ministro allo Sviluppo Economico”, Guidi rassicura il compagno sul destino di un emendamento alla legge di stabilità che risolverà ogni problema. Nello scambio il ministro dice così: «Dovremmo riuscire a mettere dentro al Senato se... è d'accordo anche Mariaelena la... quell'emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte. Alle quattro di notte... Rimetterlo dentro alla legge... con l'emendamento alla legge di stabilità e a questo punto se riusciamo a sbloccare anche Tempa Rossa... ehm... dall'altra parte si muove tutto!». A quel punto, Gemelli può chiamare subito il rappresentante della Total con cui era in contatto e farsi valere con l’informazione ricevuta dal contatto privilegiato: «La chiamo per darle una buona notizia. ehm.. Si ricorda che tempo fa c'è stato casino. Che avevano ritirato un emendamento… ragion per cui c'erano di nuovo problemi su Tempa ross ... pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato...ragion per cui…se passa...e pare che ci sia l'accordo con Boschi e compagni...(...) se passa quest'emendamento... che pare... siano d'accordo tutti… perché la boschi ha accettato di inserirlo... (...) è tutto sbloccato! (ride, ndr)...volevo che lo sapesse in anticipo! (...) e quindi questa è una notizia...». Immancabili sono a questo le reazioni politiche. Il Movimento 5 stelle, con una dichiarazione congiunta dei capogruppo di Camera e Senato, Michele Dell’Orco e Nunzia Catalfo, chiede le dimissioni di entrambi i ministri citati, di Guidi e però anche di Boschi. Più su Guidi si concentra invece Sinistra Italiana che annuncia una mozione di sfiducia, sperando che questa volta venga discussa. Tutti però girano la notizia sul prossimo referendum sulle trivelle: «La miglior risposta a queste indecenze», dicono i 5 stelle, «oltre alle dimissioni di Guidi e Boschi è andare tutti a votare domenica 17 aprile e votare sì contro le trivellazioni marine». Sconcertata si definisce anche Forza Italia, almeno per bocca di Alessandro Cattaneo, già sindaco di Pavia: «Se ciò che stiamo leggendo in queste ore fosse vero, è chiaro a tutti che siamo di fronte ad un caso sul quale il Governo non può non fare chiarezza». «Sempre garantisti», dice ovviamente Cattaneo, «ma di fronte a certe parole e fatti non si può che restare sorpresi ed agire di conseguenza. Le intercettazioni sul Ministro Guidi sono sconcertanti».
Caso Guidi, quella notte in cui l'emendamento uscì dalla legge (e poi rientrò). Presentato il 17 ottobre del 2014, scatenò le proteste dei Cinque Stelle e di Sel. E venne precipitosamente ritirato. Mentre il Pd diceva di non saperne niente. Il grillino Cioffi: “Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?” Ecco la storia della modifica che ha portato alle dimissioni della ministra, scrive Susanna Turco l'1 aprile 2016 su "L'Espresso". Presentato dal governo in una notte d’ottobre 2014, poi precipitosamente ritirato ("… quell’emendamento che mi hanno fatto uscire quella notte", dice la Guidi nelle intercettazioni), dopo le proteste dei Cinque stelle e Sel, durante la discussione in commissione Ambiente sul cosiddetto Sblocca Italia. Presentato poi di nuovo, in dicembre, e approvato nel maxiemendamento alla Legge di stabilità: anche qui tra le proteste dei Cinque stelle. La storia dell’emendamento che è all’origine delle dimissioni della ministra Guidi, quello che dava il via libera al progetto di estrazione di petrolio Tempa Rossa, sul quale il compagno della titolare allo Sviluppo economico aveva forti interessi, è nei resoconti di quella notte in commissione ambiente. E, poi, nell’intervento in Aula al Senato, quando il grillino Andrea Cioffi domanda: "Ma la Total ha soffiato nell’orecchio di qualcuno, che è al governo, e gli scrive un emendamento?". Tutto comincia all’ora di cena del 17 ottobre. E’ un venerdì, e il presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci, "avverte che il rappresentante del Governo ha testé presentato l’emendamento 37.52 del Governo". Dopo l’annuncio, Realacci dice subito che i sub-emendamenti andranno presentati entro le 22. Poi fa slittare il termine alle 23. Sia il deputato di Sel Filiberto Zaratti, che la deputata grillina Claudia Mannino, dicono infatti che ci vuole tempo "per valutarne attentamente il contenuto". Poco dopo, avendo letto l’emendamento, è la grillina Mirella Liuzzi ad aprire il fuoco: "L’emendamento 37.52 del Governo rappresenta una vergogna sotto il profilo del rispetto della tutela ambientale, tanto più essendo stato presentato da un Governo che si dichiara di centrosinistra", dice. La Mannino protesta: il testo "introduce poteri di intervento inconciliabili con lo stato di diritto". Zaratti (di Sel) ci mette un altro carico: "L’emendamento autorizza procedure di esproprio in ambiti di particolare rilevanza ambientale, non è degno del Parlamento di uno Stato civile". Ecco la protesta grillina in commissione Ambiente contro l'emendamento pro-Tampa Rossa che, nella notte dell'ottobre 2014, ha portato alla precipitosa marcia indietro del governo. Le urla, gli interventi concitati. “E' una assoluta vergogna, una cosa pericolosissima, e la fate qui in commissione, alle dieci di sera. Neanche Berlusconi era arrivato a tanto”, dice Liuzzi. E Mannino: “In un paese civile questo emendamento è irricevibile”. Mentre il Pd Borghi, placido chiarisce: “Il mio gruppo non era a conoscenza della presentazione di questo emendamento”. Alla fine il Cinque stelle De Rosa invita il presidente della commissione Realacci a “rivalutare l'ammissibilità dell'emendamento”. Cosa che, dopo essersi consultato col governo, Realacci farà. Dichiarandolo inammissibile. Interessante, a questo punto, la puntualizzazione del Pd Enrico Borghi: fa presente come "il gruppo del Partito democratico non era stato preventivamente messo a conoscenza della presentazione da parte del Governo dell’emendamento 37.52. Chiede pertanto che su di esso possa essere aggiornata la discussione ad un successivo momento". A questo punto, Realacci sospende la seduta. Chi c’era, racconta che subito dopo in commissione arriva anche Claudio De Vincenti, allora viceministro allo Sviluppo Economico, e che nell’ora e mezza di pausa dei lavori, c’è un lungo conciliabolo tra lui e Realacci. Un deputato Cinque Stelle dice di aver notato la cosa perché "è strano che un viceministro venga in commissione di notte", e ricorda che "De Vincenti si portò via Realacci per parlarci: era evidentemente alterato, molto arrabbiato. Come se sapesse benissimo cosa stava succedendo a quell'emendamento: altro che disinteressarsene". La seduta riprende alle 21.35. E il presidente Realacci cambia improvvisamente orientamento. Dichiara infatti "inammissibile" l’emendamento, per "estraneità di materia": in sostanza, dice, perché nell’articolo 37 l’estensione delle "procedure autorizzative derogatorie" era prevista per "aumentare la sicurezza delle forniture di gas" e quindi non c’entra con "le opere relative al trasporto e allo stoccaggio di idrocarburi". La Liuzzi però protesta: dice che Realacci non è stato "corretto", perché avrebbe dovuto valutare l’ammissibilità dell’emendamento, prima di dare un termine per la presentazione dei subemendamenti. "A questo punto l’emendamento dovrebbe essere discusso e votato", conclude la Liuzzi. Realacci replica di aver agito così "in considerazione dell’ora tarda e della necessità di lasciare tempi adeguati ai gruppi per la presentazione dei subemendamenti". A quel punto è il grillino De Rosa ad "avanzare il dubbio" che si sia fatto così "nella speranza che nessun deputato si accorgesse della portata dell’emendamento 37.52 e si opponesse alla sua votazione". Realacci ribadisce le sue ragioni e la discussione passa oltre. Poi, però, l’emendamento si riesce a "rimetterlo dentro" (sempre parole della Guidi) nella legge di Stabilità. E il 18 dicembre il senatore grillino Cioffi in Aula lo definisce un "emendamento con nome e cognome". "Ma cosa c'è dentro questa finanziaria? Tante cose. Ci sono alcuni emendamenti presentati dal Governo che hanno nome e cognome. Ce n'è uno che si chiama «Total». Se volete, possiamo usare «Total» sia come nome che come cognome: «Total Total». (Applausi dal Gruppo M5S). Quando voi inserite nella legge che rendiamo opere strategiche anche i tubi che servono per portare il petrolio di Tempa Rossa (che è una concessione data alla Total), nonché le infrastrutture che verranno realizzate nel porto di Taranto, stiamo facendo un regalo alla Total. Ci verrebbe allora da chiedere: ma la Total ha soffiato nell'orecchio di qualcuno, che è il Governo, e gli scrive un emendamento? La Total per caso - lo pongo come ipotesi, signora Presidente, mi consenta; sa, «mi consenta» si porta - ha agevolato il percorso per presentare un emendamento a suo favore? La Total ha contribuito economicamente - in maniera trasparente, perché non si possa mai pensare che lo faccia in maniera non trasparente, nel qual caso sarebbe un reato e i reati li accerta la magistratura, ed è il caso che li inizi ad accertare, magari su questa cosa - la Total, dicevo, ha dato dei contributi al Governo che gli fa un regalo?"
Guidi, le guerre nel Pd della Basilicata. Indagini, una talpa aveva avvisato il compagno. Le intercettazioni dimostrano nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio. Scontri fra Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute e il governatore della Regione Marcello Pittella, scrive Lirio Abbate il 31 marzo 2016 su "L'Espresso". Dietro all'estrazione petrolifera emergono in Basilicata guerre intestine al Partito democratico. Le intercettazioni dell'inchiesta di Potenza hanno permesso di registrare nel periodo pre elettorale, l'interessamento da parte di politici, candidati e non, del Partito Democratico, verso il territorio (il comprensorio dei comuni di Corleto Perticara, Guardia Perticara, Gorgoglione, Gallicchio ed Armento) coinvolto direttamente o indirettamente nell'attività di estrazione petrolifera, «da fare campo di conquista anche attraverso vere e proprie guerre intestine tra le vari anime dello stesso Partito», scrive il gip. Da un lato vi è la figura di Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, punto di riferimento politico dell'ex sindaco del Pd di Corleto Perticara, Rosaria Vicino, arrestata oggi dai carabinieri, e dall'altra parte il governatore della Regione Basilicata, Marcello Pittella, il quale con la sua azione politica «avrebbe cercato di mettere le “bandierine” (per richiamare il termine utilizzato da Vicino nelle intercettazioni) sui territori da “conquistare”». Gli investigatori hanno documentato come spesso Vicino ha utilizzato l'auto dei vigili urbani del paese per fare la spesa, e poi ancora per raggiungere il cantiere, e i vari imprenditori interessati all'esecuzione dei lavori legati al Centro Oli di Tempa Rossa «al solo fine di segnalare agli stessi le persone da assumere». Vicino poteva contare su un notevole consenso elettorale ottenuto «da ricondursi anche ai posti di lavoro che la stessa riesce a far ottenere attraverso le pressioni esercitate nei confronti delle imprese impegnate nella costruzione del Centro Oli di Tempa Rossa, che si vedono costrette (in alcuni casi colluse) nell'assumere persone segnalate dal primo cittadino, in cambio del rilascio delle necessarie autorizzazioni comunali o in cambio di una più celere trattazione delle pratiche annesse (permessi di costruire), ovvero in cambio di vantaggi economici anche solo promessi derivanti da concessioni, delibere». In questo modo Vicino avrebbe ottenuto non solo «il controllo dell'elettorato attivo in vista delle prossime elezioni amministrative locali», ma anche «l'impegno del sottosegretario De Filippo a far assumere il figlio all'Eni». Più volte nelle intercettazioni De Filippo ha rassicurato la Vicino di un suo intervento «presso una non meglio specificata Azienda con sede in Roma (seppure mai menzionata espressamente, la stessa è facilmente individuabile nell'Eni spa)», scrive il giudice. Il compagno della ministra Guidi, l'imprenditore Gemelli indagato in questa inchiesta a Potenza, durante alcune intercettazioni si soffermava sul ruolo politico di Pittella, e sui contatti "forti" che suo fratello, l'europarlamentare Gianni Pittella, aveva con il premier Matteo Renzi: «ma lui tramite il fratello che è al parlamento europeo ha dei contatti fortissimi con Renzi e quindi riesce a bloccare cose che altri non ci arriverebbero, ma comunque... ! Speriamo che funzioni questo Sblocca Italia». Un cenno ai due fratelli Pittella, Gemelli lo avrebbe fatto, a distanza di qualche tempo, anche insieme alla propria compagna, il ministro Federica Guidi, quando avevano appreso da una talpa la notizia delle indagini in corso da parte della procura di Potenza che potevano in qualche modo interessare pure Gemelli proprio in relazione ai lavori che aveva ottenuto in Basilicata.
“Potenza, ecco come funziona il sistema degli affari petroliferi”. Il pm Woodcock fu il primo ad avviare le inchieste sul “Totalgate”. La maledizione in Basilicata è: tante indagini, poche condanne, scrive Guido Ruotolo il 4 aprile 2016 su "La Stampa". L’ultimo caso sulle estrazioni petrolifere, che ha visto indagato anche il compagno della ministra Guidi, incrocia la “maledizione di Potenza”, dove si sono fatte tante indagini ma si celebrano pochi processi. Sono tornate telecamere e microfoni. E il bivacco di giornalisti da oggi affollerà di nuovo il palazzo di giustizia. Come ai vecchi tempi di Henry John Woodcock, il pm anglonapoletano famoso per le sue retate «eccellenti», dal fotografo di gossip Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele (di) Savoia. Proprio lui, Woodcock, con tre diverse inchieste (2001,2004,2008) accese i riflettori su quelli che negli atti giudiziari venivano definiti «gli affari petroliferi». Impressionante il sistema di corruzione già scoperto quindici anni fa dal pm che poi traslocò alla Procura di Napoli. Va subito detto che la maledizione di Potenza è che si fanno le indagini ma non si celebrano i processi. I dibattimenti delle prime due inchieste sugli «affari petroliferi» infatti sono stati sospesi con la sopraggiunta prescrizione. Per la terza, il “Totalgate”, è iniziato il processo di primo grado. Finora sono cambiati per tre volte i collegi giudicanti per cui il dibattimento è stato azzerato per due volte. Anzi ha rischiato di dover ripartire da zero un’altra volta per gli stretti rapporti - pare di natura sentimentale - intrecciati dai due giudici a latere. Comunque prima dell’estate anche “Totalgate” è destinato alla prescrizione. Dunque nel 2008 il gip di Potenza ha accolto le richieste di arresto anche dell’amministratore delegato di «Total Italia», Lionel Lehva. E la stessa “Total” fu affidata in gestione commissariale a Piero Sagona, storico consulente della Banca d’Italia. Quasi un anno senza illeciti e violazioni del Codice penale, dall’aprile 2009 al febbraio 2010. Poi, a leggere le cronache giudiziarie di questi giorni, si è tornati, per dirla con il gip di Potenza, «a pratiche antiche e accettate». Per Woodcock, gli affidamenti degli appalti da parte del colosso petrolifero francese erano «pilotati e predefiniti negli esiti dai protagonisti del “comitato d’affari” costituito, appunto, dal manageament di “Total Italia”, da imprenditori, da pubblici ufficiali, politici e faccendieri, “istituzionalmente” deputati a mediare un numero indeterminato di transazioni illecite». Rileggendo gli atti delle tre inchieste colpiscono alcuni elementi che si ritrovano nelle diverse indagini. Il punto di partenza è riassunto da Woodcock: «La corruzione e la collusione tra potere economico, potere politico e frange deviate di istituzioni dello Stato - persino i Vigili del fuoco, ndr - costituiscono il modus operandi ordinario nel settore degli appalti delle opere pubbliche. Il flusso di denaro pubblico rappresenta l’occasione di corruzione e di arricchimento illecito a favore di imprenditori senza scrupoli, faccendieri e funzionari pubblici corrotti». Ma questo sistema di corruzione ambientale è solo della Basilicata? Colpisce che in ogni inchiesta sono coinvolte politici e funzionari pubblici, un’amministrazione comunale, una impresa locale. Prendiamo appunto l’inchiesta “Totalgate”. Al centro delle indagini del pm Woodcock c’erano tre appalti: due per la fornitura del trattamento e dello smaltimento dei fanghi di perforazione; un appalto per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa. Bene, quelle gare furono truccate. Il 20 dicembre del 007 si precipita a Potenza l’amministratore delegato di Total, Lionel Lehva, per «pianificare la sostituzione delle buste contenenti le offerte»: «Quando si arriva - registrano le cimici degli investigatori - a far vincere Ferrara (l’imprenditore prescelto, ndr), è vinta». Sempre Lehva detta le incombenze da assolvere: «La busta D, dì che la cambino.... Ok?». L’impresa Ferrara, secondo l’intesa con i francesi, «deve sottoscrivere un contratto di cinque anni di fornitura di olii lubrificanti e carburanti per 15 milioni di euro. E Total si impegna a far vincere la gara per la realizzazione del Centro Oli di Tempa Rossa all’Associazione temporanea di imprese “Ferrara” «sostituendo fraudolentemente le buste contenenti le offerte presentate e depositate alterando i verbali di gara». Colpisce che tra gli attuali indagati di Potenza vi sia anche Roberta Angelini, responsabile Sicurezza e Salute dell’Eni di Viggiano. Colpisce perché fu arrestata per corruzione dal pm Woodcock nella inchiesta «Oro nero» del 2004. Arrestata per corruzione, ma il processo è stato prescritto. E, dunque, per l’Eni dirigente da promuovere. Infatti era una specialista in autorizzazioni e relazioni pubbliche del distretto di Ortona, nel 2004, quando imponeva alle ditte contrattiste l’assunzione di certo personale su indicazione del sindaco di Calvello.
Tempa Rossa, fino a 7 anni di carcere per i vertici Total. Il processo si riferisce all'inchiesta condotta nel 2008 dall'ex pm Woodcock, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno" il 4 aprile 2016. Il Tribunale di Potenza ha condannato in tutto nove persone - imputate a vario titolo per corruzione, concussione e turbativa d’asta per l’esproprio dei terreni e i lavori di realizzazione del Centro oli di «Tempa Rossa» - nell’ambito del processo allora chiamato «Totalgate», per pene che complessivamente ammontano a 47 anni e sei mesi di reclusione. In particolare, sono stati condannati l’ex ad di Total Italia Lionel Lehva (tre anni e sei mesi di reclusione) e l’ex manager della Total Jean Paul Juguet (tre anni e sei mesi), due ex dirigenti locali della Total, Roberto Francini e Roberto Pasi (sette anni di reclusione ciascuno), l’imprenditore Francesco Rocco Ferrara (sette anni di reclusione), l’ex sindaco di Gorgoglione (Matera) Ignazio Tornetta (sette anni), l’ingegnere Roberto Giliberti e il dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Corleto Perticara (Potenza) Michele Schiavello (cinque anni ciascuno), e l’imprenditore Nicola Rocco Donnoli (due anni e sei mesi). Per Lehva e Juguet è stata disposta l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni, mentre per Pasi, Francini, Ferrara, Tornetta, Schiavello e Giliberti l’interdizione è perpetua. Per 18 imputati è stata disposta l’assoluzione. Nel dispositivo il giudice, Aldo Gubitosi, ha inoltre disposto la restituzione al pm degli atti relativi alle posizioni di Total, Sogesa e Impresa Ferrara «per nuove valutazioni». Il pm, Veronica Calcagno, aveva chiesto pene per un totale di circa 90 anni di reclusione. La vicenda si riferisce a un’inchiesta condotta nel 2008 dal pm Henry John Woodcock - ora in servizio a Napoli - sulla realizzazione del Centro oli di "Tempa Rossa», in particolare per le procedure di esproprio dei terreni che avrebbero poi dovuto ospitare la struttura, e la concessione degli appalti per i lavori. Il Comune di Corleto Perticara (Potenza) è stato condannato in solido «quale responsabile civile» al risarcimento dei danni alla parte civile (con Schiavello, Pasi, Francini e Giliberti). «Non posso che esprimere la mia più viva soddisfazione per un verdetto che conferma la bontà dell’impianto accusatorio da me costruito grazie al lavoro di un gruppo affiatato di ragazzi della polizia giudiziaria (la squadra mobile e la polizia municipale di Potenza e i carabinieri del Noe del capitano Ultimo) che hanno collaborato con me». Così il pm Della Dda di Napoli Henry John Woodcock commenta l’esito del processo a Potenza scaturito dall’inchiesta Tempa Rossa, coordinata negli anni scorsi dal magistrato quando era sostituto alla procura del capoluogo lucano.
Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo». Scontro con la minoranza. M5S presenta la mozione di sfiducia, scrive Alessandro Trocino su "Il Corriere della Sera” il 4 aprile 2016. «Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza». Conclude così la sua replica Matteo Renzi, a una direzione del Partito democratico più nervosa del previsto e che, dopo i duri attacchi della minoranza, approva la relazione del segretario con 98 voti favorevoli e 13 contrari. Renzi rivendica lo sblocco del progetto Tempa Rossa, che è costato le dimissioni del ministro Federica Guidi e sul quale c’è un’inchiesta della magistratura: «Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». Parole che arrivano qualche minuto dopo che il ministro Maria Elena Boschi, in un ufficio decentrato di Palazzo Chigi, è stata sentita dai magistrati come persona informata dei fatti. E pochi minuti prima della condanna degli ex vertici della Total per turbativa d’asta e corruzione nella vicenda Tempa Rossa. Renzi difende appassionatamente l’operato del governo: «Noi schiavi delle lobby? Ma le multinazionali oggi creano 1,2 milioni di occupati, il 14% del Pil e il 25 dell’export». Le inchieste: «Noi non siamo come gli altri. Se qualcuno ruba, si proceda e si metta in galera». E rivendica la diversità anche su altro: «Non farò più di due mandati. Fuori di qui ci sono due nemici: populismo e demagogia». Renzi deve subire il duro attacco di Gianni Cuperlo: «Matteo, penso che tu sia profondamente onesto. Ma non ti stai mostrando all’altezza del ruolo che ricopri, ti manca la statura del leader anche se coltivi l’arroganza del capo». E ancora: «Sento il peso di stare in questo partito». Il governo dovrà fare fronte anche alla mozione unitaria presentata dal centrodestra e a quella del Movimento 5 Stelle. Che recita: «L’inchiesta petrolio svela l’operato di un articolato e consolidato comitato d’affari».
Inchiesta Petroli in Basilicata, quello che sappiamo. Dai nomi dei personaggi coinvolti fino alle ipotesi di reato: una guida per capire l'indagine che sta facendo tremare il governo Renzi, scrive il 4 aprile 2016 "Panorama".
Quali sono le conseguenze politiche? Dopo che è caduta la testa del ministro Federica Guidi, Maria Elena Boschi, 35 anni, è finita nel mirino delle opposizioni e sarà interrogata dagli inquirenti. Le chiederanno con ogni probabilità se era conoscenza del legame tra il ministro e l’imprenditore indagato e se sapesse della convenienza che questa ne avrebbe ricavato dallo sbloccamento dell’operazione Tempa Rossa della Total. Il ministro Boschi ha non solo per ora negato di sapere chi fosse l'imprenditore siracusano che sollecitava l'introduzione dell'emendamento che avrebbe consentito alla sua azienda di aggiudicarsi alcuni appalti milionari, ma ha difeso la ratio del provvedimento: «Conosco molto bene il provvedimento, atteso dal 1989. Era ed è sacrosanto. Se poi il compagno della Guidi o chiunque altro ha violato la legge è giusto che ne risponda. Noi abbiamo semplicemente fatto la cosa giusta per l’Italia». Sono già state presentate due mozioni di sfiducia al governo: una dei Cinque Stelle e un’altra di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia. L’indagine della Procura di Potenza che ha provocato le dimissioni del ministro Guidi, nota come Scandalo Petroli, fotografa un quadro politico inquietante. Un affresco, secondo l'accusa, costruito attorno agli interessi lobbistici e ai perversi intrecci tra la politica e i vertici industriali dell'Eni e della Total, all'interno di un sistema clientelare del quale i soggetti-chiave erano non solo i dirigenti dei colossi petroliferi, ma anche uomini delle amministrazioni locali e del governo centrale che avrebbero dovuto vigilare, nonché ditte appaltatrici che avrebbero goduto di trattamenti di favore. Partita dai carabinieri del NCO che stavano indagando su un traffico di rifiuti tossici prodotti negli stabilimenti petroliferi in Basilicata, l'inchiesta muove da un'ipotesi: che i rifiuti liquidi prodotti dall’attività estrattiva degli impianti petroliferi presenti in Basilicata venissero sistematicamente classificati come non pericolosi e dunque versati nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, al fine di abbattere i costi di smaltimento. Con ovvie ricadute sull'ambiente e sulla qualità della vita della cittadinanza. E con la complicità interessata di uomini della Politica.
Quali sono le ipotesi di reato? L’ipotesi di reato, in generale, è quello di disastro ambientale, una fattispecie specifica introdotta nella nuova legislazione del maggio 2015 che prevede dai 5 ai 15 anni di carcere per chi se ne renda responsabile. Il disastro ambientale viene definito dal codice penale come «l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema, l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali, l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo». Ma ci sono altre ipotesi di reato, perché attorno al reato principale - il disastro ambientale - si muovevano ditte appaltatrici e pezzi di politica locale e regionale, in un quadro corruttivo e apparentemente privo di controlli adeguati.
In quali filoni è composta l'inchiesta? Il primo, affidato ai carabinieri del Noe, riguarda l'impianto Eni di Viggiano, operativo in Basilicata, che secondo l'accusa - e con la complicità degli organismi di controllo e della politica nazionale e locale - avrebbe continuato a sversare nel terreno, in spregio a qualsiasi norma di tutela ambientale, i suoi rifiuti tossici, sforando anche sistematicamente sui limiti delle emissioni previste per legge. Il secondo filone di indagine, seguito dalla squadra mobile della Polizia di Stato, ha al centro l'iter che ha portato all'autorizzazione del giacimento Tempa Rossa della Total, nell'alta valle del Sauro, sempre in Basilicata, e che secondo i giudici avrebbe dato il via a un sistema oliato di corruzione e tangenti per l'assegnazione degli appalti e dei subappalti in relazione alla costruzione e ai lavori dell'impianto. Il terzo filone riguarda il porto di Augusta, attorno all'ipotesi di traffico di influenze e traffico illecito di rifiuti, all'interno di una più vasta associazione a delinquere alla quale facevano parte, secondo la procura, il capo di Stato maggiore della marina Giuseppe De Giorgi, il compagno dell'ex ministro Guidi, Gianluca Gemelli, per il quale la procura potrebbe chiedere l'arresto, il capo ufficio bilancio della Difesa e consulente del ministero per lo Sviluppo Economico, Valter Pastena, e il facilitatore-lobbista Nicola Colicchi.
Che cosa ha portato alle dimissioni del ministro Guidi? In una telefonata intercettata il 13 dicembre 2014 il ministro Guidi rassicura il compagno che un emendamento alla Legge di stabilità sbloccherà l’operazione Tempa Rossa, sottolineando anche il voto favorevole di Maria Elena Boschi, cui era interessato lo stesso Gianluca Gemelli, 42 anni, commissario di Confindustria siracusana e noto imprenditore edile siciliano, nonché compagno del ministro dello Sviluppo.
Perché è coinvolto anche il sindaco di Corleto Perticara? La Procura di Potenza ha dedicato a Rosaria Vicino, Pd, 62 anni, 800 pagine di ordinanza di custodia cautelare e 13 capi di accusa, tra cui corruzione, peculato e voto di scambio. Dalle intercettazioni emergerebbero pressioni per far assumere il figlio all’Eni e quali fornitori utilizzare. Ma il sindaco – stando ad alcune telefonate intercettate - si sarebbe mosso anche per raccomandare altre personaggi e far loro avere gli appalti necessari alla prosecuzione dei lavori dell'impianto Tempa Rossa di Corleto Perticara, la cittadina di cui era sindaco. È coinvolto nell'inchiesta, secondo l'intercettazione, anche il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo che - per i servigi resi - «avrebbe a sua volta ricevuto dall'Eni un hotel a Milano».
Quali possono essere le conseguenze economiche della vicenda? Dopo l'apertura dell'inchiesta, che ha svelato un sistema ben oliato di corruzione e omessi controlli, l'Eni ha deciso di sospendere le estrazioni del petrolio in Basilicata, in particolare in Val D’Agra dove si estraggono 75 mila barili al giorno e dove c'è il giacimento di Viggiano, il più importante d’Europa dopo quelli russi. Anche i dipendenti coinvolti nell’inchiesta sono stati sospesi.
Un dossier anonimo contro l’ammiraglio De Giorgi: “Ecco tutte le spese pazze”. Inchiesta di Potenza, spuntano documenti sul capo di stato maggiore della Marina: «Festini e scambi di interessi con il fidanzato della ministra Guidi», scrive Grazia Longo il 12 aprile 2016 su “La Stampa”. La stagione dei veleni è appena cominciata. Non si sono ancora placate le polemiche per il dossier contro il ministro Graziano Delrio, che ne spunta fuori un altro. Stavolta nel mirino c’è il capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, al centro del filone siciliano dell’inchiesta sulle estrazioni petrolifere in Basilicata. È probabile che di questo dossier si discuta venerdì alla Procura di Roma nell’incontro previsto fra il procuratore Pignatone e il collega di Potenza Luigi Gay quando verrà affrontato anche il dossier che riguarda il ministro. Questa tranche in particolare verrà trasferita a Roma, mentre si stanno ancora valutando eventuali altri passaggi. Contro di lui c’è un dossier anonimo che è stato consegnato alla procura di Potenza, alla presidenza del Consiglio e al ministero della Difesa. Documenti, allegati, che contestano l’operato e le spese folli dell’alto ufficiale della Marina, in pole position, fino a poco prima dello scandalo, per diventare il nuovo capo della Protezione civile. Festini e spese pazze sono denunciate dalla gola profonda che accusa De Giorgi. Si legge ad esempio dei «festini da lui organizzati da comandante a bordo della nave Vittorio Veneto... con tanto di trasferimento a mezzo elicottero, di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da comandante della nave Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati a un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco». Grande amante del lusso, secondo il dossier, l’ammiraglio fece spendere 42 milioni di euro per rifare l’area delle cabine degli ufficiali della nave Bergamini, dopo una visita a Fincantieri. Nell’inchiesta di Potenza - il procuratore Luigi Gay, l’aggiunto Francesco Basentini, la pm Laura Triassi e Elisabetta Pugliese della Dna - l’ammiraglio è accusato di abuso d’ufficio. Il sospetto è che ci sia stato uno scambio di «interessi» tra lui e il fidanzato dell’ex ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi. L’imprenditore petrolifero Gianluca Gemelli - anche in questo caso indagato per traffico d’influenza illecita, proprio per aver speso la posizione dell’ex ministra - avrebbe avuto il suo tornaconto grazie alla costruzione di un pontile per lo stoccaggio del petrolio. In cambio avrebbe speso la posizione della Guidi per uno stanziamento del ministero delle Finanze. Più in particolare, si trattava di gestire spese per 5,4 miliardi di euro: il progetto del rimodernamento dell’intera flotta italiana, inserito nella cosiddetta legge navale. Nelle pagine del dossier anonimo (che come tale va preso con tutte le cautele), viene rappresentato un capo di stato maggiore che folleggiava a champagne, intimoriva i sottoposti, i quali solo per paura non ne denunciavano l’atteggiamento. Fango e menzogne contro l’ammiraglio? La sua carriera militare è senza macchia. Venerdì mattina, intanto, verrà interrogato in procura a Potenza in merito all’accusa di abuso d’ufficio. Inevitabilmente, anche se non c’entra con le indagini, l’attenzione ricadrà sul dossier e sulla sua immagine in sella al cavallo bianco. La gola profonda sostiene di essere un militare della Marina che preferisce restare anonimo per paura: «Non ho il coraggio di venire allo scoperto perché ho già abbondantemente pagato per non essermi piegato alle richieste del capo di Stato maggiore». De Giorgi, secondo quanto stigmatizzato nel dossier, volle spendere cifre da capogiro per il quadrato e le cabine degli ufficiali. Ben 42 milioni e 986.000 euro che l’ammiraglio «cercò di coprire con un auto investimento da parte di Fincantieri che invece non aveva alcuna intenzione di finanziare neanche parzialmente e quindi si spesero decine di milioni del contribuente». C’è poi un altro importante business nel campo dei mezzi navali per attività di spionaggio e che fa parte del rinnovamento della flotta navale per oltre 5 miliardi all’attenzione della procura di Potenza: «la produzione di unità sottili stealth ad altissima velocità, con scafi e strutture di carbonio trattato con l’applicazione delle nanotecnologie». De Giorgi ci teneva tantissimo, al punto che «propose con una lettera al capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Mario Binelli Mantelli, chiedendogli l’approvazione a firmare una convenzione con la società As Aeronautical». È quanto riportato in una lettera del 30 novembre 2013, allegata al dossier. La gola profonda denuncia che «l’Aeronautical Service tecnicamente non esiste e non dispone di apparecchiature, né di maestranze all’altezza. Il suo responsabile, ingegner Bordignon, millanta coperture illustri come De Giorgi e Valter Pastena». Proprio quel Pastena, consulente dell’ex ministra Guidi, anche lui indagato a Potenza. Per quanto concerne invece i party con i soldi pubblici, l’anonimo racconta: «Famosi sono stati i festini organizzati dal comandante a bordo della Vittorio Veneto in navigazione, con tanto di trasferimento a mezzo elicottero di signorine allegre e compiacenti. O di quella volta, sempre da Comandante della Vittorio Veneto in sosta a New York, che accolse gli invitati ad un cocktail a bordo, in sella a un cavallo bianco appositamente noleggiato. Tutti sapevano e tutti, per paura delle sue vendette, tacevano circa l’uso improprio che l’ammiraglio, una volta diventato capo delle Forze Aeree della Marina, faceva degli elicotteri e soprattutto del velivolo Falcon 20 che in versione Vip lo trasportava continuamente come in un taxi, spesso in allegra compagnia da una parte all’altra dell’Italia, per l’esaudimento di interessi personali ma a spese del contribuente».
AMM.DE GIORGI: CALUNNIE, QUERELO STAMPA Tweet 12 aprile 2016 22.17. "I fatti riportati sui giornali e nei servizi televisivi, attribuiti alla mia persona, sono del tutto infondati e ledono l'onore ed il decoro del sottoscritto. Sentito il mio avvocato, non ho potuto esimermi, per la mia posizione pubblica, dal querelare gli autori". Così in una nota il capo di stato maggiore della Marina, De Giorgi, sul dossier anonimo nei suoi confronti. "La cosa mi amareggia, per il mio ben noto rispetto verso gli organi di stampa e verso la libertà di informazione. Auspico l'individuazione dei calunniatori".
“Coprì le carte sui marò”: ecco le nuove accuse nel dossier su De Giorgi. L’anonimo insinua: tangenti per appalti milionari e feste allegre. La difesa dell’ammiraglio annuncio un contro esposto per individuare la gola profonda: “Solo fantasiose illazioni”. Spregiudicato al punto di «ripulire le carte che avrebbero danneggiato l’ammiraglio Binelli nell’inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone». «Arrogante e dittatore» verso i colleghi che non si piegavano al suo volere, tanto da esasperare un collega fino al suicidio. Malignità e attacchi gratuiti? È impietosa la ricostruzione dello stile disinvolto del capo di stato maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi, fornita dal dossier anon...continua Grazia Longo.
Nuove ombre su De Giorgi: "Ha coperto le carte sui marò". La mano dell'Ammiraglio De Giorgi avrebbe ripulito le carte che incastravano il collega Binelli sulla responsabilità che portarono alla consegna dei marò Latorre e Girone alle autorità indiane, scrive Gabriele Bertocchi, Mercoledì 13/04/2016, su "Il Giornale". "Solo fantasiose illazioni" così la difesa De Giorgi cerca di annegare le accuse contro l'ammiraglio. Ma tra i festini, le allegre signorine e gli elicotteri usati a suo piacimento viene a galla anche un retroscena che coinvolge i due marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Nel dossier anonimo spedito, tra gli altri, alle procure di Roma e Potenza, il Capo di Stato Maggiore della Marina, Giuseppe De Giorgi viene descritto come un dittatore, arrogante e spregiudicato a tal punto di "ripulire le carte che avrebbero danneggiato l'ammiraglio Binelli nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei Marò Latorre e Girone". Un retroscena, riportato da La Stampa, che viene fuori dal progetto per i finanziamenti della flotta navale. Una situazione a cui l'ammiraglio dovrà rispondere dopodomani davanti ai pm di Potenza che lo hanno indagato per abuso di ufficio nel filone dell'inchiesta al Porto di Augusta. La gola profonda che ha steso il dossier scrive, a proposito dei finanziamenti, "in Marina è nota come la tangente De Giorgi-Passarella". Quest'ultimo è il dirigente pensionato della Ragioneria dello Stato piazzato al Mise come consulente dell'ex fidanzato di Federica Guidi, Gianluca Gemelli. L'anonimo inoltre rivela che "i toni delle critiche in seno allo stato maggiore della difesa erano talmente alti - Aeronautica ed Esercito avevamo maldigerito ammodernamento della flotta - che l'Ammiraglio Binelli, pur riconoscente nei confronti di De Giorgi per avergli ripulito molte carte che lo avrebbero danneggiato nell'inchiesta sulle responsabilità che portarono alla consegna alle autorità indiane dei marò Latorre e Girolamo, si affrancò dall'impresa suggerendo a De Giorgi di evitare di andare oltre". Nonostante le dettagliate accuse la Marina bolla i "fatti contenuti nel dossier come inesistenti".
Scoppia il caso sulle caprette di De Giorgi. "Noi, zimbelli della Nato". Le caprette tosaerba all'Arsenale militare di Venezia. Animali che brucano per risparmiare sui giardinieri. Svelata un'altra stravaganza del militare ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina. E i colleghi francesi, inglesi e spagnoli emettono sarcastici belati se si trovano in missione con un marinaio italiano, scrive Fabio Tonacci il 13 aprile 2016 su “La Repubblica”. "I marinai fanno “beee...”. Grazie alle caprette tibetane di Giuseppe De Giorgi, i nostri militari della Marina sono diventati lo zimbello della Nato. Perché l'idea di sostituire i giardinieri di alcune basi con delle capre, magari ha pure una sua ragione ecologista. E magari fa risparmiare qualche spicciolo sulla manutenzione dei prati. Ma il punto è che da un anno a questa parte, i colleghi francesi, inglesi e spagnoli sfottono senza pietà, emettendo dei dolorosi e sarcastici belati appena si trovano in missione con un marinaio italiano. Ora, questa storia delle caprette inserite nell'organico dell'Arsenale militare di Venezia (tre capre alpine), nella stazione aeromobili di Marina di Grottaglie e in una base a Cagliari (una trentina in tutto, di specie tibetana), rientra nel ventaglio delle stravaganze a cui De Giorgi ha abituato i suoi sottoposti, ancor prima di diventare Capo di Stato Maggiore della Marina nel dicembre 2012. E paragonata alle accuse che gli vengono ora rivolte dai pubblici ministeri di Potenza (abuso di ufficio e traffico di influenze per il porto di Augusta) e da un esposto anonimo su presunte commesse milionarie poco chiare della Marina, qui siamo nel campo del colore. Ma fino a un certo punto. Perché le povere caprette sono diventate un problema serio. Sporcano, ovviamente. Hanno bisogno delle cure dei veterinari, ovviamente. E non rispettano le consegne del codice militare, ovviamente, per cui una di queste è rimasta incinta, altre vagano nelle basi in cerca di cibo. Costringendo i marinai a fare i pastori. Era stato il Fatto Quotidiano, ad ottobre scorso, a raccontare la loro presenza nelle caserme. Tutto era nato da una battuta, che battuta non era, pronunciata da De Giorgi durante alcune visite ufficiali alle basi. A chi gli faceva notare l'erba alta causata dalla mancanza di fondi per pagare i giardinieri, il capo di Stato Maggiore rispose: “Metteteci delle capre, che sono anche ecologiche”. Così un sottoufficiale dell'arsenale di Venezia preposto alla salute, con 22 anni di servizio alle spalle, racconta a Repubblica quello che successe dopo la visita di De Giorgi: “Ci siamo visti recapitare tre caprette nell'agosto scorso, forse donate da qualche allevatore veneto. C'erano una decina di marinai nell'Arsenale in quel momento, e alcuni di loro si sono dovuti occupare della gestione degli animali. Oltretutto, erano state vaccinate? Erano capi registrati all'ufficio sanitario? E c'era un ordine di servizio per cui ci dovevamo mettere a spalare il letame? Cosa fare nel caso di decesso, visto che ci potrebbero essere rischi di brucellosi? Nessuno mi dava risposte, e allora mi sono permesso di scrivere al mio superiore osservando che le capre starebbero molto meglio in libertà sulle Dolomiti. Risultato? Tre giorni di rigore e procedimento disciplinare. Ora sono in attesa di trasferimento”. Le caprette di De Giorgi sono intoccabili, come le vacche in India. “L'ultima volta che sono andato all'Arsenale per alcune pratiche amministrative – dice il sottoufficiale – ne ho viste due, diverse rispetto alle prime che abbiamo avuto”.
Nell'imbarazzo generale, la questione è arrivata anche in Parlamento, grazie all'interrogazione rivolta al ministero della Difesa dall'onorevole di Sel Donatella Duranti. E' questa è la risposta del sottosegretario Domenico Rossi: “E' vero, in alcune basi sono presenti capre di tipo alpino o misto tibetano oggetto di donazione, nonché alcuni daini prelevati dalla tenuta di San Rossore. In virtù delle loro abitudini alimentari, esse si nutrono di erba contribuendo in tal modo a tenere sotto controllo la crescita della vegetazione, anche in funzione antincendio. Sono ospitati in ampie, dedicate e circoscritte aree verdi all’interno delle quali sono garantite adeguate coperture e ricoveri per preservarli dalle intemperie, dalle piogge e dai rigori termici. Sono stati regolarmente vaccinati ed è stato richiesto il rilascio del codice di identificazione, come previsto dalla normativa vigente. Possono essere considerati, a buon titolo, delle vere e proprie «mascotte». Adesso basta solo spiegarlo ai marinai francesi.
MAFIA, PALAZZI E POTERE. Il terremoto parte da Reggio Calabria. Nelle carte dell'inchiesta Breakfast la ragnatela di relazioni per promuovere prefetti, "silenziare" Bossi, lucrare sul Ponte sullo Stretto. Tutto parte dalle telefonata di Domenico Aiello, il legale (calabrese) di Maroni, scrive Martedì 08 Dicembre 2015 il “Corriere della Calabria”. Il prossimo terremoto giudiziario (non manca nulla: dai rapporti di potere tra la Lega e Berlusconi agli intrighi politici attorno al Ponte sullo Stretto, ai patti indicibili tra istituzioni, industriali e mondo dello sport) ha come epicentro la Procura di Reggio Calabria. È l'inchiesta "Breakfast", della quale il Fatto Quotidiano in edicola martedì anticipa stralci che potrebbero far tremare pezzi importanti del potere. Cominciando dalle nomine del ministero dell'Interno e dei prefetti. Tra i quali il commissario del Comune di Roma Francesco Paolo Tronca, che avrebbe chiesto una mano al potere leghista per diventare prefetto di Milano nel 2013. Il passepartout per i giochi nei Palazzi sono le intercettazioni che vedono protagonista Isabella Votino, storica portavoce del governatore della Lombardia Roberto Maroni. Colloqui che spaziano lungo tutto l'arco politico italiano, con importanti passaggi calabresi. L'incipit, innanzitutto. Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell'indagine Breakfast, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. L'inchiesta, condotta dal pm Giuseppe Lombardo sotto il coordinamento del procuratore capo Federico Cafiero, va avanti in gran segreto da tempo. Gli investigatori si sono imbattuti nel "terremoto politico" dopo aver attivato intercettazioni nei confronti dell'avvocato Aiello, legale di fiducia del governatore Maroni e della Lega. Ma anche compagno di Anna Maria Tavano, ex direttore generale della Regione Calabria, successivamente assunta come manager in Lombardia. L'attività di indagine era stata avviata per appurare i rapporti di Aiello con il consulente legale Bruno Mafrici, figura chiave in Breakfast, un uomo le cui relazioni spaziano – secondo le informative della Dia – dalla politica leghista al clan De Stefano. In parallelo, avanzavano le intercettazioni sulla portavoce di Maroni Isabella Votino. «A prescindere dalla rilevanza penale – scrive Marco Lillo sul quotidiano diretto da Marco Travaglio –, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato». Un dietro le quinte del potere sull'asse Roma Milano, dunque. Illuminante per svelare certe dinamiche. Non c'è solo il prefetto Francesco Paolo Tronca nei brogliacci. Ci sono gli accordi tra Maroni e Berlusconi per convincere Bossi a mettersi da parte, le sponsorizzazioni dell'ex Cavaliere in vista di Expo, il presunto ricatto (sempre di B.) a Maroni. E il tentativo dell'amministratore delegato di Impregilo, Pietro Salini, di "fottere" lo stato «con la complicità della portavoce dell'allora segretario della Lega, sempre Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto». C'è molta Lega, nel passaggio tra vecchio e nuovo corso. E, ovviamente, un ruolo centrale ha l'avvocato calabrese Domenico Aiello. Un professionista che, vuole l'aneddotica più accreditata, sarebbe entrato nel "cuore" di Maroni per la comune fede milanista, per diventare un punto di snodo dei principali interessi lumbàrd. Aiello telefono a vari procuratori per tessere la sua tela, chiedendo informazioni e audizioni. E le loro risposte sono le più disparate: c'è chi chiude senza lasciare possibilità, chi apre le porte e chi, addirittura, chiede favori. Un quadretto poco edificante. L'epicentro è la Calabria. E un'inchiesta esplosiva sulla quale qualcuno ha cercato di mettere il coperchio.
Tronca e le carriere dei prefetti, a decidere è la portavoce. Le telefonate svelano il sistema delle nomine. Isabella Votino da 9 anni è la collaboratrice più stretta del governatore lombardo Roberto Maroni: a lei si rivolgono gli aspiranti a una carica, per informazioni e aiuto. In una conversazione intercettata nel 2012 racconta i retroscena sull'arrivo in prefettura a Milano dell'attuale commissario al Comune di Roma, Francesco Paolo Tronca. Che al Fatto dice: "Escludo categoricamente di averle chiesto una raccomandazione", scrive Marco Lillo l'8 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". A chi ha chiesto una mano per agguantare la poltrona di prefetto di Milano nel 2013 Francesco Paolo Tronca? Secondo Isabella Votino, la storica portavoce di Roberto Maroni, il prefetto si sarebbe raccomandato a lei e al potere leghista. Non è l’unica questione che emerge dalle intercettazioni telefoniche di un’indagine della Procura di Reggio Calabria che oggi sveliamo. Qual è l’imprenditore che Silvio Berlusconi sponsorizza per i lavori della Città della Salute a due passi da Milano in occasione di Expo? E come ricatta Maroni per ottenere l’alleanza alla vigilia delle elezioni che determineranno l’attuale equilibrio politico italiano e lombardo? Con quali parole l’ex premier minaccia di sguinzagliare i giornali di destra alla stregua di pit bull per indurre a più miti consigli l’alleato riottoso? Come si sono accordati Berlusconi e Maroni per convincere Umberto Bossi a mettersi da parte in silenzio? Come fa l’amministratore delegato della maggiore impresa di costruzioni italiana, Pietro Salini di Impregilo, a tentare di “fottere” lo Stato (a partire dal presidente della Repubblica) con la complicità della portavoce dell’allora segretario della Lega, Isabella Votino, per ottenere il pagamento delle penali per un miliardo di euro della mancata costruzione del Ponte sullo Stretto? Come fa il presidente del Coni Giovanni Malagò a proporre alla Lega un’alleanza tra padani e generone romano? Con quali parole vanta le potenzialità di una macchina di consenso con milioni di tesserati per ottenere un voto utile a sbaragliare il rivale Raffaele Pagnozzi? E quali trattative ci sono tra Matteo Salvini e i vecchi leghisti dietro al patto del febbraio 2013 tra il nuovo segretario federale del Carroccio e Bossi? Perché la Lega ha evitato di costituirsi parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito nei processi per le ruberie dalle casse del partito? Come rispondono i vari procuratori interessati dalle manovre dell’avvocato Domenico Aiello quando il legale dei leghisti chiede con tono perentorio informazioni e audizioni? Perché un procuratore “duro e puro” chiude ogni comunicazione con parole secche mentre altri pm lasciano le porte aperte e qualcun altro chiede all’avvocato della Lega un favore? Infine, come si decidono le nomine dei commissari strapagati delle grandi aziende in crisi firmate dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi nel 2014? E tanto altro ancora. A partire da oggi, per molti giorni, Il Fatto Quotidiano pubblicherà le intercettazioni telefoniche e ambientali dell’indagine Breakfast della Procura di Reggio Calabria, condotte dal Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria sotto il coordinamento del pm Giuseppe Lombardo e del procuratore capo Federico Cafiero De Raho. L’indagine va avanti in gran segreto da tempo. Tanto segreto. Troppo tempo. Probabilmente le intercettazioni nei confronti dell’avvocato Aiello (attivate nel 2012 per appurare i suoi rapporti con il consulente legale Bruno Mafrici, che era indagato) e sulla portavoce di Maroni Isabella Votino non porteranno a nulla. A prescindere dalla rilevanza penale, quelle conversazioni devono essere pubblicate perché i fatti che svelano sono di rilievo pubblico. La sensazione anzi è che qualcuno abbia messo un coperchio su un pentolone pieno di storie imbarazzanti per i poteri dello Stato. Il Fatto ha visionato le telefonate e ha deciso di far conoscere all’opinione pubblica come funziona dietro le quinte il potere sull’asse Roma-Milano. Le nomine dei prefetti spettano al Consiglio dei ministri su proposta del ministro dell’Interno. Però c’è una bella signorina di 36 anni, nata a Montesarchio in provincia di Benevento, che sembra avereinfluenza sulle scelte. Si chiama Isabella Votinoe gli aspiranti a una carica le chiedono informazioni e aiuto. Da nove anni è la collaboratrice più stretta di Roberto Maroni. Il suo potere però è più penetrante di quello di una mera portavoce di un governatore lombardo. Sarà per i suoi rapporti stretti con Silvio Berlusconi che poi l’ha voluta nel gennaio 2014 per vitalizzare la comunicazione del Milan, ma tra la fine del 2012 e inizio del 2014, quando è intercettata dalla Dia di Reggio Calabria, sembra una sorta di zarina del Viminale, nonostante Maroni non sia più il ministro. Il 18 dicembre del 2012 a Palazzo Chigi c’è Mario Monti e al Viminale c’è la Cancellieri. La Votino è “solo” la collaboratrice più intima del neo-segretario della Lega Nord, Roberto Maroni quando Luciana Lamorgese, Capo del Dipartimento personale e risorse del ministero dell’Interno, la chiama. Votino le racconta i retroscena della carriera del prefetto Francesco Paolo Tronca. L’attuale commissario nominato da Alfano e Renzi al Comune di Roma, secondo Votino, si sarebbe fatto raccomandare dalla Lega per diventare prefetto di Milano nel 2013, trampolino di lancio per la sua carriera.
Isabella Votino (V): Avevo incrociato Tronca, dopo di che lui mi ha chiamato dicendomi..
Luciana Lamorgese (L): Ma lui ti ha chiamato?
V: Perché io l’avevo incrociato… poi avevo parlato con te e tu, onestamente, mi avevi lasciato intendere che, come dire, non se ne faceva nulla e allora io gli ho detto guarda dico, vuoi che ti dica, cioè…
L: Ma perché lui voleva sapere da te i fatti?
V: No no lui ovviamente voleva in qualche modo che si caldeggiasse… perché non ne fa mistero che vuole venire a Milano.
L: Eh certo! (ride)
V: Ma questo cioè legittimamente e allora ma sai fuori dai giochi tu che, ovviamente voglio dire … meglio lui che un altro, cioè, che noi neanche conosciamo (…) Luciana, io non te lo devo dire che … cioè, noi preferiamo che vieni tu che…
L:(ride) (…) io voglio prima capire qual è la situazione … cioè, nel senso, anche da vedere Roma che cosa…
Il Prefetto Luciana Lamorgese in sostanza fa presente all’amica che la sua prima scelta è la nomina a Roma e Milano è per lei una subordinata. Nel luglio 2013 sarà nominata capo di gabinetto dal ministro Angelino Alfano, al posto di Giuseppe Procaccini, travolto dal caso Shalabayeva. La sera del primo giugno 2013 Isabella Votino chiama Maroni per sapere se il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni andrà a fare il prefetto di Milano (alla fine ci andrà solo due anni dopo, pochi giorni fa, per pura coincidenza, ndr). La sta cercando Tronca e Maroni commenta che certamente Tronca la sta chiamando perché vuole sponsorizzare la sua nomina. Due minuti dopo Votino chiama Tronca. L’allora capo dipartimento dei Vigili del fuoco la invita a essere sua ospite nelle tribune riservate alla festa del 2 giugno a Roma. Lei declina l’invito e prende il discorso della nomina sostenendo che è stata rinviata a luglio. Tronca le chiede di continuare a seguire lei la vicenda. Votino conclude dicendo che però circola voce che potrebbe essere nominato Marangoni. Invece l’8 agosto del 2013 il nuovo ministro dell’interno Angelino Alfano nomina Tronca prefetto. A settembre 2013 la Dia intercetta la conversazione tra un funzionario molto importante della polizia di Milano, Maria José Falcicchia, e la sua amica Isabella Votino. Falcicchia (prima donna nominata proprio in quel periodo capo della anticrimine della Squadra mobile di Milano) chiede se Tronca è stato scelto da loro, cioè dalla Lega nord. La portavoce di Maroni risponde che loro lo hanno messo a capo dei Vigili del fuoco e che lo hanno sponsorizzato loro. Tronca non è l’unico prefetto di Milano che ha rapporti con Isabella Votino. Dal 2005 al gennaio del 2013 su quella poltrona c’era Gian Valerio Lombardi, famoso per come ha accolto nel 2010 l’amica di Berlusconi Marysthell Polanco in Prefettura e per la frase sfortunata (ma gradita a Maroni) sulla mafia che a Milano “non esiste”. Il 22 novembre 2012 il prefetto Lombardi, nato a Napoli nel 1946, chiede alla portavoce di Maroni: “Come sono i rapporti tra il nostro (Roberto Maroni, ndr) e il presidente della Regione Veneto?”. Votino risponde che con Luca Zaia i rapporti sono buoni. E Lombardi pronto: “Quindi se gli dobbiamo chiedere una cortesiola per una mia lontana parente che aveva un’aspirazione che dipende proprio da lui… possiamo vedere…”. Votino lo rinvia a un caffè nel fine settimana. Passa qualche mese e il Prefetto, dopo la scadenza del mandato, è a caccia di poltrone. Il 17 giugno 2013, dopo la nascita del governo Letta, si propone come sottosegretario perché “anche Alfano potrebbe aver bisogno di qualcuno fidato…”. Invece Alfano sceglie altre persone. E così a lui ci devono pensare i lombardi. Isabella Votino dimostra di non essere una portavoce qualunque quando suggerisce a Maroni di nominare Lombardi commissario dell’Aler, l’Azienda lombarda edilizia residenziale. Il governatore chiama il vicepresidente Mario Mantovani (poi arrestato per altre vicende) e ottiene il suo ok alla nomina. Ed è proprio Votino a comunicare la lieta notizia al prefetto che ringrazia ma aggiunge: “Si guadagna una qualcosetta?”. Rassicurato (da commissario prende il 60 per cento in meno ma oggi da presidente Aler guadagna 75 mila euro lordi all’anno) accetta l’incarico. Il 18 giugno Isabella Votino lo chiama per dirgli che appena è uscito il suo nome sui giornali è scoppiata la polemica per le sue vecchie dichiarazioni sulla mafia che a Milano non esiste. Però nessuno ferma Maroni e così Lombardi è tuttora al suo posto. Il prefetto Tronca, sentito dal Fatto Quotidiano, spiega: “Non ricordo questa telefonata con Isabella Votino. Non avevo una confidenza particolare con lei. Può darsi che le abbia detto, come mi è capitato con tante altre persone, che aspiravo a diventare prefetto di Milano. È una carica così importante che ci vuole la non controindicazione soprattutto delle istituzioni più rilevanti, e Maroni era allora presidente della Regione Lombardia”. E quella frase di Isabella Votino? Perché dice al telefono a una sua amica che loro hanno sponsorizzato Tronca e che l’avevano nominato prima anche a Capo del dipartimento dei Vigili del fuoco? “Io sono stato nominato capo dipartimento da Maroni e fu un gradito fulmine a ciel sereno: da prefetto di Brescia diventavo capo dipartimento dei vigili del fuoco. C’è una spiegazione però. Io – prosegue Tronca – mi ero occupato di Protezione civile anche da funzionario alla Prefettura di Milano. Ho gestito il coordinamento dell’incidente di Linate nel 2001 e in quel frangente ho conosciuto l’allora ministro dell’interno Maroni però non ho mai chiesto una raccomandazione anche perché non avevo particolari rapporti”. Allora perché chiede a Votino di “continuare a seguire la vicenda” della nomina a prefetto? Perché la invita a Roma per la festa del 2 giugno del 2013? “Probabilmente volevo che mi tenesse informato visto che Maroni avrebbe saputo come finiva. Mentre escludo categoricamente di avere chiesto alla Votino una raccomandazione. Comunque io sono stato nominato dal ministro Alfano”. Da Il Fatto Quotidiano del 08/12/2015.
Questo è il sistema per la nomina dei funzionari pubblici?
Burocrazia, Aforismi e citazioni.
“Burocrazia, ovvero un gigantesco meccanismo azionato da pigmei”. Honoré de Balzac
“Non c’è furia all’inferno che eguagli la rabbia di un burocrate disprezzato”. Milton Friedman
“I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano”. Frich Fromm
“I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata. . . .”. Franz Kafka
“Quando il mondo verrà distrutto non sarà ad opera dei pazzi, ma dagli esperti e dai burocrati”. John Le Carré
“Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati”. Herbert Marcuse
“La burocrazia è lo Stato immaginario accanto allo Stato reale è lo spiritualismo dello Stato”. Karl Marx
“La burocrazia tende a diventare una pedantocrazia”. John Stuart Mill
“Ciò che la gente rifiuta non è la burocrazia come tale, quanto piuttosto l’intrusione di essa in tutte le sfere della vita e delle attività umane”. Ludwig von Mises
“I burocrati sono una malattia. Si suppone che siano necessari, così come si suppone che siano necessarie alla vita certe sostanze chimiche, ma provocano la morte se crescono oltre un certo limite”. Ezra Pound
“Burocrazia. . . . una difficoltà per ogni soluzione”. Herbert Samuel
“Burocrazia, ovvero l’incapacità addestrata”. Thorstein Veblen
“La burocrazia è tra le strutture sociali più difficili da distruggere”. Max Weber
Burocrati..Dal francese “BUREAUCRATE”, impiegati, funzionari della pubblica amministrazione che esercitano le mansioni con eccesivo scrupolo . Per estensione, chi è formalista, gretto e rigido, nato soltanto per fare il Burocrate. 〈〈 La vera Casta è rappresentata dagli alti burocrati di Stato, che sopravvivono ai ministri e ai governi mantenendo intatto il loro potere per anni luce…〉〉
5 pareri sui burocrati:
Scopo della burocrazia è di condurre gli affari dello Stato nella peggior possibile maniera e nel più lungo tempo possibile. (Carlo Dossi)
I burocrati temono la responsabilità personale e cercano riparo dietro le loro regole; la loro sicurezza e il loro orgoglio risiedono nella lealtà verso le regole, non già nella lealtà verso le leggi del cuore umano. (Erich Fromm)
Marx ha confuso una dittatura della giustizia con la dittatura dei burocrati. (Herbert Marcuse)
Non c’è furia all’inferno che uguagli la rabbia di un burocrate disprezzato. (Milton Friedman)
I burocrati sono numerosi come i granelli di sabbia in riva al mare. Con la differenza che la sabbia non prende lo stipendio. (Ephaim Kishon)
Burocrazia "stalker": la musicista, il barista e il contadino, quelle vite in ostaggio. C'è chi perde il lavoro per una carta bollata e chi deve spostare una maniglia. La semplificazione resta un miraggio, scrive Michele Serra il 20 marzo 2016 su “La Repubblica”. Ognuno ha la sua goccia che fa traboccare il vaso. Per me la goccia è stato il riscatto dell'automobile che avevo preso in leasing: otto (otto!) i documenti richiesti, da spedire per raccomandata, per ribadire che io sono io a chi già mi ha come fedele cliente da cinque anni e di me sa tutto, a cominciare dall'Iban. Per la mia amica musicista la goccia è stata un lavoro saltato in aria perché il Registro provinciale di Qualcosa non aveva mai trasmesso non so quale fondamentale pratica al competente Registro regionale ("Non farmelo spiegare, ti prego: sono esausta"). Per il mio amico barista l'intimazione della Asl di spostare di dieci centimetri (!!) una maniglia non a norma, pena la mancata agibilità del locale. Per il mio amico agricoltore il disperato sforzo di pagare poche ore di lavoro stagionale con i voucher, che dovrebbero essere moneta corrente e sono invece buro-denaro riscuotibile solo dopo code agli sportelli, telefonate ai call center, decifrazione di clausole, scadenze, modifiche di legge...Se c'è una parola che incarna gli inganni della politica (e l'impotenza della politica) questa parola è semplificazione. Una parola-beffa di fronte alla costante lievitazione dei faldoni, delle incombenze, delle compilazioni, degli iter, delle fotocopie, dei solleciti, delle intimazioni, degli ostacoli imprevisti, di quelli prevedibili, dei ritardi, dei rinvii. La supposta transustanziazione elettronica della massa cartacea non ha avuto luogo; e anzi la burocrazia elettronica (avete mai provato a compilare una Fepa, fattura elettronica per la pubblica amministrazione?) spesso si somma a quella tradizionale, è una promessa di liberazione che si rivela un nuovo vincolo, per giunta non facile da padroneggiare ("Per me è come essere obbligato a imparare una lingua straniera a sessant'anni suonati", parola di artigiano obbligato per legge a fornirsi di Pec, posta elettronica certificata). Non so se sia mai stato calcolato quanto costa alla comunità, in termini di ore di lavoro, mattinate perse, giornate scialate alla ricerca di un bandolo, il vero e proprio stalking burocratico al quale siamo sottoposti. Ne sono certo, si tratta di miliardi di euro. E altri miliardi di euro (e migliaia di posti di lavoro) si perdono con la rinuncia di molti aspiranti imprenditori a fronteggiare la montagna orrenda delle adempienze burocratiche: una salita che non ha mai fine, quando credi di essere arrivato in cima la vetta si allontana, conosco chi, pur di farla finita, ha mollato tutto. "Non è solo fatica - mi dice un'amica ex imprenditrice - è proprio umiliazione. È come se qualcuno volesse punirti per avere osato alzare la testa e aprire bottega". "Umiliazione" non è una parola che si usa con leggerezza. Non appartiene alla sfera delle convenienze economiche, del daffare tecnico-amministrativo, della prassi sociale ordinaria. Appartiene alla sensibilità profonda, alla dignità personale, appartiene all'io. Parla di adulti che si sentono trattati come bambini, rimbrottati per una marca da bollo mancante, multati per un abbaino chiuso invece che aperto o viceversa, costretti per qualunque allacciamento o contratto di servizio ad allegare, confermare, dimostrare, comprovare, rispedire, leggere contatori, rileggerli perché i contatori sono pieni di numeri e codici, chissà quali sono quelli giusti... I tagli di personale conducono a un crescente bisogno (delle aziende) di autocertificazione, ma l'autocertificazione è quasi sempre incompleta, da perfezionare e da rispedire. È come se un intero sistema (pubblico, ma anche privato) di vincoli e di accertamenti ricadesse sull'unico soggetto che non è in grado di sottrarsi: il cittadino, il cliente, che si ritrova a essere esattore di se stesso, certificatore dei consumi, lettore di contatori, dichiaratore di redditi, ascoltatore di musichette di attesa, per giunta continuamente sottoposto a un rischio di errore che ricade sempre e solo su di lui. Gli esami non finiscono mai. L'esempio macroscopico e arcinoto è l'impossibilità di presentare la dichiarazione dei redditi senza l'ausilio di un professionista, augurandosi che almeno lui sappia orientarsi nella foresta delle leggi (e successive modifiche). Molte delle quali "da interpretare", sperando che l'interpretazione non sia contestata innescando un nuovo diluvio di raccomandate, ingiunzioni, ricorsi, un nuovo fronte burocratico che si aggiunge ai cento già aperti. Ma ci sono poi decine di micro-esempi, di minute incombenze, di reiterate richieste che compongono una specie di fitta nube perennemente sospesa sulle nostre giornate. Lo stalking burocratico è fatto soprattutto di questa sensazione: che nessuna pratica sia mai veramente chiusa, che il dover certificare ci accompagnerà alla morte e anche oltre. Ricevo ancora oggi una bolletta intestata a mio padre, che è morto nel 2002. Ho pregato di correggere il nome del destinatario, che è stato così aggiornato: Franco Serra, presso Michele Serra. Mi tiene compagnia. Non è per l'esborso di denaro (anche se quello, specie se non si hanno le spalle forti, conta eccome). È soprattutto per il tempo. Il tempo della vita (della nostra vita) che ci urge, ci appartiene, e invece viene sequestrato da code, telefonate, consultazioni, ricerche su internet, compilazioni, richieste di accesso. E i pin, e le password, un mazzo di chiavi virtuali che si ingrossa giorno dopo giorno. Tempo rubato al lavoro e dunque alla produzione di reddito e di idee. Oppure all'ozio, al riposo, al far niente, che sono anch'essi un diritto della persona libera. E non sembri, la liberazione del tempo dalla prigionia burocratica, solamente una rivendicazione "filosofica". Ha anche profonda rilevanza economica. C'è un "nero" di puro malaffare, di sottrazione alla comunità di quanto le è dovuto. Ma c'è un "nero" di pura semplificazione (semplificazione dal basso, visto che dall'alto non ce n'è traccia), che discende dall'enorme difficoltà di stare dentro la regola. Se pagare a qualcuno poche ore di lavoro "in chiaro" comporta non solamente pratiche e contropratiche, ma addirittura l'obbligo di frequentare un corso sulla sicurezza (indipendentemente dal fatto che il lavoratore sia in cima a un'impalcatura, in fondo a un pozzo oppure seduto in ufficio davanti al suo computer), la tentazione di allungargli tre o quattrocento euro brevi manu è inevitabile. Molta economia sommersa (chissà in quale percentuale: ma non piccola) non discende dalla disonestà, ma dall'esasperazione per i troppi ostacoli lungo il cammino che conduce all'onestà. Se l'onestà diventa un campo minato, c'è chi decide di tenersene alla larga. Quanti onesti potenziali sarebbero recuperabili alla causa, in presenza di un vero processo di semplificazione delle leggi e della burocrazia? Per buttarla in politica: sappiamo tutti che le regole devono esserci, e spesso le regole sono seccature. Ma se le regole sono poche e chiare ci si adegua, e chi non si adegua è un fuorilegge e basta. Se invece le regole sono milioni, e incerte, e per essere rispettate chiedono di essere decifrate, risolte come un rebus, affrontate come un esercito nemico, e mettersi in regola diventa un traguardo continuamente spostato in avanti, allora il gioco cambia. E anche a un legalitario/statalista come me a volte capita, di notte, quando non riesco a prendere sonno perché temo di avere compilato male un modulo, o di essere in mora con un ente di bonifica, di guardare con occhi sognanti quei documentari sulle famiglie pazzoidi che fuggono in Alaska, nel profondo delle foreste, là dove non esiste catasto e non esiste anagrafe. Costruiscono una capanna di tronchi e vivono di pesca e di caccia, spariti al mondo e restituiti al mondo.
Regolamento edilizio, una Babele. Più facile scrivere la Costituzione. Nulla di fatto dopo 21 mesi, per approvare la Carta ne bastarono 18. I ritardi nell’elaborazione del testo, previsto dalla legge Sblocca Italia sulla semplificazione, che dovrebbe unificare le norme in uso in ciascuno degli 8 mila Comuni italiani, scrive Sergio Rizzo il 26 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Dice tutto, a proposito della deriva imboccata dalla burocrazia made in Italy, un paragone. In 18 mesi, settant’anni fa, abbiamo fatto la Costituzione; in 21, oggi, non siamo in grado di scrivere nemmeno un regolamento edilizio uguale per tutti i Comuni italiani. Altri tempi, certo. Ma anche altra classe dirigente. La Carta costituzionale fu scritta dall’Assemblea costituente, che con tempi contingentati e una volontà di ferro riuscì a superare barriere ideologiche apparentemente insormontabili. La redazione del regolamento edilizio unico, previsto dalla legge Sblocca Italia, è invece affidata a un pool di burocrati tanto eterogenei quanto litigiosi, e siamo adesso appena all’elenco delle cosiddette «definizioni uniformi». Per capirci: si sono messi finalmente d’accordo sulle parole, convenendo che il «sottotetto» è «lo spazio compreso tra l’intradosso della copertura dell’edificio e l’estradosso del solaio del piano sottostante». Oppure che un «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili» si identifica con il termine «veranda». E non è stata una passeggiata. Sul concetto di superficie, per esempio, la Regione Lombardia ha piantato una grana tale che alla fine di definizioni ne sono venute fuori ben sei: superficie lorda, totale, complessiva, utile, calpestabile e accessoria. Dove, per avere un’idea dell’imbuto in cui i burocrati incaricati di semplificare si sono infilati, la differenza fra «totale» e «complessiva», parole che a prima vista sembrerebbero indicare la stessa cosa, è che la seconda è la somma della superficie «utile» (differente da quella «calpestabile», ovvio) più il 60 per cento di quella «accessoria». Il regolamento edilizio unico comunale, previsto dalla cosiddetta legge Sblocca Italia approvata dal Parlamento l’11 novembre 2014, potrebbe rappresentare un’autentica rivoluzione mettendo fine una volta per tutte al dedalo incredibile di norme locali in un Paese dove ognuno degli oltre ottomila Comuni ha proprie regole per stabilire come si tirano sui muri, quanto può essere grande una stanza da letto o un cortile, come si deve calcolare la grandezza di un ambiente. Con prescrizioni surreali. A Lamezia le porcilaie non possono essere costruite a meno di 30 metri dalle abitazioni. A Catanzaro è obbligatorio depositare le tinte in cantiere prima della verniciatura per consentire la verifica della rispondenza al progetto. A Bologna tollerano un’eccedenza costruttiva del 2 per cento rispetto al progetto; a Pescara del 3 per cento: a Lucca quattro centimetri per lunghezze da otto centimetri a due metri; a Firenze 10 centimetri rispetto alla scala 1:100. A Fiumicino è possibile fare i cortili solo nei condomini non popolari. Mentre a Piacenza è tassativo prevedere uno spazio di 30 metri quadrati per i giochi dei bambini ogni nove alloggi... Ventuno mesi, dicevamo, ci sono voluti solo per stabilire come chiamare le cose. Ora si è arrivati all’intesa sulle definizioni, che fa «auspicare» alla ministra della Semplificazione e della Pubblica amministrazione Marianna Madia «che lo schema tipo» del regolamento edilizio «si concluda rapidamente». Auguri. Ma se il buongiorno si vede dal mattino, come dimostra il caso surreale delle sei definizioni di superficie, è d’obbligo incrociare le dita. Non sfugge affatto la complessità della questione. Né che non si può evitare, in casi come questi, di ascoltare tutte le campane. Il problema però è di fondo: ogni volta che si vuole fare una riforma si commette sempre il medesimo errore. Quello di farla fare ai burocrati. Perché affidare a loro il compito di riformare se stessi è come chiedere al tacchino di organizzare il pranzo di Natale. Ogni semplificazione vera toglie inevitabilmente a una burocrazia congegnata come la nostra (malissimo) un pezzetto di potere: il rischio è dunque che le semplificazioni non procedano o che dietro una semplificazione si nasconda in realtà una nuova complicazione. Tanto più vero, questo, se la riforma riguarda temi sui quali si intrecciano competenze di più burocrazie. In questo caso specifico le burocrazie statali, regionali e comunali. Un delirio di interessi contrapposti ben rappresentati nel pool incaricato di sciogliere i nodi del regolamento edilizio unico. Il bello è che tutto questo meccanismo infernale rientra nell’agenda governativa battezzata, pensate un po’, «Italia Semplice». Gli ottimisti che l’hanno congegnato hanno scritto nel sito ufficiale che doveva essere tutto finito «entro novembre 2015».
La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili 21 mag 2014 di Paolo Bracalini (Autore). C'è il ristoratore multato per aver servito troppi spaghetti. Ci sono le 118 procedure da compilare per legge se si vuole aprire un'attività da estetista. C'è la famigerata "tassa sull'ombra", dovuta allo Stato per l'ombra che le tende dei negozi proiettano sul suolo pubblico, e la dichiarazione "peli di foca" per chi esporta un prodotto. C'è Equitalia con il suo "aggio", l'interesse praticato sulle temibili cartelle esattoriali, e le sue vittime. E poi l'Agenzia delle entrate con i premi per chi tartassa di più (spesso a torto). Ogni anno la burocrazia italiana costa 31 miliardi di euro: due punti di Pil persi in scartoffie e pratiche inutili. Si può dire che tutto manchi all'Italia, tranne le regole. Al contrario, i proverbiali lacci e lacciuoli, il groviglio di leggi - statali, regionali, provinciali, comunali - è così intricato che la giungla normativa italiana non ha paragoni in Europa e contribuisce all'indebolimento dei diritti dei "sudditi". I "mandarini", invece, comandano nell'ombra, con un potere enorme: nei ministeri, nella Ragioneria di Stato, nelle segrete stanze del Tesoro e del Quirinale, ma anche nei Tar che paralizzano il Paese. Paolo Bracalini ci guida nel mastodontico intreccio della burocrazia italiana con un'inchiesta che è anche un pugno allo stomaco: storie vere, testimonianze, documenti, cifre e resoconti di una follia tutta nostrana... Prefazione di Edward N. Luttwak.
Libri, la Repubblica dei Mandarini: lo Stato non siamo noi, scrive Giacomo Zucco il 3 giugno 2014 su “Il Fatto Quotidiano”. “Lo Stato siamo noi? No, sono loro!”. Queste sono le prime parole che ho potuto leggere aprendo il nuovo libro di Paolo Bracalini, “La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell’Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili”. E per un teapartysta è come un invito a nozze. Da quattro anni, ormai, andiamo ripetendo che lo Stato è altro da noi, perché se fossimo davvero noi, citando un amico, allora di certo ci tratteremmo meglio (pensateci: se noi fossimo lo Stato non ci ammazzeremmo a colpi di tasse, non ci complicheremmo la vita con tutta questa burocrazia, non faremmo di tutto per far fallire le nostre aziende, non ci metteremmo Equitalia alle calcagna)! Se a ciò aggiungiamo che nella prefazione il professor Luttwak cita direttamente i nostri cugini americani, riconoscendo i meriti delle loro battaglie, ecco che questo libro-inchiesta si va a posizionare automaticamente nella biblioteca degli attivisti del movimento. Scrive Luttwak (forse con un piccolo eccesso di ottimismo verso l’attuale situazione politica ed economica americana) che “il movimento dei Tea Party ha giocato un ruolo fondamentale in Usa permettendo di raggiungere un livello di crescita, superiore a quello italiano del 250%, con relativo crollo della disoccupazione, semplicemente tagliando la spesa pubblica. Democratici e repubblicani hanno fatto proprie le idee del Tea Party: se si licenziano 100 dipendenti pubblici e si tagliano le tasse, con il risparmio la disoccupazione non aumenta di 100, ma diminuisce di 300”. E conclude: “Il libro di Bracalini non è mera protesta. Offre l’unica soluzione possibile: tagliare lo Stato”. Ad ufficializzare questa vicinanza tra il libro e le idee del movimento, Tea Party Italia a partire dal 20 giugno inizierà un tour di presentazione del libro in diverse città della penisola (similmente a quanto già fatto con il precedente best seller di Bracalini: “Partiti S.p.a.”), in compagnia dell’autore e di Nicolò Petrali, un giovane e bravo giornalista che ha collaborato alla stesura dell’opera. Non vorrei comunque si pensasse che “La repubblica dei mandarini” sia una lettura consigliabile solo per chi ha delle idee simili alle nostre. Anzi, oserei dire che è proprio il contrario. Un antistatalista convinto, infatti, può solo “divertirsi” a vedere come, pagina dopo pagina e di capitolo in capitolo, le sue idee di partenza vengono confermate. Può scoprire nuovi dettagli e curiosità con un sorriso amaro stampato sul volto, crogiolandosi comunque in quello che è il suo habitat naturale. Al contrario, proprio gli statalisti (ovvero coloro che costituiscono purtroppo la gran parte della società italiana) potrebbero ricavare il miglior beneficio dall’approccio a questo libro. Perché per una volta ascolterebbero una musica diversa dal solito e una voce fuori dal coro. Il mio “consiglio alla lettura” si rivolge allora soprattutto a questi ultimi: se davvero siete così superstiziosi da credere che “lo Stato siamo noi”, che “se tutti pagassero le tasse, tutti pagherebbero meno”, che “se l’Italia è in difficoltà è colpa dell’evasione fiscale”, affrettatevi a leggerlo: potreste scoprire qualcosa.
BENVENUTI NELLA REPUBBLICA DEI MANDARINI - NEL NOSTRO PAESE LA VERA CASTA E' RAPPRESENTATA DAI BUROCRATI. E' PER QUESTO CHE E' ARDUO SE NON IMPOSSIBILE CAMBIARE VERAMENTE LE COSE IN ITALIA. Come racconta Bracalini, Bassanini, presidente della Cdp, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione verso le imprese private. Ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto…Testo tratto dal libro di Paolo Bracalini, giornalista del Giornale, "La Repubblica dei mandarini. Viaggio nell'Italia della burocrazia, delle tasse e delle leggi inutili" (Marsilio, 198 pagine, 14 euro), in libreria da pochi giorni. Da "il Foglio". Ispettorato generale del bilancio della Ragioneria dello Stato. Mai sentito nominare? Probabilmente no. Eppure è l'ufficio che governa la spesa pubblica italiana, un enorme centro di potere al riparo da sguardi indiscreti, nella penombra in cui ama stare la grande burocrazia italiana, quel "mandarinato" pubblico che è il vero governo occulto del paese. "Ho fatto quattro volte il ministro e qualsiasi cosa tu possa scrivere per denunciare quanto contano queste persone sarà sempre una parte infinitesimale della realtà. Lo stato sono loro e la Repubblica è appesa alle loro decisioni", racconta Altero Matteoli, ex ministro delle Infrastrutture, parlando dei superburocrati che decidono tutto nei ministeri. "Nel 2001 nominai capo di gabinetto ai Lavori pubblici un professore, Paolo Togni, e la Corte dei conti rifiutò di registrarlo perché, dissero, non aveva i titoli. Chiesi allora che titoli servissero. Muta risposta. Ma nel silenzio fecero pressioni su Palazzo Chigi per far nominare uno dei loro: un magistrato contabile o uno del Consiglio di Stato o uno del Tar". Ci volle un mese perché Togni fosse messo nelle condizioni di ricoprire l'incarico. Ma non sempre si vince il braccio di ferro con la burocrazia ministeriale, più spesso sono loro a trionfare. "Il monopolio delle informazioni è il vero motivo della potenza della burocrazia", spiega l'economista Francesco Giavazzi. "Gestire un ministero è una questione complessa: richiede dimestichezza con il bilancio dello stato e il diritto amministrativo e soprattutto buoni rapporti con i burocrati che guidano gli altri ministeri e la presidenza del Consiglio. Gli alti dirigenti hanno il monopolio di questa informazione e di questi rapporti, e tutto l'interesse a mantenerlo". Giavazzi ha imputato alla scelta di mantenere al loro posto, "quasi senza eccezioni, tutti i grandi burocrati che guidano i ministeri", il vero motivo dell'insuccesso di Mario Monti nel taglio alla spesa pubblica. Ma il professore ricorda come questo problema sia una costante per i ministri. Anche quelli più lontani dall'apparato burocratico pubblico finiscono inevitabilmente per sbatterci la testa. Successe a Giancarlo Pagliarini, primo ministro delle Finanze della Lega Nord, nel 1994. Un marziano a Roma, un fiscalista del Nord che mai aveva avuto a che fare con quel mondo. Al suo primo giorno di lavoro Pagliarini si trovò di fronte un documento della Ragioneria generale dello Stato, a suo avviso incomprensibile: "Bisogna rifare il bilancio dello Stato da zero. Se continuano a scriverlo così, solo la Ragioneria generale lo capisce e solo loro decideranno". Inutile dire chi, tra la Ragioneria e Pagliarini, ha vinto la battaglia. L'ex ministro del Bilancio leghista ricorda perfettamente l'enorme potere di interdizione della burocrazia ministeriale. "Prendiamo come esempio la legge più importante che approva il governo", spiega Pagliarini, "e cioè la legge finanziaria. Negli ultimi anni la legge finanziaria è sempre passata con il maxiemendamento. Bene, il Parlamento lo approva di fatto senza averlo letto. Ma non l'ha letto perché non è scritto. Sì, ci sono dei punti generali, ma poi sono i burocrati che lo scrivono due o tre mesi dopo l'approvazione. E quindi come si fa a sapere come lo scrivono? In sostanza il testo che tu approvi, magari come ministro, quindi anche con delle responsabilità importanti, non lo leggi nemmeno perché non c'è, non esiste ancora". E a proposito delle sorprese che i burocrati possono riservare nell'implementare una legge, ecco che Pagliarini ci porta un esempio davvero sconcertante. "Quando si parla di burocrazia amo raccontare la storia dei Giochi del Mediterraneo di Bari. Ecco come è andata: il giorno prima del Consiglio dei ministri va in scena il preconsiglio dei ministri. Al preconsiglio ci vanno i vari capi di gabinetto che discutono e poi tornano dal ministro e gli riferiscono i risultati dell'incontro. Quindi vengono da me e mi dicono che ci sarebbero queste venti leggi da approvare e che mi consigliano di farlo poiché ci sono dei problemi da approfondire l'indomani. Il problema principale è che la destra vorrebbe 5 miliardi di lire per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari. Al che mi dicono che è inutile far casino per 5 miliardi, anche perché, se il ministro si dovesse impuntare su ogni singola voce di spesa, non se la caverebbe più e che quindi sarebbe consigliato concederglieli. Il giorno dopo la prassi vuole che si approvino le voci non problematiche, si leggano solo i titoli e si approvino. C'è una cartellina con i documenti, ma di solito non si guarda mai. Bene, io quel giorno per curiosità la guardo e cosa scopro? Una cosa incredibile! Mi avevano detto 5 miliardi, ma qualcuno di notte aveva aggiunto uno zero ed erano diventati 50! E la frase non era più... "per finanziare i Giochi del Mediterraneo di Bari", ma... "per consentire l'inizio dei Giochi del Mediterraneo di Bari". Io di queste cose ho le fotocopie a casa. Così funziona la burocrazia. E i giochi di Bari, dovete moltiplicarli per mille. Qualcuno negli uffici, a livello amministrativo cambia le carte in tavola! Loro sono consapevoli che nemmeno il Padre Eterno riuscirebbe a leggere sempre tutta la documentazione e se ne approfittano. Sanno che il linguaggio burocratico lo capiscono solo loro e che il politico è sostanzialmente obbligato ad approvare anche per via di pressioni esterne. Perché, per esempio, a me dicevano che bisognava approvare entro una certa scadenza sennò scattava l'esercizio provvisorio". Un po' più ottimista è invece Adriano Teso, sottosegretario del ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel 1994. Uno che, con il ruolo che aveva, di magagne burocratiche ne ha viste parecchie. "Hai il potere di cambiare tutto", ha spiegato Teso, "se porti in Parlamento politici di una certa pasta. Ci vuole etica e capacità. Certo che se parti con politici con etica e capacità discutibili, il risultato è scarso. Pensate che io avevo addirittura portato nel mio gabinetto una mia persona per controllare i testi di legge perché capita che i tuoi dirigenti ti preparino delle leggi diverse rispetto a quelle che tu dicevi che dovevano essere fatte. E vi assicuro che sono degli artisti in questo, con il loro linguaggio criptico (come da decreto, rinviato al, la legge del... ecc.). E se un giorno ti impunti e dici di non voler firmare più niente e che vuoi vedere le carte, ti arrivano carrelli di roba alti un metro e mezzo per leggi anche di una pagina. Secondo me", prosegue, "esistono due aspetti di questa burocrazia deleteria. Uno che parte dal legislativo, perché hai un'infinità di leggi che poi, per gestirle e implementarle, ti portano per forza a un eccesso di burocrazia. Non per niente nel nostro paese c'è un eccesso legislativo. Abbiamo un impianto legislativo senza paragoni nel mondo. Poi c'è la parte organizzativa della burocrazia e quello è un processo interno dei burocrati. In più c'è anche un discorso di buona fede. Perché spesso la burocrazia non è allineata con gli obiettivi della legge, ma con obiettivi propri". A detta di Sabino Cassese, invece, il sabotaggio burocratico è una prassi. "Ricordo che Andreotti si portò come capo di gabinetto a Palazzo Chigi l'ex ragioniere generale Milazzo, e non c'è dubbio che Milazzo avesse un potere enorme", racconta Cassese intervistato da Andrea Cangini sul "Quotidiano Nazionale". "Persino Stammati, ministro del Tesoro ed ex ragioniere a sua volta, faticava a farsi ascoltare. Il fenomeno del sabotaggio burocratico è stato ampiamente studiato, accade quando le burocrazie si sostituiscono al potere politico e decidono cosa fare e quando farlo. Ricordo il caso di un noto capo di gabinetto contrario a certi cambiamenti nell'amministrazione previsti da una legge appena varata. Sapeva che il governo sarebbe durato massimo 12 mesi e fissò in 18 mesi il termine per emanare il decreto legislativo che avrebbe dovuto dare attuazione alla legge. L'Italia è caratterizzata dal fatto che i governi o durano poco, o hanno una scarsa coesione e una modesta capacità di leadership, o entrambe le cose contemporaneamente. Tutto ciò, unito all'incultura e all'inesperienza di certi ministri, fa sì che si formino sacche di amministrazione che vanno in direzione diversa da quella voluta dalla politica". La precarietà dei ministri, in confronto all'eternità dei burocrati, rende questi ultimi spesso molto più potenti dei politici, trattati con sufficienza dai mandarini di Stato che sanno di essere più forti. L'oscurità e la complessità delle leggi, invece, è fatta apposta per perpetuare il potere della casta burocratica. "I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili", dice a Cangini un ex ministro che vuole restare anonimo. Franco Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti, la cassaforte finanziaria del paese, aveva proposto, nella primavera 2013, una soluzione per il problema dei miliardi di debiti della pubblica amministrazione italiana verso le imprese private, ma si è scontrato con i mandarini del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato, che hanno bloccato tutto. La soluzione era una semplice cartolarizzazione: i debiti, garantiti dallo Stato, vengono trasferiti dalle imprese alle banche, che liquidano immediatamente le imprese immettendo così miliardi nell'economia. Poi lo Stato garantisce, attraverso la Cassa depositi e prestiti, che le banche vengano rimborsate dalla Pa, con un piano di rientro distribuito in un arco di più anni. "Le banche italiane avrebbero comprato volentieri i 90 miliardi di euro di debiti garantiti dallo Stato", racconta Bassanini, intervistato da Alan Friedman. "Sarebbe stata un'operazione virtuosa che immetteva in un colpo solo 60-70 miliardi nell'economia italiana e dava benzina all'economia, senza incidere sul deficit neanche dello zero per cento". Le imprese verrebbero pagate subito (dalle banche), lo Stato potrebbe ripagare i debiti nel tempo, mentre le banche avrebbero la convenienza di poter compensare i propri crediti con le imprese. Tutti contenti, dunque. La Spagna lo ha fatto e ha funzionato, nel Parlamento italiano, poi, c'era la maggioranza pronta a votare il piano Bassanini. E allora, come mai non si è fatto? "C'è stata una forte resistenza burocratica... In questo caso specifico la tesi (dei vertici del Tesoro e della Ragioneria generale dello Stato) era che l'Europa non ce lo avrebbe permesso. La burocrazia italiana, tanto più quando è preparata e forte, spesso usa l'Europa come pretesto per non fare le cose che non vuole si facciano. Ci sono diverse cose che servirebbero alla crescita del paese e che trovano resistenze non politiche ma burocratiche". La vera casta sono i burocrati. Per questo è arduo, se non impossibile, cambiare veramente, in Italia. Prova ne sia il documento di "passaggio di consegne" affidato dal ministro dell'Economia uscente, Fabrizio Saccomanni, a quello entrante, Pier Carlo Padoan. Ventisei fogli A3, meticolosamente annotati, che illustrano la bellezza di 465 fra decreti e regolamenti previsti dalle riforme dei governi Letta e Monti, ancora da attuare, alcuni fermi da due anni. Su quel macigno di leggi immobili i funzionari dei ministeri spesso specificano: "L'attuazione (del decreto per una piattaforma elettronica per i debiti Pa, ndr) presenta oggettive difficoltà attuative". "Per un altro decreto", scrive Fabrizio Forquet sul "Sole 24 Ore", "l'annotazione a uso interno è la fotografia dello stallo burocratico: "Sollecitata Rgs da Ulf, ufficio legislativo Finanze (nota 1418 del 10 febbraio). Il Dipto Finanze concorda con l'Ag. Entrate riguardo all'opportunità di abrogare la disposizione. Anche Rgs è d'accordo. Evidenziate dagli Uffici (Ag. Entrate, Dipto Finanze, Rgs) difficoltà applicative all'adozione del decreto. Opportuna abrogazione della disposizione"". Il responso, riportato nella colonna a fianco, è inesorabile: "Non attuabile". Il sigillo dell'alta burocrazia gattopardesca italiana: riscrivere tutto, perché nulla cambi. Chi comanda nei ministeri Ci racconta un ex ministro della Giustizia di lungo corso che preferisce restare anonimo: "La legge Bassanini che ha riformato la pubblica amministrazione divide nettamente la classe politica da quella amministrativa. Il ministro può soltanto dare gli indirizzi di natura generale e politica, tutto il resto lo fa l'amministrazione del suo ministero, al punto che ormai gli atti che firma il ministro sono quasi soltanto di natura formale, mentre quelli attuativi sono in mano all'amministrazione. Faccio un esempio. Un ministro non firmerà mai una gara d'appalto o un affidamento, queste pratiche competono tutte all'amministrazione. La conseguenza è che quando sei lì, ti trovi dentro un macchinone immenso, quello del tuo dicastero, e qui c'è già il primo problema. Lei pensi che al ministero della Giustizia avevo sotto di me 120 mila dipendenti, il ministro dell'Istruzione ne ha un milione... Con queste dimensioni significa che il ministero è diviso in una serie di dipartimenti che gestiscono realtà enormi, con molti capitoli di spesa e con i funzionari che fanno passare i soldi da una parte all'altra senza che il ministro possa controllare nulla. Come la storia degli esodati della Fornero. E' chiaro che le hanno dato delle cifre sbagliate i suoi funzionari... Un ministero è un macchinone gigantesco, il ministro non sa tutto, anzi spesso sa poco. Pensi che a me avevano messo una centrale di ascolto al ministero senza dirmi nulla. I funzionari tendono a ragionar così: tu fai il ministro, ma le cose importanti le decidiamo noi, i capi dipartimento. Una figura strapotente al ministero della Giustizia è il capo del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Gestisce un budget di 5 miliardi di euro su 7 totali del ministero, 50 mila poliziotti della penitenziaria. Immagini il potere che ha. Poi molto dipende anche dalla personalità dei vari ministri. Con un ministro debole i burocrati hanno uno spazio di intervento enorme... Naturalmente se sei esperto della materia puoi in qualche modo capire cosa sta succedendo nel tuo ministero. Bisogna stare molto attenti alle cifre che ti vengono date dall'apparato". Caso tipico è al ministero delle Infrastrutture. "Il nostro problema", ha spiegato al Fatto Quotidiano Alessandro Fusacchia, ex consigliere per la diplomazia economica alla Farnesina, "è fondamentalmente l'incertezza giuridica. Abbiamo migliaia di leggi e leggine che insistono sullo stesso argomento, per esempio il lavoro, e nessuno sa esattamente quali siano le regole. In questo modo nessuno si assume dei rischi e tutto diventa lentissimo". In questo caos acquista potere la casta dei giuristi di Stato, dei capi di gabinetto e degli uffici legislativi. "Stiamo parlando di circa 50 persone che controllano l'essenziale ", ha detto Fusacchia. la ragioneria (di Stato) ha sempre ragione Ma non ci sono soltanto i grandi boiardi dei ministeri: capi di gabinetto, capi di dipartimenti, esperti legislativi, consiglieri. Ci sono anche organismi terzi, composti da tecnici o da magistrati, che contano moltissimo sull'attuazione (e soprattutto sulla non attuazione) di riforme, leggi e decisioni politiche. Uno di questi è il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica. "I ministeri di spesa passano tutti dal Cipe. Le spese per l'edilizia scolastica, le infrastrutture, i fondi per l'industria, la banda larga, passa tutto da lì. E' composto dai ministri, ma anche dalla Ragioneria generale dello Stato che ha un enorme potere di veto. Se non vedono che dal punto di vista finanziario è tutto a posto, non ti danno il benestare. Se non c'è la famosa bollinatura, la bollinatura della Ragioneria, non passa niente. Allora non è più soltanto una questione tecnica, ma anche politica, perché se si decide che un'opera non va bene, non si farà mai. E capita spessissimo". Le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria a ogni provvedimento di spesa, "vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella "visione" politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte "politiche" diverse", racconta un ex ministro diessino che vuole restare anonimo. L'ha sperimentato sulla propria pelle l'ex senatore Mario Baldassarri, che da presidente della commissione finanze provò a metter mano a quella parte di spesa pubblica, per acquisto beni e servizi (40 miliardi l'anno), che fa capo alle grandi burocrazie ministeriali. L'emendamento non piaceva al capo del legislativo dell'economia e alla Ragioneria generale dello Stato, che non gli diede la "bollinatura". Lui andò avanti, finché alcuni compagni di partito gli dissero di aver ricevuto una telefonataccia da un importante direttore generale di ministero che consigliava di ritirare quell'emendamento. Baldassarri si infuriò, minacciò di chiamare l'autorità costituita e di denunciare il ragioniere generale dello Stato per "palesi falsi e giudizi politici". Ma alla fine tutto fu insabbiato.
Dio perdona, la burocrazia no. Le pratiche burocratiche richiedono 269 ore all'anno per impresa, con un costo complessivo di 31 miliardi. I costruttori attendono 231 giorni per un permesso edilizio. A Milano servono 23 autorizzazioni diverse per organizzare un evento. Viaggio nel girone infernale italico..., scrive Matteo Borghi su “L’Intraprendente”. Hyman Rickover, il pioniere della propulsione atomica navale, diceva che “se proprio devi peccare pecca contro Dio, non contro la burocrazia. Dio perdona, la burocrazia no”. Ed in effetti, a vedere alcuni casi, pare che il nostro ammiraglio non avesse torto. Emblematica è quella storia, che abbiamo raccontato tempo fa, di un signore che – per non aver versato un centesimo – si è visto recapitare una multa cinquemila volte più alta. La burocrazia non ammette ignoranza, sbadataggine, errore umano ma pretende inflessibile a ogni logica di buonsenso, il rispetto formale di passaggi che in molti casi sono quasi impossibili da attuare. Giusto per fare un esempio fino a pochi mesi fa ci volevano ben 23 autorizzazioni per creare un evento culturale a Milano. Che non vuol dire 23 fogli ma 23 (ven-ti-tré) procedure burocratiche autonome: una molte tanto ingente che lo stesso Comune ha ammesso che, qualche volta, qualcuno saltava qualche passaggio. Ed è drammatico pensare come le code burocratiche si allunghino sempre di più. Ancora più alto e dannoso è il costo della burocrazia per le imprese. Secondo il Centro Studi Impresa Lavoro le pratiche burocratiche richiedono 269 ore l’anno con un costo medio ad impresa di 7.559 euro. Secondo un calcolo della Cgia di Mestre alle imprese la burocrazia costa ogni anno 31 miliardi di euro, che portano la pressione fiscale complessiva a 248,8 miliardi. Insomma si tratta di un vero e proprio peso insostenibile, destinato a schiacciare sotto di sé qualsiasi ipotesi di ripresa. “Se teniamo conto – si chiedeva il compianto Giuseppe Bortolussi – che il carico fiscale sugli utili di una impresa italiana ha raggiunto il 68,6%, contro una media presente in Germania del 48,2%, c’è da chiedersi come facciano i nostri imprenditori a reggere ancora il confronto. Per questo bisogna dire basta ad un fisco opprimente e ad una burocrazia ottusa. Lavorare in queste condizioni costringe gli imprenditori italiani a trasformarsi quotidianamente in piccoli eroi: questo non deve più accadere”. Ne sanno qualcosa i numerosi costruttori che devono attendere, di media, 231 giorni (con un costo che può arrivare fino a 64 mila e 700 euro) per un permesso edilizio: in Germania bastano 97 giorni, 99 a Londra, 182 a Madrid dove però il costo medio per avere il via libera a costruire è di appena 12 mila euro, ovvero ben meno di un quinto dell’Italia. E ne sa ancora di più il patron di Esselunga Bernardo Caprotti che ha dovuto attendere dal 1971 al 2014 per costruire un supermercato in un terreno di sua proprietà a Firenze. Per 43 anni politici e burocrati si sono infatti opposti a qualsiasi ipotesi di costruzione del suo polo commerciale, accampando scuse che secondo alcuni nascondevano – in realtà – un sostegno indiretto all’avversaria Coop. Sì perché se c’è una caratteristica della burocrazia è l’asimmetria: pretende molto dagli noi, ma troppo poco da se stessa. Ci considera, più che come cittadini, come sudditi.
IL LEVIATANO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E BUROCRAZIA. IL BILANCIO DEVE ESSERE EQUILIBRATO, IL TESORO RIPIANATO, IL DEBITO PUBBLICO RIDOTTO, L’ARROGANZA DELLA BUROCRAZIA MODERATA E CONTROLLATA, E L’ASSISTENZA ALLE NAZIONI ESTERE TAGLIATA, PER FAR SÌ CHE ROMA NON VADA IN BANCAROTTA. CICERONE
Quanto sono ancora attuali le parole di Cicerone? Si continua ancora oggi a parlare di semplificazioni e ammodernamenti della burocrazia in Italia ed, anche se qualche passo avanti è stato fatto, è evidente che ancora molto ci sia da fare. Il problema è che per saper organizzare in modo efficace il “da farsi” e per assumere i giusti provvedimenti è in primo luogo necessario conoscere a fondo i meccanismi e la dinamica con la quale vengono elaborati ed emanati gli atti amministrativi che fanno capo ai tanti adempimenti burocratici. In pratica per incidere concretamente sulla macchina burocratica è fondamentale capire come funziona cosa che non mi risulta sia poi così diffusa. Si mettono così in moto processi di modifica di questo o quello spezzone di attività, ma se non si ha una vera visione d’insieme si rischia di aggiungere alle carenze già esistenti ulteriori danni. E non basta sbandierare il termine “digitalizzazione” per riuscire a smuovere apparati ormai vecchi e superati, modi di lavorare anacronistici, approcci ai problemi farraginosi e complicati, alla fine può anche succedere che riusciamo a digitalizzare tutta una branca di attività, ma poi siamo costretti a conservare negli uffici e negli archivi pubblici moli sempre crescenti di materiale cartaceo, perché le regole che sottostanno al processo di digitalizzazione che abbiamo creato sono talmente complicate ed incomprensibili che i nostri interlocutori non ci capiscono nulla, sbagliano, si perdono ed allora meglio far consegnare loro ancora tanta e tanta carta. Inoltre manca la connessione tra archivi e sistemi informativi che il più delle volte non sono in grado di dialogare tra di loro perché ciascun Ente ha scelto in autonomia senza considerare l’interconnessione dei sistemi, e si è venuta a determinare così una sorta di moderna babele telematica. Quante volte si assiste allo sbandieramento da parte del politico di turno del provvedimento risolutivo per la semplificazione amministrativa? Che fine fanno poi queste iniziative? Restano per lo più semplicemente lettera morta perché manca il decreto attuativo, manca la circolare interpretativa, una qualche sentenza ne inficia l’efficacia: il tutto si perde nelle nebbie di qualche Ministero preposto alla cosiddetta semplificazione …
MARX HA CONFUSO UNA DITTATURA DELLA GIUSTIZIA CON LA DITTATURA DEI BUROCRATI. HERBERT MARCUSE
Come scriveva Marcuse analizzando la filosofia di Marx si corre il rischio di creare una vera e propria “dittatura dei burocrati”, una dittatura ancor più pervasiva e invadente, ma soprattutto insidiosa perché nascondendosi dietro a moduli farraginosi e carta bollata in triplice copia costringe comunque l’individuo a sottostare alla sua potenza egemone. La “dittatura dei burocrati” risulterebbe così la dittatura più compiuta, si trasforma uno strumento amministrativo che dovrebbe servire alla parificazione degli individui di fronte allo Stato in uno strumento costrittivo dove i ceppi e le catene sono fatti di autorizzazioni, protocolli e commi. Per riuscire a modificare davvero le cose come si è già detto si richiederebbe innanzitutto una conoscenza approfondita di ciò che si intende modificare, ma la “macchina” della Pubblica Amministrazione è in realtà un moloch che pochissimi conoscono a fondo, ed inoltre è qualcosa che nel tempo si è talmente resa complicata da sortire l’effetto di “bloccare” e “paralizzare” a volte perfino chi ci lavora all’interno e che magari per primo avverte la necessità di un cambiamento davvero radicale. Così questo mastodonte in Italia incombe sulle nostre vite, per rendercele ogni giorno più difficili con qualche cavillo, o con qualche nuova regola, stare dietro a tutto, e questo secondo quanto affermano persone molto preparate in campo giuridico, diventa un’impresa che non ha mai termine e quel che è peggio che non consente neanche brevi momenti di pausa, una tregua per prendere come si dice almeno un po’ di fiato. Lo Stato Leviatano di Hobbes è tra noi, ci sovrasta ogni giorno, ci costringe forzosamente in fila, ci cataloga, si nutre del nostro tempo. La complessità del Leviatano lo rende intangibile all’azione del singolo cittadino che si trova ad essere in balia della “macchina” burocratica. Quante volte abbiamo la sensazione di essere assolutamente impotenti? C’è da chiedersi se tutta questa complessità è veramente indispensabile per garantire la legalità e la legittimità delle azioni, o è un modo per garantirsi una sorta di potere sui cittadini e quel che è peggio per favorire chi, e purtroppo le cronache di questi giorni ce ne hanno parlato a lungo, intende nascondere propri personali obiettivi e raggiungere finalità che vadano a proprio vantaggio e non certo della cittadinanza? Orwell in 1984 ci ha mostrato come Il Partito con la sua macchina statale persegua questa seconda finalità, siamo davvero sicuri di non vivere in una realtà del genere? Forse il Grande Fratello si è concretizzato non sottoforma di persona, ma di macchina statale impersonale? C’è quindi ancora molto da fare, la strada da percorrere è purtroppo ancora molto lunga, ma c’è poi davvero la volontà di cambiare le cose da parte di chi lo può fare? E l’apparato burocratico da parte sua è effettivamente disponibile a consentire questo cambiamento e a parteciparvi o, a sua volta, funge da freno per rallentare il tutto? Il problema è che la burocrazia è sempre più autoreferenziale in quanto lavora in prevalenza solo per giustificare se stessa. Ad esempio la P.A. non dovrebbe chiedere ai cittadini degli adempimenti che già potrebbe benissimo gestire in base alle informazioni di cui è già a conoscenza. Un caso emblematico è rappresentato in questi giorni da IMU e TASI, per le quali si chiedono calcoli complicati e compilazione di moduli quando i dati per i versamenti sono già in possesso dell’Agenzia delle Entrate. Mi chiedo perché se già altri paesi europei riescono a funzionare benissimo nel campo della Pubblica Amministrazione e potrebbero fornirci, in base alla strada da loro tracciata, degli spunti utilissimi, non si riesca neppure a cogliere questi stimoli e tutto in Italia debba essere sempre così ripetitivo e pesante. La Pubblica Amministrazione dovrebbe essere uno dei settori maggiormente gratificanti per quanti vi lavorano, perché nulla può essere più appagante dello svolgere un’attività sapendo che quello che si fa sarà utile, inciderà positivamente e migliorerà la vita dei cittadini. Invece in Italia pare essere una delle attività più frustranti per quanti vi operano ed anche una delle attività che “ingrigiscono” e fanno perdere entusiasmo ai lavoratori. Allora evidentemente c’è per forza molto da cambiare, e non basteranno riforme limitate ad alcuni spezzoni per riuscire a modificare in meglio il tutto. Deve radicalmente cambiare poi l’approccio che l’apparato pubblico ha con il cittadino, perché in un ufficio pubblico è davvero difficile non sentirsi a disagio, questo ancora di più se si è anziani, disabili, o se si è in possesso di pochi strumenti derivanti dall’istruzione scolastica. Il linguaggio usato da quanti vi lavorano è spesso poco semplice e comprensibile, se si chiedono delle spiegazioni la disponibilità a darla è molto scarsa e se comunque le spiegazioni vengono date lo si fa purtroppo spesso con atteggiamento di superiorità e fastidio nei confronti dell’interlocutore che si è macchiato della colpa di non aver capito. Per non parlare della quantità di moduli, prospetti, caselle ecc. che si è costretti a compilare per ottenere qualcosa che ci spetta ed a cui avremmo diritto di avere molto più semplicemente accesso. Non voglio che questo mio intervento venga letto però come un susseguirsi di lamentele, penso solo che se riusciamo a comprendere dove si enucleano le criticità forse, se sul serio vi sarà da parte di chi ci governerà la volontà di rimuoverle, potremo fare un passo avanti per superarle. Sarà basilare in questo chiedere un contributo da parte di quanti lavorano all’interno della Pubblica Amministrazione, ascoltarli, sentire da loro cosa li fa lavorare così con difficoltà, cosa li potrebbe motivare, perché, e questo sarà bene ribadirlo, in questo settore ci sono moltissime persone che pur con tante difficoltà lavorano bene, con competenza e professionalità, ed avendo ben presente quanto sia importante uno svolgimento pronto, puntuale, efficace, scrupoloso del lavoro per l’intera comunità. Certo la campagna denigratoria sul dipendente pubblico praticata da molti non ha aiutato a risolvere i problemi, semmai li ha ulteriormente complicati, sono questi problemi estremamente delicati, da affrontare con lucidità, lungimiranza, equità, ampiezza di vedute, dopo essersi spogliati di pregiudizi e luoghi comuni, e solo una buona dose di equilibrio potrà consentirci di fornire ai cittadini dei servizi rispondenti alle loro necessità. È legittimo immaginare una burocrazia al servizio del cittadino o siamo destinati a restare rinchiusi in questa prigione senza sbarre fatta di moduli e carta bollata?
OGNI RIVOLUZIONE EVAPORA, LASCIANDO DIETRO SOLO LA MELMA DI UNA NUOVA BUROCRAZIA. FRANZ KAFKA
Hanno ragione George Orwell e Franz Kafka quando ci mettono in guardia dalla possibilità di uscire dalle costrizioni derivanti della burocrazia al punto che qualsiasi rivoluzione comporterebbe solo la restaurazione sotto altre spoglie diverse del medesimo sistema? Matteo Montagner su “La Chiave di Sophia”.
Burocrazia, ecco l'arma letale della dittatura, scrive di Rino Cammilleri su “La Nuoiva Bussola Quotidiana”. Al tiranno dà fastidio la nobiltà, perché è da questo ceto intermedio tra il potere e il popolo che potrebbe venire l’insidia. Già nel Giappone cosidetto feudale (che col feudalesimo occidentale, però, ha niente da spartire) l’imperatore obbligava i nobili a risiedere sei mesi l’anno nella capitale, e a lasciarci i familiari sempre. In Europa, l’assolutismo regio finì col fare lo stesso e trasformò i nobili in cortigiani nullafacenti. «Lo Stato sono io». La frase del Re Sole è apocrifa, ma rende bene l’idea. Il centralismo però richiede burocrazia, parola non a caso di origine francese (bureau=ufficio) rimbalzata in tutte le lingue, dall’americana Fbi (Federal Bureau of Investigation) al russo Politburo. I giacobini insomma trovarono il lavoro già fatto dall’assolutismo regio, e bastò loro impadronirsi della sola testa per prendere tutto il corpo. Il centralismo facilita e, dunque, incoraggia, i golpe. Come quello bolscevico, che la Rivoluzione la fece, semmai, dopo. Il comunismo sovietico è crollato, sì, ma il giro mentale è rimasto. E oggi l’intero Occidente si divide tra quelli che vogliono sempre più Stato e quelli che non ne possono più. I primi, ovviamente, di Stato campano, perciò comandano. Gianluca Barbera sul Giornale dell’8 settembre ha ben sintetizzato il giacobinismo che nel Terzo Millennio ancor ci opprime: «Statalismo, assistenzialismo, proliferazione burocratica, clientelismo, fiscalità oppressiva, inamovibilità del pubblico impiego, onnipresenza dei sindacati, populismo, politicizzazione della giustizia, appiattimento sociale e professionale, vittimismo cronico, buonismo autolesionistico, cultura dell’odio e dell’invidia sociali». Metteteci anche nani&ballerine per la difesa propagandistica e c’è tutto. Ora, che il sistema sia irredimibile (hai voglia di “riforme”!) è testimoniato dal fatto di Roma, dove detto sistema cerca di correggere se stesso con una pezza non molto diversa dal buco. Cioè, con un ennesimo funzionario. Il prefetto Gabrielli, mandato a vedere come si possa rimediare alla situazione della Capitale, situazione che è un mix di corruzione e inefficienza, ha relazionato al suo superiore, il ministro dell’interno Alfano. Nella relazione, tra l’altro, si segnalano i burocrati, tra dirigenti e funzionari, da rimuovere con una certa urgenza. Ora la patata bollente passa alla politica, e perciò aspettiamoci qualche giro di poltrone (non di più). Ma il punto è che, anche volendo agire con logica e pugno di ferro (cioè, chi ha sbagliato paghi, chi non ha vigilato se ne vada, chi non ha saputo fare il suo mestiere si tolga dai piedi), l’eventuale licenziato fa subito ricorso al giudice del lavoro e questo in nove casi su dieci lo reintegra. Non solo. A volere agire come una normale azienda, la quale, quando i profitti crollano, si sbarazza del manager inadeguato, si rischia anche di più. Per restare nell’esempio romano, è lo stesso assessore ai Trasporti a far osservare che l’Atac, l’azienda di trasporto, semplicemente non ha i soldi per mandare a casa quelli che senza soldi l’hanno ridotta: dovrebbe pagare loro la buonuscita come da contratto, e sarebbero centinaia di migliaia di euro. Che l’Atac non ha. Sono le leggi sul lavoro, bellezza. Quelle italiane, almeno. Chi ha provato, non tanto a riformarle, ma solo a studiare una loro possibile modifica è finito sparato. Roma? Situazione disperata, ma non seria (titolo di un film del 1965 con Alec Guinness). Restando in loco, viene in mente l’antico aneddoto della vecchietta che, unica nella folla, augurava lunga vita a Nerone. Al quale la folla, invece, augurava morte e maledizione. Eh, era vecchia e di imperatori ne aveva visti tanti. E, ogni volta, il successivo si era rivelato peggiore del precedente. Morale: se il problema è intrinseco al sistema, cambiare le facce serve a poco.
Tante leggi e poco cervello. La dittatura dei burocrati. Il caos dei balzelli sugli immobili è solo l’ultimo esempio. I ministri sono ostaggio di funzionari inamovibili che ci complicano la vita per ragioni di potere, scrive di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” il 10 gennaio 2014. Enrico Zanetti è un politico di primo pelo. Nel senso che fino a otto mesi fa non sedeva in Parlamento ma nel suo studio di commercialista a Venezia. Poi, non si sa perché, gli è venuta l’idea malsana di candidarsi alle elezioni politiche e dunque eccolo catapultato tra i banchi di Montecitorio con la maglietta di Scelta Civica, il partito non partito (nel senso che non è mai nato) di Mario Monti. Alla Camera dei deputati Zanetti riveste un compito di un certo prestigio: essendo un fiscalista l’hanno infatti nominato vicepresidente della Commissione finanze, quella che discute i provvedimenti sul fisco prima che vadano in aula. A Zanetti ho provato a chiedere come si esce del pasticcio Imu, Iuc, Tasi e Tari di cui ci occupiamo anche oggi in prima pagina. La risposta è stata la seguente: «Con le ultime elezioni abbiamo cambiato il 65 per cento dei parlamentari, ma se non cambiamo il 65 per cento dei dirigenti del ministero delle Finanze temo che non faremo molti passi avanti». Può sembrare una battuta, ma non lo è. Perché se è vero che Saccomanni come ministro dell’Economia è un disastro, è altrettanto certo che la catastrofe non è tutta farina del suo sacco: per riuscire a complicare così bene la vita degli italiani, qualcuno all’interno del suo dicastero deve avergli dato una mano. Essendo del mestiere, Zanetti alza il velo su una realtà che in pochi conoscono e cioè che i ministri vanno e vengono e i governi pure, ma i funzionari restano e sono quelli a decidere del nostro destino. Prendete il caso del prelievo forzoso sugli stipendi degli insegnanti: la Carrozza ha negato di essere a conoscenza della cosa, mentre Saccomanni si è limitato a dire che si trattava di un fatto tecnico. Dalle frasi si capiva che né l’uno né l’altro avevano la minima idea di come si fosse arrivati al taglio in busta paga, che evidentemente era opera delle retrovie ministeriali. Si può discutere sul ruolo di due tizi che non sanno neppure che cosa accade in casa loro e magari anche convenire sulla necessità di fare a meno di entrambi risparmiando i loro stipendi, ciò non toglie che fra i dirigenti dell’Istruzione e delle Finanze c’è chi usa le forbici senza collegare il cervello e soprattutto senza valutare che sta affettando la vita delle persone. Insomma, fino a che non apriamo il capitolo della burocrazia di questo Paese e non capiamo che dietro un ministro c’è un funzionario che è spesso peggio del suo capo non riusciremo a modificare nulla. Le chiavi del sistema non le ha in mano il politico ma le possiede chi sta lì da una vita e sa che ci starà anche dopo che il ministro se ne sarà andato. Sono loro che scrivono le leggi e suggeriscono le misure da adottare. E poi, fatta la legge, è il dirigente che predispone le norme attuative. E sempre alla struttura tecnica tocca il compito di predisporre le circolari interpretative. Eh già, perché noi siamo l’unico Paese dove per cambiare qualcosa non basta che il governo faccia un decreto e il Parlamento lo approvi. Né è sufficiente che Camera e Senato presentino un disegno di legge e successivamente lo votino. No, da noi serve la norma attuativa della legge, altrimenti - com’è successo per gran parte delle riforme varate da Mario Monti - è come se non esistesse. E poi, quando ci sono la legge e le norme attuative, urge la circolare interpretativa, perché la legge è così vaga, lacunosa e malfatta che un dirigente deve dire come la si interpreta. Di fatto il legislatore non è il politico, ma il burocrate. È lui che detiene il potere. E più le norme sono scritte male e dunque da interpretare, più la discrezionalità del dirigente è ampia. Grazie a questo sistema abbiamo le leggi più incomprensibili del mondo. E sempre per via di tutto ciò abbiamo una legislazione ridondante, che nessuna semplificazione è riuscita a sfoltire. E più si complica la vita dei cittadini con tasse, timbri, adempimenti, pasticci vari, più la corruzione e l’evasione avanzano, perché dove c’è discrezionalità c’è anche la possibilità di fare i furbi e di farla franca. Insomma, l’Imu, la Tasi, la Iuc, la Tari e tutte le altre tremende trappole disseminate sul nostro percorso, non nascono a caso ma servono al sistema per autoalimentarsi e per rendersi indispensabile e inestricabile. In altri Paesi l’evasione la corruzione non ci sono o ci sono di meno perché le leggi sono chiare e non consentono scappatoie. Pagare le tasse è semplice: il Comune a nome dello Stato ti manda a casa un bollettino e tu non devi fare altro che portarlo in banca e autorizzare il pagamento. La dichiarazione dei redditi è comprensibile a chiunque e per spiegarla non serve rivolgersi al Caf o compulsare testi da 700 pagine, bastano quattro paginette. Se dunque qualcuno vuole davvero ridurre le tasse e cambiare questo Paese, la prima cosa da fare è cambiare la legislazione fiscale e farne una nuova. Possibilmente non con gli stessi servitori dello Stato che prima hanno servito Padoa Schioppa e Visco, poi Tremonti, quindi Monti e infine Saccomanni. Se un politico va rottamato dopo due mandati, chi lo ha aiutato a fare danni come minimo merita la stessa sorte...
Siamo un popolo oppresso dalla dittatura della burocrazia. Così gli italiani sono oppressi dal dispotismo burocratico, scrive Piero Ostellino Venerdì 13/11/2015 su “Il Giornale”. Che al governo ci sia il centrodestra ovvero il centrosinistra, l'effetto per il cittadino è sempre lo stesso: nuove tasse. Era stato Einaudi ad imporre che per ogni nuova legge ci fosse la copertura finanziaria. Il principio è corretto ma evidentemente qualcosa ne impedisce il buon funzionamento se il processo legislativo, che dovrebbe essere a carico della fiscalità generale a pagarlo è, immancabilmente, il contribuente con una tassazione supplementare... La verità (...)(...) è che lo Stato costa troppo rispetto a ciò che rende, perché pesa su di esso la burocrazia cui deve chiedere assistenza ad ogni proprio atto. Per cui, la soluzione dovrebbe essere una grande riforma della Pubblica amministrazione che elimini la presenza eccessiva della burocrazia dall'attività legislativa, che dovrebbe cadere sotto la fiscalità generale, e dalla vita del cittadino. Lo aveva capito Berlusconi, che si era ripromesso di ridurre la pressione fiscale, lo ha promesso Renzi senza che nessuno dei due abbia tenuto fede all'impegno preso perché il difetto sta nel manico. Vale a dire nello Stato moderno. Trecento anni fa, l'uomo si è liberato dal dispotismo del monarca assoluto, che decideva a propria discrezione della vita dei propri sudditi. Sulla base del principio democratico «nessuna tassazione senza rappresentanza politica» la sovranità è passata dal monarca al popolo. Ma il risultato è stato lo stesso: in nome del popolo sovrano, il rapporto tra cittadino e potere politico si è trasformato, il cittadino è ritornato suddito come era sotto il sovrano assoluto; la fiscalità è lo strumento con il quale il potere politico esercita il proprio dispotismo. In definitiva, solo una grande riforma della Pubblica amministrazione può liberare il cittadino dalla dittatura della burocrazia, che tiene sotto il proprio controllo anche la politica. La volontà generale di Rousseau - che avrebbe dovuto realizzare la massima democrazia - si è tradotta nel suo contrario con il risultato che il cittadino conta ancor meno di quanto contava di fronte al monarca assoluto.
Quando i burocrati sono veri mostri (anche nel fantasy). Da Guerre stellari alla saga di Harry Potter, i cattivi sono armati di scartoffie e codicilli. Proprio come a Bruxelles, scrive Vittorio Macioce su "Il Giornale”. La sera li trovi a Les Aviateurs, in Rue des Soeurs, non lontano dalla cattedrale di Notre Dame, a Strasburgo. Lo stile è anni '50 e loro si ritrovano in quel locale dove davvero le nazionalità sembrano azzerarsi con il sogno di lasciarsi alle spalle carte e regolamenti e affogare le illusioni in pinte di birra, in canzoni vintage e nella speranza di una notte d'amore da cancellare il giorno dopo. Qui, almeno tre volte al mese, si ritrovano parlamentari e apprendisti burocrati, precari di palazzo e lobbisti, segretarie e gli ultimi fantasmi del grande gioco. È Strasburgo ma vale ancora di più per Bruxelles. Qui e lì c'è il cuore e l'anima dell'Europa, il volto del superstato, l'odore profondo di questo impero tecnocratico costruito sulla divinità della moneta unica. Ma per capire davvero di cosa si tratta bisogna, di giorno, passare al numero uno dell'Avenue Robert Schuman e guardare quel palazzo, con la parte superiore che dà l'idea di qualcosa ancora non finito e l'interno che ti sembra di aver visto già da qualche parte. Sì, qualcosa che ha l'odore dell'utopia corrotta, di ideali andati a male. Poi capisci. Il Parlamento europeo con quella gente che cammina veloce, in divise grigie, dove le lingue si mischiano, ma l'ossessione è la stessa, con l'emiciclo enorme che sembra sospeso nello spazio e i traduttori che vomitano parole inutili, è il remake del senato di Star Wars. E a quel punto ti viene voglia di smascherare una volta per sempre il senatore Cos Palpatine. Perché lui sta lì, non ci sono dubbi. Nascosto sotto uno di quei volti, magari con accento tedesco o francese, con il sorriso bonario di chi sembra stare dalla tua parte, quando in realtà tutti sappiamo che quel politico sacerdote dei regolamenti e faccendiere non è altro che il capo dei Sith. È Darth Sidious. È il lato oscuro della forza. Allora ti sembra quasi di sentire quella frase che segna la fine di ogni libertà: «Nell'intento di garantire la sicurezza e una durevole stabilità, la Repubblica verrà riorganizzata, trasformandosi nel primo Impero Galattico! Per una società più salda e più sicura!». È così che si chiude la Vendetta dei Sith. È così che si arriva al Ritorno dello Jedi e alla sconfitta della «Morte nera». Per recuperare un grammo di speranza è necessario, però, ritornare a Les Aviateurs. E capire che quel luogo stretto e lungo, con un bancone che occupa mezzo locale e dove i burocrati mostrano il loro vero volto, è in realtà la Cantina di Chalmun, conosciuta anche semplicemente come Cantina di Mos Eisley, popolare taverna di Tatooine. È nel «quartiere vecchio» e qui affari di tutti i tipi vengono condotti nell'ombra. È qui che Luke Skywalker e Obi-Wan Kenobi ingaggiarono il contrabbandiere Han Solo e il suo compagno Chewbacca per essere trasportati ad Alderaan. Solo qui questo può avvenire, nel bar della notte, quando i burocrati si riscoprono umani e l'Europa assomiglia a quello che avrebbe dovuto essere, un lungo viaggio senza frontiere sui binari dell'Interrail. È qui allora il senso di quello che fantascienza, fantasy e romanzi distopici ci hanno tramandato. È metterci in guardia da tutto questo, da questa Europa, dalle cattedrali di scartoffie, dal potere senza controlli, dalla stabilità dettata dagli indici finanziari, dalle tasse come forma di razionalizzazione dell'impresa, dove non si premia il coraggio di rischiare, ma l'adesione ai parametri burocratici, dove ogni cosa deve essere regolamentata e codificata, dove la realtà è solo una ragnatela di misure e procedimenti standard, dall'esercito dei cloni dove l'umano è ridotto a media statistica. È qui allora che si realizzano tutte le paure dell'Occidente. E come diceva Yoda è la paura il miglior alleato della parte oscura. Perché è chiaro che noi stiamo accettando questa Europa solo per paura di fare i conti con l'incertezza. Tutti gli imperi in fondo servono a questo: ci tolgono la libertà con la promessa di cancellare le nostre paure. È tranquillizzarci sul fatto che Dio non gioca a dadi. Pensateci. Pensate alla saga della Rowling. Chi è il vero nemico di Harry Potter? La risposta immediata è Voldemort, colui che non si può nominare. Ma Voldemort ingabbia i suoi nemici sfruttando gli ostacoli che, in modo consapevole o ad insaputa, produce la burocrazia. È il ministero della magia il primo avversario di Harry. Non lo riconosce, non riesce a catalogarlo, lo vive come un outsider, un incosciente, un piantagrane, uno da fermare con leggi e regolamenti e pazienza se in questo modo si apre la strada al potere rassicurante, stabile, di Voldemort. Nel Trono di Spade dove comincia la tragedia degli Stark? È ad Approdo del re, nella capitale del Regno, dove non valgono più le regole del Nord, ma quelle della corte. E il pericolo più insidioso arriva dagli intrighi del tesoriere Ditocorto. È lì, all'incrocio dei Sette Regni, che la partita per il potere si riduce a una scelta binaria, on o off, acceso o spento, uno o zero. Nel gioco dei troni o si vince o si muore. Ed è il gioco che ha sempre fatto la Germania. E l'unica consolazione è che farlo con la moneta (i denari) è meno cruento e drammatico rispetto alle spade. Il guaio è che ci sono molti modi per spargere distruzione e cancellare il futuro. C'è perfino chi lo fa spacciando cattiva poesia. Mai sentito parlare dei Vogon? Certo, proprio loro, quelli di Guida galattica per autostoppisti. La loro poesia è al terzo posto tra quelle peggiori dell'universo e il suo ascolto può provocare gravi danni fisici e mentali. È di fatto uno strumento di tortura. «I Vogon sono una delle razze più sgradevoli della galassia; non sono cattivi ma insensibili burocrati zelanti con un pessimo carattere, sì. Non alzerebbero un dito per salvare la propria nonna dalla vorace bestia Bugblatteral di Traal senza un ordine in triplice copia spedito, ricevuto, verificato, smarrito, ritrovato, soggetto a inchiesta ufficiale, smarrito di nuovo ed infine sepolto nella torba per tre mesi e riciclato come cubetti accendifuoco». Sono tutti impiegati negli uffici della burocrazia galattica, un lavoro che permette loro di vivere una vita socialmente accettabile pur seminando distruzione nell'universo. Il loro motto? Resistere è inutile.
Burocrazia, dagli obblighi inutili alle troppe leggi: ogni anno sprecati 70 miliardi di euro. A Milano 393 alloggi popolari non possono essere assegnati perché misurano meno di 28,8 metri quadrati: è solo uno degli esempi dell’ottusità delle norme, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” del 16 novembre 2015. Quale intelligenza umana avrà mai stabilito che la superficie minima calpestabile per un alloggio dev’essere di 28,80 metri quadrati? Non giapponese, di sicuro: a Tokyo la dimensione media dei monolocali non supera i 16 metri quadrati. Non francese, garantito: almeno a giudicare dalle dimensioni di moltissimi appartamenti parigini. Ma lì è al potere la normalità, a differenza di qui. Infatti l’intelligenza che ha partorito quel calcolo è italiana. Magari proprio milanese visto che quel numeretto è contenuto in un regolamento della Regione Lombardia scritto quasi 12 anni fa. Una manifestazione di sopraffina ottusità burocratica, purtroppo non fine a se stessa. Tanto che sarebbe da chiedersi se l’autore di questo capolavoro (e i politici che l’hanno fatto passare) abbia mai pensato alle conseguenze della sua iniziativa. Le conseguenze sono queste: un alloggio popolare più piccolo di 28,80 metri quadrati calpestabili non può essere assegnato. Sapete quante ce ne sono nel solo Comune di Milano di queste case «sottosoglia»? Trecentonovantatrè. Mentre c’è gente che abita nei giardini e dorme sotto i portici. Gli architetti che stanno lavorando al «rammendo» del quartiere Giambellino e delle periferie ideato da Renzo Piano si scontrano anche con questa piccola follia di centinaia di alloggi inabitabili per decisione del suo stesso proprietario: lo Stato. Che quando ha costruito quel quartiere nel 1939, con tante case di 25 metri quadrati, non era ancora impazzito di burocrazia. Questa malattia scorre potente nelle vene della pubblica amministrazione, senza risparmiare nessuna parte del corpo. Dilaga dappertutto, a dispetto dei proclami di semplificazione, in un Paese nel quale 43.587 leggi regionali si sommano alle 150 mila leggi nazionali, e poi ai decreti attuativi, ai regolamenti, alle delibere, alle circolari emanate da corpi dello stato spesso l’uno contro l’altro. E i cittadini e le imprese nel mezzo. Capita allora, ricorda Federdistribuzione, che una Azienda sanitaria locale ritenga lecito conservare il pesce surgelato in buste di plastica traforate per evitare la formazione di condensa, mentre la Capitaneria di porto consideri la busta traforata alla stregua di un contenitore danneggiato, quindi inadatto agli alimenti. Il bello è che tutto questo non è gratis. Secondo Confindustria le follie burocratiche costano al Paese 70 miliardi l’anno. E come non sono gratis gli appartamenti «sottosoglia» del Giambellino o di Quarto Oggiaro che non possono essere assegnati ai senzatetto (e invece talvolta vengono abusivamente occupati) causa una regola demenziale, così non lo sono nemmeno certi apparenti risparmi per le casse pubbliche. Un caso? Tre anni fa il governo Monti ha tagliato i fondi per le commissioni d’esame che devono dare il patentino a chi fa la manutenzione degli ascensori. Niente commissione, niente esami, niente ascensoristi, e in futuro niente manutenzioni. Con 250 apprendisti che ora, denuncia la Confartigianato, rischiano di perdere il lavoro. Risparmio ottenuto: 20 mila euro. Per non parlare di quando si scivola letteralmente nel tritacarne della burocrazia. Come è capitato al signor Francesco Del Prete, pizzicato da un autovelox della polizia provinciale di Napoli a luglio dello scorso anno (quando già le province erano sulla carta abolite) a transitare a 74 chilometri orari dove c’era il limite dei 60. La multa è di 184 euro e 70, ma se pagata entro cinque giorni si riduce a 134,30. Il Nostro va prontamente alla posta ma paga solo 134,20. Ricordava male? Il verbale era stampato a caratteri microscopici? In quel momento aveva altro per la testa? Fatto sta che un mese dopo gli arriva una richiesta di integrare il pagamento: 50,50 euro. Lui cade dalle nuvole e chiede chiarimenti. Dalla Provincia di Napoli gli replicano che è vero: ha pagato soltanto 10 centesimi in meno. Ma i cinque giorni sono purtroppo passati, e la multa è aumentata a 184,70. Del Prete non abbozza e scrive di nuovo alla Provincia. Spiega di essere chiaramente incorso in un errore materiale e ricorda come la sentenza 9507/14 della Cassazione escluda che per i piccoli errori di pagamento si possa vessare il cittadino con richieste abnormi. Per tutta risposta, ecco tre mesi dopo una nuova cartella: ora l’importo che dovrebbe pagare non è più di 50,50 euro, ma di ben 219,50. La ragione? Ormai sono passati anche i sessanta giorni. E se quei soldi non vengono pagati entro quindici giorni, la pratica passa direttamente a Equitalia, con tutti i rischi del caso. Quanto è costata questa giostra ai contribuenti non è dato sapere. Ma la burocrazia che perseguita così chi per errore ha pagato dieci centesimi meno del dovuto, è la stessa capace di mettere in atto persecuzioni esattamente contrarie. Felicia Logozzo, professoressa al liceo, viene chiamata all’università con contratto a termine come assegnista di ricerca. Subito scrive alla scuola chiedendo l’aspettativa che le viene immediatamente concessa. Peccato però che lo stipendio continui ad esserle accreditato senza che lei riesca a interrompere il flusso del denaro. Di mesi ne passano almeno quattro, poi finalmente il rubinetto si chiude: però solo grazie all’intervento di un conoscente nell’amministrazione. La professoressa Logozzo restituisce i soldi e torna a scuola, ma non ha nemmeno il tempo di dimenticare la disavventura. Ecco, due mesi fa, un nuovo contratto con l’università e una nuova aspettativa, con gli stipendi del liceo che di nuovo continuano imperterriti a correre. Sconcertante la motivazione alfine scoperta: la procedura per l’aspettativa è informatizzata, quella per la retribuzione invece no. Bisogna spedire i faldoni per raccomandata agli uffici competenti che si prendono tutto il tempo necessario. Mesi. E c’è anche la beffa, perché nel frattempo lo stato paga sia la professoressa in aspettativa che chi la sostituisce a scuola. Basterebbe che fosse tutto digitalizzato, come ci promette ogni governo. Sarebbe un gioco da ragazzi... Oppure no? Le assenze per malattia dei professori, per esempio, sarebbero in teoria digitalizzate. Si possono infatti comunicare via mail. Già. Ma prima bisogna scaricare un modulo dal sito, stamparlo, compilarlo, scannerizzarlo e solo a quel punto spedirlo per posta elettronica alla scuola dove si provvederà a stamparlo e protocollarlo. Il tutto dopo che il professore avrà telefonato alla scuola, fra le 7,30 le 7,50, come dispone una recente circolare del ministero. Troppo difficile entrare direttamente nel sito della scuola?
Chi fa le leggi? Tante proposte ma poche tagliano il traguardo. E otto su dieci sono del governo. Dati Openpolis: nelle ultime due legislature la percentuale di successo delle iniziative di Palazzo Chigi è stata 36 volte più alta di quelle parlamentari. L'apice con Letta. I tempi: neanche due settimane per il trattato su risanamento banche e bail in, quasi 800 giorni per Italicum, divorzio breve e anti-corruzione, scrive Michela Scacchioli il 5 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Neanche due settimane per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello - tanto discusso in questi giorni di proteste dei risparmiatori - su risanamento bancario e salvataggio interno (bail in). Ben 871 giorni, invece, per licenziare il ddl sull'agricoltura sociale che ha impiegato quasi due anni e mezzo per diventare legge. Nel mezzo ci sono da un lato lo svuota-carceri, i decreti lavoro, fallimenti, missione militare Eunavfor Med, competitività e riforma della pubblica amministrazione che hanno tagliato il traguardo con - al massimo - 44 giorni di tempo. Dall'altro si piazzano Italicum, divorzio breve, ecoreati, anti-corruzione e affido familiare che oscillano tra i 664 e i 796 giorni necessari al via libera finale. Leggi lepre. E leggi lumaca. Per rimanere in tema: durante la consueta conferenza stampa di fine anno, il premier Matteo Renzi ha detto a proposito delle unioni civili che sì, il tema divide, ma che "nel 2016 queste vanno" necessariamente "portate a casa" perché "a differenza di quello che avrei voluto, non siamo riusciti ad approvare nel 2015" il ddl Cirinnà presentato in commissione a Palazzo Madama già a marzo del 2013 e successivamente modificato. "Purtroppo - ha poi aggiunto Renzi - non siamo riusciti a tenere il tempo. Da segretario del Pd farò di tutto perché il dibattito che si apre al Senato" a fine gennaio "sia il più serio e franco possibile. Un provvedimento di questo genere non è un provvedimento su cui il governo immagina di inserire l'elemento della fiducia, bisognerà lasciare a tutti la possibilità di esprimersi". In fatto di leggi, tuttavia, i numeri appaiono chiari. Sono 565 le norme approvate nelle ultime due legislature su un totale di oltre 14mila proposte. In percentuale, però, tra quelle che sono riuscite a completare l'iter, otto su dieci sono state presentate dal governo e non dal parlamento italiano nonostante - costituzionalmente - siano Camera e Senato a essere titolari del potere legislativo. Vero è che nel corso degli anni, i governi, detentori di quello esecutivo, hanno ampliato il proprio raggio d'azione. Tanto che la percentuale di successo delle proposte avanzate da Palazzo Chigi è 36 volte più alta di quelle parlamentari. Le cifre sono quelle analizzate (al 4 dicembre 2015) da Openpolis per Repubblica.it. Secondo l'osservatorio civico, infatti, "ormai è diventata una prassi che la stragrande maggioranza delle leggi approvate dal nostro parlamento sia di iniziativa del governo". Nell'attuale legislatura, come nella scorsa, circa l'80% delle norme approvate è stato proposto dai vari esecutivi che si sono succeduti. Ma cosa trattavano le oltre 500 leggi votate nelle ultime due legislature? E poi: nei pochi casi in cui l'iniziativa del parlamento è andata a buon fine, quali gruppi si sono resi protagonisti? Con che provvedimenti? Quanto ci vuole in media a dire sì a una legge?
Chi arriva in fondo. Un’analisi sulla produzione legislativa del nostro parlamento non può che partire dai numeri. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati ogni mese, solo sei raggiungono la fine del percorso. Di questi sei, nell'80% dei casi si tratta di proposte avanzate dal governo. E mentre le iniziative di deputati e senatori diventano legge nello 0,87% delle volte, la percentuale sale al 32,02% quando si tratta del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta: in quel periodo il parlamento ha presentato soltanto l’11% delle leggi poi approvate.
I tempi. In media, dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale trascorrono 151 giorni se si tratta di una proposta del governo. Ne passano 375 se si tratta di un’iniziativa parlamentare. Non stupisce quindi che la top 10 delle 'leggi lumaca' sia composta per il 90% da ddl presentati da deputati e senatori, e che nella top 10 delle 'leggi lepre' vi siano soltanto quelle proposte del governo. Se in media l’esecutivo impiega 133 giorni a trasformare una proposta in legge (poco più di 4 mesi), i membri del parlamento ne impiegano 408 (oltre 1 anno). Nell’attuale legislatura si evidenziano trend opposti: mentre le proposte del governo sono più lente rispetto allo scorso quinquennato, quelle del parlamento risultano più veloci.
Tante ratifiche di trattati. Un altro elemento analizzato è il contenuto di questi testi. Delle 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, il 36,28% erano ratifiche di trattati internazionali, il 26,55% conversione di decreti leggi. Questo vuol dire che 6 volte su 10 una legge approvata da Camera e Senato non nasce in seno al parlamento ma viene sottoposta all’aula per eventuali modifiche o bocciature.
Cambi di gruppo e instabilità. Se da un lato la XVII legislatura ha confermato lo squilibrio fra governo e parlamento nella produzione legislativa, dall'altro ha introdotto una forte instabilità nei rapporti fra maggioranza e opposizione. Il continuo valzer parlamentare dei cambi di gruppo, con la nascita di tanti nuovi schieramenti (molti dei quali di 'trincea' fra maggioranza e opposizione) ha fatto sì che l'opposizione reale, dati alla mano, fosse composta solamente da tre gruppi: Fratelli d'Italia, Lega Nord e Movimento 5 Stelle. Soltanto questi tre infatti, alla fine hanno votato nella maggior parte dei casi in contrasto con il Partito democratico.
Pd in testa. Dalle politiche del 2013, sono 30 le proposte di deputati e senatori che hanno completato l’iter parlamentare (su più di 5mila ddl di iniziativa parlamentare). Protagonista assoluto è il Partito democratico, che ha presentato il 73,33% dei testi in questione. A seguire Forza Italia (10%), e poi 5 gruppi a pari merito: Movimento 5 Stelle, Scelta Civica, Per le Autonomie-Psie-Maie, Misto e Lega Nord.
I decreti. A seguire nell'analisi, con un’altra fetta importante della torta, le conversioni in legge dei decreti emanati dai vari governi che si sono susseguiti. La conversione in legge dei decreti è una delle attività principali del nostro parlamento. Succede molto raramente che un testo deliberato dal Consiglio dei ministri non venga poi approvato da Camera e Senato. Negli ultimi 4 governi, il più 'efficiente' è stato è stato quello a guida Letta, con soltanto il 12% dei decreti decaduti. I decreti deliberati dal Consiglio dei ministri devono essere convertiti entro 60 giorni. Non sorprende quindi che il 90% delle leggi che rientra nella top 10 delle più veloci sia conversione di decreti. Fra le 10 più lente invece, tutte tranne una sono state proposte da membri del parlamento. La legge di iniziativa governativa più lenta è stata l’Italicum, che ha impiegato 779 giorni dal momento della presentazione per completare il suo iter.
Le Regioni. Nelle ultime due legislature le Regioni italiane hanno presentato 119 disegni di legge. Di questi, solamente 5 hanno completato l’iter, e tutti nello scorso quinquennato. Tre dei cinque erano modifiche agli statuti regionali (di Sicilia, Friuli-Venezia Giulia e Sardegna), uno è stato approvato come testo unificato (in materia di sicurezza stradale), mentre l’ultimo è stato assorbito nella riforma del federalismo fiscale sotto il governo Berlusconi.
Come si vota. Un altro elemento fondamentale nell'approvazione delle leggi è il voto. Soffermandosi in particolare sull'attuale legislatura, l'analisi si è concentrata su chi ha contribuito, e in che modo, all'approvazione finale di questi provvedimenti. Dalla percentuale di posizioni favorevoli sui voti finali dei singoli gruppi presenti in aula, alla consistenza della maggioranza nel corso della legislatura, passando per il rapporto fra voti finali e questioni di fiducia. Se si prende il Pd come punto di riferimento in qualità di principale forza politica all'interno della coalizione di governo, si è ricostruita la distanza (o vicinanza) dall’esecutivo degli altri gruppi parlamentari. Il primo dato che emerge è che su 435 votazioni finali, in 104 occasioni (23,01%), tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd.
Le opposizioni. Il comportamento delle opposizioni nei voti finali regala molti spunti interessanti. Perché se su carta alcuni schieramenti nel corso dei mesi si sono dichiarati in contrasto con gli esecutivi di Letta prima e Renzi poi, i dati raccontano altro. Nei voti finali alla Camera, ad esempio, Sel, gruppo di opposizione, ha votato il 52% delle volte in linea col Pd. Al Senato, ramo in cui i numeri a favore dell’esecutivo sono più risicati, solamente due gruppi (Lega Nord e Movimento 5 Stelle) hanno votato nelle maggior parte dei voti finali (più del 50%) diversamente dal Pd.
Voto di fiducia: chi l'ha usato di più. Per completare il quadro sulle votazioni, non si poteva non affrontare il tema delle questioni di fiducia sui progetti di legge. Due gli aspetti analizzati: da un lato il rapporto tra blindatura e leggi approvate, dall’altro le occasioni durante le quali lo strumento è stato utilizzato più di due volte sullo stesso provvedimento. Non solo la maggior parte delle leggi viene proposta dal governo, ma emerge pure che l'approvazione richiede un utilizzo elevato delle questioni di fiducia. In media, nelle ultime due legislatura, il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti: il 45,13 per cento. Ma quali sono stati i provvedimenti che hanno richiesto più voti di fiducia? Al primo posto c'è la riforma del lavoro, governo Monti, che ha richiesto 8 voti di fiducia. Cinque voti di fiducia per il ddl anti-corruzione (sempre governo Monti) e ancora cinque per la Stabilità 2013. Quattro voti di fiducia per il decreto sviluppo e la riforma fiscale (governo Monti), tre per la legge sviluppo 2008 (governo Berlusconi). Tre voti di fiducia per la Stabilità 2014 (governo Letta), tre anche per Stabilità 2015, Italicum, Jobs Act e riforma Pa (governo Renzi).
Voti finali alla Camera. Uno dei modi per capire il reale posizionamento in aula dei gruppi parlamentari è vedere se il loro comportamento durante i voti finali è in linea o meno con quello del governo. Questo esercizio permette anche di osservare come è variato il sostegno all’esecutivo con la staffetta Letta-Renzi. Se da un lato Forza Italia durante il governo Letta votava l’86% delle volte con il Pd (al tempo in maggioranza), con il governo Renzi - e il riposizionamento dei berlusconiani - la percentuale è scesa al 64,57 per cento.
Voti finali al Senato. I numeri del governo a Palazzo Madama sono molto più risicati rispetto a quelli di Montecitorio. Non sorprende quindi che la maggior parte dei gruppi, per un motivo o per l’altro, spesso e volentieri abbia votato con il Pd nei voti finali dei provvedimenti discussi in aula. Da sottolineare come i fuoriusciti da Forza Italia, sia Conservatori e Riformisti (di Raffaele Fitto) che Alleanza Liberalpopolare-Autonomie (di Denis Verdini), da quando sono nati hanno votato rispettivamente il 78,69% e il 78,13% delle volte in linea con il governo nei voti finali.
Voti finali panpartisan. Nel dibattito parlamentare può succedere che su determinati argomenti si arrivi ad una votazione panpartisan. Sono i casi i cui tutti i gruppi che siedono in aula votano a favore, con nessuno ad astenersi o votare contro. Su 435 voti finali che si sono tenuti da inizio legislatura, è successo ben 104 volte (23,91%). Più ricorrente al Senato (28,10%) che alla Camera (20%). Trattasi principalmente, nel 74% dei casi, di ratifica di trattati internazionali.
LA PAGLIUZZA E LA TRAVE. Scrive Aurelio su Forza Cavallasca il 12 gennaio 2016. Notavo, ma devo dire che me lo aspettavo, che il fatto di Quarto e cioè di quel comune campano in cui un consigliere comunale eletto nelle liste del M5S sembra facesse gli interessi imprenditoriali di un clan camorristico locale tramite pressioni al sindaco del suo stesso movimento che correttamente e onestamente ha respinto al mittente, è diventato un fatto di tale portata nazionale da essere da settimane una delle principali notizie dei mas media televisivi e della carta stampata al pari del tempo dedicato a quanto è successo a Roma per Mafia Capitale. Quello che mi fa specie è che se questi media televisivi dessero lo stesso tempo e spazio a quei fatti legati a procedimenti penali e indagini a carico di esponenti del Centro Sinistra e del Centro Destra a quest’ora queste testate giornalistiche ci avrebbero dovuto intrattenere settimanalmente per ore intere. Fatti molto ben più gravi di coinvolgimento di esponenti locali eletti nei due schieramenti di cui sopra hanno avuto lo spazio, da parte da parte di questi media, di durata non più che giornaliera. Due considerazioni sono dovute: La prima è il manifesto asservimento del giornalismo italiano al potere di turno dove pesi e misure sono molto discrezionali se non finalizzato a compiacere o sostenere le forze politiche che hanno portato il Paese nelle condizioni in cui si trova. La seconda è che il M5S non può pensare che in certe regioni la selezione dei candidati da eleggere si possa basare esclusivamente sulla decisione degli iscritti alla rete in quanto ci si può aspettare, considerata la partecipazione numerica a queste organizzazioni criminali, che infiltrazioni di persone legate ad ambienti poco trasparenti è molto forte. Per non esporre il fianco a queste strumentalizzazioni questo sistema va ripensato o perlomeno le cautele sulla selezione in certe regioni non sono mai troppe. Per finire noto che chi sta maggiormente speculando e strumentalizzando questo fatto che sostanzialmente si può limitare a episodi di indebita pressione falliti è il P.D. con tutto quello che è emerso sul suo conto in questi anni dagli scandali corruttivi del Mose di Venezia all’Expo di Milano da Mafia Capitale agli scandali sui rimborsi delle spese ai consiglieri regionali ai gettoni di presenza nei comuni per commissioni inesistenti. ecc. ecc…. Come non mai in questo caso credo che valga questo detto evangelico: “…Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?……. Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello…”
Trave e pagliuzza, vecchia tattica, scrive Mauro Arcobaleno sabato 16 gennaio 2016.
Loro. In sei anni subiscono un tentativo di infiltrazione mafiosa o poco più. L'ultimo in un comune che gestiscono ma che è stato sciolto gia' varie volte per mafia, in passato. Lo respingono. Quando viene fuori che il sindaco, pur avendolo respinto e pur essendo stato eletto indipendentemente dai presunti voti sporchi, non ha detto tutta la verità, in soli 7 giorni decidono di espellerla. Sono favorevoli ad andare a nuove elezioni. Sono favorevoli a pubblicare tutte le intercettazioni del caso. Pubblicano addirittura gli screenshot degli scambi di chat tra il sindaco e i dirigenti del movimento.
Gli altri. Non buttano fuori nemmeno i condannati, che continuano gestire la cosa pubblica, figurati gli indagati o i chiaccherati. Hanno decine di comuni sciolti per mafia. Hanno Roma Capitale e ci hanno messo un anno prima di agire. Gliene arrestano o indagano uno o quasi al giorno. Le condanne fioccano. Si oppongono alla diffusione delle intercettazioni (Napolitano le ha fatte bruciare). Ma, con la gentile collaborazione del 90% dei media, da giorni stanno spargendo merda su loro e ingigantendo un caso piccolo e insignificante se paragonato al marciume che li affossa, e che in questo modo cercano di nascondere. Vecchia tattica: esaltare la pagliuzza del tuo avversario di modo che non si pensi più alla trave che hai nell'occhio dell'etica.
Io non dico nulla. Ma piuttosto che non votare (sbagliato), se si vuole provare a cambiare, non puoi votare sempre gli stessi o i presunti nuovi che avanzano e che sono uguali o peggio di quelli che volevavo sostituire e rottamare: ti hanno detto mille bugie e si comportano peggio dei precedenti, non esiste differenza tra loro. Devi votare facce nuove, che hanno regole nuove e che, pur facendo errori da inesperienza (anche loro sono uomini ahimé), le applicano con coerenza. Poi se ti fregheranno pure loro, ok: ma avrai poco da rimproverati. Nell'altro caso avrai da rimproverarti eccome: se ti arriva merda te la sei voluta.
Brenta (Varese), arrestati sindaco Pd ed ex capo dei vigili. Ai domiciliari Gianpietro Ballardin e l’ex comandante della polizia locale, Ettore Bezzolato, con l'accusa di falso commesso da pubblico ufficiale, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 13/01/2016, su "Il Giornale". È stato arrestato dalla Guardia di Finanza Gianpietro Ballardin, sindaco Pd di Brenta (Varese) e presidente del Consorzio dei Comuni del Medio Verbano e sindaco di Brenta. Con lui ai domiciliari è finito anche l’ex comandante della polizia locale Ettore Bezzolato. I due sono accusati di falso commesso da pubblico ufficiale, con il secondo che avrebbe anceh rubato denaro ricevuto in custodia per ragioni di servizio e il sindaco accusato anche di false dichiarazioni. Secondo le indagini delle Fiamme Gialle, (in primis a indagare sono stati i carabinieri di Luino, che lo scorso agosto avevano già arrestato Bezzolato per peculato), l’ex comandante dei vigili avrebbe sottratto denaro dalle casse del corpo dopo averlo personalmente ritirato presso enti ed associazioni del territorio quale corrispettivo di servizi di sicurezza straordinari per eventi e feste comunali, come previsto dal regolamento. Sempre secondo le indagini, coordinate dal sostituto procuratore di Varese Massimo Politi, il presidente del consorzio e sindaco Ballardin avrebbe dichiarato il falso per alleggerire la posizione di Bezzolato. I due avrebbero inoltre firmato un documento che attestava il versamento di una parte del denaro mancante da parte dell’ex comandante nella cassaforte del comando, che gli inquirenti giudicano fasullo. Immediata la reazione del Movimento 5 Stelle che dopo la vicenda di Quarto non aspettava altro per dare addosso al Partito democratico. Gongola Beppe Grillo: "Un arrestato al giorno toglie il Pd di torno", scrive il guru sul suo blog, "Domani a chi tocca? Sono aperte le scommesse. Gli amministratori locali del Pd - attacca il leader M5S - sono una sciagura per i comuni italiani. Ieri la notizia dell'iscrizione al registro degli indagati del sindaco di Como, oggi arrestano Ballardin. Si dimetterà o amministrerà la città dai domiciliari? Il garantismo deve essere nei confronti dei cittadini: devono avere la garanzia assoluta che chi li governa non è un corrotto e non li deruba".
M5S a Pomezia: appalti sospetti affidati dal sindaco alla coop vicina a Buzzi. Dopo Quarto, ombre a Pomezia. Appalti sospetti affidati dal sindaco Fabio Fucci (M5S) alle coop vicine a Buzzi, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 15/01/2016, su "Il Giornale". Non c'è solo Quarto nell'armadio degli scheletri grillini. Ora a Pomezia, città amministrata dal Movimento 5 Stelle, risuona il (tetro) inno di Mafia Capitale. A collegare il sindaco grillino Fabio Fucci e i nomi famosi per essere finiti nelle carte di Mafia Capitale, è la gestione dei rifiuti del Comune. Non è la prima buccia di banana che pesta il M5S. L'amministrazione grillina di Pomezia era finita sotto i riflettori della cronaca anche per il caso "parentopoli": la compagna del primo cittadino, infatti, era arrivata ad occupare la sedia di assessore. Fucci corse ai ripari, annunciando che la compagna si era già dimessa. Anche se in realtà poi rinviò le dimissioni di qualche mese. Acqua passata. Ma ora l'ombra di Mafia Capitale lambisce i 5 Stelle. Che dopo lo scoppio dello scandalo romano hanno cavalcato in tutti i modi la vicenda, attaccando la destra e la sinistra. I fatti sono questi, raccontati dall'HuffingtonPost, e partono dal giugno del 2013 per arrivare fino al dicembre del 2014, quando lo scandalo di Mafia Capitale è all'apice della forza mediatica. Nel giugno 2013 il sindaco Fucci mette piede al Municipio di Pomezia e poco dopo - dicembre 2013 - avvia un appalto per la getione dei rifiuti. Ad aggiudicarselo è il Consorzio Nazionale Servizi e la sua affiliata "Formula Ambiente". Quest'ultima è una società partecipata (prima al 49%, poi al 29%) dalla Coop 29 giugno, tristemente famosa per essere guidata da quel Salvatore Buzzi simbolo di Mafia Capitale. Ma non solo. Perché i fili del controllo del servizio dei rifiuti a Pomezia si intrecciano anche con Alessandra Garrone, compagna di Buzzi e amministratore delegato della Formula Ambiente. Senza dimenticare che Buzzi sedeva nel consiglio di sorveglianza del Consorzio Nazionale Servizi che si occupava, tramite la partecipata, dei rifiuti di Pomezia. L'appalto, come detto, prende il via nel dicembre 2013 e poi ottiene numerose proroghe. A seguire il dossier è Salvatore Forlenza, dirigente di CNS e poi indagato per turbativa d'asta nel processo di Mafia Capitale. Nel 2013, Mafia Capitale era ancora un miraggio, eppure quando scoppia lo scandalo, il membro del direttorio del M5S, Alessandro Di Battista, accusò Ignazio Marino di aver dato appalti con le proroghe a Buzzi dicendo che "non poteva non sapere". Su questo presentò anche una interrogazione parlamentare, invitando peraltro il governo a diffidare del CNS. Se valeva per Marino, varrà anche per il sindaco di Pomezia? Non sembra. Infatti, l'ultimo bando di gara emesso da Fucci è del 2 settembre 2014 e si chiude l'11 dicembre 2014: in pieno scandalo Mafia Capitale e mentre l'Operazione Mondo di Mezzo aveva già mandato in galera Buzzi e Carminati. Nonostante le manette, il bando del sindaco di Pomezia finisce ugualmente al CNS. “Il sindaco di Pomezia è incorruttibile”, furono le parole di una intercettazione di Buzzi che i Cinque Stelle fecero riecheggiare su tutti i media. Ma le opposizioni credono che l'appalto sia sospetto e abbia irregolarità sia sulla ditta appaltatrice che nelle procedure del Comune. La coop di Buzzi si aggiudicarono infatti gli appalti con un ribasso di gara dello 0,13, che può essere considerato "strano" se si considera che il costo complessivo è di 50 milioni. Le altre due ditte, invece, non raggiunsero nemmeno il punteggio minimo a livello tecnico per poter partecipare al bando. Fu scritto appositamente per far vincere le cooperative dove Buzzi aveva un "peso"? Ancora presto per dirlo. Eppure, il sindaco Fucci aveva già dimostrato un'altra volta di scrivere i bandi di gara con una certa disinvoltura, visto che Raffaele Cantone ne bloccò uno sulle aree verdi perché “limita la concorrenza” tra le imprese in gara. Ma c'è dell'altro. Da quando c’è Fabio Fucci come primo cittadino, sono aumentate le spese legali: nel 2015 Pomezia ha speso oltre un milione e mezzo di euro in spese legali. Parte di queste parcelle sono finite anche all’avvocato Giovanni Pascone - ex magistrato del Tar, dipendente del Comune – poi cancellato dall'albo degli avvocati perché socio occulto di una società di vigilanza e condannato a due anni per via di un contenzioso con il fisco di 20 milioni di euro. Infine, Fucci - scrive l'HuffingtonPost - avrebbe nominato a capo della Multiservizi Fucci, Luca Ciarlini, sotto indagine per frode.
Cari 5 Stelle, ma su Pomezia e Quarto non provate imbarazzo? Si Chiede Tommaso Ederoclite, Ricercatore, Politologo, consulente politico, su l'HuffingtonPost del 16 gennaio 2016. In queste ore è uscita la notizia che Rosa Capuozzo aveva già informato da novembre scorso il direttorio sulla faccenda Quarto, e non è un retroscena giornalistico, no, lo ha detto ai Pm durante un interrogatorio durato 6 ore. Quindi è confermata la notizia che Fico, Di Battista e Di Maio sapessero di quello che stava succedendo a Quarto. Dunque in quel video e nelle continue pubblicazioni delle loro chat si è detto una bugia, e non su un tema come il compenso o l'abuso edilizio mai dichiarato, ma su un tema come la camorra. Deputati che mentono su una questione delicata come la camorra. In queste ore però prende piede una grana che, a parere di chi scrive, è ben più pesante. Il "sistema Pomezia". Innanzitutto qualche appunto su Fabio Fucci il sindaco di Pomezia del MoVimento 5 Stelle.
1) Nominò assessore la moglie, facendola dimettere a "scandalo" avvenuto mesi dopo;
2) Aveva inserito nel suo programma la proposta di differenziare il menù scolastico: uno meno costoso e uno più costoso che includeva di dolce. Scoppiò un casino;
3) Ha (o aveva non si è ancora capito) come dipendente comunale l'avvocato Giovanni Pascone, socio occulto di una società di vigilanza (la Clstv), finita sul lastrico, che deve ancora ai suoi dipendenti migliaia di euro e che ha testimoniato a favore di personaggi di cosche camorristiche e, malgrado lettere e proteste dei sindacati e dei cittadini al sindaco grillino, è ancora lì seduto alla sua scrivania;
4) Ha "sanato" anziché affermare l'irregolarità di alcuni appalti abusivi segnalati dalla Regione Lazio e dal tribunale di Velletri.
Ma la cosa più grave sta prendendo piede in queste ore, e non credo finisca presto. Andiamo con ordine. Il primo cittadino Fabio Fucci del MoVimento 5 Stelle qualche mese fa ha dichiarato: "Con me Buzzi non ci ha neanche provato". Leggendo le notizie di queste ore, mi è venuto da dire "E per forza, ce li avevate già in casa". Infatti, il sindaco di Pomezia aveva affidato al CNS (Consorzio Nazionale Servizi) di Buzzi l'appalto per la gestione rifiuti proprio nei giorni di Mafia Capitale, proprio nei giorni in cui Di Battista sbraitava dagli scranni della Camera sostenendo "come facevate a non aver visto nulla". La cooperativa dove Buzzi aveva un ruolo determinate hanno vinto l'appalto "con un ribasso di gara dello 0,13, anomalo rispetto alla cifra di 50 milioni di appalto. Mentre le altre due ditte che si presentano non raggiungono il punteggio minimo sull'offerta tecnica, secondo la valutazione dalla commissione del Comune". In pratica, nonostante lo scandalo di Mafia Capitale il sindaco si è tenuto e ha rinnovato, con addirittura gara sospetta, la cooperativa di Buzzi al Comune. Il primo cittadino pentastellato si difende sostenendo che è stato tutto fatto con la prefettura, un po' come sostenne la Capuozzo agli inizi della sua catastrofe su Quarto. Sì, perché pare che la strategia sia questa "non importa se tu sia indagato o meno, l'importante è che tu dia la colpa agli altri". Ovviamente il tutto ora è sotto indagine, vedremo sviluppi. Ma quello che preme ora sottolineare è semplice, a parte le minacce di Casaleggio "ve la faremo pagare", e le deludenti risposte date ai cittadini da questo fantomatico direttorio, che a vederli sembrano sempre di più dei ragazzini alle prese con una cosa molto più grande di loro e che non sanno affrontare, possibile che davanti a queste sciagurate gestioni non si faccia un po' di sana autocritica? Possibile che non si prendano le responsabilità e si dica ho sbagliato? E paradossale che coloro che si proclamavano paladini della trasparenza oggi mentano sfacciatamente, e ripetano quella bugia 100, 1000 volte. Chiedo al direttorio, un po' di imbarazzo non lo provate?
La maledizione delle Cinque Stelle. Per il movimento l’incidente del sindaco di Quarto è particolarmente insidioso. Perché dimostra che le regole di Grillo sono da cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso” il 15 gennaio 2016. A ciascuno il suo Ignazio Marino, verrebbe da dire con un sorriso amaro, anche se la testa del sindaco di Roma fu fatta rotolare per una squallida storia di note spese e cene al ristorante, e in quel caso - ma guarda un po’ - i grillini lo difesero riconoscendogli di aver fatto da argine a Mafia Capitale. Invece sul capo di Rosa Capuozzo, unica sindaca a 5Stelle eletta in Campania, prima cittadina di Quarto, comune dell’hinterland napoletano sciolto due volte per infiltrazioni della camorra, pende il ben più pesante sospetto di collusione con la criminalità organizzata (ancora da dimostrare), con appendice di ricattuccio per un abuso edilizio a casa propria, pratica ormai diffusa assai nella politica all’italiana. Alla fine, sindaca espulsa. Dopo aver resistito dicendo, proprio come Marino, di aver respinto le pressioni dei boss. E certo la storia non finisce qui, come con Marino...La maledizione si abbatte anche sul Movimento di Beppe Grillo, nato all’insegna della purezza e della trasparenza in politica, fattosi grande e robusto con la guerra a caste e privilegi e costretto invece a inciampare nel più tradizionale, italico inciucio tra affari, Palazzo e voti di scambio, con condimento di spaccatura tra duri e puri (Di Maio) e moderati (Fico). Da un giorno all’altro, insomma, ecco che Torquemada finisce sotto processo. Tornano alla mente le parole di Pietro Nenni che, in una lontana Repubblica, saggiamente avvertiva: «A giocare a chi è più puro si rischia di trovare uno più puro di te che ti epura…». Stavolta è toccato a Roberto Saviano che, quando la premiata ditta Grillo & Casaleggio tentennava e sembrava voler difendere la sindaca, ne ha chiesto clamorosamente le dimissioni. Amen. Dunque, è arrivata l’ora del redde rationem, che però non si ferma a Quarto e pone al Movimento nuovi problemi. In mezza Italia, per esempio, è sempre più difficile mettersi al riparo dall’invasività delle mafie: su 258 comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata dal 1991 a oggi, 253 se li contendono Calabria, Sicilia e Campania (prima in classifica). Chi si presenta alle elezioni a sud di Roma e vince, rischia assai. E per affrontare la questione non basta tagliare corto come Grillo: «A Quarto i voti della camorra non sono stati determinanti». Ma come si fa a distinguere tra una scheda e l’altra? E c’è forse, Beppe, una percentuale eticamente accettabile e non determinante di consensi mafiosi? Argomento scivoloso. E poi, un'altra dannazione. Sembra che appena eletti, per una ragione o per l’altra i sindaci finiscano in rotta di collisione con il vertice del movimento. Il catalogo è ricco: Parma, Gela, Ragusa, Livorno, Quarto… È successo anche con molti parlamentari. Forse il problema nasce per l’inevitabile conflitto tra il quartier generale e chi combatte al fronte sporcandosi le mani con il fango della trincea; comunque sembra quasi che la Grillo & Associati sfrutti questi episodi per frenare il dissenso interno e fare pure un po’ di pulizia. Selezione del personale a posteriori. Ma non c’è sempre un agnello da sacrificare. Per un movimento che nei suoi dieci anni di vita ha puntato tutto sulla diversità, un incidente di percorso come quello di Capuozzo & C. è particolarmente fastidioso. Nel tentativo di crescere senza però tradire l’ispirazione originaria, Grillo ha temerariamente pattinato tra Forrest Gump e la Corte costituzionale, tra i vaffa e il Parlamento, tra Di Maio e il partito della rete, tra il suo ologramma e il direttorio convocato negli uffici di Casaleggio. Ha volutamente allevato un non partito, niente strutture né dirigenti, ha platealmente fatto un passo indietro lasciando che i 5Stelle si identificassero con i suoi ragazzi. Ma al primo, grave intoppo ecco che torna a convincersi che senza di lui la nave affonda. Alla fine il padrone del marchio, l’azionista di riferimento che sceglie, indirizza e sanziona è sempre lui. Così non può continuare a lungo e prima o poi il Movimento dovrà decidere se rinunciare a piccole dosi di diversità, darsi regole di democrazia interna e adottare criteri di scelta dei candidati e dei dirigenti più affidabili di un blog o di una rapida consultazione in rete, specie ora che si avvicinano scadenze decisive come il voto di primavera nelle grandi città e poi le elezioni politiche. Roma non è Quarto. E non si può vivere e governare solo nominando ed espellendo. Manco fosse la casa del Grande fratello.
Capuozzo: "Grillo fugge davanti alla mafia". Il sindaco di Quarto attacca: "Inutile avere le mani pulite, se le tieni in tasca", scrive Antonio Angeli il 19 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Ennesimo capitolo del «caso Quarto»: Rosa Capuozzo, il sindaco anticamorra invitato a dimettersi e infine espulso dal MoVimento 5 Stelle, ha sparato parole di fuoco contro il partito che l’ha piantata in asso. Intanto, mentre il Pd fa il tiro al piccione e l’indagine giudiziaria prosegue, si vanno delineando le posizioni di Di Maio e Fico. «È inutile avere le mani pulite se poi le si tiene in tasca - ha scritto la Capuozzo su Facebook - Il M5S ha avuto l’occasione di combattere il malaffare in prima linea con un suo sindaco che lo ha fatto, ma ha preferito scappare a gambe levate, smacchiarsi il vestito, buttando anche il bambino insieme all’acqua sporca». Il primo cittadino di Quarto (Napoli), durissima, ha proseguito: «Non si governano così i Comuni ed i territori difficili, non si abbandonano così migliaia di persone che hanno creduto in noi e nel MoVimento. È una forma di rispetto che Quarto meritava: rimanere e combattere. Invece è stata fatta una scelta politica in una stanza grigia di Milano. Io ho fatto una scelta di principio per i cittadini onesti di Quarto. Ora lavoreremo per il territorio in modo ancora più incisivo con i principi del MoVimento nell’anima. Mi ripeto - ha concluso la Capuozzo - citando Don Milani "è inutile avere le mani pulite e poi tenerle in tasca"». Il sindaco afferma inoltre che Roberto Fico era stato subito informato del suo interrogatorio davanti al pm Henry John Woodcock. Ha ribadito la circostanza davanti allo stesso pm quando è stata ascoltata lo scorso 12 gennaio. A una specifica domanda risponde di aver parlato «immediatamente dopo» al presidente della Commissione Vigilanza della Rai del fatto che era stata sentita come teste in Procura il 24 novembre, e che Fico era al corrente anche «del contenuto» dell’interrogatorio. Dei suoi contrasti con Giovanni De Robbio, l’ex consigliere pentastellato risultato il più votato a Quarto, aggiunge Capuozzo il 14 gennaio, aveva messo a conoscenza Fico «verso la metà di luglio». Secondo Fico allora non c'erano «gli estremi» per azioni disciplinari nei confronti di De Robbio, azioni poi culminate con l’espulsione il 14 dicembre scorso. I due verbali fanno parte degli atti trasmessi alla prefettura di Napoli e alla commissione parlamentare Antimafia, che ascolterà oggi in audizione la Capuozzo. Secca la risposta dei gruppi parlamentari del M5S di Camera e Senato: «Il MoVimento non sapeva del ricatto». Intanto, a Quarto, due consiglieri comunali M5S rassegnano le dimissioni. In tutta la vicenda inzuppa il pane il Pd: «Te lo do io il direttorio - afferma Gennaro Migliore, facendo il verso a Grillo - Anche oggi le parole del sindaco Capuozzo confermano che il direttorio sapeva e sapeva tutto. Fico, che continua a sostenere l’insostenibile, viene per l’ennesima volta smentito. Si arrampicano sugli specchi senza speranza di riuscire a evitare la caduta. Non danno risposte e vogliono far credere che nelle loro innumerevoli conversazioni si parlasse di contrasti politici». «Pensano davvero - aggiunge Migliore - che la Procura antimafia si occupi di beghe interne invece che di reati di criminalità organizzata? Sono pure vigliacchi, scaricano tutto su altri, se ne lavano le mani e non si assumono le loro responsabilità. Invece di coprire i cocchi del paparino Casaleggio, nel M5S si cominci ad ammettere la verità, il direttorio ha completamente fallito».
Il mistero di Rosa Capuozzo nel labirinto della politica. Chi è davvero il primo cittadino di Quarto, che martedì risponde alle domande dell’Antimafia. Una moderna Giuditta, decisa e coraggiosa, o piuttosto colei che ha tardato a denunciare i ricatti? Un rompicapo su cui in molti si sono persi, scrive Marco Demarco il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Eroina civile, vittima dell’inciucio politico, o sughero galleggiante nella palude della provincia opportunista? Chi è davvero Rosa Capuozzo, sindaca ex grillina di Quarto, lo sapremo forse solo martedì, quando lei stessa risponderà alle domande della commissione Antimafia. Lunedì c’è stata la conferma che si tratta di una donna minuta d’aspetto e forte di carattere. Con l’aiuto di don Milani («È inutile avere le mani pulite e tenerle in tasca») e deprecando i moralismi astratti (c’era da combattere la camorra e invece «il M5S è scappato a gambe levate») la sindaca ha infatti risposto a chi l’ha espulsa dal movimento. Ma ancora nulla che possa mettere il punto alla polemica che l’ha vista contrapposta a Grillo e ai membri del direttorio. Rosa Capuozzo resta dunque un mistero. Uno specchio in cui ognuno vede riflesso ciò che vuole. A volte, ha dato l’impressione di essere decisa e coraggiosa come una moderna Giuditta, riuscendo, come nel mito, a ignorare la timorosa élite maschile della città assediata e a decapitare l’assediante, gigantesco Oloferne. Nel caso, la camorra. Ciò è sicuramente successo quando Rosa la «pasionaria» ha lanciato i suoi appelli anti-clan, o quando non si è piegata davanti alle pressioni di Giovanni De Robbio, l’ex consigliere comunale pentastellato espulso prima di essere indagato per voto di scambio e tentata estorsione proprio ai danni della prima cittadina, residente in una casa forse non condonata. Ma altre volte la sindaca ha invece proposto di sé un’immagine del tutto diversa, come quando, per evitare complicazioni, ha tardato a denunciare i ricatti. O quando, intercettata pur non essendo «avvisata» di alcun reato, ha consigliato ai suoi di «non mettere i manifesti» su quanto stava succedendo a Quarto. Rosa Capuozzo è diventata, insomma, un rompicapo assoluto; il labirinto in cui tutti si sono persi. Compreso Roberto Saviano. In terra di camorra, appena eletta, la sindaca era diventata per lui il simbolo mancante di una politica nobile, incondizionata, per la prima volta libera da quel voto di scambio. E invece: «Deve dimettersi», ha poi sentenziato, anticipando Grillo di ventiquattro ore. Ci sono poi tutti gli altri. Quando Grillo difendeva la sindaca, e i vari Fico e Di Maio non si vergognavano di averla sostenuta, i «democrat» ne chiedevano a gran voce le dimissioni, e la renziana Picierno addirittura calava da Bruxelles a Quarto per manifestare indignata nell’aula del Consiglio comunale. Quando Grillo di colpo l’ha scaricata («l’onesta ha un prezzo»), e vai a capire perché, visto che nulla nel frattempo era cambiato, Renzi a sorpresa l’ha invece difesa («Rosa Capuozzo ha resistito alla camorra, non deve dimettersi»). I rispettivi quartieri generali si sono così ritrovati di punto in bianco sbandati e persi come in un 8 settembre. Nessuno, tra i colonnelli e le generalesse, era più al posto giusto. Picierno ha preso l’aereo e se n’è tornata a Bruxelles; Fico e Di Maio, nell’occasione insieme con Di Battista, sono invece finiti su una panca a discolparsi. Tutti con Rosa, tutti contro di lei. Ma mai tutti insieme. Tipico di una politica italiana gravemente malata di tatticismo. È in campo grillino, però, che le contraddizioni bruciano di più. Tra luglio e dicembre i membri napoletani del direttorio pentastellato si sono incontrati con Rosa Capuozzo almeno cinque volte: nella casa posillipina di Fico, in un bar del centro storico di Napoli, a Quarto. L’assedio al Comune era già iniziato, Oloferne già alle porte. Nessuno si era accorto di niente? O Giuditta aveva già deciso di fare tutto da sola? Martedì, forse, ne sapremo di più.
Cinque stelle cadenti: quanti vip mollano Beppe. L'infatuazione politica di molti artisti per Beppe Grillo sembra già passata. Venditti è l'ultimo pentito: "Ho votato Renzi, fa bene a trattare col Cavaliere", scrive Paolo Bracalini, Venerdì 31/01/2014, su "Il Giornale". Vatti a fidare degli artisti. Finché vai forte ti trovano interessante, ti fanno pure un concerto gratis se glielo chiedi. Ma quando la moda passa, chi li vede più? Dieci anni fa erano tutti veltroniani, poi ulivisti, quindi di nuovo veltroniani quando Veltroni era in sella al Pd. Poi, dopo una lunga pausa d'incertezza, non potendo buttarsi su Berlusconi perché in quegli ambienti non conviene, han provato a farsi piacere Monti (Eros Ramazzotti: «Ha dato dell'Italia un'immagine più forte»). Naufragato anche lui si sono scoperti grillini. Molto più di una simpatia, un'infatuazione, casualmente cresciuta insieme ai voti del M5S, travolgente col 25% alle politiche. Poi però scemata via via, con le polemiche e le gaffe degli eletti M5S, i dissidi interni, le uscite imbarazzanti, e il casino fine a se stesso, il non toccare mai palla lasciando il campo libero al Pd e persino a Berlusconi. Così, un grande sponsor del M5S come Adriano Celentano, che ancora pochi mesi fa vergava lettere dalla sintassi creativa per lanciare Grillo (e, per inciso, anche per difendere il metodo Stamina) e il suo M5S «movimento altamente democratico che ha generato la speranza in un mondo tutt'altro che ostile», si è raffreddato. Grillo non è più tanto rock per il Molleggiato. «Perché per la seconda volta si è rifiutato di fare il Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri - lo bacchetta Celentano sulla rivista San Francesco -. E quindi Renzi si è rivolto a Berlusconi, che pur avendo una condanna rappresenta 8 milioni di italiani, perciò mi fanno ridere gli ipocriti quando dicono che non doveva parlare con Berlusconi». Morale: l'ex grillino Celentano elogia l'accordo sulla legge elettorale, lo stesso «Pregiudicatellum» che per Grillo è fatto apposta per far fuori il M5S, addirittura uno dei motivi per l'impeachment di Napolitano. Ma seri dubbi anche in casa Fo. Il padre Nobel resta sostenitore, ma prende sempre più spesso le distanze. Prima contro il post di Grillo e Casaleggio contro l'abolizione del reato di clandestinità («Ci sono rimasto male, Beppe ha sbagliato») poi sulla gogna quotidiana contro i giornalisti («linguaggio che non accetto»). Il figlio Jacopo invece, se prima dedicava poesie alle grilline e sul blog ci informava di amare Grillo «fisicamente», si è scoperto renziano. «Ho cenato con Renzi. Lui non' è un tipo normale - scrive adesso il Nobel jr -. È il primo segretario Pd che si capisce quello che dice, ed è anche un temerario visto che dice faccio questo in 30 giorni, quest'altro in 60 giorni. E aggiungo che avere un leader progressista che cambia completamente stile potrebbe essere utile. La forma ha la sua importanza. Anche Povia, che aveva elogiato il M5S («Grillo è stato un voto di protesta giusto»), è passato coi forconi (al grido «usciamo dall'euro, l'Ue ci distrugge!»), mentre colpisce il silenzio da mesi di altri (ex?) sponsor vip del Grillo prima maniera, da Mina alla Mannoia dalla Carrà al pianista Allevi. Al cantatuore romano Antonello Venditti un annetto fa piaceva «l'aspetto morale del Movimento Cinque stelle». Quando Grillo citò sul blog una sua vecchia canzone, Bomba non bomba, Venditti ne fu entusiasta. «Mi fa piacere, la mia canzone raccontava l'arrivo della democrazia a Roma. È il cammino di Grillo e di tante persone che sperano che ci sia la democrazia in Italia». Ora sembra che Venditti sia renziano, anzi che lo sia sempre stato. «L'ho votato due anni fa alle primarie, e anche alle ultime - ha detto a RadioDue -. Renzi ha fatto bene a incontrare Berlusconi, ci mancherebbe altro». E le canzoni adesso le dedica a lui, non più Grillo: «Renzi ha un qualcosa di scanzonato, gli dedicherei Lo Studente Passa». Con sottofondo di sviolinate. Con Pippo Baudo, suo mentore televisivo nella stagione dei Sanremo e delle Domeniche in con Grillo mattatore, è finita a schifìo. Il presentatore all'inizio elogiò Grillo, l'unico che «può dare una scossa alla politica», uno che «ha saputo avvicinare i giovani alla politica». Più tardi però gli ha dato del «fascistoide», e Grillo ha reagito pesante: «Baudo ha attaccato il M5S e leccato il culo a Renzi. Quando fui cacciato dalla Rai lui slinguava Craxi... La pippite è una malattia dell'animo». Tra i delusi vip c'è anche Flavio Briatore: «Grillo è stata una grande delusione - disse il manager - ci aveva dato a tutti un po' di speranza. Invece si sono dimostrati come gli altri, forse peggio».
Vittorio Sgarbi ha abbandonato, in silenzio, la diretta di «Domenica Live» (del 17 gennaio 2016). Lo storico e critico d'arte era stato invitato da Barbara D'Urso per commentare le presunte infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, guidato da un sindaco del «Movimento 5 Stelle». «Adesso che è stato depenalizzato l'insulto - spiega Sgarbi - non vale nemmeno più la pena di usarlo. Così, invitato per discutere sul tema, inesistente, delle infiltrazioni mafiose nel Comune di Quarto, paese di cui nessuno, fino a ieri, conosceva l'esistenza, e in cui si manifestano, per ciò che riguarda i rapporti tra i cittadini e i politici, gli stessi fenomeni di qualunque altro luogo d'Italia, ho dovuto ascoltare, per circa un'ora, insensatezze sulla presunta diversità dei 5 Stelle, movimento di cui non si conosce un pensiero, un'idea, e che pensa di disporre degli eletti come fossero «cosa loro», come ha giustamente osservato il sindaco di Gela. Non ci sono - argomenta Sgarbi - due posizioni: ce n'è una, ed è quella dettata dalla Costituzione (la presunzione d'innocenza), non certo quella delle intimidazioni dei Saviano e dei Grillo, ben più prepotenti della mafia e della camorra, delle quali occorre dire che, chi ha diritto al voto non può essere suo esponente. Quindi nessun voto camorrista, se non presunto. Quando la magistratura, con una sentenza, lo riterrà tale, il camorrista non potrà votare. Discorso troppo semplice da fare in una trasmissione in cui ognuno parla senza sapere quel che dice. Mentre chi potrebbe dire qualcosa, è costretto a tacere perché ognuno pretende di essere più puro degli altri. I 5 Stelle non esistono se non per indicare la qualità degli alberghi. Così me ne sono andato in silenzio e senza insultare. Anche gli insulti - conclude Sgarbi - occorre meritarseli». L'Ufficio Stampa di Vittorio Sgarbi
Gli affari disonorevoli dei consoli onorari. Tra bella vita e truffe. Un titolo che dovrebbe favorire i rapporti tra Paesi. Ma che in Italia è distribuito con troppa leggerezza. E talvolta premia personaggi senza scrupoli. Ecco le loro storie, scrivono Federico Franchini e Francesca Sironi il 7 settembre 2016. Nell’ufficio non mancano mai targa e attestato, fra un cartiglio con la carica e la cornice all’“exequatur” (l’atto con cui si riconosce la funzione). Sulla scrivania la bandierina, e se ci sono ospiti è pronto l’album di fotografie: scatti di visite alle istituzioni, galà, strette di mano, selfie con i leader locali. “Console onorario della repubblica Centrafricana in Italia” mostra ad esempio su un invito dai bordi dorati Claudio De Giorgi, imprenditore in oro e diamanti che sul suo sito web personale, fra immagini di safari e cortei di notabili a Bangui, si definisce rappresentante d’onore del Paese africano per le province di Milano, Como e Sondrio, anche se dagli elenchi della Farnesina non risulta. Il titolo è incerto ma è sicura la condanna di aprile a sei anni e mezzo di carcere a Trento. Per un business che riguarda proprio quel riconoscimento di prestigio. Ambìto da molti, in Italia. Le capitali del mondo sembrano ansiose di avere i loro consolati onorari a Napoli o Milano, come a Forlì, Barletta o Pavia: in Italia ne sono registrati oggi 602. Un record europeo. Tanto che il cerimoniale della Farnesina commentava preoccupato la «proliferazione» di questi incarichi, «aumentati enormemente negli ultimi tempi» già in un rapporto di due anni fa. I consoli onorari non sono diplomatici di carriera, non timbrano il cartellino in ambasciata, ma ne godono l’ombra di prestigio e ricevono un nulla osta (in gergo “l’exequatur”) dal nostro ministero, che di solito ostentano con vanto. Sono imprenditori o dentisti, avvocati o consulenti, giornalisti o notai, che si fanno indicare quali “consoli” dall’estero per favorire gli scambi fra le comunità; sbrigano pratiche sui visti, danno una mano ai turisti, ai cittadini, promuovono le reti commerciali: «siamo presenze preziose», spiegano. In cambio ricevono il titolo e alcuni privilegi: dall’inviolabilità degli archivi (quindi della corrispondenza), all’immunità “nell’esercizio della funzione”, passando dalla comoda targa Cc del “corpo diplomatico” grazie alla quale possono parcheggiare ovunque in città. L’Italia è diventata insomma laboratorio internazionale dell’under-diplomazia onoraria: l’Angola, per dire, ha un console d’onore a Varese (provincia in cui risiedono in tutto solo 46 suoi emigrati), il Lesotho a Nuoro (nessun residente, sono 13 in “continente”), Panama ha tre sedi, di cui una a Civitavecchia, San Marino ne ha dieci sparse per la penisola. O ancora: a Firenze ci sono 57 consoli onorari in rappresentanza di molte parti del globo, fra cui Capo Verde e le Seychelles. “Come diventare console onorario” è diventata addirittura una ricerca trendy su Google.it. Una mania. A che pro? Il cerimoniale lo accennava in quel rapporto datato: bisogna accertarsi, spiegava, che «a tale carica assurgano sempre cittadini di specchiata onorabilità» affinché «il prestigio della funzione» non affondi e le immunità non vengano «strumentalizzate per finalità illecite». È un timore tutt’altro che infondato. Le cronache sui consoli onorari, oltre che di feste gossippare, ricevimenti paludati e banchetti vistosi, sono dense di ascese - e discese - velocissime dalle tinte legali in chiaroscuro. Basta guardare al sorriso di Claudio de Giorgi sulle foto dei suoi viaggi in Centrafrica. Ci andava fiero, De Giorgi, di quel titolo di console della piccola Repubblica: tale si firmava in calce alle mail o sul suo profilo Skype. Per il consolato aveva aperto anche un apposito “private bureau” vicino a Lugano, nella succursale della sua società di import/export di oro e diamanti, l’Adamasswiss. Per fare affari in Africa, si sa, servono uscieri di fiducia, e alle porte giuste. A De Giorgi non mancavano certo: è l’ex presidente in persona, François Bozizé, a firmare i decreti di concessione per l’Adamasswiss nella Repubblica centrafricana. Ed è sempre Bozizé, noto per avere venduto migliaia di documenti diplomatici a veri o presunti uomini d’affari, facendone quasi un business di Stato, a concedergli il rango di diplomatico che vanta. Quello che però De Giorgi, residente in provincia di Sondrio, ricorda meno volentieri, sono le multe in Svizzera per contrabbando di diamanti. E l’ultima condanna, la più grave: una sentenza a sei anni di carcere per truffa e associazione a delinquere in Italia, arrivata ad aprile. Al centro della vicenda c’è una (presunta) miniera di diamanti che si doveva trovare proprio nella Repubblica centrafricana: miniera su cui aveva convinto 159 piccoli risparmiatori a investire. Le pietre preziose però non esistevano affatto: e le vittime ci hanno rimesso oltre cinque milioni di euro, convinte da quello che sembrava un affare sicuro, viste le relazioni di rango vantate dagli intermediari. Oltre a De Giorgi, a rassicurarli c’era Giacomo Ridi, anche lui presunto console onorario della Repubblica centrafricana e consulente finanziario: era Ridi - poi morto suicida - a convocare liberi professionisti, dipendenti, giovani e pensionati negli hotel di Trento promettendo loro quella “miniera di soldi”, e diamanti. Che si è rivelata una promessa di fumo. La confusione fra diplomazia e business d’altronde affiora spesso nelle anticamere dei consolati d’onore. Eccola riemergere a Busto Arsizio, nel processo che vede imputato in questi mesi Fabrizio Iseni. Leghista di ferro, imprenditore della sanità, amico stretto della famiglia Bossi (fino ad essere soprannominato “il badante del Trota”), Iseni è indagato, fra l’altro, proprio per aver mescolato la sua carica di console onorario della Costa d’Avorio a quella di titolare della “Iseni consulting”, una società che in due anni ha ricevuto due milioni di euro da alcuni imprenditori della provincia di Varese. Alla procura di Busto non sono chiari i riscontri di quelle attività ben remunerate: i contratti hanno testi fotocopia, sostengono, le consulenze mancano d’esiti concreti. Di certo, il carteggio indicherebbe il motivo reale per cui quei soldi sbarcavano sui conti di Iseni: i suoi rapporti con il Paese africano, dove i piccoli industriali padani speravano di sbarcare con successo. Console-consulente: la sua attività “alta” di diplomatico si era sovrapposta insomma a quella commerciale. Un errore in cui cade, restando in terra verde padana, anche l’ex assessore comunale di Bergamo Marcello Moro, indagato per corruzione: stando alle testimonianze, Moro si era fatto pagare dagli imprenditori imputati con lui sia la sede sia la segretaria del consolato onorario del Ghana a Milano, di cui è stato titolare dal 2002 al 2009. Non solo: fra gli ultimi atti depositati a processo ci sono gli esisti delle rogatorie in Svizzera, i conti su cui transitava denaro. Chiamati Diplo1 e Diplo2. La rete capillare dei consoli d’onore in Italia conta altri casi limite fra il glamour e il nero. Come quello di Emanuele Cipriani, per esempio, “l’uomo dei dossier”, l’investigatore privato condannato nel caso Telecom insieme a Fabio Ghioni e Giuliano Tavaroli, ch’era console onorario della Repubblica di Guinea e che secondo i giudici spiava «avvalendosi anche delle immunità» proprie di quel ruolo. C’è Nicola Falconi, l’ex capo dell’Ente Gondola di Venezia accusato di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sul Mose, che portava in tasca il titolo di console onorario della Finlandia dal 1996. C’è Giovanni Fagioli, grande armatore emiliano, un giro d’affari da 300 milioni di euro, console onorario della Bulgaria a Parma, indicato per questo nei Panama Papers come “persona politicamente esposta”, beneficiario di una società alle Isole Vergini Britanniche. Ci sono persone comuni: dalla pr di grido che rappresenta la Danimarca a Milano al console dell’Ungheria a Bari che ha aperto il sito “dentistinbudapest.it” per le cure dentali low cost, al console del Nicaragua che aveva la sede in una discoteca a Livorno. E poi in storie come queste non può mancare il contorno delle principesse. Ne furono invitate a iosa per un matrimonio di cui parlarono i quotidiani, nel 2003. Quattro giorni di riti, di sfarzi, di scintillii e gonne lunghe, sgomitate per essere a quelle “nozze dei vip”, quel “matrimonio da favola”, con “molto lusso ma non ostentato” (costruirono apposta un villaggio nella giungla), fra gioiellieri, alta finanza, immobiliaristi e amici. L’unione era d’amore, scrivono le cronache, fra il genovese Fabio Ottonello e una delle figlie del presidente del Congo Brazzavile, Cendrine Sassou-Nguesso, erede di una famiglia che dirige quasi ininterrottamente il Paese dal 1979, tenendo in saldo controllo il business principale di quei confini: il petrolio. Lui, figlio di un uomo che commerciava con il Congo in caffè e cacao, dopo le nozze diventa testa d’affari eterogenei: compra navi, affitta aerei, offre servizi alla produzione petrolifera e gestisce locali e ristoranti a Point-Noire. Il suocero lo nomina console onorario del Congo a Genova. Poi la coppia divorzia. Ma a una Francesca Ottonello resta il consolato. D’onore.
Ecco chi ci rappresenta all'estero. Emigrati di successo, imprenditori. Ma anche affaristi equivoci, scrive il 7 settembre 2016 “L’Espresso”. Ad attirare interessi sotto-diplomatici non sono solo le cariche attribuite dagli stranieri a rappresentanti di prestigio in Italia. C’è anche - viceversa - il piccolo esercito di nostri concittadini che hanno sedi onorarie per il tricolore all’estero. Si tratta di persone che svolgono, anche in questo caso, il loro compito gratis, ad eccezione di alcuni rimborsi che nel 2015 sono costati al ministero degli Affari Esteri 798.396 euro. Roma conta nei Paesi stranieri 541 uffici onorari, di cui 401 operativi e 340 sostenuti in parte economicamente. Ci sono funzionari d’onore nelle terre d’emigrazione storiche di italiani in Sud America oppure nelle nuove “terre dei pensionati” caraibiche. Ci sono uomini d’affari, che favoriscono gli scambi in Africa. O emigrati di successo. Ma ci sono anche personaggi di potere, come Gianfranco Falcioni, petroliere e viceconsole onorario dell’Italia in Nigeria, a cui sarebbe riconducibile, secondo le indagini, il conto svizzero della società offshore “Petro Service” su cui atterrò nel 2011 il miliardo e 92 milioni di euro versati dall’Eni al governo di Abuja. Intervistato dal “Sole 24 Ore”, Falcioni rispose soltanto che quella offshore «non ha mai operato». Gli intrecci complessi fra diplomazia e affari non trasparenti nei consolati africani sono stati raccontati magistralmente in un documentario del 2011 del giornalista danese Mads Brügger, candidato al Sundance. Fintosi uomo d’affari interessato al titolo di console onorario della Liberia, per sfruttare una miniera di diamanti, Brügger incontra diversi “colleghi”, che gli danno consigli importanti, come: «non toccar le donne, il resto è permesso». È uno dei suggerimenti di Gino Pierre Giuliani, ex rappresentante d’onore dell’Italia a Bangui, che, filmato a sua insaputa, aiuta il giornalista nel suo affare opaco. Ora il ruolo è passato a “Stephane Giuliani” che ha mantenuto la sede del consolato allo stesso indirizzo dell’uomo che vantava d’essere «il più antico membro consolare a Bangui» nel docu-film.
OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.
Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere, scrive Roberto Paciucci su “Fino a Prova Contraria” il 18 giugno 2016. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero. Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare.
La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.
La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.
La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.
Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.
Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).
All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:
Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;
Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;
Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;
Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;
Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;
Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;
Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;
Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;
Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;
Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;
L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.
Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”. È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea.
La colpa è sempre degli altri. Se i pm hanno deciso per la condanna, perché svolgere i processi: pena immediata in carcere, senza difesa, e buttiamo via la chiave. "I processi durano un'infinità perché ce ne sono troppi. Nella mia esperienza di 38 anni di servizio fin da subito sono stato contrario a questo codice di procedura penale perché irragionevole. Già nel 1988 sollevavo le mie perplessità sulla durata dei processi". Così Piercamillo Davigo, consigliere della Corte di Cassazione e presidente dell'Associazione nazionale magistrati, interviene alla giornata di studio promossa a Roma da Unitelma Sapienza il 17 giugno 2016. "Mi si rispondeva allora che si sarebbero fatti i riti alternativi. Ma in questo paese se uno chiede un patteggiamento, invece di aspettare un indulto o una amnistia, ci si chiede se ci sia un problema di mente. In Usa - ha ricordato - il 90% degli imputati si dichiara colpevole. Vuol dire che lì il processo è avvertito come qualcosa di serio e la condanna come inesorabile. Da noi le aule di giustizia assomigliano a un suk arabo, mentre nel processo anglosassone c'è un religioso silenzio. Tra prescrizione, abolitio criminis, e vicende assortite si ha sempre la speranza di non scontare la pena. Continuiamo ad avere un numero sterminato di processi con il risultato che il processo non può avere l'immediatezza. Scriveranno che Davigo dice che l'oralità segna il ritorno al neolitico. Sì lo dico. In larga parte il nostro processo è già diventato scritto. La prova orale è la più debole, in anni di lavoro mi sono convinto che la parte più pericolosa è la prova fornita dai testimoni oculari. E' la prova debole, quindi il processo è basato su prove scritte, come le intercettazioni telefoniche che sono peraltro trascritte".
E se poi si arriva a sentenza, nonostante, anche, per il lassismo di certi magistrati? Il vice presidente del Csm, Giovanni Legnini che incontrando i giornalisti a Napoli il 17 giugno 2017 dopo un incontro con i responsabili degli uffici giudiziari sulla carenza di personale amministrativo, ha detto che "nel Distretto di Napoli restano ineseguite attualmente 50mila sentenze definitive, 30mila delle quali di condanna e 20mila di assoluzione". “Dodicimila delle 50mila sentenze definitive non eseguite - hanno precisato fonti del Csm - riguardano persone da arrestare.” “Ai provvedimenti restrittivi si uniscono - ha sottolineato il procuratore generale di Napoli Luigi Riello - i mancati sequestri di beni.”
E se finisci giudicato da uno così? Un danno per la magistratura, scrive Piero Sansonetti il 22 aprile 2016 su “Il Dubbio”. L'intervista rilasciata da Piercamillo Davigo al “Corriere della Sera” apre due problemi. Uno molto pratico e l’altro di tipo ideale. Il problema pratico è questo: se a un cittadino qualunque capita - e capiterà - di aspettare una sentenza della Corte di Cassazione che deve essere emessa da una sezione della quale fa parte Piercamillo Davigo, come si sentirà questo povero cittadino? Potrà ricusare Davigo, o invece dovrà accettare di essere giudicato da un magistrato il quale afferma e ribadisce che “non esistono innocenti, esistono solo colpevoli non ancora scoperti”? E se per caso questo cittadino fosse uno che fa o ha fatto politica, come si sentirà a farsi giudicare da un magistrato il quale sostiene che i politici - tout court - rubano? Non è un problema “virtuale” è un problema concretissimo. E porta con se un secondo problema: è evidente che Davigo non rappresenta tutta la magistratura italiana, e che anzi la maggior parte dei magistrati hanno idee ed esprimono posizioni del tutto diverse e non in contrasto con la Costituzione Repubblicana, come sono le idee di Davigo. Però è pur vero che Davigo è stato di recente eletto a capo dell’associazione nazionale magistrati, e questo può farci immaginare che esista comunque un numero significativo di magistrati che la pensano come lui. Qualunque cittadino che dovesse finire sotto processo è autorizzato a temere che il magistrato che lo giudicherà la pensi come Davigo. Vedete, il danno che il presidente dell’Anm ha creato alla giustizia italiana con questa intervista è grande. Perché finisce col minare la credibilità non tanto di un singolo giudice, ma di tutta l’istituzione. Del resto che questo pericolo sia molto serio lo ha immediatamente avvertito il dottor Luca Palamara, che oggi fa parte del Csm e qualche anno fa ricoprì l’incarico di presidente dell’Anm. Palamara ieri mattina, appena letta la pagina del Corriere, è immediatamente intervenuto per tentare di limitare i danni. Ha fatto benissimo. Ma l’impresa è complicata, perché ormai l’intervista è stampata. E lo sfregio che ha recato all’immagine della magistratura e di tanti valorosi magistrati è irreversibile. Il secondo problema è quello dei rapporti tra giustizia e politica. Davigo non è certo uno sprovveduto. E’ un giurista molto colto, ha studiato, è sapiente. Il suo unico difetto è quello di avere una visione della giustizia e del diritto un po’ precedente all’esplosione, in Europa - nel settecento - dell’illuminismo. E dunque di essere, nelle sue idee, molto lontano dalla Costituzione Repubblicana (dal suo spirito e dalla sua lettera). La domanda è questa: se i rapporti tra politica e giustizia sono nelle mani di un leader dei magistrati che ha le idee di Davigo, come si può pensare che questi rapporti si risolvano in qualcosa diversa da una guerra? Mi pare che questa prospettiva sia temuta anche dal dottor Palamara, ma non credo che possa essere cambiata se non scendono in campo quei pezzi di magistratura, moderni e filo-Costituzione, che ci sono, sono molto grandi, ma anche, francamente, piuttosto silenziosi.
Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Il garante dei detenuti: ridurre le misure di custodia cautelare. Gli avvocati: separare le carriere di giudici e pubblici ministeri. 630 milioni. La cifra pagata dal 1992 dal ministero del Tesoro per indennizzi da ingiusta detenzione. L’anno scorso sono stati 36 milioni, scrive il 24 aprile 2016 Andrea Malaguti su “La Stampa”. «Credevano che fossi il Padrino e non un uomo perbene. Così in attesa dei processi ho fatto 23 giorni di galera e un anno e mezzo ai domiciliari. Dopo di che mi hanno assolto con formula piena in primo grado, in appello e in cassazione. Eppure non è finita». Secondo la Procura di Palermo, Francesco Lena, ottantenne imprenditore di San Giuseppe Jato, titolare dello spettacolare relais Abbazia di Sant’Anastasia nel parco delle Madonie, era un prestanome di Bernardo Provenzano. Così cinque anni e mezzo fa, all’alba, le forze dell’ordine hanno bussato alla sua porta: «Venga con noi». «È per il permesso di soggiorno del ragazzo che sto assumendo?». «No, mafia». La moglie è sbiancata, lui si è sentito mancare e il suo mondo è andato in pezzi. Che cosa è successo da quel momento in avanti? «Mi hanno massacrato, trattandomi come il colletto bianco della cosca dell’Uditore e io l’Uditore non so neanche dove sia». Gogna mediatica e custodia cautelare in attesa di tre gradi di giudizio che avrebbero stabilito la sua innocenza, un destino paradossalmente non insolito. «Ogni anno settemila italiani vengono incarcerati o costretti ai domiciliari e poi assolti. Una parte di questi si rivale contro lo Stato, che mediamente riconosce l’indennizzo a una vittima su quattro», spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’associazione nazionale vittime degli errori giudiziari «Articolo643». Lo Stato sbaglia, dunque. E sbaglia tanto. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. E se la politica - come ha fatto il presidente del Consiglio Matteo Renzi - non rilanciasse il tema ambiguo dei «25 anni di barbarie giustizialiste» (parla alle procure, ai media, ai suoi colleghi o a tutti e tre?) e la magistratura non sostenesse - come ha fatto il presidente dell’Anm Piercamillo Davigo - che «la presunzione di innocenza è un fatto interno al processo e non c’entra nulla con i rapporti sociali e politici» e che «i politici rubano più di prima solo che adesso non si vergognano più», sarebbe più facile capire se questi numeri siano la fotografia di una debolezza fisiologica del sistema o una sua imperdonabile patologia. Ma perché Francesco Lena sostiene che la sua vita è ancora sospesa? L’imprenditore siciliano precipita in fondo al suo pozzo giudiziario perché un gruppo di mafiosi parla di lui al telefono - «Di me e mai “con” me», chiarisce - ma nei suoi confronti non c’è nient’altro, perciò i processi finiscono in nulla. Eppure la sua proprietà viene sequestrata nel 2011 dalla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo guidata dall’ormai ex presidente Silvana Saguto, accusata oggi di corruzione e sospesa dalle funzioni e dallo stipendio. Il sequestro avviene pochi mesi prima che la Cassazione scagioni Lena in via definitiva. A danno si aggiunge danno. «Della magistratura ho una altissima stima. Ci sono persone di grande valore, ma anche uomini e donne capaci di distruggere una comunità o una persona. Io vivo di fianco all’Abbazia e quando vedo come l’hanno trattata mi si crepa il cuore. Su 60 ettari di vigne, 30 sono stati abbandonati. Non l’hanno ancora distrutta, ma prima era un’altra cosa. Sono vittima dell’antimafia e delle gelosie, però resisto, pensando che a Enzo Tortora è andata peggio di così», spiega Lena e dal fondo della gola gli esce un suono a metà tra il sospiro e il gemito. Il 26 di maggio una sentenza dovrebbe restituirgli ciò che è suo. Nel caso di Lena è possibile dire che le misure cautelari non abbiano inciso sulla sua vita sociale? E allo stesso tempo è possibile non pensare che nelle regioni in cui comanda la criminalità organizzata il lavoro dei magistrati sia più duro e complesso e il rischio di errore più alto? Come l’avvocato Magno, anche l’avvocato Beniamino Migliucci, presidente dell’Unione delle Camere penali, è convinto non solo che i magistrati facciano un ricorso eccessivo alla custodia cautelare, ma anche che il problema resterà irrisolto fino a quando non saranno previste la separazione delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la rinuncia alla obbligatorietà dell’azione penale, «correttivi che esistono in ogni Paese regolato dal sistema accusatorio, ma in Italia no». Per questo Migliucci, sostenuto dal suo ordine, ha pronta una raccolta di firme per presentare una legge di iniziativa popolare in ottobre. «Bisognerebbe ricordarsi della presunzione di innocenza, che non è un fatto interno al processo come ritiene Davigo e dunque l’associazione nazionale magistrati. Volere sostenere tale idea significa prescindere da un precetto oggettivo ripreso dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, per introdurre valutazioni etiche e moralistiche che sono proprie di logiche autoritarie». È evidente che siamo alla vigilia di un nuovo scontro frontale. Eppure un punto di equilibrio tra la posizione di Migliucci e quella dell’Anm, che propone operazioni sotto copertura con poliziotti che offrono denaro a politici ed amministratori pubblici per vedere come reagiscono al tentativo di corruzione o l’introduzione di una norma che aumenti automaticamente la pena a chi ricorre in Appello e perde, presumibilmente esiste. «La separazione delle carriere, che non mi scandalizzerebbe, di fatto già esiste. Ma ritenere che le mie sentenze possano essere condizionate dal fatto che prendo il caffè con un pm è ridicolo. Io decido solo secondo scienza e coscienza, come ho fatto nel caso della Commissione Grandi Rischi, quando, qui a L’Aquila, ho mandato assolti sei scienziati che in primo grado erano stati condannati per omicidio colposo e lesioni. Sentenza, la mia, confermata dalla Cassazione». Fabrizia Francabandera è la presidente della sezione penale della Corte d’Appello dell’Aquila, tribunale che lo scorso anno ha indennizzato 44 persone per ingiusta detenzione. È una donna pratica, figlia di un magistrato, che considera il ricorso alla custodia cautelare la risorsa estrema a disposizione dei giudici. «Io penso che meno si arresta e meglio è. Alcuni colleghi usano malamente la custodia cautelare, non come se fosse una misura specifica, ma come una misura di prevenzione generale. Anche perché, in Italia, per i reati sotto i quattro anni non va in galera nessuno». Lo sbilanciamento del sistema è tale per cui si rischia di restare in carcere prima del processo e di non andarci dopo in presenza di una condanna. «Ma anche sulla ingiusta detenzione non bisogna immaginare errori macroscopici. Il dolo non esiste quasi mai e la colpa grave è rara. Il sistema complessivamente funziona, ma ha delle lacune, in un senso e nell’altro». In questi giorni a Francabandera è capitato di indennizzare un uomo arrestato in una discoteca con un sacchetto pieno di palline di ecstasy. Che fosse uno spacciatore era fuori discussione. Eppure, a una analisi successiva, è risultato che le palline non erano ecstasy ma zucchero. Questo perché lo spacciatore era stato truffato. Morale: rispedito a casa e indennizzato per ingiusta detenzione. «Naturalmente gli ho liquidato una cifra bassa, perché con il suo comportamento aveva causato il comportamento degli inquirenti». Il complicato e infinito balletto tra guardie e ladri, che non riguarda solo noi, ma l’Europa. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture, è appena tornato da Strasburgo dove si è confrontato con colleghi olandesi, inglesi, bulgari e francesi. «La Gran Bretagna non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro». Anche i numeri sono simili? «Non molto differenti. Per questo penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare». Niente barbarie giustizialista come dice il premier, quindi? «Se dietro queste parole c’è l’idea che la politica ha delegato troppo alla magistratura, come è successo per esempio di recente con le stepchild adoption, sono completamente d’accordo. Se intendeva dire, e non penso, che esiste un disegno delle Procure e dei magistrati, allora è una stupidaggine». Barbarie magari no, ma incomprensibile accanimento qualche volta sì. È il caso di Antonio Lattanzi, ex assessore di Martinsicuro, in provincia di Teramo, arrestato quattro volte nel giro di quattro mesi con l’accusa di tentata concussione e abuso di ufficio a seguito della chiamata in correità di un architetto che lo stesso Lattanzi aveva denunciato qualche anno prima. La Procura si intestardisce in un dinamismo irritante caratterizzato dall’incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal proprio. «Sono stato assolto in ogni grado di giudizio con formula piena. Ma ho fatto 83 giorni di prigione. Non ho capito perché abbiano usato questa durezza nei miei confronti. Dopo il primo arresto i miei avvocati hanno impugnato il provvedimento e sono stato rimandato a casa. Ma passati pochi giorni i carabinieri sono tornati a prendermi. Stavolta davanti ai miei figli. In carcere l’idea del suicidio mi ha accompagnato ogni giorno e se non fosse stato per mia moglie non so che cosa sarebbe successo. Comunque abbiamo impugnato anche il secondo provvedimento e anche questa volta mi hanno rimandato a casa». Quando sono andati a prenderlo per la terza volta racconta di avere avuto l’impressione che l’anima avesse lasciato il corpo strappato. Anche il terzo provvedimento è stato impugnato, ma il giorno prima che il tribunale per il riesame lo annullasse il giudice per le indagini preliminari ne ha emesso un quarto. «Una follia. Ma ho combattuto e vinto». Ha anche ricevuto un indennizzo, che non è bastato a pagare la metà delle spese legate al processo. «Non importa. Volevo che la mia innocenza fosse riconosciuta a tutto tondo. La prima notte in carcere è un disastro. Io però dormivo con i pantaloni e con la maglietta. Mai con il pigiama. Era il modo per dirmi: non mi piegherò mai a questo stato di cose, sono un uomo libero». Ogni anno in Italia ci sono 7000 casi Lattanzi - «tutti fratelli che vorrei abbracciare» - fisiologia o patologia del sistema giudiziario?
Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 5 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.
«Quattro volte in carcere in tre mesi, ma ero innocente». Ha ottenuto 55 mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. La sua vicenda è diventata un docufilm, presentato oggi al Doc Fest di Pesaro, scrive Franco Insardà il 23 giugno 2016 su "Il Dubbio". Il suo incubo ora è sul grande schermo. “Non voltarti indietro”, docufilm di Alessandro Del Grosso, racconta cinque gravi errori giudiziari tra i quali quello subito da Antonio Lattanzi: è finalista del Pesaro Doc Fest – Hai Visto Mai?, concorso internazionale di documentari provenienti da tutto il mondo su temi sociali, con la direzione artistica di Luca Zingaretti, che inizia oggi. A dispetto del titolo, Antonio Lattanzi, però, si volta indietro e rilegge tutta la sua storia con lucidità e amarezza. Una delle cose che lo hanno colpito di più è la frase pronunciata dall’avvocato dello Stato nel processo in Corte d’Appello, nel quale si discuteva della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione: «È vero, ci sono stati degli errori, ma il fatto di non essere stato condannato ha riparato a questi errori». Antonio Lattanzi proprio non riesce a mandare giù queste parole e sbotta: «È assurdo. Sono stato arrestato quattro volte, sono stato in cella 83 giorni e per dieci anni sono stato imputato. Finalmente vengo assolto, chiedo il risarcimento e mi sento dire che l’assoluzione mi dovrebbe ripagare per questo calvario». È un fiume in piena quando racconta la sua incredibile vicenda. Ricorda perfettamente date, processi, pm, gip e giudici che lo hanno accompagnato per dieci anni.
Un incubo iniziato quando?
«Il 21 gennaio del 2002. Alle quattro di mattina i carabinieri sono venuti a casa e mi hanno notificato il mandato di arresto. Sono caduto dalle nuvole. All’epoca avevo due figli di 4 e 2 anni ed essere portato via sotto i loro occhi è stato bruttissimo. Non riuscivo a guardarli in faccia, mi sentivo addosso il loro sguardo indagatore e quello di mia moglie. Era incredula, non riusciva a capire quello che stava succedendo».
Di che cosa era accusato e da chi?
«Di concorso in tentata concussione e abuso di ufficio. All’epoca ero assessore ai Lavori pubblici del comune di Martinsicuro. Il tutto era partito dalle dichiarazioni di Pierluigi Lunghi, l’architetto responsabile del settore tecnico del comune, arrestato in flagranza di reato nel luglio del 2001. Raccontò di aver chiesto dei soldi ad alcuni imprenditori, e, a un certo punto, mi tirò in ballo dicendo che il tramite sarei stato io. Lunghi nel 1996 fu indagato, dopo una mia denuncia, per un reato di falso in atto pubblico e condannato a 14 mesi. Fu arrestato in flagranza di reato il 26 luglio 2001 e di nuovo il 22 agosto 2001».
Come si conclusero le indagini?
«Il pm, Bruno Auriemma, chiese l’archiviazione, ma poi Elena Tomassini, alla quale era passato il fascicolo del primo procedimento, chiese l’emissione dell’ordinanza di arresto al gip Giovanni Cirillo. E così quel 21 gennaio si aprirono per me le porte del carcere di Teramo».
Quanti giorni ci rimase?
«Ventidue giorni, perché il Tribunale del Riesame annullò l’ordinanza di custodia cautelare, ritenendo che non vi fossero i gravi indizi di colpevolezza e non ricorressero le esigenze cautelari. E così il 12 febbraio potei tornare a riabbracciare i miei figli».
A quel punto pensò che l’incubo fosse finito?
«Sì. Ma quella sensazione durò pochissimo: solo otto giorni. Il 20 febbraio i carabinieri vennero di nuovo per portarmi in carcere. L’accusa era la stessa, stavolta per un nuovo episodio di tentata concussione. Un altro pm Domenico Castellani chiese sempre allo stesso gip Cirillo una nuova ordinanza di arresto. Anche questa volta il Tribunale del Riesame, l’11 marzo, annullò l’ordinanza di custodia cautelare».
Di nuovo libero.
«Questa volta solo per tre giorni. Era il 14 marzo 2002. L’accusa, tanto per cambiare, era di tentata concussione in concorso con l’architetto Lunghi. Il Tribunale del Riesame, il 29 marzo 2002, annullò l’ennesima misura cautelare».
Finalmente libero.
«Non mi hanno neanche fatto uscire dal carcere di Teramo. Il giorno prima, il 28 marzo, mi hanno notificato una nuova ordinanza di custodia cautelare per un quarto tentativo di concussione. Stesso pm e stesso gip. E, tanto per cambiare il Tribunale del Riesame ordinò la scarcerazione. Era il 22 aprile del 2002».
Quale spiegazione si dà per questo accanimento?
«Penso che alcuni magistrati non vogliano ammettere di aver sbagliato in una valutazione e cercano ossessivamente gli elementi per sostenere la loro tesi accusatoria. Nella mia vicenda c’è stato il combinato disposto tra il mio accusatore, che voleva vendicarsi, e i magistrati che gli hanno creduto e sono voluti andare caparbiamente avanti, senza valutare serenamente i fatti. Se lo avessero fatto non sarei stato arrestato quattro volte, non avrei fatto 83 giorni di carcere e i processi».
Infatti nel 2003 sono iniziati i processi.
«Il 14 gennaio del 2006 sono stato assolto in primo grado, ma il pm fece ricorso per Cassazione, perché all’epoca era in vigore la “legge Pecorella”. Nel 2012 il procuratore generale nel processo di Appello all’Aquila chiese di non procedere per sopravvenuta prescrizione. Ma io e i miei legali chiedemmo di procedere. Volevo avere una sentenza. Eravamo sicuri e abbiamo avuto ragione. Sono stato pienamente assolto».
Quando è entrato per la prima volta in carcere che cosa ha pensato?
«Sono cresciuto con un insegnamento chiaro: se non si fa nulla non bisogna avere paura. Purtroppo oggi devo dire che non è vero. Sono stato sbattuto in carcere senza che avessi fatto niente. Quando sono stato arrestato è stato disposto il divieto di incontrare gli avvocati prima dell’interrogatorio di garanzia. Sono passati otto giorni prima che mi facessero vedere mia moglie. Neanche fossi il peggiore assassino».
Parliamo di sua moglie.
«È una donna straordinaria. Senza di lei non sarei riuscito a venire fuori da questo incubo. Mi è stata vicina sin dal primo momento, mi ha sostenuto sempre. A ogni arresto e a ogni scarcerazione. Quel 22 aprile 2002, il giorno della mia libertà, le chiesi di venire con il nostro fuoristrada perché dalla finestrella della cella potevo intravederne il tettuccio, e quindi quella mattina sono stato a guardare fuori. Sembravo un leone in gabbia, ma mi calmai solo quando vidi spuntare la macchina».
Prima raccontava dello sguardo dei suoi figli quando sono venuti ad arrestarlo. E poi?
«All’epoca avevo due figli, di 4 e 2 anni, che grazie a mia moglie sono cresciuti tranquilli. La più grande ha un carattere forte. Durante la carcerazione con mia moglie decidemmo che ci saremmo fatti un regalo: un altro figlio. Nel 2005 è nata Francesca. La nostra famiglia oggi è ancora più unita. Io volevo cambiare paese, ma mia moglie mi ha convinto a rimanere».
E i suoi amici?
«Martinsicuro si è diviso. I veri amici hanno creduto in me e mi sono stati ancora più vicini, altri mi hanno deluso e si sono allontanati. Va bene così».
Chi è Antonio Lattanzi?
«Sono un ottico professionista, ho 55 anni, sono nato a Giulianova e vivo con la mia famiglia a Martinsicuro, in provincia di Teramo, e sin da ragazzo ho sempre voluto impegnarmi in politica. Nel 1993 sono stato eletto consigliere comunale ed ero all’opposizione. Nel 1997 sono stato rieletto e nominato assessore ai Lavori pubblici. Poi quel 21 gennaio 2002…»
L’assessorato ai Lavori pubblici è una poltrona che scotta. Che cosa ha realizzato?
«Su tutto l’avvio dei lavori per la sistemazione del lungomare e la realizzazione del porticciolo. Opere ferme da quel 2002. Quella poltrona per me non scottava, forse ho dato fastidio a qualcuno che si è voluto vendicare».
Dopo questa esperienza ha chiuso con la politica?
«Assolutamente no. Mi chiedono di candidarmi a sindaco. I cittadini di Martinsicuro vogliono che metta a disposizione del paese la mia esperienza amministrativa e la mia determinazione. Questa vicenda mi ha rafforzato».
Come sono stati questi 83 giorni in cella?
«Sono stato trattato bene dai miei compagni di sventura e dagli agenti penitenziari. Ho visto da vicino un mondo che non immaginavo e un sistema che va senza alcun dubbio migliorato, nel rispetto del dettato costituzionale».
È stato risarcito per quella detenzione?
«Risarcito è una parola grossa. Mi sono stati riconosciuti 55mila euro, ma tenga presente che ho speso circa 200mila euro per difendermi. Senza contare tutto quello che è significata questa storia dal punto di vista psicologico per me e per la mia famiglia. Ora sento di dover davvero chiudere il capitolo. Senza voltarmi indietro».
Pelaggi, l’avvocato innocente scagionato solo dopo tre anni. La Procura della Cassazione avvia un’indagine disciplinare sui magistrati. Luigi Pelaggi, una carriera brillante prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, scrive Paolo Colonnello l'11 giugno 2016 su "La Stampa”. Ci sono voluti tre anni, 32 mila pagine da leggere, cinque mesi di prigione, un figlio piccolo da ingannare («Dov’è papà?» «All’estero…») e una moglie da consolare, prima che un tribunale, questa volta di Roma, iniziasse a rendere giustizia a Luigi Pelaggi, avvocato granitico, una carriera brillantissima prima in Confindustria e poi come capo della segreteria tecnica del Ministero dell’Ambiente con Stefania Prestigiacomo, stroncata una fredda mattina del gennaio 2014 da un ordine di cattura richiesto dalla Procura di Milano per un’accusa di corruzione rivelatasi completamente inesistente. E i cui estremi d’insussistenza erano già contenuti nelle stesse carte dell’inchiesta, un gigantesco faldone composto appunto da 32 mila pagine, all’interno del quale campeggiava una relazione della Guardia di finanza di “appena” 800 pagine dove era chiarissimo che i 700 mila euro di corruzione di cui veniva accusato Pelaggi non erano mai finiti a lui ma erano semplicemente il frutto di una manovra finanziaria infragruppo tra privati. Pelaggi aveva avuto la disgrazia di finire in un’intercettazione nella quale il suo nome veniva incautamente accostato ad una cifra: «700». Ora la Procura generale della Cassazione sul caso ha aperto un procedimento. Si vuole capire come mai, pur agli atti, la relazione della Gdf che proscioglieva Pelaggi, non sia mai stata presa in considerazione dai magistrati e dai giudici che si sono succeduti nella trattazione del caso: dai 4 pm milanesi che hanno svolto l’inchiesta, ovvero l’allora aggiunto Robledo e i sostituti Basiloni, Filippini e Pirrotta, ai gip che hanno emesso il provvedimento restrittivo e lo hanno convalidato (respingendo ben tre richieste di scarcerazione) ai giudici del tribunale del Riesame. Eppure al pm romano Paolo Ielo, che alla fine lo ha prosciolto chiedendone l’archiviazione confermata un anno fa dal gip, non c’è voluto molto: gli è bastato ascoltare le ragioni di questo avvocato, leggere la relazione che gli veniva segnalata e procedere. Avrebbero potuto fare così anche i pm di Milano ai quali Pelaggi, prima di essere arrestato, aveva chiesto (inutilmente) per ben 5 volte di essere ascoltato. In tutto sono 9 i magistrati che hanno ritenuto evidentemente più pregnante una intercettazione nella quale i responsabili di una società incaricata della bonifica del sito a Pioltello dell’ex area Sisas, la Daneco, parlavano di 700 mila euro e poi di Pelaggi: «I 700 poi sai dove vanno?». «Lo so, lo so…questo commissario è fantastico». Chiacchierata suggestiva ma, si è poi dimostrato, priva di sostanza, dato che i “700” cui facevano riferimento non erano affatto destinati a Pelaggi. Ma chi è Pelaggi? L’avvocato venne nominato Commissario Straordinario del sito di Pioltello con l’incarico di portare a termine la bonifica di un’area di oltre 300 mila metri quadri, con la rimozione e lo smaltimento di 300 mila tonnellate di rifiuti speciali, sospesa dopo l’arresto di uno dei vincitori dell’appalto originario (Giuseppe Grossi). Un’operazione che il Commissario portò a termine in un anno (maggio 2010-giugno 2011) riuscendo così ad ottenere l’archiviazione della condanna dello Stato italiano da parte della commissione europea ad una molta per oltre 670 milioni di euro. Vicenda per la quale, paradosso nel paradosso, ora Pelaggi è accusato di truffa nei confronti dello Stato. Ma il legale si sente sicuro e tranquillo di poter dimostrare anche questa assurdità. Intanto ha perso 5 mesi di vita, si è visto rovinare una notevole carriera e ha avuto seri problemi famigliari. Ora sarebbe bello che qualcuno gli restituisse un po’ di giustizia.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
Mini trattato del dr Antonio Giangrande, scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Le accuse di Renzi ai magistrati lucani. Il premier alla direzione Pd del 4 aprile 2016: «Non arrivano mai a sentenza. Se è reato sbloccare le opere lo sto commettendo. Vedo che i giornalisti dicono che ho attaccato la magistratura. Ma non li sto attaccando, dico solo che non ci vogliono otto anni per andare a sentenza. Se è reato sbloccare le opere pubbliche, io sono quello che sta commettendo reato. Ma se si decide che un’opera va fatta nel 1989, c’era ancora il muro di Berlino, 27 anni dopo, lo scandalo non è che l’emendamento venga approvato ma che si siano buttate delle occasioni». E ancora: «Io chiedo alla magistratura non solo di indagare ma di arrivare a sentenza: perché ci sono state indagini sul petrolio in Basilicata con la stessa cadenza delle Olimpiadi, 2000-2004-2008, ci sono stati anche arrestati, ma non si è giunto mai a sentenza». All'indomani delle parole del Presidente del Consiglio Matteo Renzi arriva, dura, la replica del presidente della sezione della Basilicata dell'Associazione nazionale magistrati (Anm), Salvatore Colella: «Le dichiarazioni di Renzi sono inopportune nei tempi ed inconsistenti nei fatti. Inopportune perché arrivano in un momento molto delicato dell'inchiesta, con un intervento “a gamba tesa” e le sue insinuazioni sono quantomeno viziate da un interesse di parte, inconsistenti perché smentite, solo poche ore dopo, da un pesante verdetto di condanna contro i vertici della Total nel processo “Totalgate” (dopo 8 anni, con inchiesta nata nel 2008 per mani di Woodcock). Se è vero che in un paese civile, come dice il Presidente Renzi, “i processi arrivano a sentenza”, e noi abbiamo dimostrato di saperlo fare - ha continuato l'Anm lucana - è anche vero che in un Paese civile “il governo rispetta i lavoro dei magistrati”, sempre, anche quando toccano la propria parte politica. Ci saremmo aspettati la stessa intransigenza e fermezza di condanna annunciata dal Presidente in occasione di altre inchieste di rilievo nazionale». Renzi sceglie Facebook per rispondere alle critiche sulle sue affermazioni sulla Procura di Potenza: «Oggi leggo che Renzi accusa i magistrati, noi stiamo incoraggiando i magistrati a fare il più veloce possibile. Non accuso i magistrati, accuso un sistema che non funziona, voglio mettere in galera i ladri, per questo incalzo i magistrati perché siano veloci», ha detto Matteo Renzi in diretta da Palazzo Chigi utilizzando Facebook Mentions.
Ma a prescindere dalla diatriba farsesca, tra parti che si coprono a vicenda, parliamo dei danni inflitti alla comunità dalle lungaggini processuali ed a cui nessuno vuol porre rimedio per non inimicarsi “le sacre toghe”.
Per porre rimedio alle condanne inflitte dalla CEDU il legislatore italiano ha inventato la Legge Pinto, ossia la legge che, man mano annacquata da riforme restrittive, è a tutti gli effetti una legge truffa.
Chi è stato coinvolto in un processo – civile, penale, amministrativo, pensionistico, militare, in una procedura fallimentare o concorsuale ovvero, a certe condizioni, tributario, ecc. – per un periodo di tempo considerato «irragionevole», cioè troppo lungo, può richiedere, in base alle disposizioni della legge 24 marzo 2001, n. 89, meglio conosciuta come “legge Pinto”, una equa riparazione, cioè un risarcimento del danno allo Stato italiano, nella misura determinata dalla legge stessa in ragione degli anni o frazione eccedenti la durata ragionevole.
Secondo l’art. 2-bis, si considera rispettato il termine ragionevole per la durata del giudizio «se il processo non eccede la durata di tre anni in primo grado, di due anni in secondo grado, di un anno nel giudizio di legittimità».
La legge Pinto è stata modificata col D.L.8 aprile 2013, n. 35, convertito con modificazioni nella L. 6 giugno 2013, n. 64 e col D.L. 22 giugno 2012, n. 83, con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134. È stata poi modificata dalla legge di stabilità 2016. L’ammontare effettivo del risarcimento concesso dipende dalla materia del procedimento e dalla sede territoriale della Corte: di solito vengono liquidati risarcimenti più alti per questioni in materia di famiglia o status della persona, per procedimenti penali o pensionistici, meno per altre questioni; inoltre le corti d’appello che si trovano al Nord sono, solitamente, più di manica larga rispetto a quelle del meridione, parallelamente alla differenza del costo della vita, almeno tendenzialmente. In materia, valgono inoltre le regole poste dall’art. 2 bis della legge Pinto. Il risarcimento può essere chiesto anche se il giudizio è terminato con una transazione e cioè mediante un accordo tra le parti (Cass. 8716/06, Cass. 11.03.05 n. 5398). Il risarcimento va chiesto con ricorso alla Corte d’Appello territorialmente competente e viene deciso dalla corte con un decreto che poi va notificato al ministero, con una procedura simile a quella prevista per l’ingiunzione di pagamento.
La legge 24 marzo 2001, n. 89 - nota come legge Pinto - (dal nome del suo estensore, Michele Pinto) è una legge della Repubblica Italiana. Essa prevede e disciplina il diritto di richiedere un'equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subìto per l'irragionevole durata di un processo. La norma nacque come ricorso straordinario in appello qualora un procedimento giudiziario ecceda i termine di durata ragionevole di un processo secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU), in base all'art. 13 della Convenzione che prevede il diritto ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. In tal modo, si introduce un nuovo ricorso interno, che i ricorrenti devono avviare prima di rivolgersi alla Corte di Strasburgo. Tuttavia le Corti d'Appello inizialmente non hanno applicato i parametri della CEDU per la definizione dell'irragionevole durata del processo, ma hanno chiesto ai ricorrenti la dimostrazione dell'aver subito un danno (cosa che, secondo l'art.6 CEDU, è incluso nel fatto stesso). Tali casi sono stati quindi ri-appellati alla Corte CEDU di Strasburgo per scorretta applicazione della Legge Pinto. Nel 2004 la Corte di Cassazione ha stabilito che i giudici nazionali devono applicare i criteri di Strasburgo nel decidere in casi relativi alla legge Pinto, senza poter richiedere la prova del danno subito dal ricorrente. La sentenza Brusco della CEDU ha infine statuito che tutti i casi pendenti a Strasburgo dal 2001 (sui quali non sia ancora stato dato un giudizio di ricevibilità da parte della Corte) debbano tornare in Italia per l'appello interno secondo la legge Pinto. La sentenza Brusco è stata criticata per gli alti costi processuali presenti nella procedura interna italiana, ed inesistenti a Strasburgo. L'art. 55 del Dl. 22 giugno 2012 n. 83, contenente "misure urgenti per la crescita del paese" (c.d. decreto sviluppo del governo Monti), ha apportato importanti modifiche alla legge, volte a porre un freno alle richieste di risarcimento. Infatti, la riforma introdotta dal c.d. DL Sviluppo 2012 è stato profondamente mutato il procedimento delineato dalla Legge Pinto per permettere un più agevole ed efficace accesso al giudizio di equa riparazione ed ottenere in tempi più rapidi (che non siano a loro volta “irragionevoli”) il giusto risarcimento.
1) Non è più investita della decisione la Corte d'Appello in composizione collegiale. A decidere sarà un giudice monocratico di Corte d'appello con una procedura modellata su quella del decreto ingiuntivo e quindi, senza inutili appesantimenti procedurali (a titolo di esempio basti pensare che per la fissazione dell'udienza, specie avanti le Corti di appello più oberate, occorrono mesi o anni di attesa).
2) Viene fissato un preciso tetto oltre il quale la lunghezza del processo diventa “irragionevole” facendo così sorgere il diritto all'equa riparazione. Il processo non è svolto in termini ragionevoli quando supera i sei anni (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità).
3) Sono stati puntualmente fissati gli importi per gli indennizzi commisurati in 1.500 euro per ogni anno o frazione di anno superiore a sei mesi che eccedente rispetto al termine di ragionevole durata.
4) In ogni caso la domanda può essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.
La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta "Legge di Stabilità 2016", introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo ancor di più la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.
SCHEMA ESEMPLIFICATIVO.
IL DANNO
Danno da lungaggine del processo per la Cedu: patrimoniale o non patrimoniale.
Danno da lungaggine del processo per lo Stato Italiano: Forfettario. Prima, da 500 euro a 1500 euro, dopo, da 400 euro a 800 euro.
IL DIRITTO
Diritto al risarcimento per la CEDU: è incluso nel fatto stesso (onere della prova a carico dello Stato, an e quantum) senza valutazione ed interpretazione.
Diritto al risarcimento per lo Stato Italiano: ai ricorrenti tocca la dimostrazione dell'aver subito un danno (onere della prova a carico dei ricorrenti, an e quantum) e valutazione data dai magistrati responsabili essi stessi del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice collega durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
DURATA
Durata ragionevole del processo per la Cedu: ragionevole inteso in senso oggettivo europeo.
Durata ragionevole del processo per lo Stato Italiano: 3 anni per il primo grado; due anni per il secondo grado; un anno per il terzo grado. Precisando che il processo si considera iniziato, nell’ambito dei procedimenti civili, con il deposito del ricorso o con la notifica dell’atto di citazione; penali, con l’assunzione della qualità di imputato e non di indagato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero, quando l’indagato ha legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari.
ITER
Iter risarcitorio per la Cedu: procedimento amministrativo semplificato, veloce e gratuito.
Iter risarcitorio per lo Stato Italiano: procedimento giudiziario di competenza dell’ordine professionale foriero del danno attivato. Prima presso la Corte di Appello competente ex art. 11 c.p.p., poi, presso la Corte di Appello foriera del danno in composizione monocratica ed inaudita altera parte. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis”o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.
ATTIVAZIONE
Attivazione dell’iter per la Cedu: semplice domanda.
Attivazione per lo Stato Italiano: Prima semplice ricorso giudiziario, dopo una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento.
GRAVOSITA' DELL'ONERE DELLA PROVA
Onere della prova per la Cedu: Fascicolo acquisito d’ufficio.
Onere della prova per lo Stato Italiano: copie fascicolo conformi all’originale con oneri di bollo e diritti.
DIFFICOLTA' ARTEFATTE
Intoppi ed ostacoli per la Cedu: nessuno.
Intoppi ed ostacoli per lo Stato Italiano: La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, (insomma, solo se ha chiesto al giudice di accelerare in ogni modo la causa, come se fosse colpa sua e non del sistema che scricchiola), istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Gli esperti sostengono che sul versante civile questa clausola potrebbe portare ad una situazione drammatica: la rinuncia al rito ordinario e la decisione allo stato degli atti, questa la dizione tecnica, col rischio di perdere la causa. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".
TERMINE DELLA DOMANDA
Termine della domanda per la Cedu: ragionevole.
Termine della domanda per lo Stato Italiano: In ogni caso la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro sei mesi dalla sentenza definitiva che definisce il giudizio durato oltre il termine “ragionevole”.
PAGAMENTO
Pagamento per la Cedu: immediato e semplice.
Pagamento per lo Stato Italiano: gli indennizzi potranno essere erogati entro il limite delle risorse disponibili di un apposito capitolo del ministero della Giustizia. Per fortuna sarà possibile un‘anticipazione di tesoreria, ma solo nel caso venga attivata l’esecuzione forzata. In quel caso sarà Banca d’Italia a provvedere registrando il pagamento in "conto sospeso" in attesa che il ministero regolarizzi la partita contabile non appena abbia le risorse per farlo. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato.
TERMINI DEL PAGAMENTO
Termini ragionevoli di adempimento per la Cedu: due anni.
Termini ragionevoli di adempimento per lo Stato Italiano (Pinto su Pinto): prima 4 mesi, dopo, 6 anni ordinari, dopo le pronunzie giurisprudenziali, 2 anni e tre anni. 2 anni. La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Infine 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata". E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001). Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".
SANZIONI
Sanzioni per la Cedu: nessuna, se non la pronuncia di rigetto della domanda.
Sanzioni per lo Stato Italiano: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!
Per le lungaggini processuali il nostro Paese è ancora ai primissimi posti nella classifica delle violazioni dei diritti umani. Assieme a disoccupati, debito pubblico e corruzione, l'Italia detiene un altro primato internazionale: il numero di ricorsi presentati da nostri concittadini alla Corte europea dei diritti dell'uomo, scrive su Elisabetta Burba il 29 gennaio 2015 su “Panorama”. A inizio ottobre 2014, l'Italia era in cima alla graduatoria dei paesi con maggior numero di ricorsi per violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, soprattutto per lungaggini processuali e sovraffollamento delle carceri. Tanto che nel 2013 è stata condannata a versare indennizzi per oltre 71 milioni di euro. Pur avendo quasi dimezzato l'importo rispetto al 2012 (quando aveva raggiunto la cifra record di 120 milioni di euro), anche nel 2013 il nostro paese è stato quello condannato a versare la cifra più alta fra tutti i 47 paesi membri del Consiglio d'Europa. Lo Stato ha accumulato uno stock di debito di oltre 455 milioni di euro a titolo di risarcimento per i procedimenti non definiti entro il termine massimo di 6 anni. Ogni anno vengono presentate circa 12 mila istanze relative a richieste per cause definite con ritardi fino a 3 anni (sono il 25%), per indennizzi tra 3 e 7 anni (55% circa 6.600 casi). Ma ci sono anche richieste di risarcimento per ritardi che definire esorbitanti è riduttivo: in 2.400 casi oltre 7 anni rispetto al termine di legge. Le cifre che ogni anno le casse dello Stato liquidano per questi procedimenti è di circa 45 milioni. Con 17.300 procedimenti aperti, nell'ottobre 2014 l'Italia si è aggiudicata il primo inglorioso posto nella classifica dei ricorsi, davanti a paesi non esattamente garantisti come Russia, Turchia e Ucraina. Negli ultimi mesi il numero dei ricorsi è calato agli attuali 12mila, ma la situazione resta critica. «Come numeri assoluti purtroppo siamo ancora molto in alto: al secondo posto dopo l'Ucraina e prima della Russia, anche se fortunatamente non occupiamo più la prima posizione» dice a Panorama Guido Raimondi, il giudice italiano nonché vicepresidente della Corte. Il tribunale ha sede a Strasburgo in uno stravagante palazzo del 1995 che si ispira all'allegoria della dea Giustizia: la hall centrale di vetro simboleggia l'accessibilità della Corte e le due torri d'acciaio laterali con tetto inclinato i piatti della bilancia. Ed è proprio la "denegata giustizia" l'oggetto del contendere fra la Corte e l'Italia. Al primo posto, un annoso problema dei tribunali italiani: le lungaggini processuali (seguito a ruota dal sovraffollamento carcerario). «Il nostro contenzioso riguarda in gran parte l'eccessiva lunghezza delle procedure giudiziarie- spiega Raimondi - L'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che gli Stati membri sono tenuti ad applicare, dice che ogni persona ha "diritto a un equo processo". E quando la Corte rileva la violazione di un diritto segnala allo Stato che nel suo sistema c'è un problema: spetta allo Stato risolverlo. Nel caso dei processi interminabili, un fenomeno esploso negli anni Ottanta, la soluzione trovata nel 2001 era stata la legge Pinto. Quello che in gergo è detto un "rimedio interno" prevedeva un sistema risarcitorio in ambito nazionale secondo un ammontare previsto dalla Corte. Una volta promulgata la legge, che prevedeva il diritto di risarcimento in caso d'irragionevole durata di un processo, la Corte aveva ritenuto chiuso il caso. Peccato però che a Roma mancassero gli stanziamenti necessari per applicarla...». «Non solo - commenta Manuel Jacoangeli, l'attivissimo ambasciatore italiano a Strasburgo, che riceve Panorama nella prestigiosa sede del governo italiano, una villa art nouveau del 1899. - In tutti questi anni, Roma non ha saputo risolvere il problema attraverso una complessiva riforma della giustizia. Risultato: in breve tempo i ricorsi a Strasburgo per lungaggini processuali erano ripresi, gonfiandosi a dismisura, fino a coprire circa i due terzi del totale». «Il numero dei ricorsi individuali contro l'Italia, in comparazione con quello di altri paesi, è solo relativamente un indicatore dello stato dei diritti umani - spiega Vladimiro Zagrebelsky, che è stato giudice della Corte europea dal 2001 al 2010. - In Italia è facile organizzare una valanga di ricorsi seriali, facendone esplodere il totale. In altri paesi è meno frequente, anche in presenza di massicce violazioni. La questione dei numeri va quindi relativizzata, anche in relazione al tipo dì violazioni denunziate. Ciò che invece è grave - continua Zagrebelsky - sono le violazioni endemiche e strutturali da molto tempo senza soluzione. L'irragionevole durata dei procedimenti giudiziari ne è il maggiore esempio». Conclude Raimondi: «Per il nostro contenzioso non sì intravede una soluzione soddisfacente a breve termine».
Stop alle affollate udienze in camera di consiglio e ai rinvii per mancanza degli atti del processo presupposto: le richieste di equa riparazione per le lungaggini dei processi continuano a essere avanzate alla corte d’appello, ma i ricorsi depositati dall’11 settembre 2013 sono decisi da un giudice monocratico, e cioè il presidente della corte d’appello oppure un magistrato dello stesso ufficio a tal fine designato. Sono gli effetti delle modifiche alla legge Pinto (legge 89/2001) introdotte dal decreto legge sviluppo (Dl 83/2012, convertito dalla legge 134). La domanda di equa riparazione si propone con un ricorso che deve avere il contenuto dell’articolo 125 del Codice di procedura civile: indicazione dell’ufficio giudiziario adìto, delle parti, dell’oggetto, delle ragioni della domanda e delle conclusioni. E mentre la precedente versione della “Pinto” attribuiva alle parti la facoltà di chiedere alla corte di acquisire gli atti e i documenti del procedimento presupposto, adesso il comma 3 del nuovo articolo 3 dispone che, unitamente all’atto introduttivo del giudizio, devono essere depositati in copia autentica gli atti più significativi di quel procedimento, e precisamente: la citazione, il ricorso, le comparse e le memorie; i verbali di causa e i provvedimenti del giudice (si tratta, evidentemente, di quelli interlocutori pronunciati in corso di giudizio); infine, il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Adempimenti che gravano in modo non indifferente l’attività propositiva, minandone la convenienza, pur rimanendo l’esenzione dei diritti statali. Lo stesso articolo 3 individua pure la legittimazione passiva: il ricorso va proposto nei confronti del ministro della Giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del ministro della Difesa in ipotesi di procedimenti del giudice militare, del ministro dell’Economia in tutti gli altri casi. Entro trenta giorni dal deposito del ricorso, il giudice pronuncia un decreto motivato. L’istanza è rigettata nelle ipotesi previste dall’articolo 640 del Codice di procedura civile, espressamente richiamato dal nuovo articolo 3 della Pinto, e cioè quando non sia accoglibile oppure quando la parte non abbia risposto all’invito del giudice di provvedere alla prova nei casi di domanda non sufficientemente giustificata. In caso di rigetto della richiesta, non solo il ricorso non può essere riproposto (salva l’opposizione), ma la parte rischia pure la condanna al pagamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma compresa tra mille e 10mila euro. Nei casi, invece, di accoglimento, il giudice ingiunge all’amministrazione di pagare senza dilazione la somma liquidata a titolo di equa riparazione, autorizzando in mancanza la provvisoria esecuzione. Nel decreto il giudice liquida pure le spese del procedimento e ne ingiunge il pagamento. Il nuovo rito ricalca dunque lo schema del giudizio monitorio e introduce alcuni elementi di chiarezza, mutuati dalla giurisprudenza della convenzione dei diritti dell’uomo (Cedu) e della Cassazione, che dovrebbero condurre a decisioni tendenzialmente standardizzate. Per un verso, infatti, si è proceduto all’esatta individuazione del termine di durata ragionevole del processo: tre anni per il primo grado, due anni per il secondo, un anno per il giudizio di legittimità, con l’ulteriore precisazione che si considera comunque rispettato il termine ragionevole se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Sotto il profilo dell’importo dovuto a titolo di equa riparazione, poi, si stabilisce che il giudice liquidi una somma tra 500 e 1.500 euro per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Un’altra importante novità riguarda i tempi. L’articolo 4 della precedente versione della Pinto ammetteva la proposizione della domanda di equa riparazione già durante la pendenza del procedimento, mentre le recenti modifiche consentono l’istanza solo entro sei mesi dal momento in cui la decisione è divenuta definitiva.
Quello che non traspare è la truffa perpetrata. Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice ed altri raggiri contro il cittadino. Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare la violazione il giudice valuta:
- la complessità del caso,
- l’oggetto del procedimento,
- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.
Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:
- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,
- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,
- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,
- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;
- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.
E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge! - è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!
Non basta vi è anche la “Pinto sulla Pinto”! La Cassazione sui Processi lumaca. La Cassazione interviene sulle lungaggini processuali, fissando la durata delle cause promosse ex lege Pinto, nel termine massimo di due anni, superati i quali la vittima si aggiudica il diritto ad altro e diverso ristoro. La Corte Costituzionale li dilata a 3 anni. Come si suol dire: cornuto e mazziato!
Sono le vittime del paradosso della giustizia italiana che oltre all’inganno di processi interminabili subiscono la beffa di ottenere con eccessivi ritardi processuali il ristoro dovuto! La Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con sentenza n. 8283/2012, è intervenuta, limitando a due anni la durata massima, fra appello e Cassazione, entro cui deve concludersi il processo ex lege Pinto, istaurato al fine di ottenere l’equo ristoro per i danni subiti da un “processo lumaca”. Superato tale limite la vittima ha diritto a ottenere un secondo e differente ristoro. Il Collegio, discostandosi da un precedente orientamento, riconosce, dunque, la ragionevolezza del termine di due anni, ritenendolo “pienamente compatibile con le indicazioni…della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”, e considerando il fatto che un giudizio in Cassazione “non è suscettibile di compressione oltre il limite più volte ritenuto ragionevole di un anno”. Quanto al termine di quattro mesi, previsto dalla legge 89/2001, c.d. Legge Pinto, la Cassazione precisa la natura meramente sollecitatoria, e dunque non perentoria, dello stesso, essendo impensabile che un giudizio volto ad ottenere equa riparazione possa chiudersi in così breve tempo. Anche in questo caso, dunque, il Ministero della giustizia dovrà pagare! I giudizi risarcitori per irragionevole durata del processo devono essere molto più che "di ragionevole durata" quindi 2 anni, primo grado, 1 anno, legittimità. E' quanto si ricava dalla sentenza n. 36 del 19 febbraio 2016, con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in merito alla cd. "legge Pinto" (legge n. 89/2001).
Dopo tutta la traversata nel deserto e dopo averti messo contro l’intera casta dei magistrati locali finalmente si può ottenere l’equo ristoro con la pignorabilità dei beni statali, tenuto conto che il Ministero non è propenso a pagare? La finanziaria 2007 al comma 1351, così come nel 2006 era avvenuto per i beni del Ministero della Salute, ha stabilito la impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia: “non sono soggetti ad esecuzione forzata i fondi destinati al pagamento delle spese per servizi di forniture aventi finalità giudiziaria e penitenziaria, nonchè gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrato dal Ministero della giustizia e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, accreditati mediante aperture di credito in favore di funzionari delegati degli ufficio centrali e periferici del Ministero della Giustizia, degli uffici giudiziari e della Direzione nazionale antimafia e della Presidenza del Consiglio dei Ministri”. E’ come se lo Stato adottasse per sè il principio secondo cui “chi non ha nulla, non ha niente da perdere” e cioè il nullatenente non sarà mai aggredibile forzatamente dal debitore in quanto non ha alcun bene su cui potersi soddisfare! Lo Stato rendendo i propri beni impignorabili, in buona sostanza, diviene come un soggetto che non ha beni da aggredire. La legge sopra menzionata si aggiunge a tutta una serie di norme speciali che rallentano ed ostacolano le azioni esecutive nei confronti della PA. Si pensi, ad esempio, che per proporre azione esecutiva nei confronti della PA occorrono 120 gg. a fronte della immediatezza di tale azione nel caso di cittadini. Se poi i 120 giorni cadono durante le ferie processuali questi diventano 170. Eppure tali leggi dovrebbero di per sè essere incostituzionali in quanto si preclude la pignorabilità e quindi la tutela costituzionale del credito. Con la finanziaria del 2007 i creditori si sono trovati impossibilitati ad ottenere il loro avere e lo stesso blocco lo hanno trovato i creditori in base alla Legge Pinto. Come se ciò non bastasse è intervenuta la legge 181/2008 che all’art. 1 ter ha esteso l’applicazione della impignorabilità sulle contabilità speciali delle prefetture, direzioni di amministrazione delle Forze armate e della Guardia di Finanza, alla contabilità ordinaria del Ministero di Giustizia e degli uffici giudiziari. Pertanto non sono più soggetti a pignoramento: gli emolumenti di qualsiasi tipo dovuti al personale amministrativo dal Ministero di Giustizia, accreditati mediante aperture di credito in favore dei funzionari del Ministero della Giustizia e degli uffici giudiziari.
La Legge, 28/12/2015 n° 208, G.U. 30/12/2015, detta la Legge di Stabilità 2016, introduce rilevanti modifiche alla cosiddetta Legge Pinto (L. n° 89 del 2001) regolamentando alcuni aspetti ma, fondamentalmente, riducendo la possibilità di ottenere l'indennizzo e riducendo, altresì, la quantificazione dell'indennizzo stesso. Contenimento degli effetti della Legge Pinto pare essere il leit motiv che, a partire dal corposo intervento sull'articolato operato dal Governo Monti, contraddistingue ogni intervento sulla materia.
Misura dell'indennizzo. L'indennizzo viene ridimensionato ed è ora previsto (art. 2-bis) in una misura che va da un minimo di euro 400 ad un massimo di euro 800 (mentre prima il massimo era previsto in euro 1.500).
Rimedi preventivi. La novità più rilevante consiste nella introduzione del concetto di "rimedio preventivo"; la parte deve dimostrare fattivamente di avere intrapreso le strade più brevi per l'ottenimento della sentenza, attraverso istanze di accelerazione, istanze di prelievo, riunione delle cause, utilizzo di riti sommari, trattazione orale ex art. 281-sexies, ecc. Fondamentale la regola introdotta dal prima comma dell'art. 2 secondo la quale "È inammissibile la domanda di equa riparazione proposta dal soggetto che non ha esperito i rimedi preventivi all’irragionevole durata del processo di cui all’articolo 1-ter".
Casi di non riconoscimento dell'indennizzo. All'art. 2 vengono inoltre aggiunti casi nei quali "Non è riconosciuto alcun indennizzo" e ulteriori casi nei quali "si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo", come ad esempio nel caso di contumacia (a dispetto di recenti pronunce della Corte di Cassazione) o di dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato. L'indennizzo non è riconosciuto, invece, ad esempio, in "caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento" o quando la parte "ha agito o resistito in giudizio consapevole della infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese". A questo punto il ricorso per l'equo indennizzo sottopone il processo svoltosi in ritardo ad una valutazione, talvolta altamente discrezionale, da parte della Corte d'Appello.
Modalità di pagamento. Con l'introduzione del nuovo art. 5-sexies viene completamente regolamentata a nuovo la fase del pagamento. Vi è ora la necessità di formulare ripetutamente una istanza che potremo chiamare di precisazione del credito con la quale si ricorda allo Stato che non ha ancora pagato. Tuttavia, con impeto chiaramente burocratico, teso a creare un percorso ad ostacoli, si prescrive che "nel caso di mancata, incompleta o irregolare trasmissione della dichiarazione o della documentazione di cui ai commi precedenti, l’ordine di pagamento non può essere emesso". L'amministrazione provvede al pagamento nel termine di sei mesi. In questo periodo "... i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento".
Legge Pinto: la modifica della competenza per territorio e le nuove “modalità di pagamento”, scrive Finocchiaro Giuseppe - Professore associato di diritto processuale civile nell'Università degli Studi di Brescia. Ultime due rilevanti novità nella profonda metamorfosi di fine anno della legge Pinto sono costituite: da un lato, dalla modifica della competenza per territorio; dall’altro lato, dall’introduzione di una serie di complesse norme in tema di “modalità di pagamento”.
La modifica della competenza per territorio. Nel procedimento per il riconoscimento dell’equo indennizzo la Corte d’appello (competente per materia in unico grado), dovendo valutare la violazione della ragionevole durata del processo presupposto, è chiamata non soltanto a verificare anche la condotta dei magistrati cui era stata affidata la direzione del medesimo processo presupposto, ma anche a pronunciare un provvedimento potenzialmente generatore della loro responsabilità erariale, come indicato dall’art. 5, comma 4, legge Pinto. A ragione di ciò, al fine, pienamente condivisibile, di assicurare le più complete terzietà ed imparzialità del giudice chiamato a valutare sulla violazione della ragionevole durata del processo presupposto, il legislatore, fin nella versione originaria del 2001, aveva stabilito l’applicabilità del criterio di competenza territoriale previsto dall’art. 11 c.p.p. per i procedimenti penali riguardanti i magistrati. In forza di questa norma, come ben noto, si verificava uno spostamento della competenza dall’ufficio giudiziario che sarebbe stato ordinariamente competente, sicché la domanda andava proposta alla “corte d'appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto è concluso o estinto relativamente ai gradi di merito il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata”. Questa scelta, confermata nelle precedenti riforme degli anni 2007 e 2012, dava luogo ad un inconveniente di non poco conto: faceva sì che sulle Corti d’appello limitrofe a quelle di grandi dimensioni e, conseguentemente (anche soltanto per ragioni statistiche), con un gran numero di ritardi giudiziari, si riversasse una mole di ricorsi ex legge Pinto spesso sproporzionata rispetto all’organico ridotto dell’ufficio giudiziario competente: il caso sicuramente più eclatante è quello relativo alle domande dei procedimenti celebrati nella Capitale (sede altresì delle magistrature superiori, presso cui confluiscono in sede d’impugnazione pressoché tutti i procedimenti giurisdizionali) che venivano interamente devolute alla Corte d’appello di Perugia. Per rimediare a questa inefficienza del sistema, la legge di stabilità 2016 ha sostituito l’art. 3, comma 1, prevedendo che la domanda di equa riparazione debba essere proposta alla “corte d’appello del distretto in cui ha sede il giudice innanzi al quale si è svolto il primo grado del processo presupposto” ed ha contestualmente aggiunto al comma 4 la precisazione secondo cui “Non può essere designato [per la trattazione del procedimento] il giudice del processo presupposto”. Le nuove norme assicurano senz’altro una più equilibrata ed efficiente distribuzione dei carichi di lavoro (condizione indispensabile per evitare il moltiplicarsi di procedimenti c.d. “Pinto bis” o, perfino, “Pinto ter”!), ma determinano anche un grave vulnus ai principi costituzionali di terzietà ed imparzialità della magistratura, che, per accrescere la fiducia dei consociati nel sistema giustizia, richiedono di essere perseguiti e realizzati anche semplicemente sul piano dell’apparenza.
“Modalità di pagamento”. E’ la rubrica del nuovo art. 5-sexies, che dimostra quanto sia vero il detto secondo cui “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”: anche dopo la liquidazione della somma a titolo di equo ristoro per l’irragionevole durata del processo presupposto, la parte deve attendere per ottenere effettiva soddisfazione del proprio diritto all’indennizzo (cioè, essere concretamente pagata). Per cercare di porre rimedio a questa situazione, nella primavera scorsa era stato siglato tra il Ministero della Giustizia e la Banca d’Italia (“anche quale esercente la Tesoreria dello Stato”) un accordo in virtù del quale questa “presta collaborazione temporanea” a quello “nelle attività preparatorie del pagamento delle somme riconosciute agli aventi diritto dalle competenti corti d’appello a titolo di indennizzo previsto dalla legge n. 89 del 2001 e delle relative spese processuali” (le parti tra virgolette sono estrapolate dal testo dell’accordo del 18 maggio 2015. Il nucleo dell’accordo consiste nella predisposizione da parte della Banca d’Italia dei mandati di pagamento grazie alla creazione di un database da aggiornarsi settimanalmente. Il nuovo art. 5-sexies, comma 1, impone ora sul creditore i concorrenti oneri, da un lato, di rilasciare un’autocertificazione “attestante la mancata riscossione di somme per il medesimo titolo, l’esercizio di azioni giudiziarie per lo stesso credito, l’ammontare degli importi che l’amministrazione è ancora tenuta a corrispondere, le modalità di riscossione prescelta … [accreditamento su conto corrente intestato al creditore medesimo o, per importi non superiori a 1.000 euro, per cassa o per vaglia cambiario non trasferibile]”, e, dall’altro lato, di trasmettere, all’amministrazione debitrice, della “documentazione”, che verrà precisamente individuata con decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e del Ministero della Giustizia da emanarsi entro il 30 ottobre 2016 (anteriormente all’adozione dei decreti ricordati, pertanto, deve ritenersi che la disposizione de qua non sia applicabile). Ai sensi del successivo comma 4, la mancata, incompleta o irregolare trasmissione, vuoi della dichiarazione, vuoi della documentazione, costituisce legittima causa per il mancato pagamento dell’ordine di pagamento entro il termine di 6 mesi dalla ricezione. Questa articolata e complessa serie di norme, di stampo spiccatamente amministrativo-burocratico, non soltanto ha rilievo interno alle amministrazioni debitrici, ma incide anche sul diritto costituzionale di azione giurisdizionale: l’art. 5-sexies, comma 7, infatti, stabilisce che prima che sia decorso il ricordato termine semestrale per lo spontaneo adempimento “i creditori non possono procedere all’esecuzione forzata, alla notifica dell’atto di precetto, né proporre ricorso per l’ottemperanza del provvedimento” [di condanna].
Le nuove norme ricordate non possono non essere criticate, considerato che:
- innanzi tutto, appaiono profondamente inopportune ed inique, atteso che impongono alle parti private (risultate vincitrici all’esito di un processo giurisdizionale) di rendere delle autodichiarazioni (penalmente rilevanti) di fatti e di produrre della documentazione, i quali sono gli uni e l’altra già, rispettivamente, noti e nella disponibilità delle pubbliche amministrazioni debitrici;
- in secondo luogo, pongono dubbi di conformità con gli art. 3 e 24 Cost., posto che condizionano l’accesso alla tutela giurisdizionale, indicata a più riprese dal giudice delle leggi come diritto essenziale e fondamentale del sistema giuridico costituzionale, a formalità volte esclusivamente a rimediare alle inefficienze delle pubbliche amministrazioni debitrici, che si dimostrano incapaci di gestire in modo ordinato i pagamenti dovuti;
- da ultimo, sono potenzialmente foriere di una notevole crescita del carico di lavoro giudiziario: non pare, infatti, infondato il timore che la principale e reale conseguenza applicativa delle nuove norme sarà di creare contenzioso circa le regolare e completa trasmissione della dichiarazione e della documentazione richieste.
COPIA CONFORME DEGLI ATTI. Prima della riforma del processo ex lege Pinto, scrive Concetta Pennisi, il ricorrente non aveva eccessivi oneri di allegazione; infatti era data facoltà alla parte di richiedere che la Corte disponesse l'acquisizione in tutto o in parte gli atti e i documenti del procedimento in cui si assumeva verificata la violazione della durata del procedimento, le parti avevano diritto, unitamente ai loro difensori, di essere sentite in camera di consiglio se comparivano. Inoltre, erano ammessi il deposito di memorie e la produzione di documenti sino a cinque giorni prima della data in cui era fissata la camera di consiglio. La norma è stata sostituita dall’art. 55 del DL 83/2012 convertito in l. 134/2012 che prevede l’onere per il ricorrente di depositare unitamente al ricorso la copia autentica di tutti gli atti della causa ( l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata); di tutti i verbali di causa e i provvedimenti del giudice; nonché del provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili. Si tratta di formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive. Anzitutto la conformità comporta un onere economico gravoso per la parte. Presentare l’intero fascicolo in copia conforme della causa presupposta comporta il pagamento di svariate centinaia di euro in bolli: si pensi che i fascicoli di gran parte delle cause sono composte da migliaia di pagine. Orbene, se lo scopo della legge doveva essere quello di dotare l’ordinamento nazionale di un meccanismo riparatorio capace di riprodurre sul piano interno le condizioni assicurate sul piano internazionale dalla CEDU, tenuto conto che non esistono tali oneri nel procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo, la loro introduzione determina una vessazione tributaria che scoraggia il cittadino dal ricorrere alla giustizia interna per ottenere un’equa riparazione. Si può affermare che l’introduzione dei costi elevati per ricorrere alla giustizia e gli adempimenti formali richiesti, di fatto ha creato ulteriori ostacoli all’accessibilità dell’azione da parte del cittadino e quindi pregiudica l’effettività del ricorso interno. Le parti non possono essere gravate di oneri eccedenti la normale diligenza, tali da rendere difficoltoso o da pregiudicare il proprio diritto. Ne consegue che l’onere di cui è gravato il ricorrente ostacola di fatto l’effettivo esercizio dell’azione a tutela del proprio diritto in aperta violazione dell’art. 24 Cost. e dell’art. 34 della Convenzione che sancisce che le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’effettivo esercizio efficace di tale diritto. Per cui anche tale articolo è suscettibile della sanzione di incostituzionalità ai sensi degli artt. 117 e 24 Cost.
L’ITALIA CLEPTOMANE. PARLIAMO DI TASSE E DI SPRECHI.
"Le aziende scappano: l'Italia è una giungla di tasse e burocrazia". Il giuslavorista Fava: "Imprenditori in fuga nei Paesi in cui lo Stato non li perseguita", scrive Giacomo Susca, Lunedì 05/09/2016, su "Il Giornale". Mentre gli Agnelli portano la cassaforte Exor in Olanda, al riparo dal fisco vorace di mamma Italia, migliaia di imprenditori con cognomi magari meno ingombranti si chiedono ogni giorno se è arrivato il momento di fare le valigie. E alla fine optano per un biglietto di sola andata. Gabriele Fava, giuslavorista e legal advisor, di capitani d'azienda al bivio della delocalizzazione ne ha conosciuti molti. «Sia chiaro, nessuno decide di lasciare il nostro Paese a cuor leggero. Spesso è una scelta dolorosa, ma inevitabile. L'alternativa è chiudere e ritrovarsi col piattino in mano. D'altronde cosa si può argomentare di fronte a chi reclama più redditività e meno oppressione fiscale?».
Avvocato Fava, su chi fanno più presa le sirene d'oltreconfine?
«Parliamo di realtà medio-grandi, dai 100-200 dipendenti fino ai 10mila. Imprese in salute del settore metalmeccanico, dell'energia o dei servizi, che possono permettersi di spostarsi all'estero senza maggiori rischi».
Perché dicono addio al Belpaese?
«Ha ragione Nicola Porro quando scrive che gli imprenditori non sono i responsabili di una onlus. Hanno lo scopo di realizzare profitti, e operano laddove le condizioni consentono di essere competitivi e di crescere. Assumono solo se le prospettive sono positive. Ci sono Paesi che ti accompagnano nel business passo per passo, ti coccolano, fanno di tutto per averti. L'Italia ormai non è certo tra questi».
Dove conviene scappare, allora?
«Mica tanto lontano, altrimenti la logistica sarebbe un problema. I nuovi paradisi delle imprese si trovano a un'ora, un'ora e mezza al massimo di aereo da Roma: Olanda, Paesi scandinavi, Polonia, Portogallo. E nell'ultimo periodo il vero boom è verso la Tunisia, l'Albania, la Serbia, ... posti in cui la manodopera parla anche italiano».
Quali attrazioni i nostri imprenditori scoprono a Tirana o a Tunisi?
«Una fiscalità eccezionale, costo del lavoro ai minimi (mentre da noi è la gabbia più odiosa), burocrazia inesistente, finanziamenti statali, dialogo trasparente con le istituzioni... devo continuare?».
Continui.
«Per capirci: in Tunisia il governo ha previsto per chi avvia un'attività 10 anni di esenzione fiscale totale, più 10 anni di esenzione dagli oneri previdenziali. Il costo del lavoro è pari a 2,5 euro all'ora per 40 ore settimanali. Il costo dell'energia è inferiore del 70% rispetto all'Italia. A Tirana, l'affitto di un locale commerciale di 1.500 mq costa non più di 1.500 euro al mese. E ancora in Albania, ci vogliono 48 ore per costituire una S.r.l. con capitale sociale minimo di 5mila euro. Altro che la giungla delle scartoffie a cui siamo abituati dalle nostre parti».
Messa così, c'è poco da difendere l'italianità delle produzioni.
«Infatti sono sempre di più quelli che partono. E non si tratta solo delle delocalizzazioni, bisognerebbe aprire un capitolo a parte sulle start-up dei talenti italiani che emigrano all'estero. Negli ultimi due anni il fenomeno è addirittura aumentato».
E la famosa ripresa? Il premier continua a ripetere che le cose vanno meglio adesso che in passato.
«Questa crisi dura da 8 anni. Anzi, non è più una crisi: la situazione sembra patologica».
Si può guarire solo portando i capannoni all'estero?
«Tutt'altro. Gli imprenditori chiedevano riforme organiche nel nostro Paese, ma non sono state fatte. Il governo Renzi si è limitato a una caterva di pannicelli caldi per tamponare qua e là».
Compreso il Jobs Act?
«Ha funzionato fin tanto che ci sono stati gli indennizzi, poi man mano che sono andati a ridursi anche i risultati si sono sgonfiati. Il mercato del lavoro non si crea con iniezioni di danari estemporanee, servono interventi strutturali».
Come fermare l'emorragia?
«Agli imprenditori, più che il numero dei futuri senatori di Palazzo Madama, interessano le misure che hanno un impatto concreto sui bilanci. Per convincerli a restare ci vorrebbe un mercato del lavoro dinamico, flessibile, fiscalmente equo, a burocrazia ridotta, in cui si dia più valore alla contrattazione aziendale. E dove il pubblico sia al fianco dei privati per creare ricchezza, non per tormentarli con vincoli ottusi e stangarli con tasse insostenibili».
Troppe tasse, fuggono pure i call center. Dati preoccupanti: un'assunzione su due fuori confine. Il 20% del giro d'affari è all'estero. Operatori stritolati: "Anche se il settore è in crescita i margini di guadagno sono minimi", scrive Antonio Signorini, Lunedì 14/04/2014, su "Il Giornale". Un branco di ragazze, giovani e avvenenti, va al lavoro. Saltellano verso le rispettive postazioni al ritmo di musica da discoteca, intonando canzoni motivazionali improbabili, prima di inforcare cuffia e microfono. Il messaggio è chiaro: i dipendenti dei call center sono carne da cannone per imprenditori corsari. Sono passati sei anni dal film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti, ma l'immagine dei call (e ora contact) center è ancora quella. Stereotipo coccolato da sindacati e politici a caccia di nuove classi sociali da salvare. Nel frattempo molto è cambiato. Intanto una selezione tra le imprese. Gli avventurieri ci sono, ma sono molti meno. C'è un contratto nazionale di lavoro. Su 80mila addetti nelle società che gestiscono servizi in outsourcing, il 60% ha un contratto tipico. Se il film si dovesse fare oggi, ambiente e attori sarebbero trenta-quarantenni, tante donne del Sud. Intere famiglie che lavorano per gli stessi centri, un po' come succedeva con le fabbriche degli anni Cinquanta. Lavoratori qualificati e formati; ci sono persino i primi pensionati, racconta un imprenditore del settore che si è ritrovato dopo un ventennio di servizio con l'età media dei suoi dipendenti cresciuta di una decina di anni. Il problema è che, a breve, la location di un film sui centri di contatto potrebbe cambiare, di nuovo, radicalmente. E non in bene. Crisi economica, burocrazia e tasse stanno riuscendo dove i vari movimenti e la sinistra radicale avevano fallito all'inizio degli anni 2000, cioè cancellare il lavoro atipico per eccellenza. Nel senso che i call center stanno fuggendo. Il prossimo film di Virzì potrebbe essere ambientato in Albania o in Romania, tra capannoni affittati a un euro, dove lavorano ragazzi che hanno imparato un'ottimo italiano grazie a mamma tv. Se ne sono accorti gli italiani che chiamano l'assistenza di grandi gruppi e dall'altra parte del telefono sentono accenti dell'est. E se ne sono accorti anche i giovani italiani a caccia di un lavoro: sempre più rare le offerte. L'offshoring è iniziato da tempo, ma è sempre più diffuso. Lo fanno le grandi aziende che gestiscono autonomamente i call center, ma anche le società che gestiscono il servizio per altri. Secondo i dati dell'associazione di categoria, Assocontact, il fatturato prodotto da queste società all'estero è di 60 milioni di euro. Il 20 per cento del giro di affari dell'outbound (le chiamate ai clienti) viene dai centri che si trovano all'estero. Principalmente Romania (che comunque è Unione europea), ma anche Albania. Numeri per difetto. Nel complesso, stima un sindacalista, ormai un'assunzione ogni due è all'estero. «La crisi l'abbiamo sentita anche noi - spiega Umberto Costamagna, presidente di Assocontact - i nostri committenti cominciano a chiedere sconti. Il settore continua a crescere, ma il margine è al minimo». Pesa l'alto costo del lavoro: circa l'80% del totale, contro il 20% medio dell'industria. Poi le tasse «l'Irap che penalizza chi assume», spiega Costamagna. Di fronte a questa situazione «qualcuno ha deciso di lavorare sul costo del personale e andare in offshoring. È una scelta non ci piace - aggiunge - perché non è strategica, ma è una necessita imposta dalla committenza nei costi». Una «ultima spiaggia» che rischia di fare diventare gli anni dei call center corsari, un ricordo felice. Almaviva Contact ha oltre 10mila dipendenti, segue clienti italiani esclusivamente con operatori che lavorano in Italia. «Questo ha garantito fino a oggi i livelli occupazionali». Però «è innegabile che rispetto a scelte alternative abbiamo avuto pesanti penalizzazioni economiche, oggi non più sostenibili. Ancor più in una situazione di gare al ribasso», spiega Andrea Antonelli, amministratore delegato del gruppo. Il riferimento è alla famosa gara indetta dal comune di Milano per la gestione del servizio 020202. La base d'asta decisa dalla giunta di Palazzo Marino non copre nemmeno il costo del lavoro. Dopo questo caso il presidente della Commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano ha deciso di avviare un'indagine conoscitiva. E dire che il sindaco Giuliano Pisapia appartiene a quella sinistra che, a parole, era contro lo sfruttamento da call center.
E poi ci sono loro...
Poteri invisibili: evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto, scrive Stefano Vergine il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Non solo Apple e l'Irlanda. Anche l'Italia ha concesso dei tax ruling. Si tratta di particolari accordi fiscali fra uno Stato e una multinazionale. Accordi simili a quelli di Luxleaks, uno dei più grandi scandali fiscali europei. O a quelli che hanno portato nei giorni scorsi la Commissione europea a condannare il colosso di Cupertino per aver evaso imposte per 13 miliardi di euro. Insomma, lo Stato concede a una grande azienda un regime fiscale di favore, con tasse sul reddito pari all'1 per cento o anche meno, mentre tutte le altre imprese sono tenute a pagare venti o trenta volte di più. Il tutto nel totale segreto di Stato. Nel numero in edicola domenica 4 settembre, attraverso due documenti finora inediti, “l'Espresso” racconta che anche il nostro Paese ha concesso dei tax ruling. Erano 47, alla fine del 2013. E nel frattempo le cose non sembrano essere cambiate. Lo scorso settembre, infatti, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il governo di Matteo Renzi non ha negato l'esistenza di tax ruling in vigore. Ha però evitato di fornire i nomi delle fortunate multinazionali. «Ragioni di riservatezza», è stata la giustificazione. Va precisato che non per forza tax ruling fa rima con elusione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. In pratica possono però essere usati per dribblare il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di Luxleaks. Dopo lo scandalo del 2014, sono stati tanti i politici europei a promettere un cambiamento. E una riforma dei tax ruling è stata in effetti approvata nel dicembre scorso proprio dalla Commissione europea. Dall'anno prossimo gli Stati dell'Ue avranno l’obbligo di scambiarsi tra loro le informazioni su questi contratti, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Chi può dunque garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale?
Poteri invisibili: gli evasori per ragion di Stato. Tasse scontate a 47 multinazionali. Nell’Italia delle imprese soffocate dalle imposte. Lo dimostrano i documenti Ue. Su cui vige il segreto. Luxleaks? Storia vecchia. Sorpassata. Solo in teoria, però. Perché in pratica non è mai finita. E qualcosa di molto simile - dimostrano alcuni documenti finora inediti - potrebbe riguardare anche l’Italia. A leggere le dichiarazioni dei politici e le riforme presentate dalle istituzioni internazionali, lo scandalo che due anni fa fece tremare le multinazionali di mezzo mondo può essere catalogato nell’album dei ricordi. Stiamo parlando degli accordi fiscali fra il Lussemburgo e centinaia di società private. Colossi come Amazon, Ikea, Pepsi: 340 in tutto - comprese alcune italiane tra le quali Unicredit, Intesa Sanpaolo, Finmeccanica - che nel corso degli anni hanno ottenuto il lasciapassare dal Granducato per spostare lì buona parte dei profitti pagando tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. Era il novembre del 2014. «Mai più elusione fiscale, in nessuno Stato membro», gridò il rappresentante del Pd al Parlamento comunitario, il renziano Gianni Pittella, capo dei socialisti europei. Partì un’inchiesta a Bruxelles e un piano di riforma dell’Ocse. «Aumenterà la trasparenza delle imprese multinazionali», fu la promessa del segretario generale, Ángel Gurría. Com’è andata a finire? Secondo quanto può ricostruire “l’Espresso”, il trattamento di favore riservato alle multinazionali non si è mai interrotto. I documenti che lo raccontano sono due, entrambi mai pubblicati finora. Il primo è una tabella di tre pagine. Un file in cui compaiono i nomi di tutte le nazioni dell’Unione europea: al fianco di ognuna c’è il numero dei tax ruling concessi. Tax ruling, per chi non lo sa, è il nome tecnico dei contratti alla base dei LuxLeaks. Quelli accordati dal Lussemburgo alle multinazionali. Gli stessi contenuti nella tabella in questione. Firmato della direzione generale della Commissione, sezione Fiscalità e Unione doganale, il documento certifica che in totale, all’interno dell’Ue, alla fine del 2013 erano attivi 545 di questi accordi. Significa oltre mezzo migliaio di patti fra imprese e Stati. Fra cui spicca il Lussemburgo, con 119, ma anche tante altre nazioni insospettabili. Regno Unito, Ungheria, Spagna. Tutte sopra quota 50. Poco sotto - in quinta posizione con 47 ruling operativi – c’è l’Italia. Manca solo un’informazione: i nomi delle società che hanno firmato questi accordi. Un dettaglio. La tabella, come detto, è aggiornata alla fine del 2013, quindi prima dello scoppio di LuxLeaks. Nel frattempo sono successe cose che dovrebbero aver messo la parola fine al gran valzer dell’elusione fiscale. Prima fra tutte le multe comminate dalla Commissione a Fiat e Starbucks. E - ultima in ordine di tempo - ad Apple, accusata di aver evitato di versare imposte per 13 miliardi di euro. «Spero che le decisioni facciano passare questo concetto: tutte le imprese, grandi o piccole, multinazionali o non, devono pagare la loro giusta quota di tasse», è stato il messaggio della responsabile delle condanne, la commissaria alla Concorrenza, Margrethe Vestager. Le parole fanno pensare che oggi sia tutto finito. Niente più vantaggi fiscali. Finalmente trasparenza sulle tasse pagate dalle multinazionali. Un altro documento ottenuto da “l’Espresso” dice che le cose non stanno esattamente così. Porta la data del 16 settembre 2015, meno di un anno fa, e la firma di Stefano Sannino, ambasciatore italiano presso l’Unione europea. Il diplomatico scrive per conto del ministero dell’Economia, guidato da Pier Carlo Padoan, rispondendo alle domande di un parlamentare europeo, il francese Alain Lamassoure. Che chiede al governo guidato da Matteo Renzi una «panoramica, compresa la data e il nome delle società, di tutti i tax ruling concessi a partire dal 1991». Sannino non nega l’esistenza dei tax ruling ancora in vigore. Risponde però che «queste informazioni non possono essere rivelate per ragioni di riservatezza». Insomma, almeno fino al settembre scorso anche l’Italia aveva stretto con alcune grandi imprese degli accordi fiscali. Riservati. Va detto che non per forza tax ruling fa rima con evasione. In teoria, questi contratti servono alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno le imposte da pagare. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa di provincia. E così diverse nazioni offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi fiscalmente. Il vantaggio è duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa, appunto, è la teoria. La pratica indica però che questi strumenti possono essere usati anche per eludere il fisco. Proprio come negli oltre 300 casi di LuxLeaks. In cui alcune imprese, grandi e potenti, sono risultate più uguali di altre. Come evitare un nuovo scandalo? Con la riforma dei tax ruling approvata di recente, è la tesi della Commissione. Pierre Moscovici, numero uno dell’economia a Bruxelles, l’ha definita «una rivoluzione per la trasparenza fiscale». Approvata nel dicembre scorso dall’Ecofin, la riforma entrerà in vigore all’inizio dell’anno prossimo e prevede per gli Stati l’obbligo di scambiarsi le informazioni sui tax ruling rispettivamente concessi, così che ogni governo sappia quello che stanno facendo gli altri. I cittadini? Loro no: non devono essere informati, la riforma non lo prevede. Non proprio il massimo della sbandierata trasparenza. Ma tant’è. Il potente dimostra di essere tale quando è in difficoltà. Due anni fa le multinazionali sembravano alle corde. «Mai più LuxLeaks», appunto. Invece alla fine è cambiato poco. I tax ruling restano validi. E soprattutto segreti. Chi può garantire dunque che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere vantaggi fiscali ai colossi dell’economia mondiale? Un dubbio che s’insidia con una forza proporzionale a quella delle multinazionali. Le quali, nell’ultimo anno, hanno annunciato grandi investimenti proprio in Italia, uno degli Stati con le finanze pubbliche più sgangherate dell’Ue. Apple realizzerà a Napoli il primo centro di sviluppo app d’Europa. Cisco investirà 100 milioni di euro in tre anni. Amazon ne metterà sul piatto ancora di più (si dice 500 milioni) per assumere 1.200 persone. Ryanair ha appena promesso di voler spendere un miliardo di dollari nel Belpaese. Che siano proprio queste alcune delle aziende beneficiare dei tax ruling tricolori? Impossibile saperlo. È un segreto di Stato.
C'è chi paga le tasse e chi invece le ruba. Un fiume di denaro pubblico sottratto da società private di riscossione. Ottocento comuni che perdono entrate per centinaia di milioni. Tra spese pazze, finti bond, ranch in Botswana, consulenze d’oro. E soldi a politici, scrive Paolo Biondani e Gloria Riva su "L'Espresso" il 19 maggio 2016. Nell'Italia dei record dell'evasione si apre un nuovo scandalo fiscale: le tasse rubate. Tributi regolarmente pagati dai cittadini, ma spariti dalla casse degli esattori. Che non sono funzionari dello stato, ma imprese private autorizzate alla riscossione. Società con forti agganci politici e bancari, che ora sono sotto accusa a Milano. E' quanto rivela l'Espresso nell'inchiesta in edicola venerdì 20 maggio, che anticipa i primi risultati di un'inchiesta della Procura di Milano e della Guardia di Finanza di Lecco. La prima certezza giudiziaria è che sono scomparsi almeno 150 milioni di euro. Le indagini riguardano tre aziende private di riscossione delle tasse entrate in grave crisi tra il 2014 e i primi mesi del 2016. Le tre società, Aipa, Gruppo Kgs e Mazal, gestiscono soprattutto le entrate fiscali locali, dalle imposte sulle affissioni alle tasse sui rifiuti. L'inchiesta ha verificato che molti tributi pagati dagli italiani sono poi spariti in un vortice di spese pazze, consulenze d'oro, intrighi finanziari con obbligazioni-fantasma e perfino acquisti di ville, scuderie di cavalli e ranch all'estero, tra Botswana, California e Wyoming. A contare i danni per le entrate perdute ora sono circa 800 comuni italiani, da Trieste a Foggia, da Genova a Trapani, Agrigento, Milano, Roma, Cagliari e molti altri centri sparsi per tutta Italia. Tra gli indagati già interrogati o perquisiti, scrive sempre l'Espresso, compaiono i principali manager delle tre società sotto accusa, in particolare Daniele Santucci, Luigi Virgilio e Fabio Massimo Ceccarelli, insieme all'ex sindaco di Forza Italia a Como, il commercialista Stefano Bruni, e al patron del Lecco Calcio, l'imprenditore Daniele Bizzozero. Le indagini riguardano anche un traffico internazionale di obbligazioni americane, che risultano di valore nullo, ma sono state utilizzate per nascondere le perdite delle società di riscossione: i bond-fantasma erano custoditi, in particolare, in una filiale di Banca Etruria. Gli inquirenti stanno ricostruendo molti altri casi di aziende italiane di vari settori che sono state ricapitalizzate, sulla carta, con questi titoli-spazzatura.
Rapporto annuale GdF: 4 mld di danni allo Stato nel 2015, tra sprechi e truffe. I numeri dell'attività della Finanza: aumentano gli evasori totali, oltre 13mila le denunce, scrive Corrado Zunino il 10 marzo 2016 su "La Repubblica". Tra sprechi nella Pubblica amministrazione e truffe ai finanziamenti pubblici, lo Stato italiano ha subito nel 2015 un danno patrimoniale superiore ai 4 miliardi. Il dato è contenuto nel Rapporto annuale della Guardia di Finanza presentato oggi. Nell'ambito di 2.644 accertamenti svolti su delega della Corte dei Conti, sono state 8.021 le persone per le quali si ipotizza responsabilità erariale.
Appalti pubblici assegnati per oltre 3,5 miliardi: quasi un terzo del totale è stato dato in maniera illegale nel corso del 2015. I finanzieri hanno inoltre denunciato 1.474 persone, 73 delle quali sono state arrestate.
Aumentano gli evasori fiscali totali, vale a dire soggetti che pur avendo prodotto reddito risultano completamente sconosciuti al fisco: rispetto ai quasi ottomila individuati nel 2014, la Guardia di Finanza ne ha scoperti 8.485 l'anno scorso. Dal rapporto, inoltre, emerge che sono stati denunciati per reati fiscali 13.665 soggetti, 104 dei quali arrestati. Ai responsabili di frodi fiscali sono infine state sequestrate disponibilità patrimoniali e finanziare per il recupero delle imposte evase per 1,1 miliardi ed avanzate proposte di sequestro per altri 4,4 miliardi.
Sono stati scoperti casi di illegittima appropriazione o illegittime richieste di finanziamenti pubblici, comunitari e nazionali, per oltre un miliardo di euro: 4.084 denunciati, 38 gli arresti. Le truffe nel settore previdenziale e al Sistema sanitario nazionale sono state pari a 300 milioni di euro, ventisette gli arrestati. Ben il 69 per cento dei controlli (11.669) sui requisiti di legge previsti per l'erogazione di prestazioni sociali agevolate e per l'esenzione del ticket sanitario ha rivelato irregolarità per un danno complessivo, anche qui, di 4,2 milioni di euro.
Contro l'evasione e le frodi fiscali 104 arresti. Sono stati 2.466 i casi di "frodi carosello", ovvero la creazione di società cartiere o fantasma per la costituzione di crediti Iva fittizi e indebita compensazione. I casi di evasione internazionale sono stati 444, per la maggior parte riconducibili a fenomeni di fittizio trasferimento all'estero della residenza di persone fisiche e di società. Sono stati 5.184 i datori di lavoro che hanno impiegato 11.290 persone in nero e 12.428 i lavoratori irregolari accertati. Per tutelarsi dalle frodi fiscali, la Finanza ha sequestrato disponibilità patrimoniali per 1,1 miliardi di euro e proposto sequestri per altri 4,4 miliardi. Su 2.813 pompe di benzina controllate, 2.077 sono risultate irregolari: il 74 per cento.
Accertamenti economico-patrimoniali per indagini di mafia su 9.180 persone e 2.182 tra aziende e società. Sequestrati 4.261 beni mobili e immobili, 316 aziende, quote societarie e disponibilità finanziarie per un valore di 2,9 miliardi di euro. La confisca ha riguardato 93 aziende, nonché quote societarie e disponibilità finanziarie per altri 747 milioni di euro. Settanta gli arrestati per associazione mafiosa, 111 per riciclaggio, 17 per autoriciclaggio, 53 per usura.
Nelle indagini svolte nei settori dei reati societari, fallimentari, bancari, finanziari e di Borsa sono state denunciate 6.253 persone di cui 267 tratte in arresto. Accertate distrazioni patrimoniali in danno di società fallite per due miliardi di euro. I controlli svolti ai valichi di confine, ai porti e agli aeroporti hanno accertato valuta in eccesso per 104 milioni di euro.
Sequestrati più di 390 milioni di prodotti illegali, perché contraffatti, piratati, pericolosi o recanti falsa o fallace indicazione di origine o provenienza: tre miliardi di euro il valore stimato.
Tolte dal mercato 8.800 tonnellate e 31 milioni di litri di generi agroalimentari contraffatti o prodotti in violazione alla normativa sul Made in Italy.
Sequestrati o oscurati 603 siti internet utilizzati per lo smercio di articoli contraffatti o opere audio-video riprodotte illecitamente. Su 5.765 controlli effettuati dalla Guardia di Finanza in sale giochi e centri scommesse, sono state riscontrate irregolarità nel 30% dei casi.
Sequestrati 576 apparecchi automatici da gioco e 1.224 postazioni di raccolta di scommesse clandestine. Sono oltre 36 milioni le giocate nascoste al fisco. Nell'attività di contrasto al falso monetario sono state sequestrate 1.402.945 banconote false per un valore complessivo di 57 milioni di euro. Scoperte, ancora, tre stamperie clandestine.
Sequestrate 69,7 tonnellate di droga, 52 delle quali in operazioni svolte in mare. Cinque i cargo sequestrati. In tutto, 1.709 gli arresti per traffico di stupefacenti. Altre trenta imbarcazioni sono state sequestrate perché utilizzate per l'immigrazione clandestina.
Il rapporto si riferisce a questo?
Scontrino di 0,10 euro in meno: il Fisco vuole togliergli il bar. All'imprenditore è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. E ora rischia di perdere il bar, scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 21/03/2016 su “Il Giornale”. L'ennesima, tremenda ingiustizia del Fisco. Che colpisce piccoli e grandi imprenditori senza alcuna intransigenza. Senza ascoltare l'urlo della crisi. La direttrice dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi, aveva detto che "chi non collabora conoscerà il lato oscuro degli accertamenti". E il lato oscuro è proprio quello che ha colpito il Bar Gianni di Trieste e il suo titolare, Stefano Karis. Una vicenda che ha i contorni dell'assurdo. All'imprenditore, infatti, è arrivata una contestazione per aver battuto uno scontrino da 1 euro, invece che da 1,10 euro, come sarebbe dovuto essere. Insomma, per errore ha scritto sullo scontrino appena 10 centesimi di caffè in meno. E così è arrivata la mannaia del Fisco. Forse l'Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza pensavano che per colpa di quei 10 centesimi dichiarati i conti dello Stato sarebbero andati in malora. Karis, da parte sua, prova a instaurare una battaglia contro i mulini a vento. Si è difeso, spiegando di aver premuto per errore il tasto “caffè” (1 euro) della cassa al posto di “decaffeinato” (1,10 euro). Niente da fare. I finanzieri hanno scritto il verbale, facendo scattare la multa contro il commerciante. Infatti, se l’Agenzia delle Entrate deciderà di punire fino in fondo, il titolare del bar rischia la sospensione della licenza, sanzione amministrativa di 516 euro e l'obbligo di chiusura del negozio. Su Facebook il titolare del bar ha pubblicato la foto del verbale, corredata da un commento amaro in dialetto veneto: "Verbale della finanza perché go battudo un scontrin de 1€ invece che 1,10 € perché el caffè iera deca. Ma con quel che succedi in sto Paese, vendo bar per due euro e vado via da questo Paese di merda". Una comprensibile reazione alla follia fiscale.
Fisco. Rapine in corso ed estorsione legalizzata. Inchiesta sulla mafia di Stato di Riccardo Trombetta su “Striscia la Notizia” di Canale 5 su Mediaset del 12 febbraio e 8,9,11,14,16,17 marzo 2016 e l’Inchiesta di Nicola Porro su Virus di Rai 2 del 17 marzo 2016.
Art. 416 bis c.p.: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.” INTIMIDAZIONE ED ASSOGGETTAMENTO. L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti".
IN UN PAESE NORMALE CON QUESTA INCHIESTA SAREBBE NATA UNA RIVOLUZIONE. IN ITALIA NULLA. PERCHE’ UN POPOLO DI COGLIONI SARA’ SEMPRE GOVERNATO, AMMINISTRATO, GIUDICATO DA COGLIONI.
A Striscia la notizia parla un funzionario dell'Agenzia delle Entrate sugli avvisi illegittimi. "La sera del 17 marzo 2016 a Striscia la notizia va in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia", scrive in una nota Mediaset. "Questa sera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40) andrà in onda la testimonianza di un funzionario dell'Agenzia delle Entrate che per lavoro produce proprio gli avvisi illegittimi di cui il Tg satirico di Antonio Ricci ha parlato nel corso di varie inchieste per cui l'Agenzia delle Entrate ha minacciato azioni legali contro Striscia" annuncia con un comunicato Mediaset. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto il funzionario ai microfoni dell'inviato Riccardo Trombetta, e ha aggiunto: «Voglio spiegarvi come funziona questo sistema, che è un sistema a discapito del cittadino. Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita. Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell'interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno. Pensano alle loro tasche, non a quelle dei cittadini». Inoltre, il testimone conferma che il mercanteggiare fa parte del sistema: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta»" rivela ancora la fonte di Striscia la notizia.
L'uomo del fisco si sputtana in diretta tv: se comprate una casa siete rovinati, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano” il 18 marzo 2016. A Rossella Orlandi, direttrice della Agenzia delle Entrate, piace il cinema. Tutti abbiamo potuto ammirarla mentre si calava nei panni del malvagio Darth Vader e si esibiva in una minacciosa citazione di Star Wars: «Chi non ha risposto ad un approccio collaborativo, conoscerà il lato oscuro dell'accertamento». Però a Rosella Orlandi piace un po' meno la televisione. Specie quando trasmette programmi che raccontano il «lato oscuro» del Fisco. E infatti, pochi giorni fa, l'Agenzia delle entrate ha emesso un comunicato in cui spiegava di stare «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali» nei confronti di Striscia la notizia. Da qualche settimana, il tg satirico di Antonio Ricci manda in onda servizi che raccontano le vicende di alcuni malcapitati a cui l'Agenzia ha indirizzato multe e sanzioni per migliaia di euro. Guardandoli con attenzione, se ne deduce che il Fisco non mostra il suo «lato oscuro» soltanto con chi fa il furbo, ma pure con chi segue le regole e, sulla carta, non avrebbe nulla da temere. L' aspetto più odioso della faccenda consiste nel fatto che, molto spesso, ci sono di mezzo immobili, dunque case o uffici acquistati dai cittadini a prezzo di sacrifici. L' inviato di Striscia Riccardo Trombetta ha intervistato varie persone a cui è capitata la stessa cosa: dopo l'acquisto di un terreno o di un locale, i poveretti si sono visti recapitare dall' Agenzia delle entrate un avviso con annessa sanzione, piuttosto salata per giunta. Facciamo un esempio. Uno degli intervistati ha spiegato di aver comprato un locale, pagandolo 210 mila euro, per farne una piccola palestra di yoga. Non passa molto tempo, ed ecco che arriva la comunicazione del Fisco, in cui si dice che - in base alle valutazioni dell'Agenzia delle entrate - il valore dell'immobile è in realtà di 313 mila euro e rotti. Segue multa di circa 20 mila euro. Stessa cosa per il proprietario di un terreno: lo ha pagato 35 mila euro, ma l'Agenzia gli ha attribuito un valore undici volte superiore: multa di 84 mila euro. Il problema, però, è proprio la valutazione del Fisco. Tutti gli intervistati spiegano che l'Agenzia delle entrate non ha effettuato sopralluoghi, dunque i funzionari hanno valutato case e terreni senza vederli. In alcuni casi, sui documenti ufficiali, hanno persino sbagliato gli indirizzi. Come hanno fatto a stabilirne il prezzo, allora? Semplice, hanno paragonato i terreni e gli immobili ad altri con un valore di mercato più alto. La sensazione, espressa da alcuni degli intervistati da Striscia, è che il Fisco abbia volutamente sopravvalutato locali e terreni per poter emettere una sanzione, contando sul fatto che - per non avere guai - i cittadini avrebbero pagato. «Poiché ho protestato», ha spiegato uno dei poveretti, «ho avuto la sensazione che mi facessero uno sconto». Di fronte a tutte queste testimonianze raccolte da Striscia, il «Fisco amico» della Orlandi che fa? Manda un comunicato in cui ventila azioni legali. Alla faccia della collaborazione. Peccato che, ieri sera, il tg satirico abbia mandato in onda una testimonianza eloquente. Un funzionario dell'Agenzia delle entrate, a volto coperto, ha rilasciato un'intervista all' inviato Trombetta. «Ho visto i vostri servizi e mi sono reso conto che state dicendo la verità», ha detto. Poi ha spiegato come funziona il sistema: «Noi facciamo delle ricerche di mercato esclusivamente puntate ad aumentare il valore che viene dichiarato nell'atto di compravendita», ha raccontato. «Ci viene imposto dal dirigente. Il dirigente si sente forte del suo operato, perché dice che opera nell' interesse dello Stato. Non rischia nulla, anzi, addirittura prende un premio a fine anno». Inoltre, il funzionario ha confermato il mercanteggiamento sulle multe da pagare: «Quando l'Agenzia convoca il cittadino e gli propone di pagare una cifra di molto inferiore (rispetto alla perizia), il cittadino preferisce pagare per non avere problemi. In questo modo l'Agenzia fa una bella figura e recupera una somma, diciamo, ingiusta». Capito? Il Fisco sovrastima le case e i terreni acquistati dagli italiani, e propone una sanzione pesante. Poi, quando il cittadino si presenta, la abbassa, mostrandosi «collaborativo», e convincendo i più ad aprire il portafogli e a pagare una multa che non si meritano. A questo punto, dopo il pagamento dell'ingiusta sanzione, l'Agenzia potrebbe consegnare ai cittadini una bella ricevuta con scritto: «Benvenuti nel lato oscuro». Se proprio bisogna prendere in giro la gente, lo si faccia fino in fondo.
Le Entrate attaccano «Striscia la notizia»: minacciati dipendenti, scrive Libero il 16 Mar 2016. Striscia la notizia denuncia l’approssimazione con la quale Agenzia dell’Entrate consegna ai contribuenti accertamenti fiscali, e l’anagrafe tributaria se la prende con la banda di Antonio Ricci. L’Agenzia delle Entrate ha infatti condannato «con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori» del servizio “Rapine in corso”, andato in onda lunedì 14 sera su Canale 5. Non solo l’Agenzia delle Entrate ha anche annunciato che sta «valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti». L’anagrafe tributaria punta il dito non tanto sui contenuti, gli eventuali errori nell’erogare cartelle, quanto sui toni di Striscia. In particolare, sottolineano in una nota, «le espressioni utilizzate durante il servizio (...)sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale».
L’Agenzia delle Entrate condanna fortemente Striscia la Notizia. Pubblicato un comunicato in cui l'Agenzia condanna i toni utilizzati dal programma di Canale 5 nella puntata del 14 marzo di "Rapine in corso", scrive Marco Napoletano il 15 marzo 2016. Una cosa è certa, Striscia la Notizia ha infastidito e non poco, l’Agenzia delle Entrate. L’ha infastidita al punto da far diramare un comunicato stampa di ferma condanna nei confronti della trasmissione di Canale 5 diretta da Antonio Ricci rea, secondo il comunicato, di aver utilizzato espressioni lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate ma soprattutto intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Tutto nasce dai servizi di Striscia realizzati da Riccardo Trombetta e denominati “Rapine in corso” nei quali, il conduttore, si sofferma su presunte pratiche dell’Agenzia delle Entrate, non cristalline nella valutazione di immobili acquistati dai contribuenti definendole addirittura “estorsioni legalizzate”. Il comunicato è stato diramato oggi 15 marzo in relazione, nello specifico, alla puntata del 14 marzo di Striscia la Notizia. Nel servizio, l’Agenzia delle Entrate viene accusata di effettuare valutazioni sul valore di un terreno senza fare i dovuti sopralluoghi e quindi, incrementare il suddetto valore di circa 11 volte il valore di acquisto imponendo quindi una sanzione all’acquirente. Nel comunicato l’Agenzia precisa che il programma televisivo non ha mai chiesto di poter verificare la correttezza delle affermazioni riportate rendendo quindi impossibile riscontrare se vi siano errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale. A far infuriare ulteriormente le Entrate è stato l’accostamento dei propri funzionari al personaggio di Marlon Brando interpretato ne “Il Padrino” facendo quindi alludere ad un atteggiamento mafioso della stessa Agenzia superando, secondo il comunicato, il limite del buon gusto e del rispetto delle istituzioni. L’Agenzia delle Entrate si riserva quindi la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti.
Roma, 15 mar. (AdnKronos) - L'Agenzia delle Entrate "condanna con fermezza i toni e le modalità con cui è stato esercitato il diritto di cronaca da parte di giornalisti e autori" del servizio 'Rapine in corso', andato in onda ieri sera all’interno del programma Striscia la Notizia su Canale 5. Lo rende noto l'Agenzia delle Entrate annunciando che sta "valutando la possibilità di intraprendere azioni legali a tutela della propria immagine e della sicurezza dei propri dipendenti". In particolare, sottolinea in una nota, "le espressioni utilizzate durante il servizio, come ad esempio “trovare l’indirizzo del funzionario che ha firmato e bruciargli la casa”, sono non soltanto lesive dell’immagine e della professionalità dei dipendenti delle Entrate, ma soprattutto pesantemente intimidatorie nei confronti di tutto il personale. Riteniamo, altresì, che l’accostamento del comportamento dei nostri funzionari alla condotta mafiosa del personaggio del film 'Il Padrino', del quale viene trasmesso un estratto modificato, per alludere ad un atteggiamento vessatorio dell’Agenzia, abbia superato il limite del buon gusto e del rispetto delle Istituzioni". Nel merito dei casi trattati, sottolinea l'Agenzia delle Entrate, "va sottolineato che la redazione di Striscia la Notizia non ha mai chiesto all’Agenzia delle Entrate di poter verificare la correttezza e la genuinità delle affermazioni riportate nel citato servizio, rendendo impossibile a questa Amministrazione poter riscontrare se vi sono errori o inesattezze nell’operato degli Uffici relativamente alla gestione delle singole pratiche di accertamento fiscale". "Riaffermare nel sistema Paese, tempestivamente e con ogni lecito mezzo, la mission e il ruolo di migliaia di funzionari, che altro non chiedono che di lavorare con serenità, soddisfazione, adeguata remunerazione, prestigio e, quindi, legittimazione sociale". Questo l'auspicio di Sebastiano Callipo, segretario generale del Confsal Salfi, sindacato autonomo dei lavoratori finanziari, in una lettera inviata al direttore dell'Agenzia delle Entrate, Rossella Orlandi. Il leader sindacale prende atto, con soddisfazione, "del comunicato stampa, diramato dall'Agenzia, sul merito del servizio 'Rapine in corso', in quanto esistevano ed esistono, da un lato, sufficienti motivazioni per stigmatizzare apertamente il comportamento dei responsabili del servizio televisivo in narrativa e, dall’altro, ampie quanto diffuse ragioni per sostenere, anche con siffatta tipologia comunicativa, l’onorabilità delle lavoratrici e dei lavoratori dell’Agenzia delle Entrate".
Dall'altra parte c'è il grande fallimento di Riscossione Sicilia. Spese esagerate, lussi incomprensibili, contrasti politici e casse vuote: il crac dell'ente siciliano preposto alla riscossione delle tasse, scrive "Panorama" il 18 gennaio 2016. Un aereo da 12 milioni di euro è rimasto fermo per quattro anni all'interno di un hangar dell’aeroporto di Catania. Apparteneva a una signora che gestiva un bar a Maletto, un paesino della provincia etnea. È stato pignorato pochi mesi fa. La proprietaria aveva eluso il fisco per centinaia di migliaia di euro. La storia della riscossione in Sicilia è anche questa. È storia pirandelliana di paradossi e abusi. Di follie e mafia. Di patrimoni ed evasioni allo stesso modo enormi. Oggi, a riscuotere le tasse nell’Isola è un'azienda che ha come socio al 99,9 per cento la Regione siciliana. Si chiama Riscossione Sicilia. Ma l’ironia è già nel nome. Perché questa agenzia di riscossione non riscuote granché. Anzi. I numeri sono deprimenti. Nel 2014, a fronte di 5,7 miliardi da incassare, la Sicilia ha portato nelle sue casse appena 481 milioni. L’otto per cento. Per i redditi più alti, quelli superiori a 500 mila euro, la quota era ancora più bassa: il 3,66 per cento. Cifre un poco migliorate nell’ultimo anno. Ma ancora imbarazzanti. Eppure per il presidente della Regione Rosario Crocetta quell’azienda è un fiore all’occhiello. È uno degli ultimi baluardi di un autonomismo che oggi, dati alla mano, pare quantomeno anacronistico. «La Lega Nord pagherebbe per avere un gabelliere tutto suo» ripete il governatore. Nella maggior parte delle Regioni d’Italia, in effetti, a svolgere quelle funzioni è Equitalia: una società certamente non amata dai contribuenti ma che, quantomeno, grazie anche ai contributi statali riesce a stare in piedi senza denunciare perdite. E verso la quale in tanti, anche nell’isola, iniziano a guardare, in vista di un possibile trasferimento delle funzioni dell'agente di riscossione siciliano. In Riscossione Sicilia lavorano 702 persone, in bilico da quando l’assemblea regionale siciliana ha negato la ricapitalizzazione dell’azienda: 2,5 milioni, questa la richiesta giunta a Natale dal governo Crocetta ai deputati siciliani, per mantenere in piedi una società che ha eroso ormai completamente il capitale. Ma che nonostante ciò si appresta a erogare premi ai dipendenti per un totale di 7 milioni di euro. Somme frutto di un accordo sindacale di un paio d’anni fa e mai rispettato. Parte del consiglio d’amministrazione, però, si è messo di traverso, bloccando per il momento quei bonus. Oggi, infatti, nelle casse della società non c'è un euro, malgrado nel 2014 a Riscossione fosse stato assicurato un altro contributo pubblico di 40 milioni. L’agente di riscossione siciliano, insomma, è praticamente fallito. «Non mi resta che portare i libri in tribunale» ha tuonato infatti a fine dicembre il presidente dell’azienda, l’avvocato catanese Antonio Fiumefreddo, dopo il no alla ricapitalizzazione del consiglio regionale. L'amministratore ha poi accusato gli stessi deputati siciliani che avevano bocciato il contributo: «Sono mascalzoni travestiti da esponenti delle istituzioni» ha detto Fiumefreddo, che a sua volta ha un passato politico assai variopinto, prima a fianco del sindaco berlusconiano Raffaele Stancanelli, poi del governatore Raffaele Lombardo condannato in primo grado per associazione mafiosa. Fiumefreddo è entrato da tempo nelle grazie di Crocetta. Il presidente della Regione ha provato più volte a nominare Fiumefreddo assessore della sua giunta. Ma si è sempre dovuto scontrare col veto dei partiti della sua coalizione, Pd in testa. E il presidente di Riscossione, a dire il vero, non ha fatto nulla per farsi amare dai politici siciliani. Anzi, si è beccato anche una querela per diffamazione dall’assemblea regionale proprio per le sue parole. Non solo «mascalzoni», ma anche «pirati». Fiumefreddo, che ha anche chiesto di essere ascoltato in Procura a Palermo, ha denunciato: «Non mi meraviglierei se tra i pirati, che si sono nascosti dietro il voto segreto (per negare la ricapitalizzazione i Riscossione Sicilia, ndr), ci siano parte dei 61 parlamentari ai quali per la prima volta nella storia abbiamo notificato i pignoramenti delle loro laute indennità». Insomma, su 90 consiglieri regionali, secondo Fiumefreddo 61 sarebbero stati pignorarti per inadempienze fiscali. Pochi giorni dopo, ecco saltare fuori una lista dei politici «morosi». Tra questi, anche il presidente Crocetta che aveva chiesto la rateizzazione del suo debito. Mentre molti deputati replicavano: «Da Fiumefreddo solo slogan e offese al parlamento. Pensi a far funzionare la società: non si può pensare di regalare all'azienda ogni anno milioni di euro». Così la guerra tra Riscossione e consiglio regionale è finita in tribunale. Un destino già scritto, in un certo senso, per una società che fino a pochi mesi fa poteva contare sulla bellezza di 887 avvocati, il triplo di quelli a disposizione della Casa bianca. Legali «scelti clientelarmente» ha denunciato Fiumefreddo. Quegli incarichi sono poi stati azzerati. Ma sono il segno di un’azienda azzoppata da sprechi e inefficienze. Come quelle relative alle spese per le sedi sparse per tutta l’isola. La società, per esempio, ha pagato fino a pochi mesi fa un contratto d’affitto da quasi mezzo milione l’anno in uno dei più piccoli capoluoghi dell’Isola, cioè Ragusa. Spese esagerate, lussi incomprensibili e strumenti tecnologici obsoleti. Ingredienti che hanno portato al dissesto. Che eppure nell’ultimo anno ha dato segnali di risveglio con una crescita del riscosso del 31 per cento e anche con alcune azioni clamorose. Come le decine di pignorare d’auto di lusso in possesso a grandi evasori fiscali. «In Sicilia» ha spiegato Fiumefreddo «a causa di elusioni fiscali o mancato versamento di imposte andrebbero pignorate 230 mila automobili». Riscossione si è limitata a sequestrarne un migliaio. Tra cui 116 Porsche, 46 Jaguar, 33 Ferrari e tre Cadillac. In quell’occasione, è stato pignorato anche l’aereo da turismo della barista di Maletto. Ma non basta. Anche perché l’impotenza della società di Riscossione si traduce nei dati sull’evasione fiscale nell’Isola, di gran lunga più elevati rispetto alla media nazionale. È questo il risultato di anni in cui la riscossione in Sicilia è stata terra di abusi e sprechi, di ingenti e repentine ricchezze ma anche di ombre e malaffare. A cominciare dagli anni in cui a gestire l’esattoria a Palermo e in 75 Comuni siciliani erano i cugini Nino e Ignazio Salvo, imprenditori di Salemi, paesino del Trapanese, legati a Cosa nostra. Non a caso entrambi finirono sul banco degli imputati del Maxiprocesso: Nino morì prima della sentenza, mentre Ignazio fu condannato a tre anni di reclusione. Negli anni novanta, arriva la Montepaschi-Serit, società che fa capo all’Istituto di credito. Nel 2010 la Regione siciliana acquista le quote in possesso a Monte dei Paschi di Siena con un’operazione su cui restano molti dubbi, soprattutto per il valore attribuito alle quote dei privati: la Regione siciliana pagò circa 400 milioni di euro, un prezzo «assolutamente esoso» denuncia Fiumefreddo: «Ma la cosa più grave» aggiunge «è che non l’ha deciso nessuno, anzi l’ha deciso chi vendeva». Ombre del passato su una società che oggi affonda. Eppure, nonostante le difficoltà, il riscossore fa sempre paura. Ne sa qualcosa il deputato regionale Michele Cimino, che in un’audizione in Commissione bilancio all’Ars, dopo la diffusione dei primi nomi di parlamentari morosi è intervenuto per precisare che «c’è anche un Cimino Michele nato a Trento. Io» ha spiegato «sono nato a Porto Empedocle e non ho 70 anni». È di Porto Empedocle, precisa il deputato: un paese a due passi dalla casa di Luigi Pirandello. Dalla sua penna sembra uscita la storia di Riscossione Sicilia, che non riscuote mai.
"L'Agenzia delle Entrate fa estorsioni": la confessione choc dell'ex dirigente, scrive “Libero Quotidiano” il 31 marzo 2016. A Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.40 30 marzo 2016) la testimonianza di Luciano Dissegna che, per 30 anni, è stato dirigente e funzionario dell’Agenzia delle Entrate. Dissegna si è detto “sbalordito” per i servizi mandati in onda da Striscia nelle scorse settimane: "Finalmente un organo di informazione che dice la verità", ha dichiarato all’inviato Riccardo Trombetta. "I dirigenti hanno sempre fatto carriera in base al cosiddetto obiettivo monetario", racconta l'uomo, "più soldi si incassano più il dirigente fa carriera e anche soldi. Credo che, a fine anno, i dirigenti più grossi portino a casa anche 70-80mila euro in più". I cittadini più colpiti dagli accertamenti, ha spiegato l’ex dirigente, sono i piccoli imprenditori: "Arriva un avviso d’accertamento da 100mila euro e, davanti alla proposta di pagarne metà, ci si trova costretti a pagare. Questa costrizione io la trovo inaccettabile. Questa è, dal mio punto di vista e in buona fede, la più grande estorsione di tutti i tempi. È una situazione di potere provocata da accertamenti presuntivi e discrezionali: dietro la discrezionalità c’è la corruzione. Sono andato via perché non potevo accettare questa situazione e anche perché rischiavo molto grosso. Mettersi contro l’amministrazione è pericoloso".
CLEPTOMANIA E CLEPTOFILIA NEL REGIME FINANZIARIO DELLA UNIONE EUROPEA E ITALIANO. Saggio di Manlio Tummolo. Il presente lavoro è dedicato a tutti i cittadini, lavoratori, contribuenti e consumatori, europei e italiani. Molti studiosi di economia e di scienza delle finanze, di fronte alla disastrosa situazione europea e italiana degli ultimi decenni si arrampicano su scivolosissimi specchi nel tentativo di spiegarla con le solite tradizionali dottrine d’impronta liberista che hanno dimostrato il loro insignificante vuoto almeno dal 1929. Viceversa, è ben più utile cercar di capire la crisi nelle sue reali ragioni in un libro di Mario Giordano, “L’Unione fa la truffa”, pubblicato da Mondadori già nel 2001 col sottotitolo “Tutto quello che vi hanno nascosto sull’Europa”. Eppure le radici di tutto questo sono ben lontane, almeno fin dal 1972, quando fu inventata l’IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) e creato il nuovo sistema fiscale col relativo Testo Unico delle Imposte sul Reddito (TUIR), di cui noi italiani abbiamo ben due versioni: una “previgente” (ma non del tutto abrogata) e l’altra vigente... pur significando in lingua italiana “unico” come ciò che è solo ed esclusivo (nondimeno questo aggettivo viene usato per imposte - cfr. IMU - tutt’altro che uniche). Allora si passò dalla vecchia Dichiarazione Vanoni, piuttosto semplice, all'attuale IRPEF - sempre più complicata allo scopo di spennare il popolo in modo crescentemente feroce.
Un sano sistema fiscale deve essere fondato:
1) sulle reali esigenze di uno Stato, correlate alle effettive risorse della popolazione di quello stesso Stato;
2) sulla proporzione diretta o crescente tra i beni dei singoli e la serie di tributi, diretti e indiretti, che su di essi grava;
3) sulla semplicità e chiarezza delle procedure necessarie a pagare quei tributi;
4) sul buon uso che lo Stato dovrebbe fare della massa di introiti ricevuti dalla popolazione soggetta al fisco.
Viceversa, non occorre essere un esperto in materia finanziaria e fiscale per verificare che il nostro sistema fiscale è esattamente all'opposto perché non corrisponde alle esigenze dello Stato, non tiene conto delle reali risorse della popolazione, non è né direttamente né in modo progressivo proporzionato ai beni dei singoli, non utilizza procedure chiare e limpide, ma semmai estremamente contorte fin dai termini stessi adoperati (l’aggettivo “unico” ne è un manifesto esempio), non utilizza i propri introiti per il bene della popolazione ma li spreca nell'alimentare ogni genere di parassitismo, premiando il crimine piuttosto che l’onestà. Si parla e si straparla assai spesso di “paradisi fiscali” e di “evasione fiscale”, ma assai poco di “inferni fiscali” e di “invasione fiscale”, come - ahi, ahi, ahi noi !!! - si verificano nella UE (che vorrebbe dire Unione Europea”, ma va specificato che non è un’unione di cittadini bensì un’aggregazione di affaristi e imbroglioni capaci solo di sfruttare parassitariamente la pazienza dei cittadini sotto lo scudo di ideali pretestuosi). Troppo spesso si sente parlare della necessità di “più Europa”, mentre non si tratta di accrescere né i già troppi poteri affidati a chi non è neppure eletto (commissari e consiglieri europei), ma nominato dagli sgoverni degli Stati, né aumentare il numero degli Stati aderenti sulla base poi solo del cosiddetto PIL. Viceversa, si tratta di creare un’Europa vera, autentica, migliore, nella quale non si cede la sovranità ad un’accozzaglia di nullafacenti e complici di trafficanti, ma di condividere pienamente ed egualitariamente una sovranità europea. E cominciamo pure dalla stessa “imposta sul valore aggiunto”, nata nel 1972, che è ben un’imposta aggiunta alle altre indirette, ma il “valore aggiunto” qual è? Dove si trova? Di che si tratta? Durante le lezioni universitarie di Diritto Tributario, docenti e ricercatori ben si sforzano di chiarire agli attoniti studenti che non è un’imposta a “cascata”, come la vecchia IGE (Imposta Generale sulle Entrate), ovvero che si ripercuote su tutti i livelli di esazione, e credono di aver detto una cosa intelligente, dimenticando però che la vecchia IGE era piuttosto bassa (il 3 %, suppergiù) e che per la sua piccolezza si risentiva relativamente, ma che anche l’IVA è a cascata, con questa differenza che, dal produttore all’ultimo consumatore, si paga un’IVA crescente man mano che il prodotto nei vari gradi di vendita aumenta di prezzo, e che chi la paga è l’ultimo fesso della scala economica, che non avendo partita IVA, non può scaricarla su nessuno, nemmeno, come sarebbe equo, sulla propria dichiarazione dei redditi. Non solo: ma l’aliquota IVA è ben più alta di quella IGE. Che si fa poi di questi introiti? Una bella parte di essi serve a mantenere i capricci della Commissione UE e dei Consigli associati, i suoi lussi e, quando essa vuole, ridistribuita su canali fissi, preventivi, arbitrari, tanto nessuno ha il reale potere di farli modificare: altro che il famoso principio anglosassone del “senza rappresentanza, nessuna tassazione”, che fu causa delle due Rivoluzioni Inglesi, di quella Americana e, in parte, della Rivoluzione Francese. Ma torniamo al “valore aggiunto”: dov’è, dove si trova, chi lo determina? In che cosa consiste? Nessuno ve lo sa dire, perché il valore di un prodotto o servizio risulta solo quello che viene ceduto a chi lo acquista, lo consuma o lo utilizza, o se preferite quello di chi lo paga di passaggio in passaggio. L’uso poi di questi introiti è assolutamente negativo ed incontrollabile, e lo verifichiamo, perché largamente e spropositatamente dato agli Stati che aderiscono per ultimi alla UE, mentre quelli che pagano da decenni (dal 1957, per intenderci) ricevono molto meno di quanto dato, e larga parte è persa in strani meandri (vedi la nostra beata Italia). Altra questione: dal linguaggio economico, che non brilla mai per chiarezza, si parla tanto del Prodotto Interno Lordo (PIL), come base di calcolo a cui riferire il debito pubblico di uno Stato: ma anche questo che diavolo significa? Un lordo presuppone altresì un netto ed una tara: or dove sono il prodotto interno netto e il prodotto interno tarato? Mah, misteri e giochetti su termini che non hanno alcun significato esatto, tanto è vero che oggi - su indicazione della UE e della sua impareggiabile Commissione - vengono calcolati ad libitum o ad oculum anche i prodotti del tutto incalcolabili della criminalità, così come ad oculum si calcola l’evasione fiscale (lo Stato si aspetta, del tutto fantasiosamente, di guadagnare dalle imposte 100; ne riceve 50. Ecco che si mette a gridare: abbiamo il 50 % di evasione fiscale. Che ciò sia soltanto una disinvolta approssimazione è dimostrato quando, in conclusione di un contenzioso tributario, deve accontentarsi - specie con i ricconi che possono difendersi - del solo 30 % del preventivato, e allora canta vittoria). A parte il fatto indecente di considerare la criminalità una fonte di reddito per lo Stato (invece di combatterla per annientarla o almeno per ridurla ad un termine minimo), nell’economia in versione UE, la morale non vale, ma evidentemente neppure il Diritto: per definizione introiti illeciti e non denunciati sono incalcolabili, e quindi non vanno calcolati neppure per approssimazione, senza creare l’illusione di essere più ricchi del reale (è pur vero che le attività criminali generano, per chi le pratica, ricchezza, ma questa non circola nello Stato in generale, bensì nell’ambito criminale, come in un cerchio quasi interamente chiuso. Lo Stato ne viene danneggiato, non favorito: di qui l’esigenza, non solo etico-giuridica, ma economica, di combattere la criminalità con ogni mezzo). Ora, il punto è questo: uno Stato o Unione, che “legalizzi o formalizzi” l’attività criminale come PIL, non fa altro che manifestare la propria affinità e simpatia col crimine stesso, considerandolo un fenomeno fisiologico, invece che patologico, qualcosa di benefico anziché, come dovrebbe, di venefico e maledetto. Quanto all’Italia, il discorso è ben lungo e meriterebbe un’enciclopedia, a molti volumi, e non certo un singolo libro: data dall’intera storia italiana e potremmo risalire alla Repubblica Romana e ai suoi pubblicani. Leggendo la “Vita di Lucullo” in Plutarco ed altri testi del tempo, scopriremmo i metodi di esazione feroci utilizzati da quel regime, e poi imitati in forme più o meno attenuate anche ai nostri tempi. Del resto, dalle XII Tavole si sa che i creditori avevano anticamente il diritto di fare a pezzi letteralmente il loro debitore moroso, doloso o colposo che fosse. Poi ci si accorse che era più conveniente spogliarlo d’ogni bene, renderlo schiavo con l’intera famiglia, e considerarlo un oggetto. Non è che oggi la mentalità sia molto diversa, malgrado conclamate garanzie. Ma di ciò più avanti. E’ dunque almeno da duemila anni che si preferisce, per avidità, ricevere alla fine poco, non facilitando al debitore la possibilità di pagare decentemente il suo debito. E come, vi domanderete? Semplicemente non calcolando in modo assurdo e sproporzionato gli interessi attribuiti al debito (ben superiori a quelli sul credito, detto di passaggio), bensì dando all’interesse una diretta proporzione col costo della vita effettivo. Chiunque legga studiosi italiani di politica fiscale, almeno dal XIX secolo e particolarmente dall’unità d’Italia vede che tali autori segnalarono fin da allora la costante esosità delle imposte, sia per volume complessivo e individuale delle stesse, sia per le procedure di esazione, sia infine per il pessimo uso delle stesse. Per tutte queste ragioni, il cittadino italiano sente atavicamente, geneticamente, come odioso ed inaccettabile il sistema fiscale che grava su di lui. La propaganda di regime e giornalistica (serva della prima) giustifica l’enorme cumulo fiscale col pretesto del debito pubblico, ma per nulla cerca di spiegarne l’origine, anzi, per soprammercato, usa la frase tipica “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”, senza per nulla dire chi realmente “viva al di sopra delle sue possibilità”. Di certo, non il normale cittadino, lavoratore, pensionato, contribuente e consumatore, semmai oberato da questo peso insostenibile. Ma che cos’è il debito pubblico, donde nasce storicamente? Secoli fa, ancora nel Medioevo, il reuccio, il feudatario, il signorotto, ecc. ecc., non avendo cognizione alcuna di un’economia e di una finanza ben regolate, di un sistema fiscale adeguato alle risorse esistenti, si facevano prestare dalle prime banche (italiane e tedesche soprattutto) ingenti somme per i loro rispettivi capricci: una vita di corte sfarzosa, mantenimento di cortigiane e cortigiani, guerre e guerricciole, crociate, ecc. ecc. Quando il sistema di gabelle imposto ai sudditi non bastava a pagare i banchieri creditori, i vari sovrani (Francia ed Inghilterra soprattutto) finivano per non pagarli affatto: da qui, le prime crisi bancarie della storia (specie delle banche fiorentine nel XV secolo). In caso “positivo” di solvibilità, erano i sudditi a dover pagare con sistemi forzosi, che però non consentivano l’attivazione di servizi per il pubblico interesse. Malgrado la Rivoluzione Francese avesse cercato di impostare la questione fiscale nei termini razionalisti dell’Illuminismo, il debito pubblico continuò, perché i vari malgoverni e sgoverni d’Europa, invece di creare un sistema fiscale chiaro e facilmente verificabile dai cittadini da utilizzare secondo le esigenze di uno Stato moderno (servizi pubblici), preferivano avere un sistema d’entrate incontrollato ed incontrollabile, ma più comodo o “soft” (per dirla all’inglese), fondato su un atto volontario, distribuendo carta straccia come titolo ad interesse, così l’affarista versava volontariamente denaro allo Stato, in cambio di un interesse significativo nell’anno. Lo Stato a sua volta, senza dover rendere conto di quanto entrava volontariamente al resto dei cittadini (facendone un uso voluttuario come gli antichi signorotti), pagava e paga gli interessi agli affaristi facendoli incidere sul sistema di imposte. Così, per non essere “impopolari” con un sistema fiscale diretto, severo ma equo, facevano e fanno pagare al popolo questi onerosi interessi, come se il Debito pubblico fosse a vantaggio non di pochi, ma di tutti (basti pensare al buon Mario Monti quando asseriva non pagabili le pensioni con la storia dello spread: oggi sappiamo che tutta quella vergognosa manfrina serviva solo a spremere i contribuenti italiani che già dal 1973/74 hanno visto ridurre sempre più le proprie condizioni economiche per dover pagare i frutti delle speculazioni finanziarie o gli abusi del malgoverno). Il popolo è costretto a pagare, ma non sa né quanto paga, né esattamente perché paga: si pensi ad es., all’automobilista quando si reca a caricare di carburante il proprio serbatoio. In realtà, quando crede di compiere questo fatto privato, egli versa allo Stato da 2/3 a 3/4 di imposte al benzinaio, che così diventa un esattore d’imposta. Non sono i normali cittadini, lavoratori e pensionati, a vivere al di sopra delle loro possibilità, ma esclusivamente i dirigenti politici ed amministrativi dello Stato, i grandi managers delle varie aziende private o semi-pubbliche, certi signori dello sport e delle canzonette, gli acquirenti di titoli pubblici o privati. Generalmente si riconosce l’enorme divario tra i pochi ricchi e i molti poveri, ma la cosa, in regime capitalistico, viene considerata normale e lodevole, anzi si fa di tutto per incrementare (alla faccia della Costituzione e di varie leggi) tali abissali differenze, sicché 10 mangiano per 1000 e 990 devono mangiare quel che resta, come nella celebre favola della guerra del leone con i suoi “alleati” (il non meno celebre patto leonino, pur vietato dal Codice Civile). Biancaneve, nella fiaba, si fa un piattino portando via un cucchiaio dal piatto di ciascuno dei sette nani. Costoro, invece, prendono l’intero piatto, lasciando a tutti gli altri solo un cucchiaio. Pure hanno il coraggio, o meglio l’impudenza, di chiamare tutto ciò “democrazia”… La cosa tristissima è che i normali cittadini si fanno incantare dalla pubblicità del regime e accettano pure essi questo andazzo, ritenendolo fisiologico, corretto e “democratico”. Fino agli inizi del ‘900, quando venivano imposti nuovi tributi sulle farine o altro genere necessario, la gente si ribellava (pensiamo ai Fasci Siciliani), scatenava vere insurrezioni, e, pur riconoscendo che allora i poveri vivevano solo di pane o poco più mentre oggi ancora non siamo a tal punto (ma non ne siamo chissà che distanti), la popolazione contribuente lascia fare, non c’è neppure una rilevante protesta elettorale che richiederebbe agli elettori di evitare il voto, come solenne protesta; non si organizzano forti manifestazioni di piazza, ecc. ecc. . Il quietismo domina sovrano, provocato quasi sempre dal rincitrullimento collettivo (si protesta con violenza per una partita di calcio ma su cose essenziali ci si rassegna pecorescamente). L’ira si accumula ugualmente, ma si sfoga come tra i quattro capponi di Renzo, beccandosi a vicenda o uccidendosi, mentre i responsabili dei mali collettivi si divertono allegramente. Fino a quando questo gioco durerà? E’ difficile prevederlo: anche domani mattina potrebbe scoppiare qualcosa, oppure di qui a mille anni. Di certo, come la storia insegna, più tardi esploderà la situazione, e più violenta sarà. Finora ho parlato della cleptomania dello Stato, ovvero di quanto i vari regimi, per tradizione derubano i cittadini comuni. Ora si tratta di esaminare, viceversa, la cleptofilia dei regimi oggi dominanti. Tutti sanno che il furto, ovvero l’indebita appropriazione aperta o subdola di un bene al suo legittimo proprietario da parte d’un altro, è pratica vietata dal Codice Penale con determinate sanzioni, più o meno gravi, secondo le circostanze e la metodologia, ma forse non tutti sanno che lo Stato e pure organismi privati ritengono il furto, specie quello con destrezza e subdolo, un vero merito, mentre viene considerato demerito per il cittadino che sia derubato in quanto poco furbo o poco attento ai suoi beni. E’ una tradizione molto antica che risale almeno alle norme di Licurgo, a Sparta: infatti, come testimoniano gli storici greci, nell’antica Sparta non era punito il furto in sé, ma il fatto che il ladro si fosse fatto scoprire, poco importa se dal derubato stesso oppure da qualcun altro per conto del derubato. Chiunque di voi lettori sia stato derubato, sa quale sia l’aria di compatimento che ricevete quando denunciate un furto, il cui autore, come nei vecchi films di Totò, è sempre il “solito ignoto”. Poiché giustamente non posso denunciare un nome qualsiasi, rischiando per soprammercato di essere controdenunciato per calunnia o simulazione di reato, devo denunciare un ignoto. Ora, come mi sono sentito dire (ma lo sapevo già) in cancelleria del Tribunale di Trieste, è difficile trovare un ignoto per questo semplice paralogisma: chi è ignoto è sconosciuto, quindi non è perseguibile (si può perseguire, indagare il signore ignoto? Ovviamente no). Pertanto, la denuncia contro ignoti è automaticamente destinata ad essere archiviata in breve tempo. Ovviamente si tratta di paralogisma, soprattutto oggi, quando si sa ogni cosa che viene fatta da qualcuno. Esemplifico: vi viene rubata una tessera bancomat. Il ladro vi spoglia di ogni vostro versamento sempre allo stesso impianto per una serie di volte, finché il vostro deposito si dissolve. Ogni bancomat dovrebbe essere tutelato da una telecamera, che si accorge che lo stesso individuo a quelle ore, mentre voi siete da tutt’altra parte e lo potete dimostrare, fa come il birraio che versa le birre nei boccali. Ora, malgrado questa garanzia, il ladro può presentarsi col casco o celato da un cappuccio, non si fa scorgere il viso, quindi non è individuabile. Oppure, più semplicemente la telecamera non funziona o è mal orientata. Il furto tramite bancomat, specialmente se accompagnato da quello del codice, potrebbe essere evitato se, oltre al PIN, avesse registrato le impronte digitali o una fotografia del titolare, in modo che, se non è egli stesso ad utilizzarlo, il PIN non basterebbe ad estrarre il denaro. Così il ladro di bancomat (a proposito, qualcuno sa dirmi se, per caso, vengano venduti a privati rilevatori di bancomat nei portafogli, considerata la presenza di un elemento elettromagnetico nella tessera, peraltro di sola plastica?), non avendo quelle impronte o quella fisionomia, o non mostrando il viso, non potrebbe rubare assolutamente nulla: ma aspettiamo ulteriori progressi della tecnologia a scopo di antifurto, anche per combattere la clonazione di tali tessere, che io certo, ed altri cittadini, non sappiamo come realizzare... ma c’è viceversa un certo numero di persone che ha le cognizioni tecniche per realizzarla. Che il regime poi abbia un occhio di riguardo per i ladri, lo si nota pure dal comportamento delle banche di fronte al derubato: la banca si proclama proprietaria della carta, ma, quando uno è derubato della stessa, se ne lava le mani, punendo anzi il derubato con ulteriori costi (sostituzione della carta e nuovo PIN). Per fatto giuridico, la banca potrebbe farsi parte lesa e parte civile (a processo iniziato), ma se ne guarda bene, malgrado il furto riguardi sì il denaro del cliente ma in quanto avviene per mezzo di un uso illegittimo della carta stessa, la banca compartecipa delle conseguenze del reato. Invece, si limita a promettere di rendere al proprio cliente la somma derubata, se denunciata, ma poi non riconosce come furto quello che è un furto (o lo fa solo a certe condizioni, decise dalla banca stessa). Ora, vediamo: il derubato è costretto ovviamente a denunciare il furto subito sia nei confronti della legge in generale, sia nei confronti della banca stessa. Nel contempo, per quantificare il furto subito (nell’eventualità di un futuro risarcimento in seguito a processo), è anche costretto a disconoscere come proprio il prelievo di una certa somma in quel o quei giorni e a quelle ore: perché un furto può ben avere un autore ignoto, ma l’oggetto derubato deve essere chiaramente specificato, si tratti di denaro o di cose, sempre in funzione di un futuro e possibile processo. Questo disconoscimento deve avvenire sia davanti alle Forze dell’Ordine, sia alla banca stessa, che però se ne lava le mani, pur facendo riempire moduli con quello scopo e, quindi, facendo perdere tempo agli impiegati e al derubato, visto che, con un pretesto o l’altro, non accetta il disconoscimento, anzi ti infligge costi aggiuntivi. Eppure, alla banca quel pezzo di plastica magnetizzato non costa nulla, anzi ti viene dato per poter ridurre, con procedure automatiche, la quantità di personale necessario. Non so altrove, ma a Trieste la società locale dei trasporti urbani e la stessa amministrazione comunale, per ridurre l’inquinamento, ti consigliano o ti impongono di utilizzare il mezzo pubblico. Poi aggiungono, con avvisi, di far attenzione ai borseggiatori che, vedi caso, non vengono mai presi o, se presi, restano in carcere giusto il tempo minimo, per poi tornare a rubare subito dopo. Da un lato ti incoraggiano a salire sull’autobus, dall’altro ti invitano a stare attento ai borseggiatori come se questi avessero un qualche distintivo o segno di riconoscimento. Se vieni derubato in autobus la colpa non è attribuita al borseggiatore, ovviamente, e nemmeno alla società di trasporti che ha eliminato da decenni il vecchio caro bigliettaio e ridotto al minimo i controllori... è colpa del borseggiato che non stava attento ai suoi beni come se mettesse i soldi appesi al berretto con su scritto “prendetemi”, oppure il portafoglio in bella evidenza con la stessa scritta. E’ evidente che il borseggiatore sa bene il proprio mestiere e, riguardo ai bancomat, penso che abbia qualche apparecchietto rilevatore (ovviamente di invenzione americana) che segnala la presenza di una tessera magnetica tanto da andare a colpo sicuro nella tasca o nel/la borsetto/a di un passeggero, senza farsene minimamente accorgere (è il mio caso sull’autobus numero 29 della Trieste Trasporti, non particolarmente affollato, in data 8 luglio 2015 circa alle ore 11.30, mentre candidamente e del tutto serenamente parlavo con una mia ex-collega d’Università). Quando ci si accorge del furto, perché si cerca il portafoglio, può essere tardi e il ladro, tutto felice della sua pesca di beneficenza, va ad incassare il meritato guadagno. Ma, se qualcuno denunciasse la società di pubblico trasporto per connivenza con i borseggiatori o per mancata sorveglianza, o altra forma di favoreggiamento colposo o doloso, rischierebbe probabilmente di essere perseguito per calunnia. Del resto, chiunque abbia avuto esperienza di un furto in casa, sa come la legge sia molto severa con chi affronta il ladro, o violatore di domicilio, e lo malmena, per non parlare poi del caso che lo ferisca con arma da fuoco, lo insegua o che altro. Il ladro è, nell’attuale regime, una professione molto onorata, rispettata e tutelata. D’altronde che il sistema bancario abbia molte affinità, somiglianze e parentele con gli autori ignoti di furto, lo si nota bene negli ultimi decenni: ad esempio, confrontando gli interessi di credito del cliente con gli interessi di debito del cliente stesso, malgrado le deflazioni tanto declamate dal capo supremo della Banca Centrale Europea. Oppure, quando si tratta degli interessi su un debito qualunque (mutuo o fido che sia): logica vorrebbe che si calcolassero prima le rate da versare sul debito iniziale, poi i relativi interessi, anche perché l’inflazione, il costo della vita, ecc., non si possono calcolare con approssimazione a distanza di dieci, venti o trent’anni. Chi ha una certa età, sa bene come dal 1973/ 74, l’anno della grande crisi petrolifera, ad oggi, le mutazioni finanziarie sono state enormi, addirittura inimmaginabili: come dunque calcolare preventivamente gli interessi oltre i cinque anni? E nondimeno le banche fanno pagare prima del tutto o prevalentemente gli interessi, poi il debito originario. Così per pura avidità rischiano di perdere o perdono somme rilevanti. Inoltre il sistema è tale che non facilita l’assolvimento dei doveri di un debitore: come già ai tempi dei pubblicani di Roma antica, il debito si accumula in modo tale da rendere impossibile il pagarlo, e oggi - fortunatamente - non esiste la schiavitù, né il “diritto” di far a pezzi il debitore, tuttavia esiste il diritto di rovinarlo per il resto dei suoi anni, talvolta anche per cifre relativamente basse, che però - non pagate – provocano interessi di mora e sanzioni varie. Le carte di credito, ad es, sono un caso di questo genere: si parte da cifre non alte, ma, dati gli interessi notevoli (il 14 % e più in questi anni!!), si finisce per rendere quasi impossibile senza ulteriori traffici o penosi sacrifici il saldare completamente. Ne consegue che per una somma ricevuta di 7.000 euro si finisce per vederla raddoppiata o triplicata. Si può anche constatare come il cliente della banca sia penalizzato come creditore, visto che riceve pochi interessi e vede sfumare i suoi depositi da imposte fisse dello Stato o da strani e poco precisati servizi bancari, solo perché si tratta di conti correnti, tanto “correnti” che spariscono. Il sistema telematico, inoltre, consente, almeno dal 1993 (sgoverno Amato), di depredare i risparmiatori senza nemmeno farlo sapere o facendolo sapere in ritardo. Un altro caso più recente, dello sgoverno Berlusconi, è quello di far sparire i libretti cosiddetti dormienti (nel caso di persone molto anziane o di deceduti, i cui eredi non sappiano dell’esistenza di questi depositi, si vedono poi depredati senza pietà). Se il cliente di banca è debitore, è sempre danneggiato sia che paghi in anticipo, sia che paghi puntualmente o che paghi in ritardo. Tutto ciò è provocato essenzialmente dalla brama di lucro senza freni né proporzioni: il Codice Civile non fa distinzioni proporzionali, una scala gerarchica nell’attivo di una determinata attività economica. Tale indeterminatezza favorisce appunto ogni forma di avidità. A solo titolo esemplificativo propongo, viceversa, questa scala di valore quantitativo, tenendo conto tuttavia delle diverse attività economiche e della situazione inflattiva o deflattiva:
1) pareggio: quando i ricavi pareggiano i costi complessivi di una certa attività economica;
2) attivo o utile: quando tali ricavi sono superiori, di poco o tanto, ai costi complessivi;
3) profitto: quando l’attivo giunge al 30 - 40 % dei costi complessivi;
4) lucro: quando l’attivo supera il 30 – 40 % dei costi complessivi.
Ora, mentre il profitto è necessario per l’esistenza del produttore o conduttore di attività economiche consentendogli una vita agiata e, al tempo stesso, di reinvestire una parte dell’attivo nel progresso della propria attività, il lucro finisce per essere adoperato in cose superflue, se non per la corruzione di altri, limitando la circolazione della ricchezza in un ambito ben limitato. Uno Stato non è ricco quando al suo interno esistono pochi grandi ricchi, ma quando e perché la ricchezza è distribuita il più ampiamente e proporzionalmente possibile. Una moneta da un euro non vale di più perché investita in un certo ambito ristretto, ma perché circola in più mani e consente a più persone di acquistare più beni in un tempo più rapido: se essa giace in un cassetto o in una cassaforte, o se viene investita nell’illusione di averne due in un dato tempo, essa è meno utile alla collettività rispetto al suo inserimento in una veloce circolazione. Ci si chiederà: ma il risparmio? Il piccolo risparmio (quello di un bambino, ad es.) ha un significato educativo, che gli consente di accumulare un certo numero di monete per comprarsi ciò che gli piace e non per sentir tintinnare il suo salvadanaio personale; il risparmio di un adulto è depositato in una banca che lo utilizza appunto per farlo circolare, e non per accumularlo nelle proprie casseforti utilizzando somme più o meno rilevanti per determinati investimenti. Viceversa, sappiamo bene che così non è, e la finanza diventa un sistema ladresco più o meno scoperto che finisce per danneggiare il normale risparmiatore (volontario o forzato che sia, come il lavoratore a cui vengono tolti i contributi per proteggere la sua vecchiaia o periodo post-lavorativo... che però si vede defraudato sia del capitale versato, sia degli interessi accumulati in decenni di lavoro e di deposito: perché questa è ciò che, con termine ambiguo e vago, ma prevalente, viene chiamato “pensione”, mentre si dovrebbe chiamare “rendita da capitale di lavoro a scopo previdenziale”). Un altro sistema di furto sui cittadini è dato da certi servizi pubblici, privatizzati in tutto o in parte, e non più fondati sul principio del semplice attivo e del limitato e ragionevole profitto, bensì sul lucro più sfrenato. Ma che vuol dire “servizio pubblico”? Un ente che svolge una certa attività economica nell’interesse della collettività nel suo complesso: ad esempio i trasporti, l’energia elettrica, la distribuzione del gas, la scuola. Nel 1962 e fino a tutti gli anni ’80, il servizio pubblico aveva lo scopo, almeno dichiarato, di servire (essere utile, beneficiare) alla cittadinanza con tariffe tali da consentire pareggio o lieve attivo, sufficienti a mantenere il servizio stesso. Già con la crisi petrolifera, ma ancor più con gli anni ’90, il servizio pubblico viene inteso come un’organizzazione atta a far sì che il pubblico serva (sia schiavo del…) il servizio, onde procurargli non più modesti profitti, ma forti lucri da distribuire agli azionisti della società semiprivatizzata. Per quanto poi si parli di pluralità di erogatori di servizi che, per concorrenza, dovrebbero far diminuire i costi, essendo la fonte di tutto sempre unica, tale concorrenza è puramente dichiarata, non effettiva. Quello che è certo è che, a qualunque società erogatrice ci si rivolga, il costo è sempre molto elevato, a cui si aggiunge l’occhiuta e adunca zampa dello Stato e degli enti locali con le loro svariate imposte che si accumulano una sull’altra (tipici l’IVA, di cui si è detto sopra, e il cumulo di imposte). Esistono enti che dovrebbero tutelare il cittadino e contribuente (garanti, autorità, ecc.), tutta gente che aggiunge costi su costi al cittadino, ma che, se vi rivolgete ad essi, danno sempre ragione al più forte e quasi mai al singolo cittadino (vecchio principio giuridico: il forte ha sempre più ragione del debole). Farò un altro esempio personale recente che, per carità di patria, nasconderò sotto falsi nomi. Fin dal 1962 esisteva un ente chiamato MAGNETEL che, per conto dello Stato, distribuiva a prezzi decenti l’energia magnetica. Esso, negli anni ’90, venne “privatizzato” su ordini della finanza internazionale e della sopra apprezzata UE. Più recentemente, sempre per mimetizzare il debito pubblico, si è scorporata dalla vecchia società una MAGNETEL DISTRIBUTION, una società MAGNETEL MAGNETICS SERVICES, e infine una MAGNETEL FORCE. Quest’ultima ha scatenato una grossa campagna promotrice, giocando sul vecchio marchio MAGNETEL, sicché alcune persone, tra cui lo scrivente, hanno aderito. La proposta telefonica era allettante, perché si prometteva che a parità di condizioni le tariffe sarebbero di molto calate per un certo numero d’anni. Le prime due bollette della MAGNETEL FORCE sembravano realizzare questa promessa, ma la terza fu un disastro perché – per il medesimo periodo d’anno e di fronte ad uso pressoché identico (vivo solo e quindi so quanto consumo e come) - il costo complessivo era più che doppio rispetto a quello dell’anno precedente e di tutti gli anni precedenti… Questo in tempi di tanto decantata deflazione e di fronte alle flautate promesse della sirena telefonica (sirena nel senso omerico: ma si sa che, a seguirle, si impazzisce e si annega), non poteva non suscitare la mia legittima reazione di protesta e di ulteriore controllo (faccio presente che da anni controllo i miei consumi giorno per giorno e li annoto su un quaderno). Verificando i consumi da me registrati e quelli segnalati sulla bolletta, la cosa non faceva una grinza, ma controllando poi nelle varie fasce orarie, risultavano consumi di energia magnetica non corrispondenti all’uso effettivo, sempre uguale da anni (da quando vivo a Bertiolo, maggio 2007), mentre quelli risultanti sul contatore erano variabili. Tanto per dire, pur utilizzando il sistema biorario e pur magari in mia assenza, alla domenica vengono aggiunti, non in omaggio ovviamente, kw/h in più (almeno 5) per recuperare quanto si dovrebbe spendere di meno a causa dell’ora di utilizzo più “conveniente”. Lo stesso, in misura minore, nei giorni feriali. Ma confrontando a parità d’uso il giorno feriale con quello festivo, nel consumo di energia magnetica si notava un salto da 7 a 12 o più kw/h. In un primo tempo pensai a un guasto, ma ben presto pareva ovvio che il guasto non avrebbe distinto così bene i giorni festivi (numerosi in dicembre e gennaio) dai giorni feriali, a scapito di quella che doveva essere una tariffa più bassa. In sostanza, si fanno risultare kw/h in più di energia magnetica per recuperare quanto la giornata dovrebbe far pagare di meno. Come, vi chiederete? Guardate i vostri contatori: sono dei piccoli cervellini elettronici. Essi dovrebbero comunicare ad una centrale di raccolta-dati quanto avete consumato, senza che sia necessario mandare casa per casa un controllore, come si faceva circa dieci anni fa. Un risparmio di tempo e di stipendi che dovrebbe far felici e contenti gli azionisti della MAGNETEL FORCE. Ma ciò non basta; quando si è avidi si desidera guadagnare sempre di più e pagare sempre di meno: l’ideale dell’affarista è un diagramma in cui i lucri crescono a velocità uniformemente accelerata, anche se ciò è ben lontano dal realizzarsi. Quello è il desiderio, il sogno, e si utilizza ogni strumento per approssimarsi ad esso. Pare dunque ovvio che il contatore, tanto moderno, dialoga con la centrale: più che trasmettere, riceve i dati o aggiunge dati ulteriori a quelli che vengono trasmessi. Naturalmente i tecnici della MAGNETEL DISTRIBUTION lo negano con energia (ovvio), ma è facile capire che è così solo se si ha la pazienza di registrare sistematicamente i dati durante il giorno, in quelli feriali, come festivi. Così ho pagato due esose bollette bimestrali (totale 478 euro più centesimi, mentre ne pagavo per quattro mesi sotto i 250), ma ho già provveduto a rompere il contratto passando ad altra società (che ha anche il vantaggio di avere uffici con personale umano e non flautate voci telefoniche) e, in secondo momento, al deposito di una querela corredata dalle mie registrazioni dei consumi e da altra documentazione alla Procura presso il Tribunale Ordinario di Udine (non mi illudo, per diretta e pregressa esperienza, che indaghino a fondo, ma che almeno stiano in guardia e, in futuro, non possano dire “non sapevamo”). In conclusione, il cittadino contribuente e consumatore vede costantemente smentita non solo la finalità tanto proclamata dell’Unione Europea (che non è “unione”, ma aggregazione d’affari, che non è Europa, in quanto in greco il prefisso “eu” significa “bello e buono”, bensì Caco-ropa, ovvero “Ropa brutta e cattiva”, come in cacofonia) del benessere diffuso, in quanto i vantaggi spettano solo ai grandi speculatori internazionali, ma anche le norme costituzionali a partire dall’art.1 (lavoro come fondamento della Repubblica), agli artt. 3 (uguaglianza), 4 (diritto al lavoro), 14 (inviolabilità del domicilio), 23 (prestazioni economiche in base alla legge), 28 (responsabilità civile dello Stato, enti pubblici, e dirigenti), 31 (agevolazioni per la famiglia), 32 (tutela della salute), 35 (tutela del lavoro), 36 (retribuzione proporzionata), 38 (diritti degli inabili e diritti previdenziali), 41 (II comma, divieto di danneggiare la sicurezza, la dignità, la libertà), 45 (funzione economico-sociale della cooperazione nel lavoro), e soprattutto l’art. 47 (sulla tutela del risparmio, mai tanto poco tutelato come in questi ultimi due decenni, tanto da diventare qualcosa di derisorio). Il popolo italiano se ne renda conto, soprattutto nelle prossime occasioni elettorali, punendo col voto i responsabili di tutto ciò.
Altro che evasione fiscale elevata: Lo Stato è un approfittatore sanguisuga e bugiardo. Le tasse che gravano sulle famiglie dei lavoratori dipendenti nel 96% dei casi vengono prelevate alla fonte dalla busta paga o sono incluse nei beni o nei servizi che vengono acquistati. Solo il 4% è versato al fisco attraverso una operazione di pagamento presso uno sportello bancario o postale. Lo rivela l'Ufficio studi della Cgia il 12 marzo 2016 che per il 2016 ha calcolato in 17 mila euro il carico fiscale complessivo che graverà su una famiglia tipo composta da due lavoratori dipendenti (marito e moglie) con un figlio a carico.
Il premier vampiro tutto tasse e polizia fiscale. Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite, scrive Alessandro Sallusti, Martedì 08/03/2016, su "Il Giornale". Cresce la pressione fiscale e cresce lo stato di polizia fiscale. Da fine mese l'Agenzia delle entrate potrà accedere in tempo reale a tutte, dico tutte, le nostre transazioni: versamenti, prelievi, assegni, accessi alla cassetta di sicurezza, bancomat. Le banche, in sostanza, da imprese di diritto privato diventeranno agenzie pubbliche. Il denaro, il nostro denaro, esce di fatto dalla proprietà privata per passare sotto il diretto controllo dello Stato. Che fino a ieri poteva, giustamente, contestarci presunte evasioni o elusioni in base a documenti che, per legge, siamo tenuti a compilare, custodire ed eventualmente esibire. E che dal primo aprile mai data fu più significativa potrà invece curiosare nelle nostre vite, chiedere spiegazioni di una spesa, del perché in un dato periodo abbiamo aperto per ben tre volte la cassetta di sicurezza.Detto che non stiamo dalla parte degli evasori, stiamo comunque con chi crede che lo Stato non abbia il diritto di spiarci. E le due cose sono compatibili. La Apple immagino sia contro i terroristi, ma, giustamente, si rifiuta di svelare l'algoritmo che custodisce la memoria più segreta dei suoi telefonini. La libertà è un bene assoluto, e ha un prezzo sia nel campo della sicurezza che in quello fiscale. Ci sono poi altri due problemi. Il primo. È vero che in quanto ad evasione, in Inghilterra e negli Stati Uniti non scherzano. Faccio però notare che i sudditi di sua Maestà hanno una pressione fiscale del 32 per cento e gli americani del 26. Cioè l'11 e il 17 per cento in meno della nostra, attestata sul 43,6. Il secondo. I contratti vanno rispettati da tutti i contraenti. E non mi sembra che il governo rispetti i patti che sono alla base della richiesta, per di più esosa, di tasse: oltre ad essere il primo a non pagare, non garantisce certezza delle leggi, tempi della giustizia equi, asili per i nostri figli, edifici scolastici a norma, i risparmiatori non sono tutelati da banche disoneste che, se non erro, dovevano essere controllate da Bankitalia, cioè dallo Stato. Intere zone di molte città sono ghetti di immigrati fuori controllo, la gestione delle case popolari è spesso in mano al racket, i debiti pubblici non vengono saldati e gli sprechi si moltiplicano. E tu, Renzi, che fai? Ci tartassi e autorizzi gli spioni di Stato a entrare nelle nostre vite. Ma sai che c'è di nuovo? Vedi un po' di andare a...
Le troppe tasse (nascoste) degli italiani. Dalla scuola alle sigarette. Dalla sanità agli alberghi. Dalle targhe alle caldaie. Ti dicono che la pressione fiscale cala: in realtà aumenta, grazie a mille balzelli. Con vicende che sembrano fatte apposta per scatenare una protesta: come il sedicente «contributo volontario» per le scuole medie superiori (da 40 a 200 euro annui a seconda degli istituti, formalmente destinati a coprire le spese per laboratori e altro) che in realtà è un’imposta obbligatoria e serve a finanziare la manutenzione degli istituti. Panorama dedica alle troppe tasse nascoste degli italiani la storia di copertina del numero in edicola da giovedì 11 febbraio 2016.
Il Fisco sbaglia un po' troppo. Ora lo ammette pure Equitalia. Il Fisco invia cartelle Equitalia per debiti non dovuti. In quindici anni 217 miliardi di cartelle Equitalia "non dovute", scrive Sergio Rame, Martedì 09/02/2016, su "Il Giornale". Il Fisco ci perseguita. E lo fa con un margine di errore altissimo. Per sua stessa ammissione, infatti, sbaglia una volta su cinque. Tanto che, tra il 2000 e il 2015, il 20,5% delle cartelle in carico a Equitalia sono state emesse per un errore dell’ente creditore. Una "rapina" che, come riporta l'Huffington Post, vale circa 217 miliardi di euro. Durante l'audizione a Palazzo Madama, l'ad di Equitalia Ernesto Maria Ruffini ha spiegato che dal 2006 a oggi "le riscossioni sono sensibilmente aumentate" arrivando ad una media annua di 7,7 miliardi di euro e che il 53% delle cartelle riscosse nel 2015 riguarda debiti sopra i 100mila euro. "Su un carico totale lordo affidato a Equitalia nel periodo dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015 che ammonta a 1.058 miliardi di euro - ha continuato - il 20,5% è stato annullato dagli stessi enti creditori, in quanto ritenuto indebito (cioè non dovuto dai contribuenti) a seguito di provvedimenti di autotutela da parte dei suddetti enticreditori o di decisioni dell'autorità giudiziaria". In quindici anni ci sono stati "errori" per 217 miliardi di euro. Si tratta di cartelle poi annullate perché un giudice le ha giudicate illegittime o perché lo stesso ente creditore si è accorto per tempo di aver commesso un errore e ha rimediato annullando la cartella senza attendere la decisione di un giudice. "Del totale di circa 217 miliardi di cartelle non dovute, e quindi annullate - spiega l'Huffington Post - 175 miliardi sono stati chiesti dall’Agenzia delle Entrate, 23,3 miliardi dall'Inps, circa 10 miliardi dall'Inail, 7,4 miliardi da altre amministrazioni".
Lo scandalo Equitalia: 15 anni di cartelle false per 217 miliardi di euro. Sconcertante audizione dell'ad Ruffini in commissione Bilancio: una richiesta su cinque non era dovuta. Esigibili solo 51 miliardi, scrive "Il Giornale" Mercoledì 10/02/2016. Più che «cartelle pazze», cartelle inventate. L'ad di Equitalia, Ernesto Maria Ruffini, parlando in commissione Bilancio al Senato chiama «patologia estrema» il nodo delle quote inesigibili assegnate negli ultimi tre lustri al riscossore dei tributi, ricordando che solo il cinque per cento dei 1.058 miliardi di euro di crediti sono «effettivamente lavorabili». Ma sembra patologico anche il più vistoso dei dati snocciolati da Ruffini ieri. Ossia che il 20,5 per cento di quei mille e passa miliardi di euro - pari a quasi 217 miliardi - sono inesigibili semplicemente perché i destinatari delle cartelle non li dovevano pagare. Tanto che quei crediti sono stati «annullati dagli stessi enti creditori in quanto ritenuti indebiti a seguito di provvedimenti di autotutela da parte degli stessi enti o di decisioni dell'autorità giudiziaria». Insomma, una volta su cinque il fisco bussa alla porta dei contribuenti senza alcun motivo, e alza le mani solo quando i tartassati loro malgrado riescono a farsi giustizia passando per le carte bollate, costringendo l'amministrazione pubblica a innestare la retromarcia. Una percentuale da brividi, una pioggia di errori che hanno attentato ingiustamente alle finanze dei contribuenti. E se le statistiche ci dicono che più del venti per cento delle cartelle sono farlocche, non dicono quanti contribuenti invece, ricevuta la cartella «creativa», hanno pagato senza contestare o fare ricorso, non accorgendosi, o non potendo controllare, se quella richiesta del fisco fosse o meno motivata. Un punto che fa pensare che l'«errore» tutto sommato possa spesso finire per far fare cassa al fisco, sfilando comunque soldi - non dovuti - alle tasche dei cittadini. Quanto alle amministrazioni «distratte», quelle richieste indebite per 216,89 miliardi di euro, ha spiegato ancora l'amministratore delegato di Equitalia, provengono in gran parte dall'Agenzia delle entrate (175 miliardi di euro), mentre il resto si divide tra Inps (23,3 miliardi), Inail (10 miliardi) e altre amministrazioni pubbliche (7,4).D'altra parte, se solo una cinquantina di miliardi su oltre mille di quei crediti sono «effettivamente lavorabili», sembra chiaro che anche il restante delle cartelle esattoriali spedite da Equitalia ha qualche problema. Oltre 300 miliardi di euro, per esempio, secondo Ruffini sono «difficilmente recuperabili» perché i debitori sono passati a miglior vita, falliti o nullatenenti, o perché le imprese destinatarie della cartella hanno già chiuso i battenti. E dell'ultima metà di quel monte di soldi che il fisco ha chiesto a Equitalia di recuperare, un gruzzolo pari a 500 miliardi di euro? Il 60 per cento riguarda posizioni «per cui si sono tentate invano azioni esecutive», un centinaio di miliardi sono quelli effettivamente riscossi (in parte a rate) e, appunto, i crediti realmente esigibili che restano sono solo 51 miliardi, il 5 per cento del totale. Quanto alla rateizzazione delle cartelle esattoriali, l'ad di Equitalia Ruffini ha ricordato come ormai la metà degli incassi arrivi proprio dalle pratiche dilazionate (sono state 1,2 milioni le richieste presentate dai contribuenti nel solo 2015). E sul punto, c'è anche una notizia positiva per chi ha scelto di saldare un po' alla volta il suo debito con il fisco. Fino a oggi, chi era stato indotto a pagare con il fermo amministrativo di un mezzo, prima di poterlo utilizzare di nuovo doveva aspettare di aver versato l'ultima rata. Ora invece le «ganasce fiscali» potrebbero diventare più morbide perché, ha spiegato ancora Ruffini, Equitalia si riserverà la «possibilità di sospendere» il fermo amministrativo (anche se «non la possibilità di toglierlo») per i «soggetti che fanno richiesta delle rate e che le pagano».
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE. L’eterno equivoco sull’evasione scrive Carlo Lottieri il 2 gennaio 2016. La classe politica è determinata a difendere lo status quo e tenere in vita un disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo. Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella conferma quanto sia difficile, per la classe politica italiana, capire le reali condizioni della società. Non è sorprendente che gli uomini politici difendano in tutti i modi le prerogative del potere sovrano, ma certo stupisce il constatare quanto essi poco comprendano le sofferenze dei produttori e le devastazioni causate dalla regolazione, dalla tassazione e dai monopoli pubblici (si pensi, in particolare, al crollo del sistema pensionistico). Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. L’Italia non è in crisi perché gli italiani versano poche tasse, ma semmai perché lo Stato sottrae troppa ricchezza a quanti la producono. Alcuni decenni fa, quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese. È insomma falso sostenere che l’evasione danneggi la comunità nazionale, anche se certamente danneggia taluni privilegi di casta. Ma quanti sono nei palazzi romani al governo o in altre posizioni non intendono le ragioni di chi si ribella e ignorano le sofferenze all’origine di questa rivolta silenziosa e sotto traccia. Perché chi veramente ci sta negando la possibilità di avere un futuro è il ceto politico, che ha creato un terribile intreccio di ingiusti meccanismi redistributivi i quali sono l’esatta negazione di ogni ordinamento liberale. Continuare a ripetere che le tasse sarebbero più basse se tutti le pagassero significa non considerare la tendenza naturale degli uomini di potere ad allargare sempre più il proprio controllo della società. Significa fingere di non sapere che esistono uomini che comandano e altri che obbediscono, uomini che legiferano e altri che devono abbassare la testa. Nel discorso del presidente c’è insomma una visione angelicata della politica: l’idea che i professionisti del governo lavorino per noi. Essi ci tolgono ricchezza, ma per aiutare la società a farla crescere. Ed è di un certo rilievo anche l’accenno alla tesi del tutto falsa, affermata in questi anni da Thomas Piketty, secondo cui le diseguaglianze indebolirebbero l’economia. Per Mattarella i guai sono causati insomma dai ricchi, e non già dalla casta politica; e quindi bisogna far leva sull’invidia sociale, in modo tale che la gente confidi nel potere e si pieghi alla sua volontà. La classe politica italiana non è liberale e forse non lo è mai stata. Le parole del presidente ci dicono pure quanto essa sia determinata a difendere lo status quo e tenere in vita quel disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo che sta lanciandoci verso il precipizio. Carlo Lottieri. (Da istituto Bruno Leoni).
Presidente Mattarella, si fidi: azzerando l’evasione le tasse non sarebbero più basse, scrive Giovanni Masini il 4 gennaio 2016. Ci è cascato anche il Presidente della Repubblica: secondo il capo dello Stato estirpando la piaga del sommerso il Paese tornerà a crescere. Ma i dati su lotta all’evasione e pressione fiscale dicono esattamente il contrario. “Ad ostacolare la crescita è l’evasione. Secondo Confindustria l’evasione fiscale contributiva nel 2015 ammonta a 122 miliardi: 7,5 punti di Pil. Lo stesso studio calcola che dimezzando evasione si guadagnerebbero oltre trecentomila posti di lavoro. Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Le tasse sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero.” Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto, nel messaggio di fine anno, affrontare la questione dell’evasione fiscale. Parole che asseverano uno dei più consolidati luoghi comuni in materia: quello secondo cui tutti gli evasori sarebbero dei ladri e per cui riducendo il tasso di evasione calerebbe automaticamente anche il prelievo fiscale. Rincresce criticare il Capo dello Stato già al primo dei messaggi per Capodanno, ma il passaggio sull’evasione lascia scoraggiati anche i più speranzosi. Ai sensi dell’articolo 87 della Carta Costituzionale, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione – non dello Stato: sorprende quindi che Mattarella si limiti ad attaccare chi evade le tasse senza citare minimamente le pretese assurde di un Fisco esoso che è espressione, tra l’altro, di uno Stato spesso debitore nei confronti dei cittadini e promotore di bizantinismi legislativi e burocratici. L’argomentazione sottesa alle parole di Mattarella, evidentemente, non è economica ma etica. Se tutti facessero il proprio dovere, intendeva dire il Capo dello Stato, le cose andrebbero meglio. Peccato che abbia detto tutt’altro, azzardando peraltro teorie economiche che sono finite sotto attacco da più punti. Responsabile della mancata crescita del Paese, scrive Carlo Lottieri sul Giornale, non è solo e non è tanto l’evasione fiscale ma anzi l’ipertassazione di chi produce ricchezza e se la vede portare via dallo Stato. “Alcuni decenni fa – spiega Lottieri – quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese.” In un Paese in cui la spesa pubblica è fuori controllo, la difesa d’ufficio dello Stato nasconde una visione utopistica – la stessa che peraltro è implicita nello studio della Confindustria. Il giorno successivo al discorso di Mattarella, il vicepresidente degli industriali Andrea Bolla ammetteva che i calcoli su un eventuale incremento del Pil sono stati effettuati sulla base dell’ipotesi – tutta da verificare – “che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale”. Quante possibilità ci sono che questa ipotesi si realizzi i lettori possono facilmente immaginarlo. Se non vi riescono, possiamo provare ad aiutarli con alcuni dati. La predica del “se tutti pagassero tutte le tasse, tutti pagheremmo meno” non è un’esclusiva di Mattarella: la aveva già utilizzata a scopi propagandistici anche Matteo Renzi. Ebbene, già nei mesi scorsi gli osservatori più attenti avevano fatto notare al presidente del Consiglio che negli ultimi anni, a fronte di un aumento delle entrate derivanti dal contrasto all’evasione il tasso della pressione fiscale continua a crescere, mostrando poca o nessuna correlazione con la percentuale di evasione. Se nel 2006, quando è stato inaugurato il sistema di misurazione basato sugli incassi, erano stati riscossi 4,3 miliardi di euro, nel 2013 si poteva contare su un’evasione recuperata di 13,1. La domanda è quindi spontanea, scriveva già a settembre Federico Cartelli su Qelsi: dove sono finiti tutti quei soldi? Nel taglio della spesa pubblica, che sarebbe l’unica misura efficace per ridurre la pressione fiscale, non di certo, come Capire davvero la crisi vi ha già dimostrato. Nel frattempo, il taglio delle tasse (si veda quello in programma per la prima casa nella Legge di Stabilità 2016) viene fatto a deficit. Troppo spesso, infatti, la classe politica italiana (anche se non sarebbe giusto attribuire questa responsabilità a Mattarella in persona, che è anzitutto uomo di legge) preferisce gonfiare a dismisura la spesa pubblica pur di estendere la base del consenso, sia pure a spesa delle generazioni future che vengono oberate dal peso del debito. Questo non toglie, naturalmente, che l’evasione fiscale – come anche il preoccupante deficit di etica pubblica – costituisca un problema serio che merita ogni attenzione. Tuttavia, in quel messaggio di fine anno così conciso, gli italiani alle cui “speranze e preoccupazioni” il Presidente della Repubblica ha detto di volersi rivolgere, si sarebbero aspettati di sentire, da parte di Mattarella, anche una parola sui doveri e sugli impegni che quello Stato di cui è capo troppo spesso non riesce – o non vuole – mantenere.
MATTARELLA AMA LE VOSTRE TASSE, LUI E LA CASTA VIVONO DI QUELLE. “L’evasione viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà”. Pochi giorni fa è andato in onda, a reti unificate, il primo discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Matteo Orsini. Tra i temi di cui si è occupato, grande rilievo è stato dato all’evasione fiscale. Mattarella ha citato una recente pubblicazione del centro studi di Confindustria, secondo il quale l’evasione ammonterebbe a 122 miliardi, ossia 7.5 punti di Pil. Secondo il CsC, se l’evasione fosse dimezzata il Pil ne trarrebbe grande beneficio, così come l’occupazione. Quello che Mattarella non ha riportato è l’ipotesi su cui si basa la stima del CsC: che l’evasione recuperata si traduca in altrettante riduzioni di tasse. Non mi interessa approfondire la questione dei calcoli fatti dal CsC, anche se nei casi in cui l’evasione sia “di sopravvivenza” (ossia in quei casi nei quali se l’imprenditore pagasse tutto quanto richiesto dallo Stato dovrebbe chiudere i battenti), mi risulta difficile supporre che la sua eliminazione porterebbe benefici netti in termini di Pil e occupazione. Credo sia invece interessante sottolineare l’ipotesi da “Alice nel paese delle meraviglie” alla base delle stime del CsC: ossia che il gettito recuperato da evasione si tradurrebbe magicamente in una riduzione del carico fiscale. Capisco che queste storie le raccontino i governanti (lo stesso Mattarella lo ha detto nel corso del suo messaggio), ma la loro credibilità è pari a zero. D’altra parte, nel fondo per la riduzione delle tasse al quale destinare i denari recuperati dall’evasione fiscale, pur essendo previsto da anni, non è mai entrato neppure un euro. Serve una grande ingenuità per credere che si sia trattato solo di sfortunate circostanze. Ciò detto, secondo Mattarella l’evasione fiscale “viola il patto sociale”. Peccato che il patto sociale in questione sia una finzione giuridica e che nessun cittadino abbia avuto la possibilità di aderirvi volontariamente. Secondo Mattarella l’evasione “peggiora il rapporto tra cittadini e Stato”. Indubbiamente fornisce meno linfa allo Stato, ma mi permetto di supporre che i cittadini, per lo meno quelli che non campano di tasse altrui, non abbiano un rapporto così sereno con lo Stato per via delle tasse, non per via dell’evasione. Infine, secondo Mattarella l’evasione “riduce la solidarietà”. Niente affatto: l’evasione riduce semmai la solidarietà coatta, che non ha nulla a che vedere con la solidarietà autentica, la quale può derivare solo da azioni volontarie. Dal Quirinale, già nei giorni precedenti il messaggio di fine anno, era stato comunicato ai mezzi di informazione che il presidente si sarebbe occupato dei problemi più sentiti dalla gente. Ebbene: che l’evasione sia un problema per i parassiti che campano di tasse altrui è abbastanza credibile, ma che lo sia per tutti quanti direi proprio di no.
L'Evasione Fiscale e la cantonata del Presidente Mattarella sulle tasse, scrive Giuseppe Timpone il 5 Gennaio 2016 su “Investire Oggi”. L'evasione fiscale è realmente il male dell'Italia? Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella farebbe propendere per il sì, ma i dati dimostrerebbero altro. Nel suo discorso di fine anno, il presidente Sergio Mattarella ha citato l'evasione fiscale tra i mali, che frenerebbero la crescita dell'economia italiana, riferendosi a uno studio pubblicato da Confindustria, secondo cui l'economia sommersa sottrarrebbe alle casse dello stato 122 miliardi di euro all'anno, pari al 7,5% del pil. Nell'interpretazione del capo dello stato, se tutti pagassero le tasse, pagheremmo di meno. Non solo: sempre citando lo studio di Viale dell'Astronomia, ha affermato che l'evasione fiscale farebbe venire meno 300 mila posti di lavoro. Ora, fatto salvo che pagare le tasse è un obbligo previsto dalle leggi e, in quanto tale, deve essere rispettato e sanzionata la mancata osservanza, ci concentreremo qui su un piano diverso da quello giuridico, ossia economico. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era solito dire che quando a non pagare le tasse è un'ampia fetta della popolazione, il fenomeno non è più penale, bensì sociale. Il senso di questa affermazione ce la spiega forse meglio una battuta dell'economista Milton Friedman, padre del monetarismo, che negli anni Ottanta definì "giusta" l'evasione fiscale in Italia, in quanto reazione dei contribuenti all'inefficienza dei loro malgoverni. Ma già alcuni decenni prima era stato un italiano e, addirittura, un futuro capo dello stato, Luigi Einaudi, a "benedire" il mancato pagamento delle tasse da parte di molti italiani, considerandolo una reazione alla cattiva gestione della spesa pubblica.
Italiani pagano già troppe tasse. Diremmo che sull'evasione fiscale si giochi un dibattito a distanza di 70 anni tra Einaudi e Mattarella, il primo seguace del pensiero liberale, il secondo evidentemente no. L'impostazione dell'attuale capo dello stato è quella che va per la maggiore tra i media e il ceto politico italiano, che ci ripetono a ogni piè sospinto che gli italiani avrebbero il vizio di non pagare le tasse, caricando la pressione fiscale su quelli più onesti. Si tratta di un'affermazione, sconfessata dai dati. I contribuenti del Bel Paese sono da anni proprio i più tartassati d'Europa e al mondo. Secondo l'ultimo rapporto annuale della Banca Mondiale, realizzato in collaborazione con Pwc, l'Italia si colloca al 137-esimo posto su 189 paesi al mondo per convenienza fiscale riguardo alle imprese. La tassazione complessiva, gravante sui loro redditi, è pari al 64,8%, quando la media mondiale è del 40,8%, attestandosi al primo posto in Europa. E non solo il Fisco italiano è più sanguinario, ma anche più farraginoso. Servono 269 adempimenti all'anno per essere in regola in Italia, contro una media mondiale di 261 e di 173 in Europa. La pressione fiscale generale si attesta nel nostro paese sopra al 43% contro una media di circa il 40% nella UE. Ma le distanze con il resto d'Europa aumenterebbero vertiginosamente, se si considerasse solo l'economia ufficiale e non quella sommersa: a quel punto, l'incidenza delle tasse sui redditi schizzerebbe al 52,2%, 2 punti in più che in Danimarca.
Pagare tutti per pagare meno, ma è vero? Ora, i sostenitori del "pagare tutti per pagare meno" potrebbero ribattere che se almeno parte dei 122 miliardi sottratti ogni anno al Fisco fosse recuperata, si avrebbero maggiori risorse con le quali abbattere le tasse per tutti. Ma ci credete davvero? Un altro politico ed economista, Renato Brunetta, ha dichiarato in più di un'occasione che sarebbe un'evidenza in Italia che lo stato più incassa e più spende. Il problema non evidenziato dal presidente Mattarella e che pochi giornalisti, economisti e politici sottolineano nel nostro paese ruota tutto intorno a questo punto: sarebbe realmente in grado lo stato italiano di limitare la spesa pubblica, nel caso in cui aumentassero le entrate? Ovvero, immaginiamo che magicamente nessuno evadesse più le tasse. Il Tesoro registrerebbe a fine anno incassi per 122 miliardi in più. Ciò annullerebbe il deficit e porterebbe i conti pubblici in attivo di quasi il 5% del pil. Ebbene, credete per caso che il governo (quale che sia) sarà in grado di resistere alle sirene di quanti chiederanno più investimenti nelle infrastrutture, aumenti degli stipendi pubblici, crescita della spesa sanitaria, per la scuola, etc.? Alla fine, è probabile che al capitolo della riduzione delle tasse andrebbero spiccioli, mentre la gran parte del maggiore gettito sarebbe destinata a finanziare voci di spesa. Saremmo punto e a capo.
Evasione fiscale è voto di sfiducia degli italiani verso i politici. Non ultimo, resta da affrontare un argomento spinosissimo per i politici, ma centrale nel dibattito: l'evasione fiscale è un voto di sfiducia dei contribuenti verso i loro rappresentanti. Quando una larga fetta della popolazione non paga le tasse, non può il solo malcostume spiegare le ragioni di questo comportamento di massa. E' noto, ad esempio, come l'evasione sia più alta al Sud che al Nord, a conferma finanche del disgusto che i cittadini meridionali nutrono nei confronti delle classi politiche locali, non certo un baluardo dell'efficienza amministrativa. Ai contribuenti, in uno stato di diritto, non può essere chiesto di pagare le tasse, in quanto dovere in sé, ma in cambio dell'erogazione di servizi. E' proprio questo legame flebile tra tasse e servizi a rendere l'evasione fiscale in Italia così accettabile e non riprovevole per la stragrande maggioranza degli italiani, la quale è consapevole che un euro in più pagato allo stato non equivarrebbe automaticamente a un euro in più in servizi diretti o indiretti alla cittadinanza. Infine, siamo così sicuri che un tasso inferiore di evasione fiscale creerebbe nell'immediato più ricchezza? E' evidente che non tutta l'economia sommersa potrebbe emergere e tradursi in economia ufficiale. Un artigiano, magari pensionato, che trascorre ancora qualche ora al giorno presso la sua attività a costruire sedie per arrotondare a fine mese, se fosse costretto a pagare le tasse, quasi certamente rinuncerebbe anche solo ad alzarsi la mattina per andare a lavorare. Risultato: lo stato non incasserebbe ugualmente un euro in più, mentre in circolazione ci sarebbe un po' di reddito in meno, con il quale si alimentano i consumi, sui quali si pagano le imposte.
Meno evasione, più crescita? Altro che stimolo per l'economia. Se l'evasione fosse contrastata in maniera draconiana, si rischierebbe un tracollo dei consumi e della produzione. D'altronde, i dati ci segnalano negli ultimi anni che la "ferocia" mostrata dall'Agenzia delle Entrate con l'arrivo al governo dei tecnici nel 2012 si è accompagnata a una contrazione del pil, oltre che a un aumento paradossale della stessa evasione fiscale. Non è forse anche per questo che il limite all'uso del contante è stato alzato dal governo Renzi da 1.000 a 3.000 euro? Sarebbe meglio che il capitolo dell'evasione fiscale fosse affrontato con una visione più ampia di quella tipicamente ristretta e ipocrita del politico. Il presidente Mattarella voleva richiamare al vincolo di solidarietà, che lega o dovrebbe legare tutti gli italiani. E' stato un discorso alto, sincero, umano, diretto. Solo su questo tema, forse, non ineccepibile.
L'Inps ha i conti in rosso ma ai figli degli statali paga le vacanze all'estero. Mantenuto il privilegio previsto dall'Inpdap, anche se il buco è di 13 miliardi: campus e corsi di lingua estivi per 35mila ragazzi, scrive Antonio Signorini, Domenica 13/03/2016, su "Il Giornale". Vacanze pagate, parzialmente o totalmente, a beneficio di ben 35 mila ragazzi. Il tutto a spese dell'Inps. Per 22.520 studenti si apriranno le porte di corsi estivi di lingua all'estero, altri 12 mila e 730 si accontenteranno di vacanze in Italia. Detta così sembra una notizia fantastica visto che la maggioranza dei genitori, gravati da tasse e contributi, non possono permettersi di sostenere i costi di campus e corsi di lingua. Ma quella di «Estate InpSieme» è un'altra storia italiana, fatta di generosità selettive se non malriposte e di conti pagati da altri. La vacanza finanziata con i soldi della previdenza è infatti offerta esclusivamente ai figli di lavoratori pubblici, attivi o in pensione. Residuo di un'era in cui lo Stato sociale era generoso anche con le giovani generazioni. Salvo poi, una volta tirate le somme, pesare sulle stesse lasciandogli in eredità conti sballati. Prima si chiamava «Valore vacanza» ed era un bastione dell'Inpdap, l'istituto di previdenza pubblica che nel 2012 è stato inglobato dall'Inps con il suo carico di bilanci in perdita e inefficienze. La fusione del mondo pubblico con quello privato non ha portato a una omologazione dei trattamenti e così le vecchie vacanze per i figli degli statali sono state confermate anche dalla gestione Inps, che non aveva e non ha niente di simile per i figli dei dipendenti privati. L'istituto si è perlomeno premurato di dare al «concorso» un nuovo nome. Qualche cambiamento c'è stato nei metodi di compilazione della graduatoria. Ora viene compilata sulla base di nuovi criteri di merito. Impossibile partecipare se lo studente è stato bocciato o se ha debiti. Quasi scontato, verrebbe da dire per chi pensa in termini privatistici. Ma non l'hanno pensata cosi centinaia di statali che tempo fa hanno presentato una class action contro questa novità introdotta dall'Inps e considerata «discriminatoria». Non è cambiato, invece, il numero di giovani che hanno accesso alle vacanze pagate, l'entità dell'aiuto Inps né il tipo di trattamento. L'offerta è rivolta a studenti della scuola secondaria superiore, per soggiorni da effettuare tra giugno e agosto in Gran Bretagna, Irlanda, Francia, Germania e Spagna. L'Inps paga aereo, transfer dall'aeroporto, corso, college, vitto e assicurazione per un massimo di 2.400 euro per soggiorni di 15 giorni e di 4.000 euro per quelli di quattro settimane. Il programma italiano è meno generoso (il contributo è al massimo di 1.400 euro), ma l'impegno formativo è meno pressante (solo tre ore al giorno di corsi). Diritto acquisito, prestazione pagata con i contributi è l'obiezione che si potrebbe fare. Giusto, se non stessimo parlando di una gestione, quella dei pubblici dipendenti, che non sta in piedi da sola e che, seguendo una logica di equità, non potrebbe permettersi lussi. Il rosso dell'Inps sfiora i 13 miliardi di euro e la gestione delle pensioni pubbliche contribuisce a questo sbilancio per quasi sei miliardi di euro. La gestione dei parasubordinati, lavoratori con un futuro previdenziale più che incerto, contribuisce in positivo al bilancio Inps per sette miliardi di euro. Sono loro a tenere su la previdenza. E le vacanze dei figli se le pagano di tasca propria.
Le toghe spendono il 75% in più. E nascondono gli scontrini. Altro che spending review, il Csm passa da 39,3 a 69,4 milioni di spese per il 2016. E ricorre alla Consulta contro la Corte dei conti che vorrebbe verificare i bilanci, scrive Anna Maria Greco, Martedì 15/03/2016, su "Il Giornale". Alla faccia della spending review il Consiglio superiore della magistratura aumenta del 75 per cento il bilancio delle spese previste per quest'anno. In tempi di crisi anche gli organi costituzionali, dal Quirinale alle Camere, sono costretti a tagliare i conti ma Palazzo de' Marescialli passa dai 39 milioni e 543 mila euro del 2015 ai 69 milioni e 450 mila del 2016. Pare che l'impennata si debba anche alla previsione di trasferirsi da piazza Indipendenza alla magnifica Villa Lubin, al centro del parco di Villa Borghese. Finora era sede di lusso del Cnel, abolito dal Parlamento. Evidentemente al Csm fa gola, non basta lo storico Palazzo de' Marescialli, con le due palazzine moderne accorpate ed è già stato commissionato uno studio di fattibilità. Sulla trasparenza delle sue spese l'organo di autogoverno della magistratura non sopporta intromissioni e si sottrae al controllo della Corte dei conti. Ha fatto ricorso alla Consulta per respingere le pressioni dei magistrati contabili che vorrebbero verificare il rendiconto dei soldi pubblici. Una volta il Csm lo presentava, ma dal 1997 non lo fa più. Una sentenza della Consulta del 1981 ha stabilito che gli organi costituzionali - Parlamento, presidenza della Repubblica e Alta corte stessa - non hanno questo obbligo. E Palazzo de' Marescialli rivendica lo stesso status. Solo che non si tratta di un organo costituzionale - quello è la magistratura - ma di un organo «di rilievo costituzionale», un gradino sotto. Distinzione che il Csm non accetta, respingendo come un attentato all'autonomia del potere giudiziario, in cui s'identifica, la pretesa della Corte dei conti di frugare tra le sue spese. Così, risponde no alla richiesta arrivata a giugno dai magistrati contabili. Un mese fa la sezione giurisdizionale del Lazio manda l'ultimatum di 120 giorni per mettersi in regola. Quello del Csm è un «peccato di superbia» verso il controllo di un altro organo dello Stato «di cui non riconosce l'autorità», dice il presidente della sezione Lazio. Per Palazzo de' Marescialli è un'«estemporanea iniziativa» e reagisce impugnando la decisione davanti alle Sezioni centrali contabili e sollevando davanti alla Corte costituzionale il conflitto tra poteri dello Stato. Il ricorso denuncia «una grave lesione dell'autonomia costituzionale della magistratura», un'interferenza nella «divisione dei poteri», per «un'interpretazione impropria, illegittima e incostituzionale» delle norme. Ieri il Csm precisava che «mai la Corte dei Conti aveva posto in dubbio l'autonomia contabile» del Csm, prevista dalla sua legge istitutiva. C'è già il controllo del Collegio dei Revisori e la trasmissione alla Corte dei conti del solo bilancio della gestione. Una terza verifica proprio no. Tanta insofferenza si spiega forse con il lievitare costante delle spese, in tempi di tagli e sacrifici. Per il bilancio di previsione 2016, quelle per l'acquisto di beni e servizi passano da 6 milioni e mezzo a oltre 26. A pesare sono appunto i 21 milioni e 291mila euro alla voce Fondo investimento per trasferimento sede, ristrutturazioni sedi in uso al Csm, interventi di sostegno ai consigli giudiziari. Ma spulciando qua e là ci sono anche 48 milioni (10 nel 2015) per divise degli autisti. D'altronde, l'aumento è costante. Nel bilancio 2015 erano previste spese superiori del 38 per cento a quelle effettive nell'esercizio contabile precedente. Nel 2014 l'aumento delle spese previsto era del 34 per cento rispetto al 2013.
SPENDING REVIEW? NO, SPENDING CUCU’. Niente risparmi, Perotti si dimette: la spending review non è una priorità. Il freno al lavoro sugli sgravi fiscali. Le dimissioni dopo quelle di Giarda, Bondi e Cottarelli, scrive Federico Fubini su “Il Corriere della Sera” il 10 novembre 2015. Dopo Piero Giarda nel 2012, Enrico Bondi nel 2013, Carlo Cottarelli nel 2014, è la volta di Roberto Perotti. La spending review non riesce mai a ridurre granché le dimensioni del bilancio pubblico, ma si conferma infallibile nel portare alle dimissioni i tecnici ai quali il governo si rivolge per riuscirci. Perotti, uno degli economisti italiani più riconosciuti all’estero, sabato ha fatto sapere a Matteo Renzi che rinuncia al suo incarico e uscirà dalla squadra di consiglieri di Palazzo Chigi. A suo avviso, il varo della legge di Stabilità e i segnali dati anche in seguito dal governo indicano che la riduzione della spesa pubblica non è una priorità. «In questa fase non mi sentivo molto utile», ha detto ieri a «L’erba dei vicini» di Beppe Severgnini su Rai3. Perotti, 57 anni, dottorato al Massachusetts Institute of Technology, docente prima alla Columbia University di New York e poi alla Bocconi, non dev’essere arrivato alla sua decisione facilmente. L’anno scorso aveva accettato di diventare consigliere di Palazzo Chigi solo a condizione che l’incarico fosse a titolo gratuito. Per evitare malintesi sul proprio ruolo, Perotti aveva anche rinunciato a qualunque forma di rimborso: per oltre un anno si è pagato da sé le trasferte ogni settimana da Lecco, dove vive, e l’affitto di un appartamento a Roma. Il suo obiettivo era realizzare il compito che Renzi aveva assegnato a lui e al commissario per la spending review Yoram Gutgeld: trovare dieci miliardi di tagli per il 2016, poi continuare negli anni successivi. In legge di Stabilità però gli interventi previsti valgono ufficialmente appena 5,8 miliardi (o meno, secondo molti analisti privati), e per metà sembrano di efficacia discutibile perché basati sulla compressione temporanea di alcune spese ministeriali. Negli ultimi nove mesi, Perotti aveva lavorato su alcuni fronti in particolare: la sfoltitura degli sgravi fiscali a categorie particolari, che oggi valgono 181 miliardi in tutto, e i costi di funzionamento dei ministeri e degli uffici dei dirigenti pubblici a livello decentrato. Su quasi tutti questi aspetti la legge di Stabilità registra passi avanti minimi o inesistenti. Nel presentare la legge di Stabilità il 15 ottobre, Renzi ha spiegato che dalla lista della spending review per il 2016 aveva rinunciato a quattro miliardi di tagli alle deduzioni e alle detrazioni (la materia di Perotti) perché l’addio agli sgravi avrebbe comportato un aumento della pressione fiscale e avrebbe colpito anche associazioni della società civile. Dunque il governo, secondo il premier, si è fermato per non colpire la fiducia all’interno del Paese. Non era questa la versione della spending review emersa fino a quel momento dalle indiscrezioni. L’operazione sugli sgravi progettata a Perotti sembrava impostata in modo diverso: il pacchetto degli interventi proposti valeva 1,5 miliardi (non quattro) e riguardava solo i trattamenti di favore per alcune specifiche categorie di imprese, per poter poi ridur re la pressione fiscale in modo più omogeneo su tutte. Difficile capire se Perotti si sia sentito preso di mira dalle parole del premier. O se abbia avuto l’impressione che il governo cercasse di scaricare su di lui la responsabilità di una spending review ancora una volta incompiuta. Sembra però probabile che, dopo il varo della manovra, l’economista abbia cercato un chiarimento con il premier sul futuro del piano di tagli ora che l’esecutivo deve realizzare nella pratica la riforma della pubblica amministrazione. Certo i due devono essersi trovati su posizioni diverse. Non pensa invece alle dimissioni l’altro uomo della spending review: Yoram Gutgeld, deputato del Pd, continuerà a lavorare sulla spesa sanitaria e sugli acquisti dell’amministrazione. Ma anche lui resterà fuori dall’«unità di missione» in preparazione a Palazzo Chigi, composta da una decina di esperti e guidata dall’altro bocconiano Tommaso Nannicini (che sembra destinato a diventare sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Si vedrà nei prossimi mesi come funziona il rapporto dell’ultimo «commissario alla spending review» con questo gruppo che, sempre di più, sembra destinato ad accentrare molte leve della politica economica.
La spending review diventa spending cucù. Un’altra figuraccia del governo: si dimette Perotti, prof della Bocconi chiamato a tagliare la spesa pubblica Dopo Bondi, Giarda e Cottarelli, è il quarto commissario che si deve arrendere alla burocrazia e alla politica. Su "Libero Quotidiano" l'11 Novembre 2015: GIANLUIGI PARAGONE VITTIME DELLA CASTA SCONFITTI DAI BUROCRATI IL MITO DELLE FORBICI. (...) un momento in cui le forbici si possano aprire e chiudere con utile efficacia. I muri di gomma non si possono tagliare, figurarsi squarciare. Ed è strano come la presunzione di questi professori non voglia ammettere che le forbici dei commissari per la spending siano come le ali di cera per Icaro. Per restare in tema di miti, qualcuno cita Sisifo e la sua impresa a compiere uno sforzo sovraumano per poi ricominciare daccapo tutte le volte. In questo caso però non ci sono sforzi da compiere: è tutto scritto da anni, ispirato al buon senso. Basterebbe applicarlo. Ma non si può perché questo è il paese delle furbizie, delle leggine tana-libera-tutti e soprattutto dei privilegi che diventano diritti e diritti che diventano favori. Ogni commissario arriva armato di ali di cera pensando che il suo volo possa arrivare a destinazione, che possa superare le nebbie dei palazzi dove tutto si nasconde. Non ce la fece il supercommissario dei miracoli, quel Bondi aggiusta tutto tipo «Sono mister Wolf e risolvo problemi». E poi Giarda. E poi ancora l’uomo del fondo monetario Cottarelli. Ora Perotti, precipitato per essersi avvicinato troppo al fuoco dei mandarini e delle feluche. Franato senza che alcuno nel governo aprisse una qualche rete di protezione: i commissari della spending cucù passano, i burocrati di palazzo restano. Eccome se restano. Morale: niente tagli alle strutture ministeriali. Hai voglia a parlare di sprechi, di spese folli, di controllo della spesa quando poi chi beneficia di questo spendere e spandere alza le barricate. «Prima di tagliare a noi, andate a tagliare dove si spreca di più». E così nessuno scende dalla giostra. Dal più piccolo al più grande c’è sempre qualcuno che spreca di più. Timbrano i cartellini e vanno a fare canottaggio? Embé? Che vuoi fare, li vuoi licenziare? Quarant’anni fa usciva nelle sale Fantozzi: era già tutto chiaro. Da allora, per effetto del moto accelerato uniforme, la spesa improduttiva è aumentata. Le baby pensioni non si possono toccare. I vitalizi men che meno. E potremmo andare oltre nel pieno adagio italico. Già, perché non è solo nel pubblico che i privilegi diventano diritti acquisiti. Nel privato qualche picconata arriva a bersaglio ma ciò che esce dalla porta rientra poi dalla finestra. Chiedetelo ai consumatori: nelle bollette (dalla luce al telefono) la furbizia è sempre in agguato. E che dire delle banche? Non sprecano soldi anche loro? Non fregano anche loro soldi dei risparmiatori? La filosofia del «freghi tu così frego anch’io» è nella filigrana di una costituzione materialissima. Le banche vanno in rosso? Poi paga pantalone. I professori che vorrebbero eliminare lo spreco dalla cosa pubblica comincino dalle università, fonte di spreco di denaro pubblico. Perotti ci scrisse un libro. Lo dico solo per rimarcare la mia rassegnazione, mica per dare consigli. Non credo alle spending review che io chiamo spending cucù. E soprattutto non credo al mito di queste forbici buone solo a contabilizzare somme da mettere sulla carta. Basterebbe il buon senso. Ci sono enti che sopravvivono nonostante siano gusci vuoti, eppure continuiamo a erogare gettoni e stipendi. Non c’è bisogno di Pico della Mirandola per smettere di pagare. La somma di tante piccole storie di ordinaria burocrazia farebbe un totale. Allora è un problema di volontà, nel senso che non si vuole fare perché non si può fare. Per farla breve, la piantassero di propagandare tagli e forbici al solo scopo di abbellire bilanci previsionali e guadagnare qualche titolo di giornale. Se non vogliamo che altri Icaro si schiantino a terra, voliamo basso. Facciamo piccole cose. Torniamo al buon senso dei nonni. Forse qualche gruzzoletto lo risparmieremmo sul serio.
Ecco perché in Italia la spending review è una missione impossibile. In otto anni sono cambiati 4 esperti incaricati di ridurre la spesa pubblica. Ma alla fine la politica si è sempre messa di traverso perché i tagli sono impopolari o costringono ad aumentare le tasse. Piero Giarda, allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individuò 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo», scrive Paolo Baroni su “La Stampa” l'11/11/2015. Arriva sempre un momento in cui anche il più esperto degli esperti finisce su un binario morto e alla fine lascia. Oppure viene congedato. E’ così negli ultimi 8 anni abbiamo cambiato ben 4 commissari alla spending review. «In questa fase non mi sento molto utile», ha spiegato l’altra sera Roberto Perotti, prof della Bocconi, entrato appena nemmeno sei mesi fa nello staff di Palazzo Chigi ed ultimo in ordine di tempo a gettare la spugna. Il suo «coming out» in tv è servito a mettere la parola fine ad un tira e molla che durava ormai da settimane. Il termine inglese «spending review», ovvero «revisione della spesa» introdotto nel gergo politico italiano nel 2006 da Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro del Tesoro nel governo Prodi, significa analisi delle spese e del funzionamento dei vari apparati allo scopo di migliorare la performance della macchina pubblica con la possibilità, anche, si risparmiare qualcosa. Da noi, invece, è sempre stata interpretata in maniera più brutale: tagli. Il primo tentativo di mettere ordine ai conti risale al 2012 quando il governo Monti, che in fatto di tagli veri mica scherzava (basti pensare cosa è successo alle pensioni), affida ufficialmente il dossier a Piero Giarda. Grande esperto di spesa pubblica, l’allora ministro per i Rapporti col Parlamento, individua circa 100 miliardi di «spesa aggredibile nel breve periodo» e ipotizza da subito circa 5 miliardi di risparmi. Non si fa in tempo a mettere in pratica il piano che Monti lo sostituisce con Bondi. «Monti aveva bisogno di qualcosa di più concreto da presentare a Bruxelles», raccontano le cronache di quei giorni. E così arriva l’ex commissario Parmalat, il tagliatore forse più famoso d’Italia. Al suoi fianco altri due pezzi da novanta: Giuliano Amato, al quale viene affidato il compito di analizzare i costi della politica, e Francesco Giavazzi, che invece deve cercare di sfrondare i sussidi alle imprese, impresa che si rileva impossibile. Bondi passa ai raggi «X» ministero per ministero, regione per regione, comune per comune, analizza spese e sprechi, e scodella un piano da 4,2 miliardi di risparmi immediati destinati a salire a 10 l’anno seguente. A inizio 2013 però anche Bondi lascia: Monti, che si fidava ciecamente di lui, gli aveva infatti affidato anche il compito di selezionare i profili dei candidati del suo nascente partito e i due incarichi erano diventati oggettivamente incompatibili. Dopo un breve interregno affidato al Ragionerie generale Canzio, ad aprile si insedia il governo Letta che vuol prendere il toro per le corna e per questo richiama da Washington Carlo Cottarelli. Il supertecnico del Fondo monetario, incarico triennale a 250 mila euro l’anno (ovviamente subito oggetto di polemiche), si insedia a ottobre e a inizio 2014 scodella un piano monstre: subito 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e addirittura 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu. Dopo Letta arriva Renzi ed il lavoro di Cottarelli, appena abbozzato nei mesi precedenti, potrebbe finalmente decollare e invece si affloscia. Palazzo Chigi, che nel frattempo ha preso più potere rispetto al Tesoro, per prima cosa cassa i progetti sulle pensioni e stoppa il taglio di 85 mila dipendenti pubblici. E i risparmi? Si continua con la vecchia prassi dei tagli lineari (o semilineari) introdotti da Tremonti. Ma da 16 ci si deve fermare a quota 8,5 miliardi. Naturale che anche Cottarelli getti la spugna mentre dallo staff del premier lo accompagna l’accusa di «scarsa collaborazione». Da allora è passato un anno e siamo da capo. Adesso lascia anche Perotti, subentrato lo scorso marzo nell’ingrato compito in tandem con Yoram Gutgeld, uno degli strateghi della prima ora della Renzonomics. Perotti spinge per intervenire innanzitutto sulla montagna di spese fiscali (detrazioni, sconti e bonus vari) ma Renzi lo ferma perché non vuole aumentare in alcun modo le tasse. E così la spending review 2016 che puntava a al solito obiettivo ambizioso (16 miliardi) frana: prima scende a quota 10 e poi va addirittura sotto i 5. Per far quadrare i conti Renzi preferisce l’aumento del deficit. Profetico un tweet dell’economista Riccardo Puglisi del 19 agosto: «Ma Perotti - commissario alla spending review - mangerà il panettone?». Gutgeld resta, il Prof invece torna alla Bocconi e laconico spiega: «La spending review non è una priorità del governo». O forse, suggerisce qualcuno, questa non è la stagione adatta per vedere all’opera dei liberisti veri come lui e Cottarelli.
Fuga da Renzi: non taglia gli sprechi. Spending review a zero con l'addio di Perotti dopo Cottarelli. Il premier ha rinunciato a ridurre la spesa pubblica, scrive Antonio Signorini Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. Roma Matteo Renzi un primato lo ha già ottenuto. Ha bruciato due dei quattro commissari alla spending review che sono passati per Palazzo Chigi. Il primo, Massimo Cottarelli, di fatto messo alla porta perché aveva un piano di riduzione alla spesa pubblica troppo dettagliato per i suoi gusti. Stava stretto persino a Enrico Letta che lo nominò, figuriamoci al premier in carica. Il secondo, Roberto Perotti, si è fatto da parte da solo. «Non mi sentivo molto utile in questo momento», ha spiegato. Decisione ufficializzata lunedì sera, ma nota almeno dalla fine di settembre. È durato un anno e tre mesi, a fianco di Yoram Gutgeld. Poco più di 400 giorni passati a studiare un aspetto specifico: la riduzione delle tax expenditure. Sono le agevolazioni fiscali che nascondono misure di spesa a favore delle categorie più diverse. Una giungla di 720 detrazioni che valgono 161,3 miliardi, frutto per lo più di micromisure che si sono stratificate negli anni. Il governo Renzi era sicuro di poterle sfoltire con interventi mirati. All'inizio dell'estate i primi ripensamenti. L'asticella dai due miliardi iniziali è calata a 1,5 e poi sotto il miliardo. Alla fine nella legge di Stabilità è scomparso ogni accenno alle tax expenditures. La spiegazione sa più di marketing che di economia. Le spese fiscali nella contabilità pubblica sono agevolazioni a tutti gli effetti e un loro taglio si traduce in un aumento della pressione fiscale. Renzi non voleva aggiungere nulla alla voce maggiori entrate della stabilità 2016. L'economista e professore alla Bocconi ne ha preso atto e, piuttosto che produrre altre carte destinate a restare nei cassetti di Palazzo Chigi, ha preferito tornare agli studi. Gutgeld, economista ed esponente del Pd, resta, ma dovrà mettere la firma su una spending review ridotta di cinque volte rispetto agli obiettivi originari. Dai 20 miliardi all'anno promessi all'insediamento di Renzi, ai 4 miliardi della Stabilità. Tagli lineari. Niente che assomigli alle spending review dei Paesi che l'hanno applicata, dal Canada al Regno unito passando per l'Olanda. Il disegno seguito da Renzi non è molto diverso da quello dei suoi predecessori. Si parte con le migliori intenzioni promettendo miliardi di tagli selettivi, non lineari e si finisce per raggranellare pochi euro proprio grazie ai tagli uguali per tutti, politicamente poco impegnativi. La situazione è più o meno la stessa dal 1986, da quando Pietro Giarda fu incaricato di guidare la prima commissione. Su circa 800 miliardi di spesa pubblica, quelli «aggredibili» sono poco meno di 300. Nessuno ha aggredito nulla, se non, appunto, con tagli lineari. Risparmi che danno sollievo ai conti nell'anno in corso, ma hanno il difetto di trasformarsi in ulteriori costi negli anni successivi. Il governo Monti, pressato dall'Unione europea, nel 2012 nominò Enrico Bondi con l'intenzione di passare a una fase operativa. Ma nemmeno il manager che ha risollevato Parmalat riuscì a convincere politici e amministratori a tagliare. Il decreto sulla spending review del governo Monti diventò una manovra che servì a rinviare di qualche mese un aumento dell'Iva (poi arrivato) e comprendeva persino nuove tasse. Addizionali locali Irpef e il famoso supplemento di aliquota Tasi-Imu dello 0,5 per mille che doveva essere temporaneo ma che il governo Renzi ha reso permanente. Cottarelli, come Bondi, ha prodotto analisi, ma anche un piano dettagliato e ambizioso. Per l'anno in corso prevedeva 18,1 miliardi di risparmi per il prossimo 33,9. Tutto archiviato. L'unico risparmio in arrivo sarebbe quello dei compensi di Cottarelli e Perotti, se non fosse che a Palazzo Chigi si sta per insediare la nuova «unit economica» guidata da Tommaso Nannicini e altri nuovi esperti. Si occuperanno di tutto, come i dipartimenti della Casa Bianca. Ma non di spendig review.
BEATO IL PAESE CHE NON HA BISOGNO DI EROI PER TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA. Perotti è solo l’ultimo “zar” alla spending review a mollare. Ma a Londra e Madrid i governi sforbiciano in prima persona, scrive Renzo Rosati l'11 Novembre 2015 su "Il Foglio". “Siamo un paese in cui si detraggono dalle tasse le finestre e le palestre”: era il giugno 2011 e Giulio Tremonti se la prendeva con una spesa pubblica “che è come andare al bar e dire: da bere per tutti! E poi chi paga?”. Nella giungla di 470 regimi fiscali di favore pari a 150 miliardi l’allora ministro dell’Economia aveva nominato consulente al disboscamento Vieri Ceriani, già dirigente dell’area tributaria della Banca d’Italia. Ceriani produsse un immenso foglio Excel con tutte le voci detraibili e relativo costo, colorate per importanza, e oltre a finestre e palestre c’erano abbonamenti al bus, ospedali, teatri, musei, enti culturali. Le palestre saltarono, le finestre sono ancora lì; soprattutto ci lasciò le penne Tremonti assieme al Cav. Ceriani invece è sempre consigliere del ministero dell’Economia, ma per il rientro dei capitali dalla Svizzera. Esempio unico di tenacia nella lista dei caduti alla spending review, il cui ultimo esempio è Roberto Perotti, professore alla Bocconi, nominato commissario al taglio della spesa pubblica da Matteo Renzi dopo l’addio del più celebre e movimentista dei predecessori, Carlo Cottarelli, funzionario del Fondo monetario internazionale. “Mi sono dimesso, non mi sentivo più molto utile”, ha detto Perotti, e il motivo resta quello dei tempi delle finestre e delle palestre: il mancato taglio di sgravi fiscali che nella versione dell’interessato valevano 1,5 miliardi, e in quella di Renzi quattro, cifra che secondo il premier avrebbe attirato sul governo l’accusa di cancellare la Tasi con una mano per togliere soldi con l’altra. Chiunque abbia ragione, è evidente che non si trattava di brandire l’ascia né sulle agevolazioni salite intanto a 180 miliardi, né su una spesa pubblica che resta pressoché immobile intorno al 51 per cento del pil, 800 miliardi e passa. Terza in percentuale in Europa dopo Francia e Grecia, ben davanti alla Germania, per non parlare della Gran Bretagna. Graduatoria rimasta immutata durante la crisi, mentre la spesa aumentava in termini assoluti, e con lei il debito pubblico italiano, mentre altrove (Francia esclusa) diminuiva, con l’esempio su tutti di Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Olanda. Per questo, in quello che il Foglio del 15 ottobre definiva il “cimitero” dei commissari italiani alla spesa, troviamo una sfilza di lapidi: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Cottarelli. Ora Perotti. Anche una fugace apparizione di Francesco Giavazzi, chiamato da Mario Monti nel 2012. Resta in campo Yoram Gutgeld, che però è anche deputato Pd di osservanza renziana. Salvo eccezioni, tra le quali Cottarelli, quasi tutti hanno lavorato gratis, contribuendo così, se non a tagliare la spesa, a non aumentarla. Cottarelli è anche la loro star: designato da Enrico Letta, rimasto in bilico con Renzi, subito soprannominato “mister Forbici” dai giornalisti fan, ai tagli mancati ha dedicato un libro – “La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare” (Feltrinelli) – un blog, una notevole presenza mediatica. La sua tesi è che siano le burocrazie ministeriali, alte e basse, a fare catenaccio. Giavazzi sostiene infatti che debba essere il capo del governo in prima persona a metterci la faccia. E se ci guardiamo intorno come dargli torto? Lunedì 9 novembre, mentre Perotti si dimetteva, a Londra il cancelliere dello Scacchiere George Osborne annunciava un nuovo taglio di spesa pubblica pari al 30 per cento dei fondi di quattro ministeri (Trasporti, Ambiente, Tesoro, Autonomie locali), e trattative in corso con altri, per azzerare in quattro anni il deficit di bilancio pari a 99 miliardi di euro. Anche in piena campagna per le elezioni dello scorso maggio Osborne non aveva esitato ad annunciare l’aumento della Vat (l’Iva inglese) e dei contributi previdenziali. Si è scontrato con il segretario del Lavoro Iain Duncan Smith, al quale chiede di risparmiare 12 miliardi di sterline. Il premier conservatore David Cameron, all’inizio del primo mandato nel 2010, era andato a Westminster e aveva fatto il giro delle televisioni per annunciare tagli alla Difesa, comprese portaerei e fregate simbolo della ex potenza imperiale, a welfare, immigrazione e trasporti pubblici. I primi ministri irlandesi Brian Cowen e Enda Kenny, succedutisi durante la crisi, hanno ridotto di cinque punti il peso della spesa pubblica, con l’obiettivo di scendere di altri due, cioè dieci sotto l’Italia. E così il premier spagnolo Mariano Rajoy, che ha tagliato la spesa dal 48 al 43 per cento del pil. All’uscita dalla recessione Dublino, Londra e Madrid hanno fatto segnare i maggiori aumenti della ricchezza nazionale e del reddito individuale. Nessuno ha delegato la pratica a zar né a mister Forbici.
Spending review, Renzi proprio non ce la fa. Anche l'ultimo, ennesimo commissario, Roberto Perotti, lascia l'incarico. E ancora una volta ha vinto lui, il Pachiderma. Il Carrozzone, scrive il 10 novembre 2015 Marco Ventura su “Panorama”. Una progressione impressionante. 2012-2013-2014-2015. Un anno dopo l’altro, dall’albero del governo cascano i commissari alla spending review, dimissionari o svaporati dopo essere stati presentati (e dati in pasto alla stampa e alla pubblica opinione) come i deus ex machina del taglio delle spese. O, meglio, degli sprechi, perché nessun presidente del Consiglio ha mai detto di voler tagliare le spese essenziali. Una dopo l’altra, quindi, si spaccano a terra le “teste d’uovo” della revisione di spesa (per dirla in italiano, che non è propriamente la lingua dei parsimoniosi). Nel 2012 Piero Giarda, che era considerato “l’uomo dei conti”, l’unico in grado di sforbiciare il viale del tramonto dei privilegi e delle prebende. Ma che silenziosamente, forse anche più dei successori, si mette da parte. Non per incapacità sua, ma per mancanza di volontà della politica di metter mano a quella cesoia. Nel 2013 Enrico Bondi, che a differenza di Giarda aveva un’immagine di autentico sforbiciatore, anche nel privato. Un uomo duro, determinato e infallibile. Ma niente. Neanche lui porta a termine il lavoro. Gli subentra, portato in palmo di mano dal governo direttamente dal Fondo monetario internazionale, Carlo Cottarelli. A lui, con Enrico Letta, l’onere e l’onore di realizzare la riforma delle riforme. Saranno tagliati gli sprechi, dunque, finalmente? Grandi aspettative, grandi promesse. Ottimismo, fiducia, persino un pizzico di furore rivoluzionario. E tanta propaganda. Ma l’elefante partorisce un topolino. Anzi, niente. La vulgata vuole che ogni volta i piani siano pronti a essere scodellati e messi in pratica. Pronti a alleggerire il bilancio dello Stato e consentire il taglio delle tasse. Perché la revisione della spesa va di pari passo con quella del fisco: tagli ciò che è in più, il grasso superfluo del baraccone di Stato in tutte le sue ben oliate e consolidate ramificazioni di voracità, immensa pianta carnivora che drena le risorse dai privati al pubblico; e quel che tagli ti consente di aver più risorse per ridare ossigeno all’economia reale. A parole sembra facile. I numeri ci sarebbero. E i premier, uno dopo l’altro, ci credono. O così pare. Peccato che nel 2014 anche Cottarelli cada (dal pero). Le promesse finiscono in un libro che racconta la telenovela dei tagli mancati, di quello che si sarebbe potuto fare. Volendo. È il 2015. Due, stavolta, i taglia-spese, a riprova di una volontà (a parole). Matteo Renzi sostiene i suoi personali “commissari”: il fiore all’occhiello Roberto Perotti, con un curriculum accademico lungo così e largo cotanto. E Yoram Gutgeld, il fido Yoram Gutgeld. Nel frattempo, tutti i capitoli di taglio della spesa sono stati citati e sviscerati, dalla razionalizzazione delle spese sanitarie all’intervento sulle detrazioni (ma solo per certe categorie privilegiate), dallo spegnimento dei lampioni nelle strade alla decurtazione dei vitalizi. Le proteste più eclatanti, non per i numeri della partecipazione ma per la qualità delle teste protestanti, le inscenano i dirigenti del Tesoro (che la spending review dovrebbero scriverla) e i consiglieri parlamentari che dovrebbero approvarla. Stato contro Stato. La tigre dell’alta burocrazia contro la tigre della politica. Matteo Renzi, perfino lui (ovviamente lui?), si arrende e ammette che sulla spending review avrebbe voluto far di più (ma non lo fa), ben sapendo che anche Perotti a questo punto si dimetterà. Resta, unico sopravvissuto, Gutgeld. Ma che ci sia o no, forse non conta. O non sconta. Morale della favola: ha vinto il Pachiderma. Il Carrozzone.
Spending review, sotto a chi tocca, scrive Roberto Santoro su “L’Occidentale” il 10 Novembre 2015. Dura la vita per commissari e consulenti alla spending review. Se ne va anche il bocconiano Perotti, il quale, dopo ponderati studi sugli sprechi e sulla spesa dello Stato, su cosa, come e dove tagliare, realizza che è meglio tagliare la corda, dimettendosi in diretta televisiva. Perché quelli della spending sono fili ad alta tensione, chi accetta una carica del genere realizza presto quant’è mortale: Giarda che voleva 80 mld di tagli subito e altri 300 sul lungo periodo, le stagioni di Bondi e di Canzio, fino al caso Cottarelli, da funzionario dell’FMI a guru di Palazzo Chigi che prima critica la maggioranza sulle coperture di spesa e poi se ne torna a Washington “per motivi personali”. Del resto non ci riuscì Monti ad aggredire la spesa, che pure non aveva problemi di consenso (almeno finché il Senatore non decise di seguire le sue ambizioni politiche), non ci riesce Renzi, che nella trincea della spending ha ancora al suo fianco l’ex McKinsey Gutgeld, anche se quest’ultimo, eletto nel Pd, risponde a delle logiche più interne alla politica e ai partiti. Le stesse che evidentemente spingono i “tecnici” a fare le valigie. Sia chiaro, non siamo iscritti al partito gufo. Dai tempi di Monti, passando per Letta fino ad arrivare a Renzi, la spesa pubblica è rallentata. Gli spread non sono più motivo di angoscia per la nostra giornata e il ministro Padoan oggi in Europa può rivendicare margini di flessibilità, usando qualche parola di conforto anche per il vero mattonazzo della nostra finanza pubblica, il debito in termini assoluti. Ma detto questo, senza la spending, senza tagli nelle PA dove snidare sprechi e inefficienze, senza uno scatto di reni sulla riforma delle partecipate di Comuni e Regioni, e più in generale una riflessione profonda sulla presenza, ingombrante, dello Stato nella società italiana, per non dire del fallimento del Titolo V, probabilmente continueremo a vedere una sfilata di tecnici, consulenti e commissari che marciano sicuri di sé in passerella e poi se ne vanno o si dimettono sul più bello. Il presidente del consiglio Renzi sa che stiamo parlando di misure impopolari, che non portano consenso prima delle elezioni, per questo nicchia o non affonda come dovrebbe, pensando al suo stile. Puntare alla riduzione delle tasse, in particolare quelle sulla casa, va bene, siamo tutti d'accordo, ma ridurre le tasse senza ridurre la spesa, il rischio di una manovra in espansione, il trovare coperture “a sbalzi” rimandando i pagherò al domani, è la vera ragione della depressione dei suoi consulenti. Forse il Governo farà qualcosa dopo i prossimi e importanti appuntamenti elettorali a livello locale, forse qualcuno dopo Renzi alzerà di nuovo le tasse o sarà Renzi stesso a trovare altre ricette, ma una cosa è certa, i conti devono tornare, a Roma come a Bruxelles. Intanto aspettiamo un nuovo asso nella manica, l’ennesimo curriculum di platino, il tecnico dei tecnici che ci venga a dire secondo lui come si fa ad avere uno Stato più leggero, imprenditore e che funzioni meglio.
Da Giarda a Perotti zero tagli. Perché piangiamo sui tagli? Scrive Lucio Fero su "Blitz Quotidiano" l'11 novembre 2015. Domanda impertinente e insolente: perché l’Italia tutta da anni piange lacrime amare sui tagli alla spesa pubblica? Ma che domanda! Perché da anni la spesa pubblica è sottoposta a tagli che sono amputazioni, perché da anni sacrifici per tutti, se non addirittura “macelleria sociale”. Quindi che razza di domanda che fai, ma dove vivi, non li leggi i giornali, non la senti la televisione? In effetto sono anni che la stampa e la tv piangono anche loro i tagli alla spesa pubblica. Non solo versano lacrime di cordoglio sui tagli, li danno per ovvi, scontati, vissuti. In ogni articolo, titolo, intervista, chiacchiera si parte dal dato di fatto che la spesa pubblica in Italia è stata da anni pesantemente tagliata. Dato di fatto? Freschi di stampa e di televisione sono i dati che tutti riportano, non senza rammarico e ammonizione ai governi. Pietro Giarda nel 2012, commissario alla revisione della spesa pubblica, individua cinque miliardi da tagliare e tagliabili subito. Non se ne fa nulla, non si taglia niente. Enrico Bondi, commissario alla stessa cosa dopo Giarda, individua 14 miliardi da tagliare in due anni. Bondi sparisce, i miliardi da spendere restano. Carlo Cottarelli, commissario numero tre, individua 7 miliardi da tagliare nel 2014, 16 nel 2015…Non verrà tagliato un euro. Ultimo commissario Roberto Perotti propone taglio un paio di miliardi dopo aver calcolato dieci e poi cinque…Niente, Perotti si auto taglia. E non è neanche un taglio di spesa microscopico, Perotti lavorava gratis. La morale politica e sociale è che in Italia non c’è stato e forse non ci sarà mai governo che abbia davvero la forza e la voglia di tagliare la spesa pubblica, anzi quella parte della spesa pubblica che, non essendo pensioni, stipendi, sanità, tagliabile sarebbe eccome. Fanno cento miliardi di euro abbondanti all’anno che dallo Stato scivolano in ruscelli anche minimi sul “territorio”, cioè categorie, gruppi, votanti, elettori, gente. Pessima od ottima notizia che sia, questo è il dato di fatto: non si taglia, non si è mai tagliato. Spesa pubblica zero tagli. Come conferma peraltro la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil sempre saldamente sopra il 50 per cento da anni e anni e anni. E allora la domanda, in primo luogo a giornali e televisioni che almeno l’alfabeto del reale dovrebbero conoscerlo…Come si fa a criticare i mancati tagli di spesa pubblica mentre ogni pagina dà per scontati, ovvi e avvenuti i tagli di spesa pubblica? Come si fa a piangere insieme il danno dei governi che non tagliano e il danno dei tagli sofferti? Come si fa ad avere memoria zero anche delle proprie stesse pagine e parole? Si fa, si fa… E si fa senza troppa fatica, tanto se ne accorge nessuno o quasi. Altrimenti per raccontare, riflettere, riferire, capire la realtà occorrerebbe gran fatica. Vedere, quindi spiegare, quindi sopportare il danno di certa impopolarità. Vedere, spiegare che diminuendo il Pil la spesa pubblica qua e là è diminuita in cifra ma non in percentuale. Vedere, spiegare che i “tagli” sono quasi sempre sulle aspettative di crescita della spesa pubblica e non sulla spesa pubblica “abituale”. Vedere che la superficialità e spregiudicatezza del ceto politica e della sua comunicazione hanno colonizzato il mondo dell’informazione che ormai parla la lingua del colonizzatore. Contribuendo quindi al paradosso di un paese tutto che si sente tutto in credito, tutto “tagliato” mentre nulla o quasi è stato davvero tagliato. Salvo poi corrucciarsi, i giornali e le tv, quando i Commissari alla spending review mollano perché non si taglia un tubo.
La Boldrini spende 40mila euro in lavanderia: tutti gli sprechi della Camera. Più di un milione di euro per fotocopie e per trasportare lettere per 350 metri. E spuntano anche 90mila euro per assicurarsi del buon trattamento dei migranti nei centri di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo il 21 agosto 2015 su "Il Giornale”. La spesa più bizzarra è indubbiamente quella che gli onorevoli deputati (a nostre spese) sosterranno per smacchiarsi i vestiti. Nel bilancio della Camera guidata da Laura Boldrini, approvato il 5 agosto, infatti, è iscritta una voce che parla chiaro: 40.000 euro per il servizio di lavanderia. Una cifra incredibile, immaginando che le giacche e le cravatte (ormai se ne vedono poche) i deputati se le laveranno a casa. Ma non c'è solo questo. La relazione dei Questori e gli annunci della Presidenza parlano di un bilancio ridotto praticamente all'osso. Falso. E' vero che la "spesa prevista per il 2015 si riduce di 50,5 milioni di euro rispetto al 2014 (-4,87%)" e che si attesta sotto il miliardo di euro. Ma parliamo pur sempre di 986,6 milioni di euro. Ed è anche vero che i soldi che lo Stato da qui al 2017 dovrà sborsare sono "solo" 943,16 milioni di euro all'anno, come è corretto dire che nel 2015 saranno restituiti al bilancio dello Stato 34,7 milioni di euro, che dal 2012 i deputati hanno fatto risparmiare allo Stato sono 223 milioni di euro. Ma le voci in cui si annidano sprechi e spese incomprensibili sono ancora eccessive. Troppe e con troppi soldi gettati al vento. Vediamoli, partendo dallo spreco più eclatante. La Camera può vantare il possesso di un meraviglioso palazzo sorto "in epoca paleocristiana nel cuore del Campo Marzio". Un gioiello, e come tale costa parecchio per la manutenzione. Per la precisione 1milione e 140mila euro per il supporto operativo nella sede di Vicolo Valdina. Per cosa vengono spesi? Basta andare a leggere nel bando di gara. L'appalto è di durata triennale e l'azienda vincitrice deve assicurare, tra le altre cose, la "movimentazione, anche tramite carrello, di plichi, faldoni, risme di carta, cancelleria, etc.", poi "l'accoglienza e l'accompagnamento ai piani dei frequentatori della sede" e "'esecuzione di attività di riproduzione fotostatica o fascicolazione di documenti". Insomma, più di un milione di euro per fare fotocopie, trasportare faldoni e recapitare la "corrispondenza e di ulteriori materiali". Per questo particolare compito, il bando precisa che i funzionari dovranno assicurare il "ritiro e la consegna della corrispondenza all'interno del Complesso e tra il Complesso e tutte le altre sedi della Camera dei deputati (...) e il recapito, con idonei mezzi di trasporto, della corrispondenza dei deputati tra il Complesso e le sedi degli altri organi costituzionali e dei ministeri ubicate nel comune di Roma". C'è da chiedersi quali siano gli "idonei mezzi di trasporto", considerando che tra Palazzo Montecitorio e Vicolo Valdina, dove è sito il complesso, ci sono appena 350 metri. Fatti a piedi significano circa 4 minuti (diciamo 5 in caso di pioggia), che diventano 6 se fatti in auto. E considerare che la Camera già spende 1.660.000 euro per "trasporto e facchinaggio". Tra le spese, va detto, ci sono anche quelle per il servizio di guardaroba. Un’altra di quelle voci di spesa della Camera che sembrano eccedere la logicità: nel bilancio sono stati previsti 150.000 euro per tenere a bada cappotti e cappelli dei deputati. Per non parlare poi delle spese di pulizia. Laura Boldrini, evidentemente attenta al pulito, si è assicurata una spesa di 6milioni e 550mila euro per l'igiene. Precisamente: 40.000 andranno alla lavanderia, 6.100.000 all'impresa di pulizie e 410.000 per lo smaltimento dei rifiuti. Altro punto poco chiaro riguarda le capacità poliglottiche degli onorevoli. I corsi di lingua, infatti, sono tutti a carico dei contribuenti: 300.000 euro nel 2015, cui va aggiunto il residuo di quelli ancora non pagati nell'anno passato, che ammontano a 295.113,70 euro. In totale quasi 600mila euro in docenti di inglese e di informatica. La cosa più curiosa, poi, è che evidentemente queste lezioni non danno i frutti sperati. O almeno non fino in fondo. Le tasse degli italiani, infatti, vanno a coprire anche le spese per "traduzioni e interpretariato". Che, sommando tutti i casi in cui vengono citate, si parla di 515mila euro. Andiamo oltre. Ogni anno vanno in fumo circa 35mila euro per sostenere la commissione che indaga (ancora) sulla morte di Aldo Moro e 340.000 euro per finanziare vari ed eventuali "convegni e conferenze". Tralasciando poi i 63 milioni di "rimborso delle spese sostenute dai deputati per l’esercizio del mandato parlamentare" (sul quale spesso ricadono enormi dubbi per il modo in cui vengono utilizzati) ci sono ulteriori 15 milioni e 910mila euro legati a spese non specificate, ma inserite in generiche voci chiamate "altre" o "accessorie". Infine, spuntano anche i 90.000 euro che ogni contribuente contribuirà a versare per permettere ad una commissione speciale di assicurarsi che i profughi abbiano tutto quello che gli occorre nei vari c'entri d'accoglienza sparsi per l'Italia. Una spesa di cui, sinceramente, non si sentiva il bisogno.
Come la Camera dei Deputati boccia se stessa. La Commissione di Montecitorio abolisce i tagli introdotti da Boldrini e Sereni: sì al tetto dei 240 mila euro, ma no alla sforbiciata sugli stipendi dei funzionari. Così, i 60 milioni di risparmi annunciati fino al 2018 rischiano di ridursi a 13 milioni. L'ufficio di presidenza annuncia ricorso. La battaglia tra caste continua, scrive Adriana Botta su “L’Espresso”. La Camera taglia, la Camera boccia i propri stessi tagli. E dopo aver annunciato una sforbiciata per 60 milioni di euro nel quadriennio 2015-2018, rischia seriamente di veder ridotto lo sbandierato dimagrimento a meno di un quarto del totale: 13 milioni di euro. E’ questo l’inedito boomerang che ha colpito i vertici di Montecitorio: dopo la corsa al taglia-taglia gli stipendi del personale, nel quale lo scorso anno sia la presidente Laura Boldrini che la vice Marina Sereni si erano distinte per impegno – spalleggiate anche da Renzi e dal Pd - arrivando a settembre 2014 all’approvazione unilaterale in ufficio di presidenza (contrarie tutte le 25 sigle sindacali) dei tagli modulari a tutti i ruoli del personale, adesso arriva lo stop a sorpresa. A seguito del ricorso dei dipendenti, con una sentenza notificata il 30 luglio, infatti, la commissione giurisdizionale per il personale di Montecitorio – organo interno, per ironia peraltro composto quasi solo da deputati Pd - ha bocciato la legittimità di quei tagli. Dando nei fatti ragione a quanti tra dipendenti e sindacati, nel corso delle trattative, parlavano di una norma "incostituzionale” perché violava il “principio più volte stabilito dalla Consulta circa il divieto di modificabilità della carriera in corso di rapporto di lavoro”, e ledeva sia “i diritti acquisiti” dei dipendenti più anziani, sia “le legittime aspettative” di un “avanzamento retributivo” “ben codificato”. Ma quale è esattamente il punto? Un anno fa, l’ufficio di presidenza di Montecitorio non si limitò ad adottare il tetto massimo di 240 mila euro annui per i funzionari pubblici che il governo aveva appena introdotto. Volle fare di più: per dimostrare risparmiando di “non essere sordi a quel che avviene nel paese” (come disse Boldrini), ma anche per mantenere la differenza monetaria oltreché di status fra le varie categorie lavorative (segretari generali, consiglieri, documentaristi, segretari, commessi, tecnici), per evitare appiattimenti si introdussero i cosiddetti “sotto-tetti”, ossia tagli proporzionali a tutti i livelli dei dipendenti di Palazzo. Una sforbiciata generale, che secondo i calcoli ha toccato circa il 40 per cento del personale, ossia quelli che hanno già superato il ventennio di servizio (lo scatto di stipendio maggiore arriva al ventitreesimo anno di servizio). E’ proprio questa decisione sui sotto-tetti, quella bocciata dalla Commissione giurisdizionale: pur ribadendo l’autonomia della Camera, infatti, la sentenza spiega in sostanza che ci si può ispirare alla legge che prevede il tetto dei 240 mila euro, ma non aggiungere ulteriori limiti per le altre categorie di dipendenti – non previsti da quella legge. Il che, era proprio il punto contestato all’epoca dai sindacati, che si erano detti favorevoli al limite dei 240 mila euro, ma contrari alla complessiva rimodulazione. Non che la sforbiciata sia stata annullata del tutto. Spiega infatti la presidente Boldrini, che la decisione è provvisoria: «Sono saltati i tetti agli stipendi dei dipendenti della Camera? Non è vero. La decisione sarà presto riesaminata». Ovviamente, quella che volendo può chiamarsi una guerra fra caste nel nome dei tagli (politici contro Palazzo) non è finita qui. L’ufficio di presidenza ha infatti già presentato appello contro la sentenza, che quindi resta sospesa fino a settembre, quando si avrà la parola definitiva. In un caso e nell’altro, comunque, si dovrà scegliere tra due paradossi: o un segretario generale (che fino all’anno scorso prendeva 478 mila euro) finirà per guadagnare quanto un consigliere parlamentare a fine carriera (240 mila euro, appunto) e poco più di un documentarista (237 mila euro, sempre a fine carriera), oppure si dovrà escogitare un altro sistema che eviti l’appiattimento senza però risultare illegittimo. Servirà insomma una soluzione complessiva: anche perché al Senato la stessa vicenda ha preso una piega opposta (i sottotetti sono stati giudicati legittimi), e il tutto dovrà essere armonizzato con il cosiddetto ruolo unico dei dipendenti dei due rami del Parlamento. La valanga dei ricorsi, peraltro, non può dirsi ancora finita. Alla prossima.
Camera, commessi a 232 mila euro e barbieri a 143 mila: l’Italia che resiste, scrive Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano”. Duecentoquarantamila euro, tanto può guadagnare al massimo il Presidente della Repubblica e tanto possono guadagnare, al massimo, i dipendenti pubblici, compresi ovviamente quelli della Camera dei Deputati. Stipendio bloccato grazie al tetto imposto ed introdotto l’anno scorso per la pubblica amministrazione che a Montecitorio aveva portato con sé anche dei limiti intermedi, dei sottotetti continuando la metafora, che si sono però rivelati stretti, troppo, per chi li doveva “subire”. Così stretti che gli interessati hanno presentato ricorso, accolto dalla Camera stessa, realizzando la meraviglia, il paradosso per cui i commessi possono continuare a sfiorare a fine carriera lo stipendio dell’inquilino del Quirinale toccando i 232 mila euro e i barbieri (7 a Montecitorio) continuare a costare 500mila euro ogni dodici mesi con il più anziano che vanta uno stipendio da 143mila euro. “L’anno scorso – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera – si era stabilito di applicare il tetto dei 240 mila euro per gli stipendi pubblici anche ai dipendenti di Montecitorio, dove le retribuzioni arrivano anche a superare anche il doppio di quella cifra. Avevano dunque fissato il tetto massimo per i superdirigenti, introducendo limiti di fascia più bassi per le categorie inferiori in modo da graduare i compensi”. La vicenda nasce nell’ambito del contenimento della spesa pubblica con la decisione del governo, nell’aprile 2014, di introdurre un tetto ai dirigenti della pubblica amministrazione, fissato a 240mila euro. A questa norma si sono in seguito adeguate tutte le istituzioni, a cominciare dalla presidenza della Repubblica, passando poi dal Senato e dalla Camera. In particolare alla Camera sono stati introdotti dei tetti per i consiglieri parlamentari, che sono i funzionari di più alto livello (che a fine carriera avrebbero potuto raggiungere anche i 358mila euro lordi annui), e poi dei sottotetti per le altre figure professionali. Il dipendente di più basso livello, l’operatore tecnico o il commesso che a fine carriera raggiungeva i 136mila euro lordi annui, dopo la delibera aveva visto la cifra scendere a 96mila, per fare un esempio. La logica sottesa all’introduzione dei sottotettiera quella di modulare la retribuzione massima in modo da evitare che due funzioni diverse, come ad esempio il commesso della Camera ed il Presidente della Repubblica, potessero essere retribuite praticamente allo stesso modo. Logica chiara e, evidentemente, ineccepibile. Almeno dal punto di vista teorico. Eccepibile invece dal punto di vista pratico tanto che gli interessati, come detto, hanno presentato ricorso. E grazie al regolamento della Camera dei Deputati il ricorso dei dipendenti della Camera, e scusate le inevitabili ripetizioni, è stato presentato alla Camera dove dei parlamentari della Camera che compongono la commissione competente lo hanno accolto stabilendo che la decisione della Camera era sbagliata. Sembra folle, sembra italiano non corretto eppure è così e, ancora una volta, a spiegare l’accaduto è Rizzo facendo ricordo al termine ‘autodichia’ che, nella definizione della Treccani, è “l’esercizio di attività formalmente giurisdizionale da parte della pubblica amministrazione”. Cioè il principio in base al quale le decisioni di un organo costituzionale come il Parlamento non sono sindacabili dall’esterno. “Davanti alla proposta di applicare tetti diversi – spiega Rizzo -, commessi e documentaristi hanno abbozzato e hanno fatto ricorso all’organo giurisdizionale interno. Si tratta di una commissione composta da deputati. E ovviamente ha accolto il ricorso presentato dall’avvocato dei dipendenti riottosi: l’ex deputato Maurizio Paniz. Tutto in famiglia insomma”. Risultato: il risparmio previsto da qui al 2018 per Montecitorio passerà da 60 a 13 milioni di euro. Raramente barba e capelli sono costati tanto. Eppure commessi, documentaristi, barbieri e addetti vari della Camera dei deputati non sono soli. Sono soltanto un segmento della vasta Italia che resiste. Resistono gli autisti Atac nella trincea dell’orario di lavoro effettivo più basso d’Italia e certo d’Europa. Resistono i dipendenti comunali nella trincea del salario accessorio percepito senza lavoro o produttività accessoria, resistono tutti nei bunker conquistati finora, strappati alla lobby a fianco o comunque espugnati demolendo il pubblico denaro. Resistono tutti indifferenti al mondo, all’intero resto del mondo. Solo che non è proprio la stessa cosa resistere ottusamente se si guadagnano 1.500/2.000 euro al mese o se lo stipendio è cinque volte tanto. Non sono soli questi lavoratori della Camera dei deputati a pretendere ciò che non gli spetta, solo è che non si possono guardare tanta è la loro protervia. Come diceva un tale che faceva il filosofo…dopo una certa misura la quantità stessa muta la qualità, dopo un botto di stipendio infatti il corporativismo sindacale muta in indecenza sociale.
Fata Boldrini trasforma i barbieri in parrucchieri. Oltre alla barba anche la piega per le deputate. Il servizio alla Camera parte da domani, scrive Laura Della Pasqua l’8 giugno 2014 su “Il Tempo”. Taglio, messa in piega, colore e permanente, da domani la Camera fornirà anche questi servizi. È da tempo che le parlamentari reclamano i parrucchieri in nome del pari trattamento con i colleghi. Perchè, è stata la lamentela ricorrente, «dobbiamo uscire dal Palazzo per una piega quando i deputati possono farsi in qualsiasi momento barba e capelli?» Così siccome il «problema» era particolarmente sentito e siccome anche in questo, sostiene più di una deputata, si vede la piena attuazione delle «pari opportunità», ecco che il presidente della Camera Laura Boldrini ha cercato di rimediare a questa carenza. Una recente delibera del Collegio dei Questori ha disposto un servizio di parrucchiere da affiancare a quello di barbiere. Non ci saranno assunzioni nè aumento dei costi e tantomeno listini di favore. La segreteria della Boldrini ci tiene a precisare che con questo servizio, la Camera addirittura ci guadagna. Come? I barbieri infatti si sono riconvertiti in parrucchieri. La segreteria del presidente spiega che i sette barbieri operativi a Montecitorio già in parte esercitavano le funzioni di parrucchiere su richiesta di alcune deputate. Capitava infatti che qualcuna avesse bisogno di una piega espressa e invece di uscire dalla Camera, prendere appuntamento con un parrucchiere e mettersi in attesa, chiedesse a un barbiere di improvvisarsi coiffeur. Insomma tra una barba e un’altra, un paio di bigodini non si negavano a nessuna. Il problema era però che questi servizi extra venivano fatti a prezzi da barbiere che, come si sa, sono più bassi di quelli di un parrucchiere. Un conto è fare una sfumatura maschile e un conto è invece tagliare una chioma femminile. Inoltre quelle che fino alla scorsa legislatura, erano richieste sporadiche, eccezionali, ora con la massiccia presenza di donne alla Camera (il 30% degli eletti) è diventata, fanno notare presso la presidenza, quasi una necessità. Così la Boldrini, come spiega la sua segreteria, ha pensato che era arrivato il momento di fare una distinzione tra il servizio di barbiere e quello di parrucchiere introducendo un listino ad hoc per le parlamentari. I prezzi, si tiene a precisare, sono quelli di mercato. E dal momento che la spending review non consente di allargare i cordoni della spesa, i barbieri svolgeranno la doppia funzione. Gli uffici della Camera sostengono che Montecitorio ci andrà addirittura a guadagnare. Ma un interrogativo sorge spontaneo: non è che con l’aumento dell’attività i barbieri-parrucchieri reclameranno un aumento di stipendio? Andando a spulciare le tabelle sulle retribuzioni del sito della Camera, avrebbero poco da lamentarsi anche se il lavoro dovesse raddoppiare. I barbieri rientrano nella categoria degli operatori tecnici al pari dei falegnami, dei baristi, degli elettricisti e dei centralinisti. Appena entrato un barbiere della Camera porta a casa circa 30.351 euro l’anno (quasi 2.600 euro al mese); una cifra che dopo il decimo anno arriva a 50.545 euro, dopo vent’anni lievita a 89.528 euro e dopo quarant’anni di servizio sale a oltre 136 mila euro. Questi scatti di anzianità così rapidi hanno avuto, almeno fino al varo della riforma Fornero, un impatto significativo sulle pensioni. Con il vecchio sistema retributivo, il vitalizio si calcolava tenendo presente le ultime buste paga. Comunque anche a fronte della riforma previdenziale, l’assegno pensionistico rimane di tutto rispetto e molto al di sopra di quello di quanti svolgono la stessa attività fuori dal Palazzo. Il Reparto Barberia, questo il nome ufficiale, fino al 1991 era gratuito e per le senatrici era previsto addirittura un bonus messa in piega. Nel 2007 arriva anche all’ordine del giorno la proposta di eliminare il servizio da barbiere ma viene cassata perché ritenuta «non coerente con le scelte della Camera». Ora si cambia ancora.
La Camera salva i barbieri e li promuove a commessi. L'ufficio di presidenza risolve all'italiana il caso dei coiffeur in esubero: invece di licenziarli vengono inquadrati come assistenti parlamentari. Stipendio finale: 136mila euro all'anno, scrive Paolo Bracalini, Domenica 31/01/2016, su "Il Giornale". I barbieri della Camera, creature mitologiche che, per saper usare forbici e schiuma da barba, arrivano a guadagnare a fine carriera come un dirigente di una multinazionale, 136mila euro l'anno di stipendio. E, a differenza dei barbieri normali che si accollano il rischio di un negozio, se sulle loro poltrone non si siede nessuno per loro non cambia niente: sono assunti a vita dal Parlamento. Ma c'è ancora di più, se i barbieri di Montecitorio si rivelano in eccesso rispetto alle esigenze delle onorevoli chiome, non vengono tagliati ma al contrario, promossi. Miracoli dell'incredibile welfare assicurato ai dipendenti della Camera, difesi da una dozzina di sigle sindacali differenti e pronti a scioperare al minimo segnale di affronto ai diritti acquisiti. Negli ultimi anni il Reparto Barberia ha ridotto gli introiti, 90mila euro circa a fronte di un costo di 500mila euro per il bilancio di Montecitorio, ovvero 400mila euro in perdita. Si calcola che taglino i capelli non più di 23 volte alla settimana, in tutto. Una soluzione andava trovata. Ma l'Ufficio di presidenza della Camera, composto da ventun deputati e guidato da Laura Boldrini, dopo annunci mirabolanti di spending review anche per il Reparto Barberia della Camera (addirittura l'ipotesi di chiuderlo), si è dovuto piegare di fronte ai diritti intoccabili. E che piega. L'estenuante trattativa è finita a tarallucci e vino, con una delibera del massimo organo interno di Montecitorio che tiene aperto l'indispensabile servizio di barberia per gli onorevoli (esteso per pari opportunità, su indicazione della Boldrini, anche alle deputate come servizio di parrucchiere), con la differenza che i barbieri in servizio non saranno più sette, ma quattro. E gli altri tre? Qui sta il colpo di genio. I tre barbieri in esubero da domani diventeranno «assistenti parlamentari». In altre parole verranno promossi, perché l'inquadramento dei barbieri alla Camera è quello di «operatore tecnico», livello più basso rispetto all'«assistente parlamentare», a cui si accede per concorso come per le altre qualifiche. E la funzione dell'assistente parlamentare è così descritta da un documento della Camera: «Gli assistenti parlamentari svolgono attività operative o di coordinamento nei settori della vigilanza, della sicurezza delle sedi, della rappresentanza e dell'assistenza alle attività degli organi parlamentari». Ma che ne sanno i barbieri di vigilanza e assistenza alle attività degli onorevoli, tolte le esigenze collegate ai bulbi piliferi? Non importa. «Non potevamo fare altrimenti, non si possono licenziare - ci racconta un deputato membro dell'Ufficio di presidenza che preferisce restare anonimo - E quindi l'alternativa era tenere tutti i barbieri della Camera e pagarli inutilmente, o spostarne alcuni ad altre mansioni trasformandoli in assistenti parlamentari. Faranno i commessi, mica vanno a fare i consiglieri legislativi!». Tutti salvi e anzi promossi. In barba alla spending review.
Diabolus in politica. Perché è stato bocciato il tetto massimo di 240 mila euro fissato invece per tutti i funzionari della pubblica amministrazione, scrive Serenus Zeitblom su “Panorama”. Gli stipendi dei politici vi sembrano alti? Cambiereste idea se conosceste gli stipendi dei dipendenti di Camera e Senato. Fino all’anno scorso, i più alti funzionari di Montecitorio arrivavano a guadagnare quasi 360.000 euro l’anno, vale a dire il triplo dell’indennità che percepisce un deputato. Lo scorso anno, i vertici dei due rami del Parlamento decisero di applicare, congiuntamente, un tetto analogo a quello che il Governo Renzi aveva disposto per il resto della pubblica amministrazione. I funzionari di Palazzo Madama e di Montecitorio non avrebbero percepito più di 240.000 euro l’anno, comunque il doppio dei deputati (ad entrambe le categorie vanno poi aggiunte indennità varie). Vi sembra ancora troppo? Tenete presente che si tratta di funzionari di altissimo livello, il meglio di cui la pubblica amministrazione disponga. Vengono selezionati attraverso concorsi molto severi e – bisogna riconoscerlo – non troppo lottizzati politicamente. Naturalmente, secondo logica, si decise in quel momento di diminuire anche gli stipendi delle altre categorie di dipendenti dei due palazzi, provvedimento certamente logico e necessaria conseguenza dell’altro (si tenga conto che quasi la metà del totale dei dipendenti della Camera – compresi commessi e centralinisti - guadagnava più di un deputato). Ma qui le cose non sono andate lisce. Se nel caso degli alti funzionari si ebbero solo composti mugugni, qui si misero di mezzo i sindacati, e fioccarono i ricorsi. Ricorsi alla Magistratura? Niente affatto: la Camera è un organo costituzionale, e quindi – come per il Senato, il Quirinale, la Corte Costituzionale - vale il principio dell’autodichìa, per effetto del quale è la Camera stessa, attraverso un organo apposito, a giudicare sui ricorsi. Questo organismo si chiama Commissione Giurisdizionale per il personale, ed è composto da 3 deputati, estratti a sorte. In questa legislatura la sorte ha voluto, un po’ curiosamente, che i 3 membri fossero tutti del PD: gli on. Bonifazi (Presidente), Ginefra, Bonavitacola. Nessun problema, si dirà: la delibera che poneva un tetto alle retribuzioni è stata assunta dall’Ufficio di Presidenza della Camera, a stragrande maggioranza PD, in attuazione di un orientamento del Governo Renzi (PD). E invece no: nei giorni scorsi la delibera è stata bocciata, i ricorsi accolti. Lodevole esempio di indipendenza di giudizio di deputati PD che decidono secondo coscienza, o terrore di scontentare i sindacati? Vediamo. La motivazione della sentenza che accoglie i ricorsi ha poco di tecnico. Il tetto alle retribuzioni, secondo i tre deputati del PD “viola il principio di ragionevolezza” e non giova all’amministrazione, perché i dipendenti, privati “delle leve di incentivazione determinate dal consolidato sviluppo stipendiale” potrebbero dar luogo “a comportamenti poco virtuosi e a cali di produttività determinati dall’assenza di competizione”. Fuori dagli orrori del burocratese, significa che i lavoratori della Camera (al Senato un ricorso analogo è stato respinto), secondo i tre del PD, senza l’incentivo di aumenti di stipendio diventerebbero meno produttivi o addirittura “meno virtuosi”. In effetti, c’è da capirli. Si tratta di modesti lavoratori, che devono mantenere la famiglia lavorando duramente per un tozzo di pane: come si può chiedere a una segretaria di essere motivata a lavorare con impegno se guadagna solo 115.000 euro l’anno? (lordi, s’intende). Come si può pretendere che un commesso spenga le luci o distribuisca la posta fra gli uffici con dedizione e impegno sapendo che non prenderà mai più di 99.000 euro l’anno? Per fortuna il PD ha corretto queste storture, questo vero attentato ai diritti dei lavoratori, e si è tornati al regime precedente. Uno stenografo potrà tornare a percepire 256.000 euro l’anno (più del Segretario Generale), un barbiere anziano ed esperto, che “porta in dote il bagaglio professionale acquisito in anni di servizio” come scrivono i tre del PD, sarà premiato per le sue rasature con 160.000 euro l’anno (il 30% in più di un deputato). Poi dicono che il PD non è più un partito di sinistra: un simile esempio di socialismo reale – a spese dei contribuenti - persino Lenin se lo sognava!
"La lista della spesa". La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Si è parlato tanto di spending review, di taglio agli sprechi..ma cosa è stato fatto? E soprattutto, cosa si può davvero tagliare della spesa pubblica? Carlo Cottarelli, classe 1954, laureatosi a Siena e alla celeberrima London School of Economics, ha alle spalle una lunga carriera in Banca d’Italia, Eni e al Fondo Monetario internazionale. E’ salito alla ribalta quando è stato nominato commissario straordinario per la Revisione della Spesa, incarico che ha ricoperto da ottobre 2013 a novembre 2014, proprio con il compito di individuare i tagli da fare per ottimizzare la spesa pubblica. Dalla sua attività sarebbero dovuti scaturire milioni di euro, eppure ancora poco si è mosso. Per spiegare agli italiani che cos’è la spesa pubblica, Cottarelli ha scelto di raccogliere nel libro “La lista della spesa” le sue riflessioni (e la sua diagnosi) in merito a questo grande “mistero italiano”. Ed ecco che ne deriva una lettura acuta del nostro paese, di come spende e di perché si spende, una sorta di guida che illustra dove vanno a finire le tasse che paghiamo, se spendiamo davvero troppo per i servizi pubblici e perché i tagli tanto promessi da tutti i politici tardano ad essere sempre concretizzati. Chi se non lui poteva svelare cosa si può davvero tagliare in Italia? Una lettura acuta per conoscere un po’ meglio il nostro paese.
Carlo Cottarelli ha goduto per qualche tempo di grande attenzione mediatica. È stato nominato commissario straordinario alla spending review, dal suo lavoro dovevano arrivare milioni di euro per le esauste casse dello stato italiano, al termine del suo mandato è stato invitato in tutte le televisioni e intervistato da tutti i giornali. A distanza di mesi, Cottarelli affida a questo libro le sue riflessioni, i suoi ricordi, le sue diagnosi per cercare di spiegare al grande pubblico uno dei grandi misteri dell’Italia: quell’enorme calderone che è la nostra spesa pubblica. Senza tecnicismi ma non tralasciando nulla di importante, Cottarelli ci guida nei meandri del bilancio statale, facendoci scoprire man mano il grande meccanismo che regola la nostra vita di cittadini, un meccanismo di cui abbiamo solo una vaga percezione, al tempo stesso minacciosa e sfocata. Dove vanno a finire tutti i soldi che paghiamo con le tasse? Davvero spendiamo troppo per i servizi pubblici? Perché si finisce sempre a parlare di tagli alle pensioni? Sprecano di più i comuni, le regioni o lo stato centrale? Perché tutti i politici dicono che taglieranno gli sprechi e nessuno lo fa mai? Ma gli altri paesi come fanno? Un libro chiaro e autorevole, per fare le pulci alla macchina statale italiana, al di là dei luoghi comuni e delle polemiche giornalistiche: perché analizzare un bilancio statale può sembrare arido e difficile, ma con la guida giusta può diventare la lettura più acuta, sorprendente e accurata di un paese intero. “Il livello di spesa pubblica appropriato dipende anche da quanto un paese si può permettere. Non a caso, come motto per la revisione della spesa mi è stato suggerito un vecchio adagio cremonese: "Se se pol mia, se fa sensa", ovvero: se non si può, si fa senza.”
Spending review, la verità di Cottarelli in un libro: «Ecco chi remava contro», scrive “Businness People”. Carlo Cottarelli dopo un anno da commissario alla spending review ha gettato la spugna per tornare al Fmi. La verità dell'ex commissario sui mancati tagli alla spesa: lo spreco delle sedi statali in affitto. «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». E' una frase di Francesco Guccini ad aprire l'attesissimo saggio di Carlo Cottarelli, l'ex commissario alla spending review che ha gettato la spugna dopo un anno di guerra ai mulini a vento degli sprechi pubblici. Il libro, edito da Feltrinelli, sarà in vendita da domani 27 maggio (i diritti saranno devoluti all'Unicef). La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare è la summa del lavoro dell'economista e racconta ancheil fallimento della sua missione, incagliatasi contro gli interessi politici.
DIECIMILA SEDI. Nelle anticipazioni del Corriere della Sera, si racconta passo passo l'opposizione, a partire dai cinque gruppi di lavoro su 17 che non hanno mai fornito proposte di tagli, insomma hanno boicottato la spending review. Tutta colpa del «complicato mosaico», come lo definisce Cottarelli. E a ogni tessera corrisponde uno spreco: 5.700 sedi territoriali dei ministeri, 3.900 uffici di enti vigilati. Diecimila sedi statali, senza contare caserme di polizia e carabinieri.
W LE PROVINCE. Tutto ruota ancora sulle province e sui capoluoghi, nonostante la riorganzzazione annunciata e mai intrapresa. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...
FORZE DELL'ORDINE. Altro capitolo spinoso è quello delle forze dell'ordine: sono cinque, per cominciare, ognuno dipendente da un ministero diverso per 21 miliardi di spesa totale vista la duplicazione di amministrazioni, centri acquiisti, forniture, manutenzioni e persino pubblicazioni. E occupano 320 mila persone, con un rapporto fra agenti e abitanti superiore alla media europea e inferiore in assoluto soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. FInisce così che i 34 mila uffici pubblici per l'acquisto di beni e servizi gestiscano 1,2 milioni di procedure, con un costo a bando da 50 mila a 500 mila euro.
ENTI PUBBLICI. Non finisce qui. Capitolo enti pubblici, che sono 198. C'è pure l'Aci, simbolo degli sprechi secondo Cottarelli. I cittadini pagano all'ente 190 milioni all'anno per immatricolazioni e cambi di proprietà, per un servizio che è un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Ma i due archivi sembrano non poter essere uniti.
QUANTO SPAZIO. Il primo passo per risparmiare dovrebbe essere la razionalizzazione degli spazi e la ristrutturazione degli stabili obsoleti: l'operazione nel Regno Unito è costata 7,5 miliardi, ha aiutato l'economia e ha permesso di ridurre gli immobili occupati del 45% dimezzando i costi. «Potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...», dice Cottarelli, «e anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche».
Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Nel suo volume "Lista della Spesa" l'ex commissario alla spending review svela paradossi e enti che si moltiplicano. Un racconto anticipato da Sergio Rizzo sul "Corriere della Sera", scrive Giornalettismo. Sprechi e inefficienze: la “verità” di Cottarelli sulla spesa pubblica da tagliare. Inefficienze, sprechi, paradossi. Nel suo volume “Lista della Spesa”, pubblicato da Feltrinelli e anticipato sul “Corriere della Sera” da Sergio Rizzo, l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli racconta la sua verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può realmente tagliare. Chiamato dall’ex premier Enrico Letta nel 2013, il cambio a Palazzo Chigi non ha certo giovato al lavoro di Cottarelli e dei gruppi, finito di fatto archiviato. Soltanto un anno dopo è stato pubblicato online il piano dell’ex commissario alla spesa, applicato però soltanto in modo marginale. Da Cottarelli però nessuna polemica, soltanto la convinzione che la “Bestia” sia ancora battibile, che gli sprechi possano essere tagliate. Basta guardare qualche numero. Soltanto le sedi territoriali dei ministeri erano quasi dieci mila alla fine del 2012. Una ogni 6.250 italiani, senza conteggiare le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Scrive Rizzo: «Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione… Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni… Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. Per quanto riguarda gli enti pubblici, Cottarelli nel suo libro precisa di aver trovato un documento della Camera che ne elenca 198, soltanto nazionali: «Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi», si legge. Al contrario, in Italia imitare questo modello sembra ancora un’utopia. Serve volontà politica. Eppure i costi, scrive Cottarelli, «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno…». Senza dimenticare quegli sprechi che potrebbero essere eliminati senza bisogne di “ristrutturazioni”: «Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione…». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno».
Il libro (e il bilancio) di Cottarelli. Diecimila sedi dello Stato. La spesa pubblica che ci soffoca. Inefficienze, enti che si moltiplicano e paradossi nel racconto del commissario alla revisione della spesa, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. «Ma se io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Carlo Cottarelli La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare. Un viaggio nel ventre della Bestia che succhia le nostre risorse più preziose. La Bestia, è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review, già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. Della determinazione con cui Carlo Cottarelli ha affrontato per un anno e dieci giorni il compito di commissario alla revisione della spesa, dice tutto una strofa della canzone L’Avvelenata di Francesco Guccini: «Ma sei io avessi previsto tutto questo... forse farei lo stesso». La frase è nella pagina bianca che apre il saggio di Cottarelli in libreria da domani, pubblicato da Feltrinelli. Un libro, La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica italiana e su come si può tagliare, semplicemente sorprendente. Non ha sassolini da togliersi, l’ex commissario. Anche se un altro, dopo la freddezza con cui l’attuale governo ha accolto la fine della sua esperienza, l’avrebbe fatto eccome. Non lui. Leggere il libro è come fare un viaggio nel ventre della «Bestia» che succhia le nostre risorse più preziose, ma condotti da una guida esperta che ne ha già esplorato le viscere. Così bene da sfatare anche le convinzioni più pessimistiche. La «Bestia», è il messaggio dell’ex direttore del dipartimento di Finanza pubblica del Fondo monetario internazionale chiamato nell’ottobre 2013 da Enrico Letta per prendere il posto di commissario alla spending review già occupato da Enrico Bondi, non è invincibile. Prima sorpresa...Certo, nemmeno per lui dev’essere stato facile affrontarla. A cominciare dai fondamentali. Dire che c’era chi remava contro, per esempio, era un eufemismo. Basta dire che dei 17 gruppi di lavoro istituiti per 13 ministeri, oltre che Palazzo Chigi, Regioni, Province e Comuni, e ai quali erano state chieste proposte di tagli, ben cinque non hanno mai completato il lavoro. C’entra forse la caduta del governo Letta, che probabilmente ha segnato anche il destino di Cottarelli. Forse. Ma di sicuro c’entra anche la reazione della pubblica amministrazione. E di quello che l’ex commissario chiama benevolmente il suo «complicato mosaico». Cottarelli racconta di averne scoperto le dimensioni grazie a una stima della Funzione pubblica. Da brivido. Sapete quante erano alla fine del 2012 le sole sedi territoriali dei ministeri? Circa 5.700. Numero al quale si devono però aggiungere 3.900 uffici di enti vigilati dai ministeri. Per un totale di 9.600. Senza però che in quelle quasi 10 mila sedi del solo Stato centrale, per capirci una ogni 6.250 italiani, siano comprese le migliaia di caserme della polizia e dei carabinieri. Il fatto è, spiega Cottarelli, che lo Stato delle Regioni è ancora organizzato sul modello delle 110 Province (abolite?) con i loro 117 capoluoghi. Il ministero dell’Economia, per esempio, ha 103 commissioni tributarie, 102 comandi della Guardia di Finanza, 97 uffici dell’Agenzia delle Entrate, 93 Ragionerie territoriali dello Stato, 83 uffici delle Dogane. La Giustizia, oltre a tribunali e procure, ha 109 archivi notarili. Il Lavoro, 109 direzioni. L’Istruzione, 104 uffici scolastici e 108 sedi del Consiglio nazionale delle ricerche. L’Interno, 106 prefetture e 103 Questure. Il Corpo forestale dello Stato, vigilato dall’Agricoltura, ha 98 comandi locali. Il ministero dei Beni culturali, 120 soprintendenze e archivi di Stato. Lo Sviluppo economico vigila sulle 105 Camere di commercio, che a loro volta hanno 103 Camere di conciliazione...Le sovrapposizioni e le inefficienze sono incalcolabili. Basta pensare alle cinque forze di polizia, che occupano 320 mila persone: con un rapporto fra agenti in servizio e abitanti superiore a quasi tutti i Paesi europei, inferiore soltanto a Cipro, Macedonia, Turchia, Spagna, Croazia, Grecia e Serbia. Cinque apparati ognuno dipendente da un ministero diverso, per una spesa che nel 2014 ha toccato 21 miliardi. Cinque apparati, con cinque amministrazioni diverse, cinque burocrazie differenti, cinque gestioni indipendenti per acquisti, forniture, divise, manutenzioni. Cinque apparati, che stampano e diffondono cinque pubblicazioni...Per non dire delle diseconomie allucinanti che un sistema pubblico così congegnato riflette negli acquisiti di beni e servizi. Ci sono 34 mila uffici che gestiscono ogni anno un milione 200 mila procedure: ciascun bando costa da 50 mila a 500 mila euro. E poi gli enti pubblici. La «migliore ricognizione» che Cottarelli dice di aver trovato è un documento della Camera che ne elenca 198, ma solo per quelli nazionali. Una lista nella quale compaiono casi come quello dell’Aci, eletto dall’ex commissario a simbolo dell’assoluta necessità di un intervento radicale in questo campo. La ragione è che l’Automobile club d’Italia gestisce il Pra con un compenso pagato dagli automobilisti nella misura di 190 milioni annui attraverso le spese di immatricolazione e cambio di proprietà dei veicoli. Peccato che il Pubblico registro automobilistico altro non contenga, definizione di Cottarelli, che un «sottoinsieme» delle informazioni dell’Archivio nazionale dei veicoli del ministero dei Trasporti. Nonostante questo, non si è ancora riusciti a unificare i due archivi: ed è la dimostrazione delle difficoltà che si incontrano ogni volta che si cerca di toccare un ente pubblico. Per non parlare di un’altra fonte di sprechi e inefficienze. Apparati pubblici tanto numerosi e ramificati vorrebbero un’attenta gestione degli immobili, con una ristrutturazione radicale di spazi antiquati e costosi. Il Regno Unito l’ha fatto: ha speso 7 miliardi e mezzo di euro, ma ha ridotto gli immobili occupati del 45 per cento, gli spazi del 35 per cento e ha dimezzato i costi. Noi, niente affatto. Gli edifici sono vecchi, gli spazi si sprecano. Eppure i costi «potrebbero essere enormemente ridotti con un’adeguata ristrutturazione degli edifici. Solo di affitto si spendono due miliardi l’anno...». Vero è, insiste l’ex commissario, che «anche senza ristrutturazione qualche risparmio non trascurabile si potrebbe ottenere con un po’ più di buona volontà e attenzione per le risorse pubbliche». Racconta Cottarelli di aver partecipato a una riunione al ministero dell’Agricoltura in una bella giornata romana di sole. I termosifoni ancora accesi andavano al massimo e faceva così caldo che si dovevano tenere le finestre spalancate. Quando l’ha fatto notare, gli hanno assicurato «che erano gli ultimi giorni di accensione...». E qui la Revisione della spesa si scontra con qualcosa di veramente duro. Le abitudini inveterate di un Paese nel quale, come ammoniva Tommaso Padoa-Schioppa, «il denaro di tutti è considerato il denaro di nessuno». Per la cronaca, i diritti del libro di Cottarelli saranno devoluti all’Unicef.
Spese pazze nei tribunali: il governo li "commissaria". Ci sono sedi che spendono cinque volte più di altre. Adesso la gestione passerà dai Comuni allo Stato. Milano ironizza: "Aspetteremo l'idraulico da Roma...", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Far funzionare la giustizia a Bologna costa quasi il doppio che a Firenze. Tenere aperto il tribunale di Sassari costa il triplo che mantenere quello di Trento. La corte d'appello di Messina va avanti con metà degli euro che servono a quella prospiciente di Reggio Calabria, e con un quinto del denaro che inghiotte ogni anno, cento chilometri più in giù, il distretto giudiziario di Catania. Com'è possibile? Mistero, anche se si può stare certi che ognuno dei tribunali spendaccioni avrà pronta una sua spiegazione. Ma il dato di fatto è che nelle tabelle diramate ieri dal ministero della Giustizia emerge un affresco surreale delle spese che ogni anno mantengono in vita l'apparato giudiziario: le spese correnti, quelle per il riscaldamento, i telefoni, la vigilanza privata agli ingressi. Un buco senza fine cui solo di recente il ministero ha deciso di prendere in mano il controllo. Finora (con l'eccezione di Roma e Napoli, già gestite direttamente dal ministero della Giustizia) i palazzi di giustizia vengono mantenuti dai Comuni, che poi si rivalgono sulle casse di via Arenula. E il documento diramato dallo staff del ministro Andrea Orlando rende conto di come sono stati distribuiti i 58 milioni di euro che il governo ha versato ai Comuni per rimborsare una prima tranche, il 70 per cento, delle spese sostenute nell'arco del 2013. La distribuzione riguarda sia i capoluoghi più grossi, che sono sedi di Corti d'appello (e qui il più costoso è Milano, con i suoi 4,7 milioni), sia i Comuni dove c'è solo un tribunale o un giudice di pace, nonchè quelli che ospitavano sedi giudiziarie soppresse recentemente da Renzi nella spending review : ed è un piccolo viaggio nella giustizia di paese, dove si apprende che a Silandro, in Alto Adige, c'era una sede staccata che riusciva a stare aperta con 512 euro l'anno, meno di due euro al giorno; o che la vita quotidiana della giustizia a Foligno costava, chissà perché, 37 volte più che nella vicina Città di Castello. Insomma, un marasma dove accade che il più costoso d'Italia sia il tribunale di Agrigento, e che il suo funzionamento costi il quintuplo di quello di Varese, che ha il doppio di abitanti. È per mettere sotto controllo questo andazzo che il ministero ha deciso di accentrare dal prossimo settembre la gestione delle spese di funzionamento dei palazzi di giustizia. La decisione di Orlando ha sollevato le ire di molte toghe: a Milano si sono addirittura riuniti in assemblea per protesta, «adesso se si rompe un tubo dovremo aspettare l'idraulico da Roma». Ma è un dato oggettivo che le spese per la giustizia erano quasi ovunque fuori da ogni controllo, anche perché la Corte dei Conti, molto e giustamente solerte nel fare le pulci alle spese dei politici, quando si tratta di affari che riguardano altri magistrati è assai più lenta. Tanto per restare a Milano, le denunce sullo sperpero di fondi Expo avvenuto in tribunale sono rimaste senza conseguenze, e lo stesso è accaduto all'esposto della Procura generale sulla folle cifra investita per costruire una nuova aula bunker davanti al carcere di Opera, incompiuta dopo oltre sedici anni.
Cottarelli boccia la Consulta: si sono aumentati le pensioni. L'ex commissario racconta i risparmi mancati dei governi di Letta e Renzi. E bacchetta la Corte costituzionale: l'intero organo costa 60 milioni l'anno, scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. La spesa pubblica resiste. Compressa da interessi sul debito e dalle pensioni. Ridotta negli ultimi anni, ma con grande parsimonia, senza incidere sulle voci principali (a partire dal personale) o con inutili tagli lineari. La macchina della pubblica amministrazione, insomma, non cambia. Quella centrale si espande su migliaia di sedi, quella locale resiste e anche gli organi costituzionali, dopo qualche limatura ai bilanci, restano lontani dagli standard internazionali. Carlo Cottarelli, ex commissario alla spending review nominato dall'ex premier Enrico Letta e uscito di scena con l'esecutivo Renzi, ha dedicato alla sua esperienza un libro (La Lista della spesa, Feltrinelli). Toni molto soft. Soprattutto con gli organi costituzionali. Ma la sostanza resta quella di un Paese che conserva gelosamente le sue anomalie. Camera, Senato, Quirinale e Corte costituzionale, Csm, Consiglio di stato, Corte dei conti e Cnel nel 2013 costavano circa 2 miliardi e 700 milioni. Negli ultimi due anni la spesa è «rimasta sostanzialmente invariata». Camera (che ha operato i risparmi più consistenti) e Senato costano circa un miliardo. Per House of Commons e House of Lords i cittadini del regno Unito spendono 675 milioni di euro, il Parlamento tedesco costa 670 milioni, sotto quello italiano anche considerando le pensioni. In Francia 900 milioni. Il confronto è difficile anche per l'opacità delle onorevoli buste paga. La Commissione Giovannini, ricorda Cottarelli, era stata incaricata di confrontare in modo rigoroso gli stipendi dei parlamentari in Europa, ma gettò la spugna. L'ex commissario ci prova comunque e rileva come, a fronte di un'indennità dei parlamentari italiani di 10mila euro, quella francese è di 7mila, 8.000 quella dei tedeschi e di 6.500 euro quella dei britannici. Al netto delle tasse restiamo sopra gli standard europei del 30%. Abbiamo più parlamentari degli altri paesi europei. I costi del personale del Parlamento rappresentano la metà delle spese del bilancio. «La retribuzione media lorda dei dipendenti della Camera è di circa 188mila euro», contro i 106mila di quelli di Bankitalia. Cottarelli fa un accenno anche ai vitalizi e sembra dubitare della riforma che ha introdotto il sistema di calcolo contributivo anche per i deputati. Qualche riga anche alla Corte costituzionale, finita sotto i riflettori per la sentenza che ha salvato la rivalutazione delle pensioni. Costa 60 milioni. I costi di funzionamento sono stati tagliati, ma la Consulta ha fatto registrare anche un aumento della spesa, per pagare le proprie pensioni. In generale, Cottarelli dà conto di un'amministrazione bizantina. Il conto delle pubbliche amministrazioni è di 10.200, solo i Comuni sono 8.100. I ministeri, fanno aumentare il conto degli uffici pubblici di altre 10mila unità. A fine 2012, conta Cottarelli, «erano circa 5.700, cui si devono aggiungere quasi 3.900 sedi di enti vigilati dai ministeri, per un totale di oltre 9.600 sedi». Ogni ministero ha come minimo 100 uffici provinciali che spesso si moltiplicano per ogni funzione. Ad esempio il ministero dell'Economia conta «103 commissioni tributarie provinciali, 102 comandi provinciali della Guardia di finanza, 97 uffici provinciali dell'Agenzia delle entrate e 93 ragionerie territoriali dello stato». Una complessità che si traduce anche in un costo esorbitante per gli affitti degli uffici pubblici. Circa due miliardi all'anno.
Le meteore del 1994 si tengono stretti i vitalizi. È stato l'anno della svolta che ha seppellito la prima Repubblica ma anche quello degli esordienti in politica, scrivono Gian Maria De Francesco e Giuseppe Marino su “Il Giornale”. Dal 1994 nulla è stato più come prima. Forse perché, come il 1992, è esistito veramente e non è stato partorito da un'idea di Stefano Accorsi. Altro che fiction, ci sono testimonianze nell'elenco dei vitalizi della Camera che dimostrano come quel Big Bang elettorale abbia inciso sui destini del nostro Paese, ma anche come la politica non fosse pronta a un grande cambiamento. Le resistenze alla novità hanno in qualche modo prevalso, ieri come oggi, e l'impreparazione di molti, insieme all'opportunismo di alcuni, ha fatto il resto. Più che della «gioiosa macchina da guerra» dei Progressisti di Achille Occhetto, sbaragliata da Silvio Berlusconi, val la pena di partire da un segno premonitore nelle circoscrizioni fiorentine. Il Pds presenta un trentottenne consigliere comunale, il segretario fiorentino Leonardo Domenici (-51mila euro il suo sbilancio previdenziale), destinato a diventare cinque anni dopo sindaco del capoluogo. Gli fa idealmente posto un deputato ex dc (Ppi e sinistra non sono ancora alleati): l'ex sottosegretario all'Istruzione Giuseppe Matulli (-600mila euro). Se ne torna nel Mugello a fare il sindaco del suo Paese, poi diverrà il vice di Domenici. Proprio in quegli anni diventa lo «sponsor» politico di uno studente universitario e caposcout, coinvolgendolo di lì a poco nei comitati per Prodi e nello staff di un altro diccino di sinistra, Lapo Pistelli. Sì, Matteo Renzi nasce dalle «porte girevoli» di Montecitorio nel 1994. Certo, agli occhi della grande stampa in quel periodo desta maggiore attenzione il pattuglione di homines novi portati in Parlamento da Silvio Berlusconi e da Umberto Bossi. E, in effetti, rispetto al grigiore del passato la musica cambia. C'è il professor Giuliano Urbani (-238mila euro), ideatore del progetto di coalizione alternativo alla sinistra. Un'idea presentata a Gianni Agnelli e rifiutata dall'Avvocato, restio a scomporre assetti precostituiti. Il Cavaliere ci crede e, assieme al gruppo che aveva creduto nel suo sogno imprenditoriale, realizza un altro sogno: dare una forma alla maggioranza del Paese. La politica, però, è altra cosa dall'economia: la determinazione non basta. Anche perché collaboratori come Vittorio Dotti (-317mila) inciampano nel desiderio di visibilità della propria partner. Altri, come il capogruppo alla Camera Raffaele Della Valle (-345mila) e come il giornalista Umberto Cecchi (-347mila euro) non sono effettivamente preparati al clima incandescente, ma più propensi alle antiche mediazioni. La Forza Italia delle origini è come un elemento radioattivo: è pesante (alle Europee di quell'anno superò il 30%) ma è instabile. Un po' perché alcuni deputati sono più inclini al vecchio lavoro manageriale e presto vi fanno ritorno come Paolo Vigevano (-113mila euro) e Sandro Trevisanato (-117mila euro). Un po' perché l'ambizione di altri li porta verso altri lidi. È il caso della casiniana Ombretta Fumagalli Carulli (-638mila euro) e di Mariella Cavanna Scirea che nella legislatura successiva entreranno addirittura nella maggioranza di centrosinistra. La crisi del primo governo Berlusconi si originò dal colpo di testa di Umberto Bossi e dall'ingerenza del presidente della Repubblica Scalfaro. Anche la Lega, però, non era pronta. Quella fu l'ultima legislatura di Franco Rocchetta (-343mila euro), il fondatore della Liga Veneta incorso negli strali del Senatur. La svolta «dalemiana» di Bossi non piacque a coloro che nel centrodestra unito credevano veramente a quel tempo, come Giuseppe Dallara (-425mila euro), Enrico Hullweck (-149mila euro) e il senatore Renato Ellero (-235mila). Quest'ultimo, oltre un quindicennio dopo, tornerà agli onori delle cronache come avvocato del presunto acquirente della casa di Montecarlo nella quale viveva il cognato di Gianfranco Fini. La sinistra del 1994, invece, non è molto diversa da quella che si conosce oggi anche se tutti hanno indossato i vestiti nuovi del renzismo. Ci sono pretori d'assalto come Nicola Magrone (-324mila euro), un Michele Emiliano ante litteram, e giornalisti embedded come il socialista Vittorio Emiliani (-428mila euro) che poi sarà ricompensato con un posto nel cda Rai. Rifondazione porta con sé un giovane cossuttiano torinese: Marco Rizzo (-136mila euro). Comunista e operaista un po' fuori tempo massimo.
Metamorfosi Carroccio: Roma non è più ladrona, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Sembra passato un secolo, ma solo 35 anni fa, agli inizi degli anni '80 il fondatore e capo carismatico della Lega Nord, Umberto Bossi, approcciava la politica dal lato della poesia, dell'estetica con questi mirabili versi «Aj varan nagott sti dü fioeu, von di nostar e un teron » (Sono dei perdigiorno questi due ragazzi, uno dei nostri e un terrone). E che dire della Dieta degli autonomisti settentrionali al castello di Pomerio, fase embrionale del Parlamento padano? La Lega fino a poco tempo fa, soprattutto nell'immaginario collettivo, aveva un connotato razzista e antimeridionale. «Roma ladrona, la Lega non perdona!» era lo slogan preferito del Senatur. Osservare la folla di Piazza del Popolo in estasi per Matteo Salvini ieri potrebbe sembrare un profondo rivolgimento rispetto a quelli che erano i principi fondanti dello stesso movimento leghista che ancor oggi porta il «Nord» nel nome, pur avendo rinunciato alla dicitura «Padania» in nome del più coinvolgente «No Euro». Ma all'attuale leader del Carroccio occorre riconoscere di aver portato a fecondazione i caratteri già iscritti nel Dna del partito. L'attaccamento al territorio originario sempre minacciato nella sua «diversità» resta anche se non si sentono più certe affermazioni. «Eh sì, ho una nonna romana. Per me è come avere un'unghia incarnita. Mi dà fastidio», diceva Corinto Marchini, capo delle Camicie Verdi. «Non amo i meridionali perché sono europeo», gli faceva eco l'ideologo del Carroccio, Gianfranco Miglio. Tant'è che in uno dei più fortunati manifesti elettorali della Lega il settentrione era rappresentato come una gallina che inviava le proprie uova d'oro a Roma e a tutto il Sud, veri sfruttatori dell'operosità lombardo-veneta-piemontese. Erano i tempi pionieristici, quelli della Lega che sbraitava contro la «colonizzazione meridionale del Nord» invocando la secessione. Come nel settembre 1992: «Da Milano potrebbe partire una marcia su Roma per chiedere la secessione del Nord», tuonò il Senatur. In mezzo a quello che potremmo definire anche il folklore leghista c'erano i primi velleitari tentativi di varcare i confini della Padania per rendere il Carroccio un partito presente su tutto il territorio nazionale o, quantomeno, un movimento federativo delle istanze autonomiste in tutta la Penisola. Si spiega così il tour meridionale di Umberto Bossi nelle principali città del Sud all'inizio degli anni '90. Diffidenza, insulti e un primo scontro con quello che sarebbe diventato un suo alleato, il missino Gianni Alemanno andò fino a Catania per contestarlo senza sapere che di lì a dieci anni se lo sarebbe ritrovato al fianco nell'esecutivo Berlusconi. Si spiegano così pure gli abboccamenti con la Lega Sud Ausonia di Gianfranco Vestuto nel 1996, un flop elettorale clamoroso così come il tandem con l'Mpa di Raffaele Lombardo alle elezioni politiche del 2006. L'antimeridionalismo? Solo un modo per farsi pubblicità. In mezzo a tutto questo un preciso disegno politico: esportare il brand oltreconfine. Un progetto affidato al deputato ligure Giacomo Chiappori nel 2008: la creazione di un Parlamento del Sud da affiancare a quello del Nord (vecchio arnese della fase secessionista 1995-1999) e uno spin off del marchio di via Bellerio, «Alleanza Federalista». Un colpo al cerchio della crescita elettorale e uno alla botte del protoleghismo. Tipo l'infelice battuta bossiana «Spqr, sono porci questi romani» con tanto di magnata di bucatini all'amatriciana per far pace con Alemanno e Polverini a favor di telecamera. Salvini ha fatto tesoro di tutte queste esperienze. E cerca di replicarle senza esagerazioni. In fondo, essere sicuri a casa propria, avere una buona pensione, dire di no a questa Ue sono concetti che vanno bene da Milano fino a Canicattì.
L'ULTIMA RAPINA COMUNISTA A DANNO DEGLI ITALIANI.
Lo Stato paga i debiti dei Ds. Arriva l'ultima rapina comunista. Lo Stato è stato obbligato a coprire 107 milioni di passivi del quotidiano L'Unità. Tocca ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali dei Ds: lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici del partito. Ma non è finita: da saldare mancano altri 18 milioni di euro, scrive Sergio Rame su "Il Giornale" Lunedì 09/11/2015. Lo Stato ha versato 107 milioni di euro nelle casse delle banche creditrici dei Ds. Come denuncia Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, è toccato ai contribuenti ripianare parte dei debiti colossali del partito. Da saldare alla Sga, società nata dieci anni fa per recuperare i crediti dal crac del Banco di Napoli, mancano altri 18 milioni di euro. I 107 milioni di euro pubblici sono stati parcheggiati nelle casse delle banche creditrici dei Ds con "riserva". Sul malloppo pende ancora il giudizio di appello. Una legge del 1998 estende la garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. "Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità - denuncia Rizzo sul Corriere della Sera - tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi". E, nonostante il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti abbia abbattuto gran parte dei 450 milioni di euro di debiti, adesso gli italiani si trovano a dover mettere mano al portafogli. Nonostante fosse stata approvata pure una legge che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura (come avvenne nel 2008, quando i Ds partorirono il Pd), sul groppone dello Stato sono rimasti appunto 125 milioni di euro. Il Pd non ha raccolto l'eredità economica dei Ds e della Margherita, che per tre anni hanno continuato a intascare i fondi statali. "La separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali - denuncia Rizzo - ovvero, soggetti giuridici autonomi". Non avendo più immobili da pignorare, le banche hanno chiesto allo Stato di sborsare i 125 milioni di euro. "Il debitore è morto - diceva Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, ai microfoni di Report - se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto 'guarda, signor Stato, che devi pagare tu…'". Ovvero i contribuenti.
I debiti dei Ds saldati dallo Stato. Una legge obbliga a coprire 107 milioni per i bilanci in rosso della vecchia «Unità», scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera” il 9 novembre 2015. La la legge è legge. Così tocca ai contribuenti ripianare i debiti dei Democratici di sinistra: 107 milioni di euro, versati dallo Stato nei giorni scorsi. Mentre già infuriavano le polemiche per i tagli della legge di Stabilità alle Regioni, quel gruzzolo finiva dunque nelle casse delle banche creditrici. E non è nemmeno tutto. Mancherebbero altri 18 milioni dovuti alla Sga, società nata dieci anni fa con la funzione di recuperare la montagna di crediti dal crac del Banco di Napoli che ha ritenuto di non rivendicare quella cifra. Va detto che quei 107 milioni pubblici si trovano ora parcheggiati nei forzieri delle banche creditrici dei Ds con «riserva». Significa che pende ancora il giudizio di appello, ma le speranze che quei denari tornino indietro sono al lumicino. Il finale era scritto da tempo. Il Corriere e Report di Milena Gabanelli avevano già raccontato come il rischio che si è materializzato fosse concretissimo. E tutto grazie a una leggina del 1998 che stabiliva l’estensione della garanzia dello Stato già vigente sui debiti degli organi di partito ai debiti del partito che si faceva carico dell’esposizione del proprio giornale con le banche. Sembrava una norma scritta su misura per il quotidiano diessino l’Unità. I Democratici di sinistra avevano generosamente deciso di accollarsi la drammatica esposizione bancaria del giornale, che stava imboccando il tunnel di una crisi durissima. Tanta generosità era tuttavia condivisa con tutti gli italiani che pagano le tasse. Visto che il partito si accollava i debiti del giornale insieme alla garanzia statale trasferita per legge dal giornale al partito. Che se non avesse pagato lui, avremmo pagato noi. Il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, il quale non ha mai rinnegato quella mossa assai discutibile, ce la mise comunque tutta per abbattere la montagna di debiti che sfiorava i 450 milioni di euro. Anche con l’aiuto di altre ancor più discutibili leggine approvate dal parlamento intero con rarissime eccezioni, che fecero lievitare come panna montata i rimborsi elettorali: l’ultima, quel capolavoro partorito all’inizio del 2006 che consentiva il pagamento dei contributi pubblici anche nel caso di scioglimento anticipato della legislatura, come avvenne nel 2008. L’anno in cui si consumò l’ultimo atto dei Ds, con la nascita del Pd: partito che non raccolse l’eredità economica dei due soggetti fondatori, la Margherita e i Democratici di sinistra, i quali pur defunti continuarono comunque a incamerare per tre anni cospicui fondi statali. Non solo. L’astuta separazione dei destini economici consentì ai Ds con l’abile regia di Sposetti di blindare il patrimonio immobiliare dell’ex Partito comunista in una cinquantina di fondazioni indipendenti dal partito centrale perché emanazione delle federazioni provinciali. Ovvero, soggetti giuridici autonomi. Su questo punto la polemica con il segretario democratico Walter Veltroni raggiunse il calor bianco. Ma le sue dimissioni, rassegnate all’inizio del 2009, segnarono la fine di qualunque resistenza interna. E siamo arrivati a oggi, quando le banche creditrici, non avendo più neppure un mattone da pignorare, hanno preteso di escutere la garanzia dello Stato sui debiti residui: 125 milioni. Il giudice non ha potuto che dar loro ragione e lo Stato ha dovuto adesso sborsare 107 milioni. Va detto che non è la prima volta che succede una cosa del genere. Alla fine del 2003 avevamo già pagato i debiti dell’ex Avanti!, il quotidiano del Psi craxiano. Sia pure per una cifra più modesta: 9 milioni e mezzo. Ma allora non fu possibile ascoltare la versione del tesoriere socialista. Vale quindi la pena di riportare le dichiarazioni di Sposetti, attualmente senatore del Pd e presidente della Fondazione Ds, intervistato a maggio di quest’anno da Emanuele Bellano di Report: «Il debitore è morto. Se il debitore muore, che succede? Ci sono le norme e in questo caso un magistrato civile ha detto “guarda, signor Stato, che devi pagare tu…”». Gli chiede allora il giornalista, dopo aver ricordato la storia della legge del 1998: «È stata una mossa calcolata e strategica quello che poi è successo dopo?» E lui risponde: «Quindi che vuol dire? Che sono stato bravo! Una società mi avrebbe dato tanti soldi per fare questo lavoro…» Verissimo. Almeno quelli ce li siamo risparmiati. Ma è una ben magra consolazione.
Ecco l'Italia della polizia fai-da-te. Si moltiplicano in tutta la Penisola associazioni di guardie ambientali. Che sembrano veri agenti e come tali si comportano. Spesso abusando di un potere che non hanno. Ecco quante e dove sono, scrive Michele Sasso il 15 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Vestono divise verdi con mostrine e stemmi tricolori. Indossano anfibi e cinturone. Si muovono su auto con tanto di lampeggiante e staccano multe per inquinamento o caccia impropria. È il Far West delle guardie ambientali: polizie parallele che cercano di accaparrarsi fondi pubblici, possibilità di guadagno e lottizzazioni politiche. Spingendosi ben oltre i compiti di “associazioni”, vengono scambiati per uomini della forestale, senza però nessuna preparazione. «C’è una confusione di simboli e mezzi che rende queste guardie troppo simili ai nostri agenti», denuncia Stefano Cazora del Corpo forestale dello Stato: «Riceviamo segnalazioni di abusi e plagi ogni giorno, Chi copia il nostro logo e chi mette il naso in indagini sensibili. Tenere tutte le onlus sotto controllo è impossibile». In Italia sono spuntati “sceriffi verdi” con surreali comandi di zona o nuclei guidati da auto-nominati commissari che si esaltano per la divisa ma ignorano tutti i rischi dell’improvvisazione. Il pasticcio delle polizie fai-da-te nasce insieme al ministero dell’Ambiente. Siamo nel 1986 quando si “allarga” la vigilanza anche ad associazioni che proteggono la fauna e il paesaggio. Nel 2004 viene attribuito alle guardie zoofile ed ittiche la qualifica di agente di polizia giudiziaria. Tutte le altre sentinelle sono pubblici ufficiali che indossano una divisa dopo un corso di poche ore. Uniformi autorizzate dalla Prefettura che “gira” le pratiche di verifica al ministero dell’Interno, della Giustizia e dell’Agricoltura e all’Istituto geografico militare che archivia tutti i simboli in circolazione. Una verifica più formale che sostanziale: per legge non possono esserci somiglianze con gli altri corpi ma in pratica ecco che spuntato le giubbe e giacche verdi, i rangers d’Italia, le guardie ecozoofile e quelle rurali ausiliari. Così organizzazioni spregiudicate prendono via via il posto di volontari che si dedicano alla natura senza fini di lucro. E improbabili 007 vanno a caccia di discariche abusive e controllano persino il traffico sulle strade. «L’uso della paletta e del lampeggiante è consentito solo a chi ha compiti di polizia», conferma Gianni Calesini, docente di legislazione di Pubblica Sicurezza: «Invece questi pseudo-corpi si azzardano a fare perquisizioni illegali sulle auto. Chi viene fermato, però lo ignora. E subisce». Tra Napoli e Caserta, dove i roghi avvelenano l’aria, proliferano sigle reclutate dai Comuni. Ufficialmente volontari, sono rimborsati sulla base di convenzioni. Tutto nasce dal bando della Regione Campania del 2013: il patto per risanare la Terra dei Fuochi stanzia 7 milioni di euro per gli enti locali che presentano progetti per contrastare i traffici illegali. Rispondono 51 Municipi, che hanno la possibilità di “girare” fino ad un milione di euro a 20 onlus incaricate della sorveglianza. Nel paesone di Nola piovono 400mila euro. Il sindaco azzurro Geremia Bianciardi non perde tempo e stipula un accordo con Fare Ambiente per 35 corsisti: «Useranno il pugno di ferro e avranno poteri di polizia giudiziaria». Garantito per un anno di convenzione, un rimborso spese di 20mila euro. Il pm Paolo Mancuso ipotizza, però, che quelle guardie non avrebbero potuto essere ingaggiate. Legate a Laboratorio Verde, una onlus associata a Fare Ambiente che, a differenza di quest’ultima, non avrebbe il riconoscimento ministeriale. La divisa sarebbe illegale, perché identica a quella che indossa la Guardia di Finanza. Nell’inchiesta finisce anche il sindaco Bianciardi, indagato per abuso d’ufficio e falso, che respinge le accuse. Nel paese accanto, Marigliano, si sono inventati una formula più fantasiosa: rimborso spese pari alla metà delle multe riscosse grazie ai verbali. In questo affare spunta anche “La Salamandra”, sigla legata al movimento dei fascisti del terzo millennio di Casa Pound. Ben radicati, hanno fatto servizio d’ordine a Pompei durante la visita di papa Francesco lo scorso marzo. Anche loro non hanno il riconoscimento del ministero dell’Ambiente né l’ok del prefetto. «Ce ne siamo accorti dopo aver firmato e infatti non siamo mai usciti. Siamo un gruppo di protezione civile e non siamo neofascisti, con noi c’è anche chi non milita in Casa Pound», spiega la vicepresidente Maria Rosaria Nappa. Girano per l’intera penisola alla caccia di bracconieri e se serve tirano fuori il distintivo dal nome altisonante: associazione europea operatori di polizia (Aeop). Sono però disoccupati o millantatori come nel caso di Genova, dove un socio è stato fermato a bordo di una utilitaria trasformata in gazzella con la scritta gialla “Polizia”. Nulla hanno a che vedere con le forze dell’ordine, se non quella sigla allusiva. Tra gli associati possono vantare qualche nome di peso. Ma dall’altra parte della barricata. Come Ernesto Bardellino, ex sindaco di San Cipriano d’Aversa, fratello del più noto Antonio, a capo del cartello dei Casalesi fino al 1988, anno della sua morte. Radicato a Formia da quasi trent’anni, ha coltivato l’hobby della divisa mentre per la polizia è un «esponente del clan, sorvegliato speciale ed indagato per altri reati». Quando la scorsa estate la Digos ha perquisito la sua casa ha trovato decine di tesserini e documenti targati Aeop. Per Bardellino e altri tre indagati con precedenti penali è scattata una informazione di garanzia per l’ipotesi di false attestazioni di pubblico ufficiale e usurpazione di titolo. Alessandro Cetti, il capo dell’Aeop, ha spiegato che gli era stata presentata una «autocertificazione senza precedenti penali». Lui insomma non sapeva chi fosse quel volontario di Formia. Versione smentita dall’ex sindaco: «Con Cetti vi è una conoscenza risalente nel tempo, collaborazioni di carattere sociale e viaggi per motivi di lavoro». Tra gli impegni “sociali” i volontari hanno partecipato alla beatificazione di Carol Wojtyla in piazza San Pietro a Roma. Era aprile 2014 e garantirono la sicurezza a migliaia di pellegrini. Tra loro c’era anche Ernesto Bardellino. Se a Roma il governo Renzi sta cercando di accorpare il Corpo forestale ai Carabinieri, in Sardegna potrebbe succedere l’esatto opposto. Una proposta di legge firmata da Pd e Sel vorrebbe creare una forza di polizia isolana, quella dei barracelli. Eredità della vecchia polizia rurale ai tempi del Regno, nata per controllare i fondi agricoli e contrastare il furto di animali. Oggi questo esercito di 5.300 uomini è una lobby potente e gli stessi sindaci decidono spesso di usarli come polizia municipale. Il rapporto con la giunta del democratico Francesco Pigliaru non è sempre felice. I fondi ad hoc sono stati tagliati di 500mila euro con l’ultimo bilancio approvato a dicembre, scendendo a 5,6 milioni. Il parlamentino sardo ondeggia tra lo stop al loro potere e il definitivo sdoganamento in corpo di polizia. Sull’isola i barracelli non si limitano agli accertamenti, partecipando fianco a fianco alle forze dell’ordine. Si occupano soprattutto di antincendio, ma sono autorizzati a portare un fucile calibro 12 quando pattugliano i boschi. Armi in grado di uccidere animali di grossa taglia che hanno causato anche qualche problema. A Montresta, nell’Oristanese, la scorsa estate tre componenti sono stati espulsi dopo aver ucciso un leprotto proprio con il fucile in dotazione. Non è solo una questione meridionale. In Toscana il Corpo boschivo ittico ambientale prometteva posti di lavoro a tempo indeterminato, a patto di seguire un corso di tre mesi. A rispondere all’annuncio un anno fa tanti disoccupati, ma anche geologi e veterinari. È finita invece con un’accusa di truffa per l’auto-nominato comandante Simone Badalamenti, che si era fatto consegnare quattromila cinquecento euro da 83 persone. Un inganno replicabile all’infinito organizzato a Grosseto, Massa Carrara, Livorno e Lucca con la stessa promessa: uno stipendio da mille euro. Grazie alla sua intraprendenza Badalamenti è partito nel 2012 con l’obiettivo di creare una rete di pattugliamento in tutta la regione. E assoldare più di cinquecento persone per un battaglione e «divisioni operative»: antincendio, pronto intervento, agenti a cavallo e perfino un servizio di intelligence e investigazione. Un corpo che esisteva solo sulla carta ma che sognava in grande. Hanno collaborato Alfredo Faieta, Fabrizio Geremicca e Andrea Palladino
Il disastro delle ferrovie minori: tangenti e malagestione affossano le società pubbliche. Dalla Puglia fino alla Basilicata e la Lombardia un giro vorticoso di strane assunzioni, consulenze allegre, truffe e spese folli affossano le linee regionali. Perdendo milioni di euro all’anno e migliaia di pendolari, scrive Michele Sasso il 9 marzo 2016 su "L'Espresso". Piccolo non è bello con le ferrovie locali. Appalti, tangenti, distrazione di fondi pubblici e malagestione affossano le società che gestiscono i binari. Mentre vengono dismesse ogni anno stazioni e linee minori e le autolinee scalzano le carrozze nel trasporto pubblico locale, gli esempi in mano a Ministero e Regioni non invogliano ad investire milioni e puntare con decisione sul ferro per decongestionare le strade. A cavallo tra Potenza e Bari le ferrovie Appulo Lucane sono finite al centro di uno scandalo di assunzioni e consulenze, sempre in Puglia quelle del Sud Est nonostante 311 milioni di debiti vengono tenute in vita dal Governo e in Lombardia l’ex capo di Trenord ha sperperato 430 mila euro in rimborsi, bollette di cellulari, pay tv e persino scommesse sportive. Mentre c’è un Italia che viaggia ad alta velocità arrivando a Milano da Roma in meno di tre ore, quello che resta di vecchie linee arranca tra scartamento ridotto, tempi di percorrenza del secolo scorso e littorine alimentate a diesel. Marco Ponti, professore di Economia al Politecnico di Milano ed ex consulente per i trasporti della Banca Mondiale, non usa mezzi termini: «Queste società sono un incubo, una follia gestionale: nessuno dice che il problema principale che ci sono troppi pochi viaggiatori. La domanda è debole perché le ferrovie hanno bisogno di tantissima gente, ma invece di viaggiare con 80 treni al giorno si accontentano di 20 per tenerle in vita. Ma è antieconomico. C’è poi il paradosso lombardo dove i passeggeri ci sono ma la società Trenord, controllata dalla Regione Lombardia e da Trenitalia, approfitta del monopolio e ottiene pure il prolungamento della concessione. Il contrario esatto del libero mercato». Le ferrovie Appulo Lucane (Fal) a cavallo tra la Basilicata e la Puglia gestiscono 183 chilometri di linee, hanno 562 dipendenti e servono sedici comuni lungo le tratte che partono da Bari e arrivano a Potenza e Matera, quest’ultima capitale europea della Cultura per il 2019, con una stazione di Trenitalia che aspetta da anni di essere aperta. Le tratte locali sono un’eredità delle Ferrovie Calabro-Lucane che nei primi del Novecento trasportavano merci e persone snodandosi sul territorio della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria. Oggi è di proprietà del Ministero delle Infrastrutture con treni ancora a diesel e binari a scartamento ridotto. La società attuale – Fal srl - secondo i parlamentari del Movimento Cinque stelle, si è trasformata in un "poltronificio" e un pasticcio di consulenze. «È un piccolo feudo locale con rapporti di amicizia tra vertici dell'azienda con il mondo politico, in particolare con l'ex ministro Raffaele Fitto e con altri parlamentari lucani e pugliesi, soprattutto di area di centrodestra» attacca la deputata grillina Mirella Liuzzi che aggiunge:«La Puglia e la Basilicata ci mettono circa 100 milioni di euro all’anno ma invece di modernizzare una linea ferma al secolo scorso hanno cucito su misura contratti a tempo indeterminato per ex dipendenti del partito o assistenti di alcuni parlamentari di Forza Italia». Tutto nel campo dei berlusconiani, a partire dal presidente delle Fal Matteo Colamussi che al momento della nomina (nel 2008) era presidente del consiglio comunale di Rutigliano (Bari) e vicesegretario provinciale degli azzurri. Per la nomina del nuovo cda il sottosegretario ai Trasporti del governo Berlusconi, il lucano Guido Viceconte, inserisce tra i cinque componenti anche il cugino Felice. C'è poi l'incarico fiduciario per la ristrutturazione della sede barese affidato alla moglie del deputato azzurro Nuccio Altieri. Scelta che il patron Colamussi ha difeso: «Questo tipo di incarichi si chiamano fiduciari non a caso. Bisogna scegliere gente di cui ci si fida. E io ho grande stima professionale della moglie del mio amico Nuccio Altieri. Ma questo non significa che io abbia fatto qualcosa che non dovevo e che fosse contro la legge». Tutto il dossier Fal è finito in Procura per verificare anche un’altra storia, quella delle assunzioni di parenti stretti di sindacalisti, scoperta e raccontata per prima dal Quotidiano Italiano di Bari. Sempre in Puglia, sono le ferrovie del Sud Est a fagocitare milioni di euro di fondi pubblici. Tra un tourbillon di truffe per acquistare vecchie carrozze e consulenze allegre. Con un bilancio 2014 in rosso per 311 milioni e la metà dei costi di produzione -146 milioni- sborsata per pagare lo stipendio a 1300 dipendenti. Tra questi anche dirigenti che incassano fino a 220mila euro all’anno. I guai maggiori, però, vengono a galla con l’inchiesta di Firenze che svela il sistema di potere di Ercole Incalza, il potente burocrate arrestato un anno fa con l’accusa di corruzione, induzione indebita, turbativa d’asta e altri delitti contro la pubblica amministrazione. Dalla Toscana una pista arriva fino in Puglia dove l’ipotesi che le consulenze delle Ferrovie del Sud Est si trasformassero, almeno in parte, in tangenti destinate propio al potente factotum del Ministero delle Infrastutture e al suo collaboratore Sandro Pacella. Agli arresti sono finiti Salvatore Adorisio e Angelantonio Pica, presidente e amministratore delegato della Green Field System, uno studio di progettazione specializzato in trasporti che tra il 2006 e il 2014 ha ottenuto consulenze dall’azienda pugliese per 2,4 milioni. Sarebbe questo «il canale» secondo i magistrati fiorentini, «tramite il quale grosse somme di denaro sono transitate dalle Ferrovie del Sud Est» verso Incalza e Pacella, che avrebbero intascato circa 700mila euro. Non è però l’unico scandalo che prende di mira il malaffare made in Puglia. Il 1 dicembre scorso la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per sette persone e per la società Ferrovie Sud Est nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte truffe. Tra gli altri, rischia il processo anche l’ex amministratore unico Luigi Fiorillo. Al centro delle indagini l’acquisto di 27 vagoni nuovi dalla società polacca Pesa, pagandoli 93 milioni di euro grazie ad un finanziamento regionale. Secondo la Procura sarebbero stati inclusi nel costo 12 milioni di euro di provvigioni sulle vendite pagati da Pesa alla società Varsa. Ma il "capolavoro" di spreco riguarda la seconda vicenda: nel 2006 l’azienda ha comprato in Germania 25 carrozze usate a 37.500 euro l’una per poi rivenderle a 280mila euro ciascuna alla Varsa. Che le ha ristrutturate e spedite sulle linee pugliesi per 900mila euro l’una. Dopo queste spese milionari arriva un’amara constatazione finale: le caratteristiche tecniche di molte carrozze non sono adeguate alle linee delle Sud Est, così dal 2009 i mezzi sono rimasti fermi. Nonostante questa serie di affari sporchi svelati dalla Magistratura c’è stato un’ultima chance di riportarla a galla. Lo scorso gennaio il ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, ha nominato una squadra di commissari per scrivere un piano industriale per il risanamento e la riduzione dei costi di funzionamento. Perché con la legge di stabilità di fine anno sono arrivati 70 milioni di euro per «garantire la continuità aziendale e ripristinarne l'equilibrio economico e finanziario». Non è solo una questione meridionale. Carte di credito, alberghi, l’uso di auto con carburanti e telepass, arredi ed elettronica, bollette di telefoni cellulari, pay tv e persino scommesse sportive: è l’elenco delle spese allegre che sono costate la poltrona di presidente della società Ferrovie Nord Milano a Norberto Achille. Un utilizzo a fini personali (soprattutto da parte dei due figli) di benefit aziendali legati alla sua carica al vertice della società per azioni che fattura 300 milioni l’anno con 4.000 dipendenti e che in Lombardia fa viaggiare ogni giorno 700 mila persone. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico. Achille, presidente e legale rappresentante della holding partecipata da Regione Lombardia e Ferrovie dello Stato, è stato prima interdetto per 6 mesi dall’incarico e poi è arrivata la richiesta di rinvio a giudizio per la distrazione di circa 430mila euro di fondi pubblici. Una storia di sperperi e lussi con al centro il figlio di Achille, il 35enne Marco. Una vita segnata dall’amore per gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui - come raccontato da l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Per il rampollo del manager pubblico che passava dalle feste al business immobiliare nel curriculum c’è anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro.
Che fortuna essere il figlio del capo delle Nord. La vita nel lusso la paga il papi coi rimborsi. Il presidente delle ferrovie lombarde Norberto Achille, secondo la procura di Milano, non riusciva a dire no alle richieste dei familiari. Coprendo multe e spese con i soldi dell'azienda. Alla faccia dei pendolari. Mentre il rampollo passava dalle feste agli affari immobiliari. E a un ruolo pubblico, scrive Francesca Sironi il 19 maggio 2015 su "L'Espresso". Marco Achille, in una fotografia pubblicata da lui su Instagram il 19 maggio nel pomeriggio «Papà, sono contento di ciò che sono diventato. E un po' è anche merito tuo, per cui grazie per ogni singolo momento». Firmato «Tuo figlio Marco». Il messaggio è di Marco Achille, figlio trentacinquenne di Norberto Achille, il presidente di Ferrovie Nord indagato della Procura di Milano con l'accusa di peculato. Al manager, che aveva annunciato le sue dimissioni, sono contestate maxi spesea favore dei familiari: 124mila euro solo di conti telefonici, guida privata dell'auto blu, carte di credito usate per pagare vestiti, mobili, alberghi e cene. Perfino le scommesse sportive. Non solo: nella lista ci sono anche 124mila euro di multe accumulate da uno dei figli alla guida delle Bmw aziendali. E pagate attingendo alle casse di Ferrovie Nord, alla faccia dei pendolari lombardi. Tutto questo denaro, secondo l'accusa del Pm Giovanni Polizzi, sarebbe servito a garantire la vita bella del figlio, un giovane che ama gli orologi di lusso, le gite in motoscafo e i pranzi gourmet, e che non disdegna gli affari: segue infatti numerose società, fra cui – come può rivelare l'Espresso - una Ltd registrata a Londra in cui è coinvolto anche il padre. Un uomo a cui l'esuberanza dei rampolli è costata cara: «Le intercettazioni sembrano ricondurre le disinvolte prassi di spesa soprattutto ai comportamenti dei figli e alla mancata forza del padre di porvi argine», scrive infatti Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera. «Il manager», spiega il suo avvocato Gianluca Maris, «aveva iniziato a restituire il denaro: era stato lui stesso a chiedere il rapporto che aveva evidenziato i conti fuori controllo, concordando con l'azienda i rimborsi delle spese ingiustificate». Mannaggia ai lussi, insomma. Ed eccoli i figli, Marco e Filippo. In Rete è più riservato il secondo, più estroverso il primo, sorridente dal torso scolpito fra autoritratti in barca, selfie-con-scultura-del-Duce, pranzi al “Bistrot” di Forte dei Marmi (frequentato anche da Belen), pose muscolari in stile Baywatch e party alla moda. C'è anche lo scatto orgoglioso del polso con indosso un orologio da 54mila euro: un Royal Oak Audemars Piguet tempestato di brillanti. Tra i televisori al plasma, i pavimenti di marmo, la casa nuova su due piani in centro e lo champagne, sui social network di Marco compare a sorpresa anche l'immagine frugale di Papa Francesco, per la Benedizione Apostolica “impartita di cuore” da Sua Santità al papà Norberto Achille il 13 dicembre 2013. E pubblicata dal figlio poco dopo. Prima il piacere, poi il business. Achille padre infatti ha gestito fino all'aprile scorso la “Palladium 2013 Limited”, una società di Londra che era stata amministrata anche dal figlio (uscito di scena nel 2014) insieme a uno dei fondatori dello studio di commercialisti di Milano dove lavora. La società londinese, pur avendo un capitale minimo, possiede il 50 per cento di una holding che a sua volta controlla un'immobiliare di Bratislava dal capitale milionario, la “Retail Slovakia”, specializzata nella compravendita di appartamenti e uffici. Anche a Milano, Marco Achille, oltre al suo impiego come commercialista, ha a che fare con dimore e palazzi. È infatti titolare e amministratore unico dell'immobiliare Techimm srl (ora Techfin), che possiede beni in via della Chiusa, nel pieno centro di Milano, alle spalle della Basilica di San Lorenzo. È poi socio di un'altra immobiliare e consigliere di una terza, oltre che fondatore di una palestra di Boxe, intestatario del 25 per cento di un'azienda che si occupa di commercio all'ingrosso per articoli medicali e di una “New Parking company” inattiva. Nonostante tutto questo, e nonostante due appartamenti di proprietà, uno a Basiglio (il comune con i redditi pro capite più alti d'Italia, da quando Silvio Berlusconi inaugurò Milano3) e uno nel capoluogo, nell'ultima indicazione pubblica dichiarava un reddito imponibile di 28mila euro. L'informazione arriva dalla sua “scheda per la trasparenza” pubblicata sul sito web del Comune di Milano. Già, perché il figlio del manager ed ex assessore di Forza Italia Norberto Achille ha anche un incarico pubblico: siede nel collegio dei revisori della Fondazione Milano, l'ente che coordina l'attività culturale ed educativa delle scuole civiche di musica, cinema e teatro. È stato nominato il primo marzo del 2012 e lì resterà fino all'aprile del 2016, percependo un gettone di 41 euro a presenza e un fisso di 5mila euro. Un bel record per un giovane di 35 anni.
Grandi Opere, i nomi del sistema Ercole Incalza. Lo scandalo costato il posto al ministro Lupi coinvolge molti potenti: l'ex sottosegretario di D’Alema, l’ingegnere del metrò milanese. E tanti figli di boiardi, da Trane a Monorchio. Ecco chi viene citato negli atti dell’inchiesta, scrive Gianfranco Turano il 20 marzo 2015 su "L'Espresso". Nelle carte dell’inchiesta fiorentina sugli appalti del Mit appaiono molti nomi di poca notorietà e grande potere. Ecco i più influenti.
GIULIO BURCHI. Ingegnere modenese di 55 anni, indagato, è stato presidente e amministratore delegato della Metropolitana milanese con Gabriele Albertini sindaco e Maurizio Lupi assessore all’urbanistica. Nel 2004 ha guidato Italferr, società di ingegneria del gruppo Fs sotto la gestione di Elio Catania. Dal 2001, ha presieduto l’autostrada Parma-La Spezia (gruppo Gavio) dopo l’uscita di Bruno Tabacci. Nel settore autostradale è considerato l’uomo di fiducia di Intesa che lo ha nominato in Autostrade lombarde, nella Brebemi e, ad aprile del 2013, nella Serenissima (Brescia-Padova).
ANTONIO BARGONE. Sottosegretario ai lavori pubblici con Massimo D’Alema premier, 67 anni, l’ingegnere brindisino è tornato all’attività privata per assumere la guida della Sat, società che gestisce l’autostrada Livorno-Civitavecchia sotto il controllo di Atlantia-Autostrade. Prima dell’inchiesta fiorentina, dove Bargone è fra gli indagati, il suo nome era circolato come uno dei candidati alla successione di Pietro Ciucci all’Anas.
FABRIZIO AVERARDI RIPARI. Indagato, romano di 57 anni, è direttore generale di Anas international enterprise, creata per incrementare i ricavi da attività private della spa di Stato. Fra gli obiettivi della società c’è la realizzazione dell’autostrada libica Eas Ejdyer-Emssad. Averardi è imprenditore in proprio con Integra e Tensacciai. L’ordinanza cita anche Massimo Averardi, 68 anni, dirigente Anas in pensione, non indagato, amministratore del consorzio Ferconsult negli anni Novanta insieme a Stefano Perotti.
ALFREDO PERI. Ex sindaco di Collecchio (Parma) ed assessore regionale ai trasporti dal 2000 al 2010, Peri è indagato per avere promesso di affidare la direzione lavori della Cispadana a Stefano Perotti, arrestato con Ercole Incalza, Francesco Cavallo e Sandro Pacella. Peri ha conosciuto Incalza quando il dirigente del Mit amministrava Metro Parma, incaricata di realizzare una metropolitana che non si è mai costruita con uno spreco di decine di milioni di euro in progettazioni finanziate dal Cipe.
FIGLI DI QUALCUNO. L’ordinanza della procura di Firenze mette in fila vari personaggi dal cognome illustre. Fra gli indagati, ci sono il milanese Giovanni Li Calzi, figlio dell’architetto ed assessore comunale all’edilizia del Pci Epifanio, morto due anni fa. Li Calzi era stato al centro di altre inchieste di Mani Pulite e ne era uscito grazie alla prescrizione. Pasquale Trane, indagato, è figlio di Rocco, uno degli esponenti della cosiddetta sinistra ferroviaria del Psi, opposta alla segreteria di Bettino Craxi. Trane senior è morto all’improvviso nell’agosto 2012 durante il Meeting di Rimini. Citati dai giudici ma non indagati, sono Giandomenico Monorchio e Giovanni Paolo Gaspari. Il primo, figlio dell’ex ragioniere dello Stato Andrea, ha una società di ingegneria (Sintel engineering). Il secondo, dirigente delle Fs e nipote dell’ex ministro democristiano Remo Gaspari, definisce Incalza “dominus totale” del sistema grandi appalti.
Anche Stefano Perotti è figlio d’arte. Suo padre Massimo è stato direttore generale dell’Anas di nomina socialista nei primi anni Ottanta e fu incarcerato nel 1985 per lo scandalo Icomec, una sorta di prova generale di Tangentopoli.
Accompagnatori, ciechi e falsi invalidi: cinque miliardi di welfare clientelare. Gli assegni di invalidità pagati in Calabria sono, in proporzione agli abitanti, almeno il doppio di quelli erogati in Emilia Romagna: l’allarme del commissario alla spending review trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Inps, scrive Sergio Rizzo su "Il Corriere della Sera" del 30 marzo 2016. L’inascoltato ex commissario alla revisione della spesa Carlo Cottarelli l’aveva scritto nel suo rapporto. Una «distribuzione territoriale» delle pensioni di invalidità, squilibrata al punto che gli assegni pagati in Calabria sono in proporzione agli abitanti almeno il doppio di quelli erogati in Emilia-Romagna, «suggerisce abusi». Ma forse non ci voleva nemmeno un giudizio così autorevole per rendersene conto. Sarebbe stato sufficiente dare un’occhiata men che superficiale ai numeri noti da anni. L’Inps ci ha detto ieri che in Italia si pagano 2 milioni 980.799 «prestazioni» agli invalidi civili. Dove per «prestazioni» si intendono pensioni e indennità di accompagnamento oltre agli assegni per ciechi e sordomuti. Ebbene, un milione 335.093 di questi trattamenti di invalidità, pari al 44,8 per cento del totale, riguardano il Sud, dove risiede il 34,4 per cento della popolazione. Nelle Regioni meridionali il rapporto è dunque di un assegno ogni 15,6 abitanti, contro uno ogni 23,5 nel resto del Paese. Mentre se le pensioni di invalidità fossero in proporzione identica rispetto al Centro Nord, il loro numero non dovrebbe superare 890 mila. Quindi ce ne sarebbero 445 mila di troppo: un terzo. Tutti abusi? Sicuramente no. Sappiamo che nel Mezzogiorno le condizioni di vita e di lavoro sono in molti casi ben diverse che nelle altre Regioni. E questo potrebbe forse spiegare alcune differenze. Ma non certi abissi che alimentano il sospetto. In Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna ci sono 45 pensioni definite «assistenziali» per ogni mille abitanti. In Campania, invece, sono 84. In Puglia 85, in Sicilia 91, in Sardegna 92 e in Calabria addirittura 97. Il fatto è che al Sud le pensioni di invalidità non hanno mai smesso di rappresentare una forma di sussidio. In una intervista rilasciata alla Stampa nel 2003 lo ammise candidamente uno dei leader meridionali più attrezzati nella raccolta del consenso. «Per un lungo periodo, indubbiamente, alla Cassa integrazione degli operai al Nord corrispondeva al Sud come ammortizzatore sociale la pensione di invalidità che serviva a moderare e mitigare la scarsa presenza dello Stato al Sud. Una forma di equilibrio», arrivò a dire Clemente Mastella. Che per anni, imperterrito, aveva continuato a difendere contro tutto e tutti quel curioso equilibrismo. Anche dal cospetto dei rigurgiti rigoristi dell’Inps: «Il Sud è una polveriera, può esplodere da un momento all’altro. Il clima è preinsurrezionale. Stanno togliendo le pensioni di invalidità in modo indiscriminato». Lamenti del tutto inutili, se è vero che a dispetto dei giri di vite più volte annunciati la spesa per le pensioni di invalidità ha continuato a galoppare. Il rapporto annuale 2014 dell’istituto di previdenza ora guidato da Tito Boeri informa che fra il 2004 e il 2016 l’esborso per quei trattamenti è letteralmente esploso, passando da 8,5 a 15,4 miliardi, con un aumento dell’81,1 per cento. Mentre il loro numero è cresciuto di almeno il 50 per cento, da un milione 980 mila ai quasi tre milioni che abbiamo citato. Questo grazie soprattutto alla progressione delle indennità di accompagnamento, le quali contrariamente alle pensioni non vengono erogate in rapporto al reddito. E se il tasso di crescita ha rallentato negli ultimi anni è una ben magra consolazione al confronto della situazione ereditata dagli anni d’oro. Quelli, per capirci, in cui quella forma di «equilibrio» veniva usata dai politici come leva clientelare. Talvolta anche con risvolti di carattere personalistico. Tre anni fa Amalia De Simone ha raccontato sul Corriere.it che fra i parenti stretti di 30 consiglieri di uno dei dieci municipi di Napoli si potevano contare 60 pensioni di invalidità. Per non parlare dell’epidemia di cecità che tradizionalmente colpisce la Sicilia: Regione che pur contando un dodicesimo circa della popolazione italiana ha un settimo di tutti i non vedenti italiani. Ma che non sia stato fatto nulla, soprattutto in questi ultimi anni, non si può certamente dire. Le indagini giudiziarie hanno portato alla luce tanti di quegli abusi ai quali faceva riferimento Cottarelli. Basta dire che nel 2014 e nella sola Campania, 18.846 controlli hanno fatto scoprire 5.543 irregolarità, con la revoca di altrettante pensioni: quasi il 30 per cento. Sarebbe però poco onesto negare che sopravvivano difficoltà pratiche per combattere e stroncare questo fenomeno. E in cima, inutile negarlo, ci sono anche alcune resistenze della politica. Due anni fa il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, appena insediato, aveva promesso un taglio «drastico» alle false pensioni di invalidità. Secondo i dati dell’Inps, fra il gennaio 2015 e il gennaio 2016 il numero dei trattamenti di quel genere è aumentato di 94.997 unità.
Fare industria con i soldi di tutti. Esce il saggio «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio). Teoria, prassi e sperperi dello Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti, scrive Antonio Polito il 30 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Anche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato Scegliere i vincitori, salvare i perdenti della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi, m per Marsilio). Ma un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione. Lo sapeva bene Giorgio Gaber, che aggiungeva: «Se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione». E in effetti l’idea è di sinistra, ma in Italia l’hanno mangiata altri, e ci hanno davvero costruito su una rivoluzione. Prima Mussolini, che diede vita all’Iri credendola temporanea per rispondere alla Grande Crisi del 1929. E poi, nello snodo cruciale del dopoguerra, quando si trattò di decidere se sciogliere l’Iri o confermarla, toccò alla Dc appropriarsi dell’idea fin dal Codice di Camaldoli del 1943, che si ispirava insieme alla dottrina sociale della Chiesa e al New Deal rooseveltiano. Mentre la sinistra del tempo, il Pci, fu almeno all’inizio contraria: ostile a una programmazione di stampo sovietico, ma anche a un riformismo socialdemocratico, «non trovava altra soluzione che una ricaduta totale nel liberismo, nel lasciar fare», come ha notato Vittorio Foa. «In quegli anni si affermò», scrive Debenedetti, «la convinzione tutta ideologica che l’attività diretta dello Stato in economia possa rimediare ai mali — disoccupazione, arretratezze, iniquità — e portare il bene — crescita, protezione, innovazione — che, se può, deve, e se deve, che ottenerlo sia un diritto». La politica si comportò insomma come il gran cancelliere di Milano nei Promessi Sposi: «Costui vide, e chi non l’avrebbe veduto, che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla». La prassi della politica industriale, almeno nella senescenza della Prima Repubblica, più che una politica per l’industria produsse industrie per la politica (ci fu un tempo in cui l’Iri era della Dc, l’Eni del Psi e l’Efim del Psdi). Ma l’idea ha avuto una sua grandezza e megalomania, anche in campi lontani dall’industria. Pensate per esempio alla cultura. «Ancora oggi non c’è praticamente discussione nella quale il modello Bbc non venga evocato come platonica idea di servizio pubblico». Oppure pensate alla giustizia. «Non mi vengono in mente», scrive l’autore, e devo convenire che non vengono in mente neanche a me, «casi in cui l’intervento della magistratura non vada nella direzione di aumentare il controllo da parte dello Stato e di restringere la libertà dei cittadini come imprenditori e consumatori. E non ne ricordo nessuno in cui l’intervento vada invece nella direzione di eliminare ostacoli all’iniziativa economica privata... L’articolo 41 della Costituzione è specchio di questo pregiudizio: dichiara l’iniziativa economica “‘libera’ ma fintantoché “non in contrasto con l’utilità sociale”». D’altra parte, oltre che la biografia di un’idea questo libro è anche una autobiografia. Perché la politica industriale e l’autore hanno la stessa età (l’Iri e Debenedetti sono nati entrambi nel 1933); perché l’autore ha un lungo passato di dirigente d’industria che ha militato in entrambe «le metà del cielo», come lui chiama l’industria pubblica e quella privata, e dunque ha osservato da vicino le conseguenze negative che la politica industriale ha avuto anche sull’impresa privata (rivelate per esempio dalle inchieste di Tangentopoli); e anche perché l’autore ha un fratello, Carlo De Benedetti, che in molte delle vicende narrate nel libro si è mosso da protagonista, vincendo o perdendo, e dunque il racconto di Franco va letto con un grano di sale perché inevitabilmente, e spesso dichiaratamente, partigiano. La fine della politica industriale è stata segnata dall’accordo Andreatta-Van Miert del 1993 che diede il via alla grande stagione di privatizzazioni, ma dura ancora lo strascico di polemiche che si è lasciata alle spalle. Per esempio da parte di chi la rimpiange come un’occasione ormai perduta di avere grandi industrie e campioni nazionali. Debenedetti risponde con puntiglio alla teoria dei «fallimenti di mercato», ripercorrendo le travagliate vicende di Olivetti e Telecom. E contrattacca ciò che resta oggi, al tempo di Renzi, del dirigismo: «Il posto dell’ideologia è stato preso da una sorta di pragmatismo, e proprio perché nessuno sembra potergli attribuire propositi sistemici di politica industriale, Renzi si ritiene libero di fare interventi che però ne hanno gli stessi presupposti e conseguenze». Residuati bellici di una guerra ormai finita, come il caso Ilva, il piano «banda larga», le ottomila aziende municipali, le regolamentazioni inutili per tentare di fermare lasharing economy. In definitiva, l’immarcescibile e pericolosa voglia di chiunque entri nella stanza dei bottoni, di schiacciare qualche bottone.
PARLIAMO DELLE BABY PENSIONI.
Baby pensioni: che cosa sono? Tutte persone che sono uscite dal mondo produttivo in base a finestre aperte dalla legge, oggi diventano una sorta di profittatori, gente colpevole di campare troppo a lungo e sulle spalle del sempre più esiguo e spremuto contingente di lavoratori in attività, scrive Stefano Filippi il 4 aprile 2016 su “Il Giornale”. L'Inps ha fatto sapere che in Italia oltre 474mila pensioni sono state liquidate prima del 1980: i relativi titolari, dunque, vivono di rendita da 36 anni e per di più dopo aver lavorato sicuramente meno. I dati sono presi dalle tabelle sugli assegni di vecchiaia e di anzianità e ai superstiti del settore privato (cioè la reversibilità): sono perciò escluse le pensioni di invalidità previdenziale e civile, quelle sociali al minimo e i trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Di conseguenza non sono conteggiati neppure i cosiddetti «baby pensionati», cioè le impiegate del pubblico impiego sposate con figli che fino al 1992 potevano congedarsi con un'anzianità di 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi. L'età media da cui le pensioni hanno iniziato a decorrere è molto inferiore all'attuale: quasi 56 anni per gli assegni di vecchiaia e poco più di 41 per quelle ai superstiti. Nel 2015 le pensioni di anzianità liquidate sono state 238.400 con un'età di decorrenza di 62 anni e mezzo. Nel settore privato supera gli 800mila il numero di pensionati in quiescenza da oltre 30 anni (decorrenza antecedente il 1986) cui si aggiungono altri 527mila assegni di reversibilità. L'effetto mediatico di questi numeri è evidente: sono troppi. Anche perché si tratta di pensioni «pesanti», calcolate con il metodo retributivo basato sugli ultimi stipendi e non sull'ammontare dei contributi effettivamente versati.
Che cosa sono le baby pensioni? Risponde Flavia Amabile il 28 ottobre 2011 su "La Stampa". In questi giorni se ne è parlato molto. Il termine baby pensioni però indica solo quelle godute da lavoratori del settore pubblico che hanno smesso di lavorare a meno di 50 anni di età. Furono introdotte nel 1973 dal governo Rumor e cancellate quasi 20 anni dopo, nel 1992 da Dini.
Chi ne aveva diritto?
Chi aveva 14 anni 6 mesi e 1 giorno di contributi se si trattava di donne sposata con figli, 20 anni per gli statali, 25 per i dipendenti degli enti locali.
In quanti ne godono?
Sono 531.752 le pensioni di vecchiaia e di anzianità concesse in questi anni secondo l’ultimo rapporto della Confartigianato. In media i baby pensionati ricevono un assegno di circa 1500 euro lordi al mese. Cifre di tutto rispetto, se si considera che mediamente incassano la pensione per più di 30 anni, avendo versato pochi contributi. Incassano minimo tre volte rispetto a quanto hanno versato.
Chi sono i baby-pensionati?
Il 78,6% - quasi 8 su 10 - sono dipendenti pubblici. Di questi più della metà (il 56,5%) sono donne. Il restante 21,4% sono persone che godono di regimi speciali. Sono soprattutto persone che vivono al Nord, e non a caso la Lega punta i piedi contro ogni intervento in materia. Il 62,5% è concentrato al Nord. Al primo posto c’è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi e un record assoluto di 2 baby-pensionati su 10. Al secondo posto c’è il Veneto con 56.785 assegni, il 10,7% del totale. Al terzo e quarto posto Emilia Romagna e Piemonte, rispettivamente con 52.626 e 48.414 assegni, il 9% del totale.
Quanto costano?
Cifre abnormi, se si considerano gli effetti sull’economia di quest’anomalia previdenziale. Costano allo Stato circa 163,5 miliardi, una «tassa» di 6630 euro a carico di ogni lavoratore, sostiene Confartigianato, se si calcola la maggiore spesa che le casse pubbliche sopportano rispetto ai pensionati ordinari. I baby pensionati infatti ricevono un trattamento pensionistico più lungo di 15,7 anni rispetto ad un pensionato medio. Se si calcola la maggior spesa pubblica cumulata per ognuno degli anni di pensione eccedenti alla media, si arriva a 148,6 miliardi di euro. A questa somma bisogna aggiungere la minore contribuzione, pari a 138.582 euro per ogni baby pensionato del settore privato. Sono circa 100 mila e vuol dire 14,8 miliardi di mancate entrate previdenziali. Se invece si vogliono considerare solo le rendite erogate, siamo a una spesa di 9,45 miliardi: 7,43 miliardi per quelle incassate dai lavoratori del pubblico impiego, 2,02 miliardi per i lavoratori sottoposti a regimi speciali. E’ una cifra considerevole, se si tiene presente che nel 2010 la spesa pensionistica, secondo la Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso per i baby-pensionati.
Quanto hanno lavorato?
Forse sarebbe preferibile rovesciare la domanda e chiedere quanto restano in pensione per avere un quadro più chiaro di quello che accade. In media il 48% della vita, ovvero più di 40 anni, se si considera una durata media della vita di 85,1 anni. Ma ci sono 16.953 fortunatissimi baby pensionati che si sono ritirati a 35 anni e che restano in pensione quasi 54 anni, ovvero il 63,4% della vita, molto più della metà della loro esistenza. Da non disprezzare anche la condizione di coloro che sono andati in pensione tra i 35 e i 39 anni: restano in pensione 47 anni, il 55,8% della loro vita.
Esistono baby pensionati famosi?
Sì e sono anche molti e spesso politicamente scomodi. Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60), e che incassa 2.644 euro lordi al mese. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, sposata con il leader della rivolta contro Roma Ladrona, è andata in pensione come insegnante a 39 anni. Su di lei si è scatenata l’ultima lite alla Camera. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, ex sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che è andato in pensione a 42 anni. E persino Adriano Celentano non si è tirato indietro: è in pensione dal 1988 a 50 anni. A livelli diversi, anche come rendite percepite, l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli. Quando compì 48 anni decise di lasciare la Banca d’Italia, di cui era arrivato a ricoprire il ruolo di vicedirettore generale. Un ottimo incarico che si è riflesso sulla pensione: 15 mila euro al mese per 24 anni di lavoro senza che questo impedisca di continuare a ottenere incarichi e stipendi mensili. Un percorso simile quello di Rainer Masera, andato in pensione a 44 anni, dopo una carriera in Banca d’Italia per diventare presidente dell’Imi, l’Istituto Mobiliare Italiano. Da allora lo Stato gli versa 18mila euro al mese.
La Casta dei baby-pensionati Costa 9 miliardi l'anno. Sono oltre mezzo milione gli ex lavoratori che percepiscono vitalizi per i quali non hanno pagato i necessari contributi, scrive Antonio Castro su “Libero Quotidiano" del 25 ottobre 2011. Trenta, quaranta, anche cinquant’anni di vita da pensionato. Paradossi di un Paese, l’Italia, che oggi deve tirare la cinghia. Ma che negli anni Settanta era molto, molto generosa. Mentre si discute se ritoccare per l’ennesima volta l’età pensionabile (ieri la richiesta è e stata reiterata dai giovani imprenditori di Confindustria nel tradizionale meeting autunnale di Capri), di quanti hanno la fortuna di avere un impiego, spulciare i dati dei 535.752 baby pensionati fa salire la pressione e incoraggia una riflessione. Oggi il nostro sistema previdenziale deve sostenere un esborso notevole (9,45 miliardi l’anno) per retribuire un esercito di oltre mezzo milione di (ex) giovani pensionati. E non si tratta di poca cosa, considerando che nel 2010 la spesa pensionistica complessiva, secondo i dati della Ragioneria generale, è arrivata a sfondare quota 193,4 miliardi, pari al 15,3% del Prodotto interno lordo. Insomma, oltre il 5% della spesa per assegni pensionistici serve a coprire l’esborso vero signori e signore che negli anni successivi al 1973 (decreto 1092 varato dal governo Rumor) riuscirono ad andare in pensione con una manciata di anni di lavoro. All’epoca bastavano alle impiegate pubbliche con figli appena 14 anni, sei mesi e un giorno per andare in pensione. E indifferentemente dal sesso tutti i dipendenti statali potevano ambire alla pensione dopo 19 anni, sei mesi e un giorno. Un po’ più sacrificati i dipendenti degli enti locali che potevano ritirarsi con 25 anni di contributi. Vista con gli occhi di oggi - e con la prospettiva di dover lavorare fino ai 70 anni come in Germania - un Eldorado previdenziale. Se a questo regalino previdenziale sommiamo poi l’allungamento dell’aspettativa di vita degli italiani (arrivata a 79,1 anni per gli uomini e 84,3 anni per le signore), ne viene fuori un salasso che rischia di protrarsi per altri 20/30 anni. Già durante la turbolente estate della manovra correttiva si parlò di mettere mano a quest’anomalia tutta italiana. Le tabelle del Tesoro (sulle quali si basa l’elaborazione realizzata per Libero dal Centro Studi Sintesi), sui signori baby pensionati vennero velocemente messe via quando Umberto Bossi oppose categorico il niet della Lega, alleato di peso e indispensabile per la tenuta della maggioranza. E non solo perché la signora Bossi, ex insegnante, è una delle baby pensionate. Manuela Marrone ha fatto l’insegnante fino a 39 anni, e da qualche decennio incassa un assegno mensile di 766 euro. La verità è che in Lombardia (110.497 baby pensionati), Piemonte (48.414), Veneto (56.785) ed Emilia Romagna (52.626), si concentrano una parte importante dei privilegiati. Una mappa che corrisponde più o meno con il bacino elettorale della Lega Nord. Comprensibile quindi i cavalli di Frisia eretti contro qualsiasi intervento dai lumbard. Ma dalle Alpi alla Sicilia la corsa alla baby è uno sport nazionale. Tra i politici c’è anche Leoluca Orlando, un tempo sindaco di Palermo e oggi portavoce dell’Idv che ha pensato bene di andare in pensione a soli 42 anni. O Adriano Celentano (in pensione dal 1988 a soli 50 anni). La Cgil - che di fiuto politico ne ha per i possibili interventi governativi che colpiscono i pensionati - ha già messo le mani avanti e ammonito a guardare altrove. Eppure un contributo di solidarietà del 5% su questi assegni (in media 1.357 euro al mese), peserebbe per poco meno di 60/70 euro. Ma consentirebbe di risparmiare quasi cinquecento milioni l’anno. Barricate leghiste a parte, tra gli indefessi paladini dell’assegno pensionistico giovanile troviamo anche il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, che abbandonata la toga e sceso in politica optò per un prematuro pensionamento dalla magistratura e oggi incassa un assegno mensile di 2.644 euro (lordi) al mese. Non se la passa certo male l’ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, che quando festeggiò 48 anni pensò bene di mettersi a riposo e si deve barcamenare con una pensioncina di 15mila euro al mese. Ma l’Inps ha a libro paga anche banchieri famosi come Rainer Masera (andato in pensione a 44 anni) che devono “sopravvivere” con 18mila euro al mese. Ma l’elenco dei fortunati pubblicato nel libro di Mario Giordano (Sanguisughe, Mondadori), è molto più lungo. Certo questi sono casi limite. Poi c’è la maestra con la pensioncina da 800 euro scarsi al mese. Peccato che chi ha iniziato a lavorare da 20 anni (e dovrà faticare per altri 20) a stento riuscirà a portare a casa una pensione superiore al 60% dell’ultimo stipendio. I signori baby, invece, incasseranno in vita loro, assegno dopo assegno, il 300% di quanto hanno versato.
Baby pensionati, ecco i conti. Fino all’82 per cento in regalo. A chi si è ritirato a 40 anni con contributi per 17 anni il sistema previdenziale «regala» l’82% dell’assegno, scrive Sergio Rizzo il 9 ottobre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «C’è un pezzo d’oro» dentro quasi ogni pensione italiana: ci credereste? Anche nelle più modeste c’è del metallo prezioso, sotto forma di soldi che ci mettono lo Stato e i lavoratori iscritti alla previdenza sociale per compensare la differenza fra l’entità dell’assegno pensionistico e quello che spetterebbe davvero al pensionato sulla base dei contributi versati. Autore della provocazione aurea è Mario Baldassarri, economista ed ex viceministro dell’Economia con il centrodestra, oggi animatore del centro studi Economia reale. Proprio nel momento in cui il tema delle pensioni è di nuovo al centro del dibattito politico, con il governo che vorrebbe aprire a forme di flessibilità e l’Inps che studia una sforbiciatina ai trattamenti retributivi più elevati, lui si è preso la briga di calcolare proprio quella differenza. E i risultati delle sue proiezioni sono decisamente più sconvolgenti di quanto si possa immaginare. Prendiamo il caso dei tanti baby pensionati. Chi avesse cominciato a riscuotere un assegno di mille euro a quarant’anni di età con 17 anni di contributi versati e altri 45 di aspettativa di vita sarebbe stato omaggiato dallo Stato e dagli altri lavoratori con ben 442.800 euro. E non è nemmeno il caso più estremo. Le cosiddette pensioni «baby» sono state eliminate più di vent’anni fa, ma di situazioni simili a questa ne esistono diverse centinaia di migliaia. Per ogni mille euro di pensione, 820 vengono letteralmente regalate al pensionato che si trova in tali condizioni. E se mille euro al mese per un’aspettativa di vita di 85 anni, pari a quella delle donne italiane (per gli uomini è intorno agli 80) fruttano a chi è uscito dal mondo del lavoro a quarant’anni quasi 450 mila euro, per duemila euro si salirebbe a 885.600 euro, per tremila a un milione 328.400 e così via. All’opposto di questa situazione si collocano coloro per i quali la pensione retributiva, calcolata cioè in rapporto allo stipendio, coincide con l’assegno contributivo, vale a dire misurato esclusivamente sui contributi versati. Un punto di equilibrio che nelle proiezioni di Baldassarri calza addosso a pochissimi: almeno 63 anni di età, almeno 43 anni di contributi versati e altri 22 anni di aspettativa di vita. Senza considerare, ovvio, la reversibilità ad eventuali superstiti. I calcoli attuariali del resto sono spietati: riducendo i requisiti anagrafici o i versamenti, il metodo retributivo regala sempre qualcosa. Con questo sistema un lavoratore che si ritirasse a 57 anni con 37 di contributi avrebbe una pensione superiore del 30% a quella contributiva. Un cinquantacinquenne con 35 anni di versamenti, addirittura del 40%. Il che consente di fare anche il ragionamento inverso, e cioè di valutare quanti soldi si dovrebbero rimettere decidendo di andare prima in pensione, come sembrano prevedere alcune proposte in gestazione, ma senza il regalino del metodo e retributivo. A 60 anni e con ben 40 di contributi, il taglio sarebbe del 16,8 % A 58, del 26,9. A 54, del 43,1. «Ad oggi», dice Baldassarri sottolineando che dalla riforma Dini che ha introdotto il metodo di calcolo contributivo sono passati esattamente vent’anni, «oltre il 90% delle pensioni è basato su retribuzioni percepite e meno del 10 % è calcolato sulla base dei contribuiti versati». Non solo. Esistono studi che dimostrano come ancora nel 2050 il 40% degli assegni previdenziali sarà erogato prevalentemente con il metodo retributivo. E questo dà la misura di quella che Baldassarri chiama «una doppia redistribuzione del reddito socialmente perversa: dai giovani agli anziani e dai poveri ai ricchi». I giovani pagano le pensioni agli attuali pensionati e poi, con il metodo contributivo, avranno assegni da fame. E chi ha avuto uno stipendio alto ha oggi una pensione altrettanto elevata senza aver pagato i contributi: un regalo enorme a chi guadagnava tanto, contro un regalino più piccolo a chi guadagnava meno.
Il presidente dell’Inps Boeri: «Serve un contributo dalle pensioni più alte». Boeri interpellato sul dato delle 500 mila persone in pensione da oltre 36 anni: «In passato sono state fatte concessioni eccessive. Sarebbe opportuno chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani», scrive Raffaella Polato, su "Il Corriere della Sera" del 3 aprile 2016. «Il testo deve essere pronto entro l’8 aprile». Cioè entro venerdì prossimo. Che non è solo la data fissata per la presentazione del Def, il Documento economico e finanziario cui sta lavorando il ministero dell’Economia e che, poi, il governo invierà anche all’Unione europea con l’obiettivo di ottenere il via libera alla «flessibilità» chiesta da Matteo Renzi. Su quel fronte, lascia intendere Tommaso Nannicini, l’esecutivo è certo che onorerà le scadenze. Soprattutto, è convinto di aver raggiunto «la quadra» rispetto ai paletti posti da Bruxelles. Anche se nel frattempo lo scenario generale non è migliorato. Al contrario: la «crescita ancora fragile», come la definisce lo stesso sottosegretario alla presidenza del Consiglio, si vedrà togliere qualche altro «zero virgola». Nannicini non ne fa cenno, dal palco di quel Festival Città Impresa che, poco dopo, assisterà a un nuovo «caso pensioni», sorta di duello a distanza tra il presidente dell’Inps Tito Boeri e i ministri presenti a Vicenza: il primo a sollecitare un «contributo di solidarietà», i secondi a bocciare seccamente l’uscita. Anche questo, d’altra parte, ha a che fare con la «crescita ancora fragile». Se il sottosegretario non la quantifica è perché occorrerebbero dei numeri nero su bianco. Numeri che sono però in arrivo. Venerdì, appunto, insieme al Def. Confermato che il governo aggiornerà le stime sul Pil 2016 e confermato, sebbene non ufficialmente, che la revisione sarà forzatamente al ribasso. Forse non seguirà l’entità dei tagli già annunciati da tutti i maggiori centri di ricerca (dall’Ocse in poi le ultime previsioni non vanno oltre il +1%). Di sicuro, però, una crescita dell’1,6% - cui Palazzo Chigi puntava - non è più un obiettivo raggiungibile. È inevitabile che sia questo quadro, a fare da sfondo ai dibattiti conclusivi del Festival Città Impresa. Il primo — cui partecipano Nannicini, Boeri, Francesco Giavazzi e il capo economista di Intesa San Paolo Gregorio De Felice — lo apre Giavazzi e l’esordio scelto basta a sintetizzare il «filo» dell’intera giornata. Oggi che sono certamente fattori esterni e tensioni internazionali, a frenare i nostri tentativi di ripresa, non dobbiamo dimenticare con quale peso ancora ci presentiamo alla sfida. Ovvero, ricorda l’economista: «I 30 punti di competitività persi in 15 anni rispetto alla Germania». È Nannicini a definirla «una zavorra strutturale», che solo «riforme strutturali potranno buttare a mare». Ma è qui anche — sul tema riforme — che «a lato palco» scoppia il nuovo caso pensioni. L’Inps ha appena diffuso un dato che fotografa oggettivamente l’allegro passato per cui oggi paghiamo il conto: quasi mezzo milione di italiani dev’essere stato a suo tempo un baby-pensionato, se è vero che il relativo assegno lo riceve da più di 36 anni. Su questo Boeri riflette e conclude: «Credo sarebbe opportuno chiedere a chi riceve importi elevati un contributo di solidarietà, per facilitare i giovani e la flessibilità in uscita». «Non è all’esame, né tecnico né politico», replica tranchant Nannicini. Seguito a ruota dal titolare del Lavoro, Giuliano Poletti: «Il contributo c’è già. È a scadenza e dovrà essere valutato, ma non è il caso di alimentare dannose incertezze».
Inps, mezzo milione in pensione da oltre 36 anni. Boeri: "Serve contributo da importi elevati". I dati solo sul settore privato non comprendono i baby pensionati del pubblico impiego, usciti dal lavoro prima del '92 con almeno 14 anni di contributi. Baretta "Legge Fornero va difesa" ma bisogna "agire sulla flessibilità in uscita". Così "è impraticabile", scrive il 3 aprile 2016 la Repubblica". In Italia ci sono oltre 474 mila pensioni liquidate prima del 1980, che quindi ricevono la pensione da oltre 36 anni. Il dato emerge dalle tabelle Inps sugli anni di decorrenza delle pensioni sugli assegni di vecchiaia (comprese le anzianità) e ai superstiti del settore privato, esclusi quindi sia gli assegni di invalidità previdenziale, sia quelli agli invalidi civili sia le pensioni sociali oltre naturalmente ai trattamenti degli ex dipendenti pubblici. Un dato subito commentato dal presidente dell'Inps, Tito Boeri: "Siccome son state fatte delle concessioni eccessive in passato e queste concessioni eccessive oggi pesano sulle spalle dei contribuenti - dice a margine del convegno Città Impresa - credo che sarebbe opportuno andare per importi elevati a chiedere un contributo di solidarietà per i più giovani e anche per rendere più facile a livello europeo questa uscita flessibile". Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, esclude però nuovi prelievi: "Il contributo di solidarietà oggi sulle pensioni alte c'è già, è a scadenza, dovrà essere valutato se confermarlo in quella maniera o diversamente, ma non credo che ci sia nulla allo studio. Vedremo cosa fare sulla flessibilità". A Boeri era stato chiesto nel dettaglio se la presenza di una così vasta platea di pensionati di lunga data, non sia il caso anche di andare a rivedere i diritti acquisiti, anche per rendere più sostenibile il sistema pensionistico. "Abbiamo formulato delle proposte molto articolate, che guardano all'età, alla decorrenza della prima pensione - risponde Boeri -. Perché quando si guarda anche agli importi pensionistici bisognerebbe sempre guardare da quanto tempo vengono percepiti questi importi. Possono essere anche importi limitati ma se uno li ha percepiti da quando aveva meno di 40 anni, chiaramente cumulandosi nel tempo vengono a stabilire un trasferimento di ricchezza pensionistica considerevole". Per le pensioni di vecchiaia l'età media alla decorrenza era di 54,9 anni mentre per quella ai superstiti l'età media era di 41,3 anni. In questi dati non sono compresi i baby pensionati del pubblico impiego che sono riusciti a uscire dal lavoro prima del 1992 con almeno 14 anni, sei mesi e un giorno di contributi se donne spostate con figli. L'Inps infatti al momento non diffonde statistiche anche sugli anni di decorrenza delle pensioni del settore pubblico. Guardando solo al settore privato sono in pensione di vecchiaia da oltre 30 anni (pensioni con decorrenza antecedente al 1986) oltre 800 mila persone mentre altri 527 mila assegni sono ai superstiti. Una parte dei trattamenti potrebbe riferirsi alla stessa persona (nel caso abbia già prima di trent'anni fa avuto diritto alla pensione di vecchiaia e essendo anche superstite di assicurato). L'età media alla decorrenza era molto inferiore all'attuale perché ci si ritirava per vecchiaia a 55 anni se donne e a 60 se uomini. Se si guarda solo alle pensioni antecedenti al 1980 (quindi in vigore da almeno 36 anni) erogate per ragioni diverse dalla vecchiaia e dall'essere superstiti, le invalidità previdenziali sono 439.718 (44,5 l'età alla decorrenza) le pensioni sociali 24.308 (33 anni l'età media alla decorrenza) e 96.973 le pensioni agli invalidi civili (23,21 anni l'età alla decorrenza). Nel 2015 le pensioni liquidate per anzianità sono state 238.400 con un età media alla decorrenza di 62,55 anni mentre quelle ai superstiti sono state 173.378 con un'età media alla decorrenza di 73,89 anni. Per quanto riguarda gli importi, dopo le polemiche sull'alto numero di pensionati sotto i 750 euro al mese, quasi 6 su 10, il presidente dell'Inps Boeri invita a "guardare al dato medio per pensionato, e non alla pensione media", perché "la situazione è meno grave di quel che si possa pensare". "C'è stata una informazione errata, bisogna guardare al dato medio per pensionato, non alla pensione media - spiega -. In Italia sono molti i pensionati che percepiscono più di un trattamento, questo non vuol dire che le pensioni non siano basse in Italia, ma la situazione è meno grave di quel che si possa pensare prendendo il dato per pensione singola".
L'ITALIA IPOCRITA DEI GIOCHI D'AZZARDO.
Fortuna e calcolo: l’anniversario della Sisal. Settant’anni di gioco di Stato: dall’1-X-2 al Superenalotto a fare 13 è sempre stato l’Erario. Nel triennio 2015-2017 il Fisco conta di incassare dal settore 35,7 miliardi. Dal primo Totocalcio nel Dopoguerra alla rivoluzione del «sei milionario», com’è cambiata la propensione degli italiani per le scommesse sportive e non E quanto ci ha guadagnato l’Agenzia delle Entrate, scrive Luca Zanini il 27 settembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ci sono due date che segnano profondamente il rapporto degli italiani con il gioco. Un gioco che quando è gestito dalla malavita viene definito «d’azzardo» e quando invece viene organizzato e controllato dallo Stato diventa normale abitudine, uno svago legale. Non solo. Diventa vitale, per le casse dell’amministrazione pubblica. Perché dal gioco, l’Erario ricava oltre 11 miliardi di euro l’anno. Secondo la Legge di stabilità 2016, lo Stato italiano prevede di incassare tra 2015 e 2017, ben 35,7 miliardi di euro dal gioco: le entrate tributarie del settore (nel 2015 circa 11,5 miliardi) dovrebbero salire a 11,902 miliardi nel 2016 e 11,958 miliardi nel 2017. Due date. La prima è il 5 maggio 1946. Come ha ricordato Claudio Colombo sul Corriere della Sera raccontando la storia del «foglietto dei sogni», settant’anni fa nasceva la prima schedina (nella foto sopra al titolo) della Sisal — società fondata nel ‘45 da tre giornalisti, Geo Molo, Fabio Jegher e Massimo Della Pergola —, un modulo da 30 lire a colonna con cui l’Italia cominciò a fare «13» (anzi, all’inizio 12). Il primo montepremi era di 463.146 lire. Una cifra ragguardevole considerato che «un operaio guadagnava 10 mila lire al mese». All’epoca, le donne avevano appena ottenuto il diritto di voto. Sul foglietto dei sogni di quel giorno c’erano i nomi di tante squadre di calcio e «vincere alla Sisal» diventò un modo di dire (per leggere la storia della Sisal, sfiorate l’icona blu). L’altra data è il 3 dicembre 1997 — con un anticipo di sei mesi sulla falsa partenza del Totoscommesse che avrebbe inutilmente tentato di rilanciare il Totocalcio — veniva lanciato il SuperEnalotto, il gioco che sostituendo l’Enalotto avrebbe fatto esplodere la già alta propensione del popolo italico a scommettere sull’azzardo: in questo caso, indovinare sei numeri estratti all’epoca sulle ruote del Lotto di Bari, Firenze, Milano, Roma, Napoli e Palermo. Nell’anno in cui Valentino Rossi correva il suo primo mondiale nella categoria 125, il nuovo gioco era in grado — con un meccanismo di accumulo dei premi non conquistati — di creare fantasmagorici montepremi e di far vincere milioni di euro: il 30 ottobre 2010, un unico vincitore si mise in tasca oltre 168 milioni di euro. Ad inventare il SuperEnalotto era stato Rodolfo Molo, figlio di Geo Molo: l’uomo che aveva ideato e reso possibile il Totocalcio. La parte dello Stato è fondamentale. Sia nella gestione, sia nell’incasso. All’erario, già prima della nascita del Superenalotto, il vero vincitore dei giochi — di qualsiasi genere fossero — era il Fisco. Nel 1985 dalle «tasse sulla fortuna» lo Stato incassava quasi 1.500 miliardi di lire (pari a circa 790 milioni di euro): 945 dal Gioco del Lotto, 430 da Totocalcio e Totip, 15 da scommesse e lotterie varie, 20 da lotterie nazionali, 80 dall’Enalotto, 6 dalle tasse sui concorsi a fini promozionali. Vent’anni dopo, gli introiti dello stato biscazziere — come scriveva Stefano Righi su Corriere Economia (gli abbonati a Corriere+ possono leggere l’articolo nell’Archivio storico, sfiorando l’icona blu) — incassava nel 2007 quasi 7 miliardi di euro su un fatturato di 42 miliardi di euro dell’intero settore Giochi (praticamente la quinta azienda italiana dopo Fita, Telecom, Eni ed Enel). Dunque già dieci anni fa il gioco degli italiani valeva per il bilancio dello Stato circa un quarto della legge Finanziaria (che nel 2007 fu pari a oltre 30 miliardi). Oggi, secondo i dati sulla filiera diffusi nel marzo 2016, il gioco d’azzardo regolamentato muove una raccolta (nel 2015) di 88,5 miliardi di euro, dei quali quasi 8 miliardi vanno all’Erario. Questo per i giochi tradizionali. Ma se si considerano anche i Gratta&vinci e le slot machine, nelle casse dello Stato sono arrivati l’anno scorso 11,5 miliardi di euro (550 milioni in più rispetto al 2014). E, sorpresa, al giocatore va una fetta sempre più ridotta del montepremi. Tanto che appena muta il trend dei giocatori, muta la tassazione. E’ il caso delle slot machine, su cui gravava un «prelievo unico erariale» (applicato sulle somme giocate indipendentemente dalla vincita) tra i 5 e il 13%, a seconda che si trattasse di slot da bar o videolotteries. La finanziaria ha stabilito che dal 2016 venisse applicato un aumento sul prelievo fiscale sulle slot «anche attraverso una riduzione del payout al giocatore», passando a 5,5 e 17,5%. Eppure c’è chi sottolinea che, in generale, mentre tra 2005 e 2014 la raccolta dei giochi di Stato è cresciuta del 191%, le entrate erariali sono aumentate solo del 30%. Finora, comunque, il gioco più redditizio per l’Erario era rimasto proprio il Superenalotto: per ogni euro giocato sulla schedina Sisal lo Stato incassa 53,6 centesimi (ma se si considera l’ammontare delle giocate al netto delle vincite distribuite, il prelievo supera l’82%). Decisamente inferiore il prelievo su Lotto (33,16%) e concorsi a pronostici sportivi (33,84%), Sulle scommesse al totalizzatore l’Erario pretende il 26,75%, sulle Lotterie istantanee il 26,33, sul Bingo il 20% e sulle scommesse ippiche soltanto il 4,53%. Mentre si risale ad un prelievo del 40% nel caso delle Lotterie tradizionali. Il che porta un gettito eccezionale, dati gli 84,5 miliardi di euro spesi nel gioco in Italia nel 2014 (si tratta di, calcolando anche anziani e neonati, circa 1.400 euro a persona), una cifra che pone il Belpaese al primo posto nel mercato del gioco d’azzardo in Europa e al terzo nel mondo. Un giro d’affari che vale più del 5% del Pil. E a dispetto dei detrattori della politica fiscale sui giochi, le entrate erariali relative continuano a crescere: nei primi sette mesi del 2016 sono risultate pari a 8.223 milioni di euro (+1.332 milioni di euro, pari a +19,3%); dei quali 8.014 milioni sono imposte indirette, gettito da lotto, lotterie e altri giochi (+1.307 milioni di euro, pari a +19,5%). Aumentate anche le entrate da «apparecchi e congegni di gioco»: da 2.268 a 3.125 milioni, con un incremento del 37,8%. Una ricerca di Nomisma rivela che in Italia giocano tutti: giovani e giovanissimi (nonostante i divieti esistenti) non sono esenti; giocano il 54% degli studenti tra 14 e 19 anni. E nel complesso nel 2014 sono stati quasi 24 milioni gli italiani che hanno tentato la fortuna almeno una volta; circa un quarto di loro gioca almeno una volta a settimana. Complice anche l’aumentato numero di estrazioni e, da ultimo, il premio al «2», che ha fortemente accresciuto le possibilità di vincita dei giocatori: portare a casa un premio) anche se contenuto) è 15-16 volte più facile. Certo, non cambia il numero di chance che i giocatori hanno di centrare il favoloso «6» (una possibilità su 622 milioni e 614 mila 630 combinazioni) o il «5+1» (una possibilità su un milione 235 mila e 346 combinazioni). Ma poiché il jackpot del SuperEnalotto è quello che fa davvero gola e spinge a giocare più speso, il Gruppo Sisal ha deciso ad inizio anno (leggi l’articolo di Corinna De Cesare, sfiorando l’icona blu) di «aumentare di circa tre volte il valore del jackpot medio, che ora cresce molto più rapidamente». Il tutto è stato finanziato con l’aumento della singola giocata da 0,50 a 1 euro. Il che significa, posto che le giocate non dovrebbero diminuire di molto, un ulteriore aumento degli introiti per l’Erario. E’ chiaro che in una simile situazione, i professionisti delle aziende di gestione dei grandi giochi che hanno saputo rivitalizzare il settore, portando più soldi nelle tasche dei fortunati vincitori ma anche in quelle dello Stato, sia considerati e stimati dal ministero delle Finanze più di un dirigente statale che riuscisse (impresa impossibile) a tagliare del 20 % i costi del suo ufficio aumentandone al contempo la produttività. Ed è per questo che alla festa della Sisal — martedì 27 settembre nel Casino Aurora a Roma — hanno presenziato i vertici della politica economica: dal sottosegretario all’Economia e Finanze, Pier Paolo Baretta, al presidente della Commissione Bilancio del Senato Mauro Del Barba. A fare gli onori di casa l’ex ministro delle Finanze e del Bilancio (governo Dini) Augusto Fantozzi, oggi presidente di Sisal Group, e l’Ad di Sisal Emilio Petrone. E’ toccato a loro ricordare la storia di imprenditori che — ironia della sorte — hanno subito talvolta i rovesci della fortuna, ma non si sono mai arresi. Per chi non lo sapesse, i tre inventori della Sisal, che non avevano registrato il marchio, si videro soffiare il Totocalcio dal Coni nel 1948, ma anziché darsi per vinti inventarono il Totip (giocate sulle corse dei cavalli), poi il superTotip, la Tris... I loro successori idearono il SuperEnalotto e rafforzarono una società che oggi gestisce i giochi pubblici affidati in concessione dallo Stato, grazie a 2 mila dipendenti e oltre 45 mila punti vendita. Per la fortuna — possibile — di chi ama giocare anche solo un euro a settimana e per quella — certa — delle casse dello Stato.
IN QUESTO MONDO DI LADRI.
In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.
Eh, in questo mondo di ladri
C' ancora un gruppo di amici
Che non si arrendono mai.
Eh, in questo mondo di santi
Il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Non siamo molto importanti
Ma puoi venire con noi.
Eh, in questo mondo di debiti
Viviamo solo di scandali
E ci sposiamo le vergini.
Eh, e disprezziamo i politici,
E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,
Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.
Voi, vi divertite con noi
E vi rubate tra voi.
In questo mondo di ladri,
In questo mondo di eroi,
Voi siete molto importanti
Ma questa festa per noi.
Eh, ma questo mondo di santi
Se il nostro cuore rapito
Da mille profeti e da quattro cantanti.
Noi, noi stiamo bene tra noi
E ci fidiamo di noi.
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
In questo mondo... in questo mondo di ladri...
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Per i comuni mortali non c'è limite all'indecenza. A Manduria multa al nipote tra le vigne durante la vendemmia. Più facile che combattere mafia e burocrazia. In una nazione dove tutto va a catafascio, o come dicono alcuni a scatafascio, ossia alla deriva morale e materiale, il sistema di parassiti le pensa tutte per potersi mantenere vessando in tutti modi i cittadini, sudditi di una classe dirigente (politica ed istituzionale) corrotta ed incapace. Classe dirigente che con i media genuflessi alle cricche induce il paese ad essere governato da nani, ballerine ed oggi anche da comici. Questo da aggiungersi al sistema di potere cristallizzato di mafie, lobbies, caste e massonerie. Si sorvola sul fatto che a riformare l’ordinamento forense ci sono gli stessi avvocati in Parlamento a tutela dei loro privilegi ed a chiusura della concorrenza (salvo che per amici e parenti), i medesimi che, oltretutto, sono periodicamente in sciopero per le riforme da loro stessi predisposte. Ma passiamo oltre. In una Italia dove si sottace l’usura e l’estorsione di Stato, ovvero la nomina e la retribuzione amicale dei consulenti dei magistrati. Una nazione, dove il più onesto merita l’Asinara, ci dimostra che né toghe, né divise possono pretendere l’esclusiva della legalità, né possono permettersi il monopolio del parlarne agli studenti in incontri nelle scuole e nei convegni organizzati dalla sinistra. Detto questo, un fatto merita di essere conosciuto.Quando tutto è perduto, e quel tutto ti accorgi di essere vacuo, non rimane altro che tornare a fare i contadini. Ma ecco qui. Ci impediscono anche di fare questo. Si passa oltre sul fatto che il duro lavoro dei nostri antenati di sanificazione dei terreni da sterpaglie e pietre o di bonifica dalle paludi, al fine di renderli terreni fertili da coltivare, sia stato reso vano dall’invasione su quelle stesse terre di pannelli fotovoltaici e del ritorno delle sterpaglie. Truffaldini intenti ambientalisti di falsa tutela della natura, ma che nasconde l’odio verso gli umani od addirittura speculazioni mafiose, ci impongono l’invasione di alternative fonti di energia e ci impediscono di tagliare le sterpaglie, che oggi sono protette. Oggi tu tagli e pulisci le strade o il podere dai rovi? Giù multe perché tagli piante protette. Ed ancora. Da sempre i contadini hanno bruciato nello stesso campo gli avanzi delle potature degli alberi o le foglie cadute. Oggi tu li bruci? Giù multe perché inquini. Ma il colmo di questa Italia e che in campagna non ci puoi più proprio andare, salvo che accompagnato dal commercialista o dal consulente del lavoro, se no giù multe per violazione di norme sul lavoro. “Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna” è il titolo del fatto avvenuto e pubblicato su “La Voce di Manduria”. Un fatto che merita di essere conosciuto in tutta Italia, perché fatti analoghi succedono in tutto il “Mal Paese”, ma nessuno si degna di parlarne. “Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre 2012, ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore, in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.” Il fatto è successo a Manduria, comune sciolto ed in odor di infiltrazione mafiosa. Eppure, quando una denuncia partì da parte mia, anche in occasione di concorsi pubblici truccati svolti in quel comune, i carabinieri delegati alle indagini scrissero nel rapporto che tutto quanto denunciato non era vero, anzi, erano propalazioni del Giangrande ed il magistrato archiviò. Del fatto si occupò la Gazzetta del Sud Africa e il magistrato per ritorsione denunciò a Potenza il Giangrande per diffamazione. I magistrati a Potenza furono pronti ad incriminare. Vuol dire che è più importate multare i campagnoli che lottare contro i mafiosi. In questa Italia c’è solo da vergognarsi di farne parte. Non sanno più da dove prendere i soldi. Se una famiglia ha un piccolo appezzamento di terreno ereditato dagli avi, coltivato ad uliveto o vigneto o altro tipo di coltura, ed il capo famiglia portasse con sé moglie e figli, per raccoglierne i miseri frutti per i bisogni familiari, e vorrebbe farsi aiutare dai parenti il sabato o la domenica per sbrigarsi prima perché affaccendato in altre mansioni durante la settimana? Non può. Deve passare prima dai burocrati che devono stampargli in fronte il timbro della validazione e pagare tributi e contributi. Aprire la partita iva ed assumere i parenti con tanto di sfilza di norme da rispettare. Se non lo fa: giù multe e processi per caporalato. Ma qui ci impediscono addirittura le salutari scampagnate di una volta. Qui più che non ci sono più le tradizioni di una volta, mi sa che non c’è più religione. Ed allora sì che la campagna viene abbandonata, l’unica vera e certa fonte di sostentamento. Che ci invoglino a rubare e finire in carcere? Almeno lì si mangia e si beve a sgrascio…e multe non te ne fanno. Ben venga allora quel sonoro vaff… di quel comico che, a quanto pare, fa ridere meno dei nostri governanti ed aspira a governare un paese abitato da macchiette colluse e codarde.»
L'episodio a Manduria: il quindicenne aveva accompagnato i genitori e lo zio nel podere di famiglia, prima dell'inizio della scuola. "Sfruttamento di lavoro minorile" per gli ispettori di Taranto, scrive “La Repubblica” il 03 novembre 2012. Una multa di 5mila euro per lo zio, una denuncia penale per i genitori. Si è chiusa così la mattinata in campagna di un quindicenne di Manduria. Il ragazzo era nei vigneti dei parenti, con i genitori al suo fianco, per assistere alla vendemmia quando è arrivata un'ispezione dell'ufficio del lavoro provinciale di Taranto. I funzionari non hanno avuto dubbi: quello era un caso di sfruttamento di lavoro minorile. La vicenda è stata raccontata dal giornale La Voce di Manduria. L'episodio risale allo scorso 6 settembre, ma la notizia si è diffusa solo in questi giorni con l'arrivo dell'ingiunzione a pagare. La scuola non era ancora iniziata e il quindicenne ha accompagnato il parente nei poderi di famiglia per assistere al taglio dell'uva. ll padre del ragazzo e suo cugino avevano organizzato un cantiere di vendemmia, assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il padre del ragazzo, oltre alla moglie, impegnata nel lavoro, porta con sé anche il figlio quindicenne. Il ragazzo frequenta il liceo scientifico di Manduria e studia pianoforte da cinque anni al conservatorio Paisiello di Taranto. Al momento dell'arrivo degli ispettori il ragazzo è accanto alla madre ed ha in mano un paio di forbici infortunistiche. Questo basta ai due funzionari per contestare ai suoi familiari il lavoro irregolare e la denuncia di sfruttamento di minore. Lo studente, dal canto suo, ha negato di aver preso parte alla vendemmia. Ma ora della sua posizione dovranno risponderne i suoi parenti.
Vendemmia amara: 5mila euro per aver portato il nipote in campagna, scrive “la Voce di Manduria”. Una multa di cinquemila euro per lo zio e una denuncia penale per i genitori di un quindicenne che prima dell’inizio dell’anno scolastico si era recato nella campagna dei parenti per assistere al taglio dell’uva. Quell’esperienza costerà cara alle due famiglie di agricoltori manduriani che durante la passata vendemmia in uno dei propri poderi hanno avuto la visita degli ispettori dell’Ufficio provinciale del lavoro di Taranto. La sanzione pecuniaria riconosciuta allo zio è per impiego di minore e lavoro irregolare mentre il papà del ragazzo è in attesa di una contestazione di reato penale per sfruttamento di lavoro minorile. L’episodio risale al 6 settembre scorso ma solo ora è stata notificata l’intimazione a pagare. I protagonisti della vicenda sono due cugini manduriani che per la campagna dell’uva avevano organizzato il cantiere di vendemmia assumendo regolarmente cinque operai che impiegavano alternativamente nei rispettivamente vigneti. Il 6 settembre si vendemmia dal cugino e il signor M. oltre alla moglie, componente del nucleo lavorativo familiare, porta con sé anche il figlio P. Il giovane oltre a frequentare lo Scientifico di Manduria, studia pianoforte (quinto anno) presso il conservatorio musicale “Paisiello” di Taranto (scuola privata). P. non ha iniziato ancora le lezioni in quanto le scuole non erano aperte alla data del 6 settembre. Decide allora di assistere alla vendemmia. Si mette affianco alla madre senza prendere parte ai lavori. Lo studente di fatto non vendemmia e questo perché il padre è un agricoltore che rispetta la legge. Quel giorno però arrivano in campagna gli ispettori del lavoro (un uomo e una donna), fanno i dovuti controlli e trovano tutto in regola salvo, per loro, la presenza di P. che viene considerato come un lavoratore in quanto ha in mano delle forbici antinfortunistiche. Il tutto viene contestato dagli ispettori e a domanda al ragazzo se stesse lavorando Piero risponde di no, dice che si trovava affianco alla madre e non su un filare di vite e senza un secchio per la raccolta. A non convincere gli ispettori circa quella casualità è stato l’arnese che aveva tra le mani: le forbici antinfortunistiche che seppure non adatte al taglio dei grappoli sono state comunque considerate come un utensile da lavoro.
Ed ancora....
Invita gli amici alla vendemmia, prende una multa da 19.500 euro per lavoro nero. Doveva essere una festa, si è trasformato in un blitz dell’ispettorato. Il sindaco di Castellinaldo d’alba: «Assurdo, in campagna ci si aiuta da sempre», scrivono Valter Manzone e Marisa Quaglia da Castellinaldo D’Alba (Cuneo) su “La Stampa” il 28 settembre 2015. È finita con una multa di quasi 20 mila euro quella che doveva essere una festa tra le vigne di Castellinaldo d’Alba, in provincia di Cuneo. Come faceva spesso, Battista Battaglino, 63 anni, pensionato, mercoledì ha invitato alcuni amici nella sua casa, in località Granera, nel cuore del Roero. È una bella giornata, i filari del suo piccolo podere, un ettaro di terreno in collina, sono carichi di grappoli, barbera e un po’ di nebbiolo. Così i quattro decidono di aiutare Battista a vendemmiare. Uve che il pensionato utilizza per produrre il vino per sé, quello che consuma in casa e con qualche amico. Il tutto si dovrebbe concludere con una cena in allegria. Ma il finale è ben diverso. Lo racconta Ada Bensa, compagna del pensionato: «Stavamo raccogliendo l’uva, ridendo e prendendoci in giro perché in quelle vigne è anche difficile stare in piedi. Ad un certo punto siamo stati letteralmente circondati da carabinieri e funzionari dell’ispettorato del lavoro. Ci hanno chiesto i documenti e hanno redatto un verbale di denuncia di lavoro nero». La multa per Battista Battaglino è di 19.500 euro, 3900 per ognuno dei 4 amici e del pensionato. La donna è indignata: «È assurdo. Volevamo aiutare Battista e gli abbiamo procurato un danno enorme. In campagna è consuetudine aiutarsi l’un l’altro. Si è sempre fatto, senza il timore di essere catalogati come evasori, o peggio ancora, ritenuti dei caporali che sfruttano le persone facendole lavorare in nero». Ada Bensa scrive anche a «Specchio dei Tempi» per denunciare quello che per tutti, cittadini e viticoltori, è una vera ingiustizia. «Battista coltiva da solo quel pezzo di terra, è in pensione e ci passa il suo tempo - dicono gli amici -. Quando l’uva è matura ci chiede di aiutarlo. Bisogna fare in fretta, altrimenti i grappoli marciscono e lui non potrà fare il suo buon vino. Per quello eravamo lì, come facevamo da anni, a turno non sempre tutti, a seconda dei nostri impegni». L’indignazione è quella dell’intero territorio. Il sindaco di Castellinaldo, Giovanni Molino è amareggiato: «Non siamo un paese in cui vige il caporalato. Qui la gente si aiuta, si spacca la schiena tra le vigne, su queste colline. È assurdo che un uomo come Battista, che manda avanti questi pochi filari da solo, con grande sacrificio, venga additato come evasore. Sono terreni che erano già del padre, vigne che avranno 70-80 anni. Lui le cura tutto l’anno ancora con metodi vecchi, quelli di una volta. Non ha neanche i mezzi più moderni per coltivare e raccogliere, tutto viene fatto a mano. È pazzesco che debba pagare una multa del genere». Battista è ancora amareggiato e non ha molto da dire su quanto successo: «Lascerò andare tutto, abbandonando le vigne perché non merita lavorare tanto per poi avere questi bei risultati. L’unica cosa che potevo dare a questi amici era una cena per ringraziarli. Purtroppo non abbiamo neanche fatto quella». Il sindaco lancia una proposta: «Ho intenzione, a novembre, di invitare questi funzionari del lavoro a una riunione con tutti coloro che coltivano un pezzo di terra, dalle grandi aziende di questo territorio ai piccoli agricoltori. Voglio che ci spieghino cosa dobbiamo fare per lavorare senza la paura di dover pagare multe». Mercoledì Battaglino e i suoi amici saranno a Cuneo, convocati dall’Ispettorato del Lavoro. Ribadiranno la loro posizione. «Speriamo sia usato un po’ di buon senso» conclude Ada Bensa.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Quando non vogliamo onorare i nostri debiti presentiamo una denuncia per usura contro il nostro creditore se siamo singoli; votiamo a maggioranza un referendum quando siamo una collettività.
C’è chi pensa che l’euro è la causa di tutti i mali…Ma non è solo una moneta? Malevolo è chi si richiama alla moneta per creare sfascio. I Grillini, i leghisti, i comunisti ed i fascisti tutti nel calderone. Perché tutti gli sfascisti non dicono che se un buon padre di famiglia si fa bastare una certa somma di denaro per i bisogni familiari, mentre chi ruba, spreca e spande quella somma non la fa bastare, la colpa non è della moneta che ha in tasca?
Nel momento del soddisfacimento egoistico dei propri bisogni si diventa tutti comunisti: esproprio proletario della proprietà altrui. Tutti con la Grecia, insomma.
Anche noi avevamo le pensioni baby o le pensioni d’oro o l’iva agevolata che si pagavano con l’enorme debito pubblico. Anche noi avevamo una caterva di dipendenti pubblici inetti ed incapaci che, spesso, andavano in pensione con meno di 20 anni di contributi. Quindi i nostri privilegi li pagavano gli altri paesi. Poi abbiamo posto rimedio, diventando buoni padri di famiglia ed entrando nell'euro. Con l’entrata dell’euro chi si strappa oggi i capelli ha permesso la vendita dei prodotti e dei servizi allo stesso valore convertito. Un kg di mele prima 1000 lire, il giorno dopo 1 euro: colpa della moneta?
Se il debito è rimasto ed è intervenuta la crisi non è colpa della moneta ma dei governanti incapaci e ladri di tutti i partiti e di tutti quelli che li hanno votati.
Perché la Germania, pur accorpandosi la Germania dell’est, non ha sofferto la transizione?
Perché noi non possiamo essere come loro, invece di pensare sempre di fottere il prossimo o di essere incapaci di difendere i nostri diritti?
Anche il Portogallo e poi la Spagna e la stessa Italia ha sofferto un periodo nero. Oggi ci troviamo a pagare 100 volte più di 20 anni fa ed ad avere 100 volte meno in termini di servizi. E’ colpa della moneta o di chi ci ha governato e pretende di rigovernarci?
Oggi i greci hanno i privilegi che noi avevamo, ma non ci vogliono rinunciare. Pretendono che quei privilegi siano pagati con i soldi di tutti gli altri cittadini europei, compresi gli italiani che a quei privilegi hanno già rinunciato.
L’Euro è una moneta, l’unione europea è un sistema burocratico parassitario, quindi tutt’altra cosa. Il malgoverno italiano è altra cosa ancora.
Per molti è comodo diventare comunisti, specie nelle sale da barba e nei bar, ma alla fine si diventa solo degli stronzi parassiti. Più stronzi parassiti i governati che i governanti.
Ed appunto la Grecia al referendum del 5 luglio 2015 ha detto oki (no) alla trattativa dei creditori con il 61,3% (3.558.450) a fronte del nai (sì) con il 38,7% (2.245.537). Da tener conto che solo il 65% dei circa 9,8 milioni aventi diritto ha votato.
"Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.
Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo.
Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.
Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa.
E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla.
Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia.
Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore.
Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così. Pericle - Discorso agli Ateniesi, 431 a.C. Tratto da Tucidide, Storie, II, 34-36. Inizialmente era stata indicata la data del 461 a.C., riportata da diverse fonti, ma in realtà il discorso, secondo Tucidide, è stato pronunciato all'inizio della Guerra del Peloponneso (431 a.C. - 404 a.C.).
Invece a Milano fanno così…
La rivolta contro le tasse che insanguinò Milano. Giuseppe Prina era l'uomo di Bonaparte. Portò allo stremo la città e nel 1814 la pagò cara Anche oggi i balzelli possono passare il limite. E la storia ci dice che si rischia grosso, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Il finale è atroce. Perché quando la rabbia del popolo è stata a lungo compressa e, poi, si scatena su una singola persona l'efferatezza è praticamente inevitabile. E quindi in questa faccenda forse è giusto partire proprio dal finale. Nell'aprile del 1814 era ormai chiaro che il regime napoleonico volgeva al tramonto. Se ne stavano rendendo conto anche a Milano, capitale dell'effimero Regno Italico nato all'ombra dell'aquila imperiale. Tutti, dai filofrancesi ai filoaustriaci, si mobilitarono per trovare un nuovo assetto. Magari (utopia!) indipendente. I filofrancesi, capeggiati da Francesco Melzi d'Eril, avrebbero voluto affidare il regno a Eugenio di Beauharnais e convocarono una riunione del Senato per il 20 aprile. In quella mattina piovosa, fuori dal palazzo del Senato, che allora si affacciava sui navigli, si radunò una folla inferocita che brandiva gli ombrelli come fossero mazze. C'erano ombrelli di seta, di nobili e borghesi, e ombrelli di molto più vile cotone, agitati dal popolo minuto, artigiani e operai angariati dalle tasse. Fu subito chiaro che tirava una brutta aria. La riunione venne sospesa. Di restare nell'orbita francese non si parlò più. Nel frattempo la folla penetrò in Senato, devastando l'aula. I senatori si diedero alla fuga in carrozza. Stando ben attenti a non mostrarsi ai finestrini, soprattutto i più vicini alla Francia. Ma alla fine il popolo aveva già identificato un bersaglio univoco: il ministro Giuseppe Prina, responsabile del dicastero delle finanze. In Senato non c'era. Puntarono allora a casa sua. Casa in cui pensavano di trovare enormi ricchezze trafugate. L'unica spiegazione che potevano darsi per imposte, come quelle sulla carta bollata, che avevano messo in ginocchio l'economia dei territori italiani satelliti della Francia. Arrivarono a palazzo Sannazzari, in piazza San Fedele, dove Prina risiedeva, e diedero l'assalto. Devastarono stanza per stanza senza trovarlo, levarono addirittura le tegole dal tetto nella foga di scovare lui o almeno il maltolto (se c'era, non era a palazzo). Poi, in una soffitta, finalmente qualcuno gridò «è trovato, è trovato». Lo estrassero dall'interno della cappa fumaria del camino nel quale si era nascosto, travestito da prete. Cento mani gli strappano l'abito talare, cento mani lo percuotono, lo trascinano, lo gettano da una finestra dei piani inferiori. Per la strada è sottoposto a una tempesta di colpi d'ombrello. Qualcuno è mosso a pietà, interviene, lo strappa alla folla inferocita che lo ha già trascinato sino in via Case Rotte. Un coraggioso vinaio (a Milano i vinai erano uomini d'ordine e spesso facevano parte delle varie guardie civiche, in cambio di qualche esenzione dal dazio) lo accoglie nella sua casa-bottega. Non basta a calmare gli animi, c'è chi minaccia di incendiare la bottega. Da dentro cedono, la porta si apre, trovano Prina seminascosto dietro un tino. «Subito ebbe fracassata la testa, vuotata un'occhiaia, sfiancate le reni, finché spirò». Poi il corpo viene trascinato per ore per le strade verso il Cordusio. Qualcuno gli ficca in bocca un pezzo di carta: «Toh, mangia la carta bollata con cui ci hai succhiato il sangue». Fu uno spettacolo terrificante a cui assistette in prima persona anche il giovane Alessandro Manzoni, allora ventinovenne. Secondo la moglie, per lungo tempo gli provocò orribili sogni. Di certo ispirò la sua descrizione dei tumulti contro il vicario di Provvisione nei Promessi sposi. Ma non solo letteratura, ancora oggi a Milano «fare la fine del Prina» è un'espressione idiomatica che indica cose poco carine. Ma, al di là della pietà umana che resta verso il piemontese trasferito a Milano - e che a Napoleone avevano presentato così: «Ingegno prontissimo, vista estesa, moltissimi lumi teorici e pratici, caratterialmente deciso e superiormente fatto per governare subalterni...» -, che cosa si può imparare da questa vicenda? Probabilmente che esiste una soglia di tassazione oltre la quale anche il popolo più mite si trasforma in belva. Sul tema fa un'analisi serratissima e documentatissima Romano Bracalini in Prina deve Morire. Milano 1814. La prima rivolta antitasse in Italia (Libreria San Giorgio, pagg. 86, euro 12). Il saggio illustra bene sogni e speranze che le armate repubblicane fecero sorgere in Italia al loro arrivo. Liberté , Égalité , Fraternité erano temi che gli italiani capivano bene, almeno quel pezzo di società che aveva subito l'influenza del pensiero dei lumi. Ma ci volle poco a far sì che quelle speranze mutassero in disaffezione prima e in rabbia poi. Dove mettevano piede le armate francesi il saccheggio era garantito. Le richieste economiche erano sempre esorbitanti; se sotto l'Austria mancava la libertà, sotto la Francia iniziò a mancare il pane. Il solo Napoleone, una volta instaurato il regno, si riservava sei milioni di lire d'appannaggio. Il vicerè, Eugenio di Beauharnais, mise in piedi una corte fastosissima. Ma già prima la situazione era diventata molto pesante. In sei anni, dal 1796 al 1802, la tassazione, come spiega Bracalini, era passata dal 28 al 48 per cento. Il 10 settembre 1802, poi, Prina introduceva anche la sua sopracitata «tassa sul bollo della carta». Praticamente gravava su qualsiasi tipo di atto e di scrittura professionale. «Colpiva soprattutto il ceto medio produttivo». Nel 1803 il costo dell'armata francese pagato dagli italiani era salito a 25.458.750 lire, mentre l'esercito italiano costava solo 3.900.000 lire. Insomma, il rischio default, come si direbbe oggi, era alle porte. E in più gli italiani avevano chiaro che stavano andando in bancarotta per pagare guerre altrui. Dovevano ammetterlo anche pubblici ufficiali filo-francesi come Melzi d'Eril: «Ossia è una verità incontestabile che le somme versate dall'Italia alle diverse armate francesi sono state più che doppie dei loro reali e veri bisogni». Idee sintetizzate in maniera mirabile da un paio di versi di una canzoncina molto popolare ai tempi di Carlo Porta: «Liberté, égalité, fraternité,/ I fransé in carozza, i milanes a pè». Anche il certamente fedele Melzi d'Eril era arrivato a segnalare direttamente a Napoleone che gli italiani accettavano di buon grado il passaggio da repubblica a monarchia, ma che avrebbero voluto funzionari italiani e la cessazione dei sussidi forzosi per l'armata francese, «non avendo ancora sentito il vantaggio della loro emancipazione che per un aumento d'imposte». Abbastanza per mandare l'Imperatore su tutte le furie: «E non è giusto che gli italiani paghino almeno in parte l'esercito che versa il sangue per loro?». Una risposta che non teneva conto di tutti gli italiani finiti nelle fosse di mezza Europa combattendo sotto le sue bandiere. Di tutto questo non si avvide o non volle avvedersi Prina. Puntuale, precisissimo, di lui si diceva che si facesse stirare anche le mutande, non oppose mai un rifiuto a Parigi. Anzi... Di certo in piena crisi dell'economia lombarda i ministri avevano pensato bene di aumentare il loro trattamento da 25mila a 50mila lire e lui quanto meno lasciò fare. Lo stesso con la corte vicereale. Né si pose mai il dubbio che le sue lussuose ville aumentavano il pubblico odio. Per il resto era un uomo che sulla finanza aveva anche idee innovative. Fu lui a istituire il Monte Napoleone facendone un istituto finanziario qualificato anche all'emissione di «buoni del Tesoro», per quei tempi una novità assoluta. Parte di quei soldi che dragava finivano nelle sue tasche? Difficile dirlo. Era stato accusato di aver manomesso i libri contabili anche anni prima, quando era al servizio del Re di Sardegna. Ma almeno in quel caso nessuno poté provarlo. I milanesi non si presero il lusso di un processo. Si limitarono a dare corpo a quello che già avevano minacciato con le scritte sui muri: «Prina, Prina, il giorno si avvicina». E del resto esistono anche colpe politiche. Non capire quando una tassazione si trasforma in un capestro lo è. E Prina riuscì a causare la prima vera (e per ora ultima) rivolta fiscale italiana finita nel sangue di un ministro (di norma finiscono nel sangue dei tassati). Ma molti politici e storici di lui preferiscono non ricordarsi. O far finta che tutto sia avvenuto solo per colpa del popolo impazzito. Milano gli ha anche dedicato una via “riparatrice”. Ma i cittadini del 1814 avrebbero da ridire.
In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere, perché è più comodo, un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?».
E sempre pronti a cambiar padrone…
Vi siete mai domandati perché nell’aprile 1945 il vertice del Pci decise di appendere a Piazzale Loreto i cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di qualche gerarca della Repubblica sociale? Scrive Giampaolo Pansa per "Libero Quotidiano". Con il trascorrere degli anni, ne sono passati ben settanta, gli storici e i politici hanno offerto molte spiegazioni di quella scelta barbara che qualche leader della Resistenza, come Ferruccio Parri, il numero uno del Partito d’Azione, definì come un esempio ributtante di «macelleria messicana». Ma tutte le ipotesi sono, o sembrano, aperte e spesso in contraddizione. Credo che esista un’unica certezza. La decisione venne presa da Luigi Longo e da Pietro Secchia, i comandanti delle Brigate Garibaldi nell’Italia da liberare. Dopo aver interpellato il leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, ancora fermo a Roma. Ma perché la presero? Gli storici propendono per un’ipotesi: era l’unico modo per dare sfogo alla rabbia di una parte dei milanesi che voleva vedere il Duce accoppato e appeso come una bestia da squartare. Uno spettacolo che serviva anche a spargere il terrore tra i fascisti repubblicani ancora in libertà. Tuttavia in questi giorni emerge un’altra spiegazione, assai bizzarra. La propone un giornalista che cerca di farsi strada nel terreno impervio della guerra civile. È Aldo Cazzullo che l’ha presentata nella propria rubrica su Sette, il periodico del Corriere della Sera. La sua tesi è la seguente. Nell’Italia del 1945 non c’era la televisione. Per far sapere che il Duce era morto, non esisteva altro modo che mostrarlo appeso ai rottami del distributore di Piazzale Loreto. Conosco bene Cazzullo. È un bravo giornalista, sempre attratto dalla storia contemporanea. Era accanto a me a Reggio Emilia nell’ottobre del 2006 quando venni aggredito da una squadra arrivata da Roma su mandato di Rifondazione comunista per impedire un dibattito su un mio libro revisionista. Il comportamento di Aldo fu esemplare. Invece di scappare dall’Hotel Astoria come fece qualcuno, se ne rimase lì tranquillo, aspettando che la buriana finisse. Subito dopo cominciammo a discutere. Adesso ha pubblicato con Rizzoli una storia della Resistenza. Il suo lavoro dovrebbe dimostrare che la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre. Allo stesso modo sappiamo che l’attore principale della nostra guerra civile fu il Pci, grazie alle bande Garibaldi, le più numerose, le meglio armate e le più combattive. È curioso che a ricordarlo sia proprio il sottoscritto, autore di un libro come Il sangue dei vinti. Quel lavoro rivelava la sanguinaria resa dei conti sui fascisti sconfitti. Attuata dopo il 25 aprile 1945 quasi sempre dai partigiani rossi. Il sangue dei vinti venne messo all’indice da tutta la pubblicistica di sinistra. Si disse persino che l’avevo scritto per ingraziarmi Silvio Berlusconi. In compenso il Cavaliere mi avrebbe fatto ottenere la direzione del Corriere della Sera! L’insieme delle vendette ebbe come spettatori entusiasti, e talvolta come esecutori, anche tanti italiani che per vent’anni erano stati fascisti e avevano applaudito i discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Ecco un’altra verità che non amiamo ricordare. Non piace neanche a Cazzullo. Lui arriva a definirla «la solita tiritera». Ma non è così. La grande folla accorsa a piazzale Loreto, per sputare sui cadaveri di Mussolini e della Petacci, nei venti mesi della guerra civile si era ben guardata dall’uscire di casa. Osservata con uno sguardo neutrale, la Resistenza fu una guerra condotta da un’esigua minoranza di italiani che si opposero a un’altra minoranza anch’essa esigua, quella dei fascisti decisi a combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Questi potevano contare sul sostegno determinante dell’esercito tedesco. Mentre i partigiani avevano soltanto l’appoggio cauto degli angloamericani che risalivano la penisola con grande lentezza. Negli anni successivi al 1945, il Pci seppe sfruttare con accortezza il proprio predominio sul fronte antifascista. «La Resistenza è rossa» divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile. In due parole descrivevano una realtà. Certo, a resistere c’erano anche militari, sacerdoti, suore, internati in Germania, partigiani cattolici e monarchici. Ma la massa critica, diremmo oggi, era costituita dalle Garibaldi. Le bande del Pci erano le uniche ad avere una strategia a lungo termine: quella di iniziare un secondo tempo destinato alla conquista del potere. E fare dell’Italia un satellite di Mosca. I comunisti furono anche gli unici a giovarsi subito di una storiografia di parte. Basta ricordare Un popolo alla macchia, il libro firmato da Longo, ma scritto su commissione da un altro autore. E la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, corretto in più parti dallo stesso Longo. Insieme a questi interventi di marketing, ci fu la conquista dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, che vide l’espulsione dei cattolici e dei capi del Partito d’Azione, primo fra tutti Parri. Oggi, nell’anno di grazia 2015, si scopre che soltanto una minuscola pattuglia dei maturandi, appena il 2,5 per cento, sceglie il tema sulla Resistenza. Perché stupirsene? La crisi della memoria resistenziale è in atto da molto tempo, strozzata dalla retorica, da un’infinita serie di menzogne e dall’opportunismo cinico delle sinistre. Ed è diventata il sintomo più evidente della crisi culturale di quel mondo. Esiste un succedersi implacabile di stagioni politiche. Per prima c’è stata la fase staliniana. Poi quella togliattiana. Quindi la berlingueriana. Chi ha visto l’ultima puntata di Michele Santoro dalla piazza di Firenze, si è reso conto che Enrico Berlinguer viene ancora ritenuto un santo da venerare. Infine il caos legato alla dissoluzione dell’Unione sovietica ha prodotto la svolta di Achille Occhetto e la scomparsa formale del Pci. La mazzata decisiva è venuta nel 1992 da Tangentopoli. Una parte della sinistra, quella di Bettino Craxi, è morta. Mentre i resti del Partitone rosso si sono dispersi in tante piccole parrocchie. Adesso, nel giugno 2015, la crisi culturale è diventata identitaria. Racchiusa in una domanda: chi è di sinistra oggi in Italia? Certo, esiste il Partito democratico, ma è un’accozzaglia di politici, di programmi, di stili di vita e di idee, tutti avvolti in una nebbia che impedisce definizioni credibili. Secondo un intellettuale dem come Fabrizio Barca, autore di un’analisi che ha richiesto mesi di indagini, il Pd è anche un partito zeppo di robaccia criminale. Non mancano i militanti e i dirigenti onesti. Però l’insieme ricorda la folla di Piazzale Loreto che osserva con gli occhi sbarrati non il cadavere di un dittatore, bensì quello di una storia politica. Durata per decenni, ma oggi finita per sempre. Per ultimo ecco l’enigma di Matteo Renzi, il premier di un’Italia che, nel mondo globalizzato del Duemila, non sa più dove dirigersi. Il Chiacchierone di Palazzo Chigi è di sinistra, di destra, di centro o un renzista autoritario e clientelare? Per ritornare a Cazzullo che osserva Piazzale Loreto, oggi la televisione esiste. Ma è in grado soltanto di diffondere ansia, incertezze e non poca paura.
L'EQUIVOCO E L'ABBAGLIO SULLA EVASIONE FISCALE.
L’eterno equivoco sull’evasione scrive Carlo Lottieri il 2 gennaio 2016. La classe politica è determinata a difendere lo status quo e tenere in vita un disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo. Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella conferma quanto sia difficile, per la classe politica italiana, capire le reali condizioni della società. Non è sorprendente che gli uomini politici difendano in tutti i modi le prerogative del potere sovrano, ma certo stupisce il constatare quanto essi poco comprendano le sofferenze dei produttori e le devastazioni causate dalla regolazione, dalla tassazione e dai monopoli pubblici (si pensi, in particolare, al crollo del sistema pensionistico). Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. Nel suo intervento Mattarella ha nuovamente messo sotto processo l’evasione fiscale, da lui considerata responsabile della bassa crescita. Ovviamente le cose non stanno così, dato che al contrario è semmai l’ipertassazione a distruggere la possibilità per gli italiani di avere un futuro. L’Italia non è in crisi perché gli italiani versano poche tasse, ma semmai perché lo Stato sottrae troppa ricchezza a quanti la producono. Alcuni decenni fa, quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese. È insomma falso sostenere che l’evasione danneggi la comunità nazionale, anche se certamente danneggia taluni privilegi di casta. Ma quanti sono nei palazzi romani al governo o in altre posizioni non intendono le ragioni di chi si ribella e ignorano le sofferenze all’origine di questa rivolta silenziosa e sotto traccia. Perché chi veramente ci sta negando la possibilità di avere un futuro è il ceto politico, che ha creato un terribile intreccio di ingiusti meccanismi redistributivi i quali sono l’esatta negazione di ogni ordinamento liberale. Continuare a ripetere che le tasse sarebbero più basse se tutti le pagassero significa non considerare la tendenza naturale degli uomini di potere ad allargare sempre più il proprio controllo della società. Significa fingere di non sapere che esistono uomini che comandano e altri che obbediscono, uomini che legiferano e altri che devono abbassare la testa. Nel discorso del presidente c’è insomma una visione angelicata della politica: l’idea che i professionisti del governo lavorino per noi. Essi ci tolgono ricchezza, ma per aiutare la società a farla crescere. Ed è di un certo rilievo anche l’accenno alla tesi del tutto falsa, affermata in questi anni da Thomas Piketty, secondo cui le diseguaglianze indebolirebbero l’economia. Per Mattarella i guai sono causati insomma dai ricchi, e non già dalla casta politica; e quindi bisogna far leva sull’invidia sociale, in modo tale che la gente confidi nel potere e si pieghi alla sua volontà. La classe politica italiana non è liberale e forse non lo è mai stata. Le parole del presidente ci dicono pure quanto essa sia determinata a difendere lo status quo e tenere in vita quel disastro basato su alta tassazione e spesa fuori controllo che sta lanciandoci verso il precipizio. Carlo Lottieri. (Da istituto Bruno Leoni).
Presidente Mattarella, si fidi: azzerando l’evasione le tasse non sarebbero più basse, scrive Giovanni Masini il 4 gennaio 2016. Ci è cascato anche il Presidente della Repubblica: secondo il capo dello Stato estirpando la piaga del sommerso il Paese tornerà a crescere. Ma i dati su lotta all’evasione e pressione fiscale dicono esattamente il contrario. “Ad ostacolare la crescita è l’evasione. Secondo Confindustria l’evasione fiscale contributiva nel 2015 ammonta a 122 miliardi: 7,5 punti di Pil. Lo stesso studio calcola che dimezzando evasione si guadagnerebbero oltre trecentomila posti di lavoro. Gli evasori danneggiano la comunità nazionale e i cittadini onesti. Le tasse sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero.” Con queste parole il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto, nel messaggio di fine anno, affrontare la questione dell’evasione fiscale. Parole che asseverano uno dei più consolidati luoghi comuni in materia: quello secondo cui tutti gli evasori sarebbero dei ladri e per cui riducendo il tasso di evasione calerebbe automaticamente anche il prelievo fiscale. Rincresce criticare il Capo dello Stato già al primo dei messaggi per Capodanno, ma il passaggio sull’evasione lascia scoraggiati anche i più speranzosi. Ai sensi dell’articolo 87 della Carta Costituzionale, il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità della Nazione – non dello Stato: sorprende quindi che Mattarella si limiti ad attaccare chi evade le tasse senza citare minimamente le pretese assurde di un Fisco esoso che è espressione, tra l’altro, di uno Stato spesso debitore nei confronti dei cittadini e promotore di bizantinismi legislativi e burocratici. L’argomentazione sottesa alle parole di Mattarella, evidentemente, non è economica ma etica. Se tutti facessero il proprio dovere, intendeva dire il Capo dello Stato, le cose andrebbero meglio. Peccato che abbia detto tutt’altro, azzardando peraltro teorie economiche che sono finite sotto attacco da più punti. Responsabile della mancata crescita del Paese, scrive Carlo Lottieri sul Giornale, non è solo e non è tanto l’evasione fiscale ma anzi l’ipertassazione di chi produce ricchezza e se la vede portare via dallo Stato. “Alcuni decenni fa – spiega Lottieri – quando il peso del fisco era ben inferiore, Milton Friedman rilevò che le condizioni dell’economia italiana sarebbero assai peggiori se tutti avessero pagato il dovuto e, di conseguenza, se il ceto politico-burocratico avesse sottratto ancora più risorse a famiglie e imprese.” In un Paese in cui la spesa pubblica è fuori controllo, la difesa d’ufficio dello Stato nasconde una visione utopistica – la stessa che peraltro è implicita nello studio della Confindustria. Il giorno successivo al discorso di Mattarella, il vicepresidente degli industriali Andrea Bolla ammetteva che i calcoli su un eventuale incremento del Pil sono stati effettuati sulla base dell’ipotesi – tutta da verificare – “che tutto il nero recuperato diventi minor prelievo fiscale”. Quante possibilità ci sono che questa ipotesi si realizzi i lettori possono facilmente immaginarlo. Se non vi riescono, possiamo provare ad aiutarli con alcuni dati. La predica del “se tutti pagassero tutte le tasse, tutti pagheremmo meno” non è un’esclusiva di Mattarella: la aveva già utilizzata a scopi propagandistici anche Matteo Renzi. Ebbene, già nei mesi scorsi gli osservatori più attenti avevano fatto notare al presidente del Consiglio che negli ultimi anni, a fronte di un aumento delle entrate derivanti dal contrasto all’evasione il tasso della pressione fiscale continua a crescere, mostrando poca o nessuna correlazione con la percentuale di evasione. Se nel 2006, quando è stato inaugurato il sistema di misurazione basato sugli incassi, erano stati riscossi 4,3 miliardi di euro, nel 2013 si poteva contare su un’evasione recuperata di 13,1. La domanda è quindi spontanea, scriveva già a settembre Federico Cartelli su Qelsi: dove sono finiti tutti quei soldi? Nel taglio della spesa pubblica, che sarebbe l’unica misura efficace per ridurre la pressione fiscale, non di certo, come Capire davvero la crisi vi ha già dimostrato. Nel frattempo, il taglio delle tasse (si veda quello in programma per la prima casa nella Legge di Stabilità 2016) viene fatto a deficit. Troppo spesso, infatti, la classe politica italiana (anche se non sarebbe giusto attribuire questa responsabilità a Mattarella in persona, che è anzitutto uomo di legge) preferisce gonfiare a dismisura la spesa pubblica pur di estendere la base del consenso, sia pure a spesa delle generazioni future che vengono oberate dal peso del debito. Questo non toglie, naturalmente, che l’evasione fiscale – come anche il preoccupante deficit di etica pubblica – costituisca un problema serio che merita ogni attenzione. Tuttavia, in quel messaggio di fine anno così conciso, gli italiani alle cui “speranze e preoccupazioni” il Presidente della Repubblica ha detto di volersi rivolgere, si sarebbero aspettati di sentire, da parte di Mattarella, anche una parola sui doveri e sugli impegni che quello Stato di cui è capo troppo spesso non riesce – o non vuole – mantenere.
MATTARELLA AMA LE VOSTRE TASSE, LUI E LA CASTA VIVONO DI QUELLE. “L’evasione viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà”. Pochi giorni fa è andato in onda, a reti unificate, il primo discorso di fine anno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, scrive Matteo Orsini. Tra i temi di cui si è occupato, grande rilievo è stato dato all’evasione fiscale. Mattarella ha citato una recente pubblicazione del centro studi di Confindustria, secondo il quale l’evasione ammonterebbe a 122 miliardi, ossia 7.5 punti di Pil. Secondo il CsC, se l’evasione fosse dimezzata il Pil ne trarrebbe grande beneficio, così come l’occupazione. Quello che Mattarella non ha riportato è l’ipotesi su cui si basa la stima del CsC: che l’evasione recuperata si traduca in altrettante riduzioni di tasse. Non mi interessa approfondire la questione dei calcoli fatti dal CsC, anche se nei casi in cui l’evasione sia “di sopravvivenza” (ossia in quei casi nei quali se l’imprenditore pagasse tutto quanto richiesto dallo Stato dovrebbe chiudere i battenti), mi risulta difficile supporre che la sua eliminazione porterebbe benefici netti in termini di Pil e occupazione. Credo sia invece interessante sottolineare l’ipotesi da “Alice nel paese delle meraviglie” alla base delle stime del CsC: ossia che il gettito recuperato da evasione si tradurrebbe magicamente in una riduzione del carico fiscale. Capisco che queste storie le raccontino i governanti (lo stesso Mattarella lo ha detto nel corso del suo messaggio), ma la loro credibilità è pari a zero. D’altra parte, nel fondo per la riduzione delle tasse al quale destinare i denari recuperati dall’evasione fiscale, pur essendo previsto da anni, non è mai entrato neppure un euro. Serve una grande ingenuità per credere che si sia trattato solo di sfortunate circostanze. Ciò detto, secondo Mattarella l’evasione fiscale “viola il patto sociale”. Peccato che il patto sociale in questione sia una finzione giuridica e che nessun cittadino abbia avuto la possibilità di aderirvi volontariamente. Secondo Mattarella l’evasione “peggiora il rapporto tra cittadini e Stato”. Indubbiamente fornisce meno linfa allo Stato, ma mi permetto di supporre che i cittadini, per lo meno quelli che non campano di tasse altrui, non abbiano un rapporto così sereno con lo Stato per via delle tasse, non per via dell’evasione. Infine, secondo Mattarella l’evasione “riduce la solidarietà”. Niente affatto: l’evasione riduce semmai la solidarietà coatta, che non ha nulla a che vedere con la solidarietà autentica, la quale può derivare solo da azioni volontarie. Dal Quirinale, già nei giorni precedenti il messaggio di fine anno, era stato comunicato ai mezzi di informazione che il presidente si sarebbe occupato dei problemi più sentiti dalla gente. Ebbene: che l’evasione sia un problema per i parassiti che campano di tasse altrui è abbastanza credibile, ma che lo sia per tutti quanti direi proprio di no.
L'Evasione Fiscale e la cantonata del Presidente Mattarella sulle tasse, scrive Giuseppe Timpone il 5 Gennaio 2016 su “Investire Oggi”. L'evasione fiscale è realmente il male dell'Italia? Il discorso di fine anno del presidente Sergio Mattarella farebbe propendere per il sì, ma i dati dimostrerebbero altro. Nel suo discorso di fine anno, il presidente Sergio Mattarella ha citato l'evasione fiscale tra i mali, che frenerebbero la crescita dell'economia italiana, riferendosi a uno studio pubblicato da Confindustria, secondo cui l'economia sommersa sottrarrebbe alle casse dello stato 122 miliardi di euro all'anno, pari al 7,5% del pil. Nell'interpretazione del capo dello stato, se tutti pagassero le tasse, pagheremmo di meno. Non solo: sempre citando lo studio di Viale dell'Astronomia, ha affermato che l'evasione fiscale farebbe venire meno 300 mila posti di lavoro. Ora, fatto salvo che pagare le tasse è un obbligo previsto dalle leggi e, in quanto tale, deve essere rispettato e sanzionata la mancata osservanza, ci concentreremo qui su un piano diverso da quello giuridico, ossia economico. L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, era solito dire che quando a non pagare le tasse è un'ampia fetta della popolazione, il fenomeno non è più penale, bensì sociale. Il senso di questa affermazione ce la spiega forse meglio una battuta dell'economista Milton Friedman, padre del monetarismo, che negli anni Ottanta definì "giusta" l'evasione fiscale in Italia, in quanto reazione dei contribuenti all'inefficienza dei loro malgoverni. Ma già alcuni decenni prima era stato un italiano e, addirittura, un futuro capo dello stato, Luigi Einaudi, a "benedire" il mancato pagamento delle tasse da parte di molti italiani, considerandolo una reazione alla cattiva gestione della spesa pubblica.
Italiani pagano già troppe tasse. Diremmo che sull'evasione fiscale si giochi un dibattito a distanza di 70 anni tra Einaudi e Mattarella, il primo seguace del pensiero liberale, il secondo evidentemente no. L'impostazione dell'attuale capo dello stato è quella che va per la maggiore tra i media e il ceto politico italiano, che ci ripetono a ogni piè sospinto che gli italiani avrebbero il vizio di non pagare le tasse, caricando la pressione fiscale su quelli più onesti. Si tratta di un'affermazione, sconfessata dai dati. I contribuenti del Bel Paese sono da anni proprio i più tartassati d'Europa e al mondo. Secondo l'ultimo rapporto annuale della Banca Mondiale, realizzato in collaborazione con Pwc, l'Italia si colloca al 137-esimo posto su 189 paesi al mondo per convenienza fiscale riguardo alle imprese. La tassazione complessiva, gravante sui loro redditi, è pari al 64,8%, quando la media mondiale è del 40,8%, attestandosi al primo posto in Europa. E non solo il Fisco italiano è più sanguinario, ma anche più farraginoso. Servono 269 adempimenti all'anno per essere in regola in Italia, contro una media mondiale di 261 e di 173 in Europa. La pressione fiscale generale si attesta nel nostro paese sopra al 43% contro una media di circa il 40% nella UE. Ma le distanze con il resto d'Europa aumenterebbero vertiginosamente, se si considerasse solo l'economia ufficiale e non quella sommersa: a quel punto, l'incidenza delle tasse sui redditi schizzerebbe al 52,2%, 2 punti in più che in Danimarca.
Pagare tutti per pagare meno, ma è vero? Ora, i sostenitori del "pagare tutti per pagare meno" potrebbero ribattere che se almeno parte dei 122 miliardi sottratti ogni anno al Fisco fosse recuperata, si avrebbero maggiori risorse con le quali abbattere le tasse per tutti. Ma ci credete davvero? Un altro politico ed economista, Renato Brunetta, ha dichiarato in più di un'occasione che sarebbe un'evidenza in Italia che lo stato più incassa e più spende. Il problema non evidenziato dal presidente Mattarella e che pochi giornalisti, economisti e politici sottolineano nel nostro paese ruota tutto intorno a questo punto: sarebbe realmente in grado lo stato italiano di limitare la spesa pubblica, nel caso in cui aumentassero le entrate? Ovvero, immaginiamo che magicamente nessuno evadesse più le tasse. Il Tesoro registrerebbe a fine anno incassi per 122 miliardi in più. Ciò annullerebbe il deficit e porterebbe i conti pubblici in attivo di quasi il 5% del pil. Ebbene, credete per caso che il governo (quale che sia) sarà in grado di resistere alle sirene di quanti chiederanno più investimenti nelle infrastrutture, aumenti degli stipendi pubblici, crescita della spesa sanitaria, per la scuola, etc.? Alla fine, è probabile che al capitolo della riduzione delle tasse andrebbero spiccioli, mentre la gran parte del maggiore gettito sarebbe destinata a finanziare voci di spesa. Saremmo punto e a capo.
Evasione fiscale è voto di sfiducia degli italiani verso i politici. Non ultimo, resta da affrontare un argomento spinosissimo per i politici, ma centrale nel dibattito: l'evasione fiscale è un voto di sfiducia dei contribuenti verso i loro rappresentanti. Quando una larga fetta della popolazione non paga le tasse, non può il solo malcostume spiegare le ragioni di questo comportamento di massa. E' noto, ad esempio, come l'evasione sia più alta al Sud che al Nord, a conferma finanche del disgusto che i cittadini meridionali nutrono nei confronti delle classi politiche locali, non certo un baluardo dell'efficienza amministrativa. Ai contribuenti, in uno stato di diritto, non può essere chiesto di pagare le tasse, in quanto dovere in sé, ma in cambio dell'erogazione di servizi. E' proprio questo legame flebile tra tasse e servizi a rendere l'evasione fiscale in Italia così accettabile e non riprovevole per la stragrande maggioranza degli italiani, la quale è consapevole che un euro in più pagato allo stato non equivarrebbe automaticamente a un euro in più in servizi diretti o indiretti alla cittadinanza. Infine, siamo così sicuri che un tasso inferiore di evasione fiscale creerebbe nell'immediato più ricchezza? E' evidente che non tutta l'economia sommersa potrebbe emergere e tradursi in economia ufficiale. Un artigiano, magari pensionato, che trascorre ancora qualche ora al giorno presso la sua attività a costruire sedie per arrotondare a fine mese, se fosse costretto a pagare le tasse, quasi certamente rinuncerebbe anche solo ad alzarsi la mattina per andare a lavorare. Risultato: lo stato non incasserebbe ugualmente un euro in più, mentre in circolazione ci sarebbe un po' di reddito in meno, con il quale si alimentano i consumi, sui quali si pagano le imposte.
Meno evasione, più crescita? Altro che stimolo per l'economia. Se l'evasione fosse contrastata in maniera draconiana, si rischierebbe un tracollo dei consumi e della produzione. D'altronde, i dati ci segnalano negli ultimi anni che la "ferocia" mostrata dall'Agenzia delle Entrate con l'arrivo al governo dei tecnici nel 2012 si è accompagnata a una contrazione del pil, oltre che a un aumento paradossale della stessa evasione fiscale. Non è forse anche per questo che il limite all'uso del contante è stato alzato dal governo Renzi da 1.000 a 3.000 euro? Sarebbe meglio che il capitolo dell'evasione fiscale fosse affrontato con una visione più ampia di quella tipicamente ristretta e ipocrita del politico. Il presidente Mattarella voleva richiamare al vincolo di solidarietà, che lega o dovrebbe legare tutti gli italiani. E' stato un discorso alto, sincero, umano, diretto. Solo su questo tema, forse, non ineccepibile.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
PIETRO INGRAO COMPIE 100 ANNI, PRIMA FASCISTA POI COMUNISTA, LA BOLDRINI LO INDICA COME UN ESEMPIO DI COERENZA DEMOCRATICA. Scrive il 31 marzo 2015 “Lecce Cronaca”. Auguri a Pietro Ingrao che compie 100 anni. Uno dei più longevi uomini politici italiani. Nato della provincia di Latina da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Di lui si sa quasi tutto, è noto per essere stato all’interno del PCI uno dei compagni più duri. Ha ricoperto diversi e prestigiosi incarichi sia nel Partito comunista che nel Parlamento italiano. Quel che invece non viene detto, per ovvi motivi, e che da giovane, nonostante le tradizioni antifasciste della sua famiglia, aderì con entusiasmo al Fascismo. Tanto è vero che il secondo premio di poesia ai littoriali della cultura dell’anno XIII° và ad un ventenne del GUF di Roma, Pietro Ingrao, per la poesia STAGIONE, il testo viene pubblicato dal giornale di Telesio Interlandi “Quadrivio”. Il 16 settembre 1934 vince, ai bagni di Lucca, il premio di G. Ciano “I poeti del tempo di Mussolini”. Il 28 aprile 1935 partecipa ai Littoriali del 1935 con il GUF di Littoria, in qualità di fiduciario del GUF di Formia. Risulta 10°, dopo Luigi Longo, al Convegno di Organizzazione Politica del Partito Nazional Fascista, del 1935. Come scrive lo storico Aldo Giannuli sul suo blog: “Eterno secondo ai littoriali fascisti della cultura, Pietro Ingrao appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e che scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si tratta di un tema a lungo eluso, direi esorcizzato, dal Pci, come da tutti i partiti antifascisti, che avevano nel proprio seno, chi più chi meno, uomini passati per il medesimo cammino. E se ne comprende il motivo: il bisogno di presentare la nuova classe politica repubblicana in totale rottura con il passato fascista, reagendo con gelido disprezzo alla pubblicistica fascista (ad esempio “Italia fascista in piedi!” di Nino Tripodi) che sottintendeva, invece, conversioni opportunistiche all’antifascismo. Questo portava alla rimozione del tema ed all’enfatizzazione dell’antifascismo come negazione assoluta ed incontaminata del fascismo. In realtà le cose non stavano così (ne riparleremo) e il fascismo seminò concetti, che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana. La cosa non deve né stupire né scandalizzare (come invece accade ad una recente pubblicistica, cito per tutti il lavoro di Mirella Serri “I Redenti” che pure si basa su un’ottima ricerca d’archivio): la storia ha i suoi tornanti e le culture politiche sono corsi d’acqua che spesso si contaminano, magari attraverso passaggi carsici.” Ma leggiamo ancora sul blog aldogiannuli.it. “Ingrao, in particolare, fu influenzato dalla figura e dal pensiero di Giuseppe Bottai, il maggior intellettuale del regime (Fascista) ed, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni: dalle sue riviste presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post fascista ed antifascista, come Salvatore Quasimodo, Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Luigi Salvatorelli, Giorgio Spini, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale e decine di altri. E diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza. Quella di Bottai fu una sorta di serra degli eretici, della quale, eretico egli stesso, si compiacque. E proprio questo tratto di dirigente politico-intellettuale con vocazione all’eterodossia fu, forse inconsapevolmente, quello che affascinò il giovane Ingrao. Ad avvicinare queste due figure inconsuete del Novecento italiano, non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza (per la verità, più spiccata nel secondo che nel primo), una certa sofisticatezza intellettuale, l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca. Ma da questi stessi tratti discesero per entrambi anche il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio.” Insomma Pietro Ingrao fu tante cose prima Fascista poi Comunista, essere definito, come ha fatto la Boldrini, “un esempio di coerenza democratica”, forse non sarebbe piaciuto neanche a lui. Auguri a questo anziano politico del passato millennio.
Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.
Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.
«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.
Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?
Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".
La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:
a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?
b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.
c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.
d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!
e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".
«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».
Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?
«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».
Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.
«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».
Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?
«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».
È una manovra politica?
«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».
D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.
«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».
E il paragrafo su Libera?
«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».
Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?
«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».
Cosa chiedete nell’interpellanza?
«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».
Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?
«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».
Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?
«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».
I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».
Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".
Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».
Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.
Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.
Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».
A quale sistema fa riferimento?
«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».
Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».
DAL 1986 SALVATORE SANFILIPPO È PRESIDENTE DELL’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE, DOVE, DAL 1987, COME GIUDICE A LATERE C’È LA DOTT.SSA SAGUTO. I suoi guai cominciano quando viene arrestato Antonino Lo Giudice, di Partinico, per sofisticazione vinicola: costui si rivolge ad Antonino Blogna, addetto alla scorta del giudice, e a Francesco Paolo Sammarco, un poliziotto, per avere un contatto con lui ed avere segnalato il nome di un avvocato difensore, scrive “TeleJato”. Il poliziotto chiede un compenso di 40 litri d’olio, che, dalle ricostruzioni giornalistiche pare abbia chiesto per sé, mentre altri sostengono sia stato ricevuto dal giudice. Il giudice non sa di avere il telefono sotto controllo: scoppia un caso di abuso d’ufficio: Sanfilippo si difende dicendo che Lo Giudice era già stato da lui condannato a due anni di sorveglianza speciale e cinque milioni di contravvenzione, con revoca della patente, ma il CSM non vuole saperne e dispone prima il trasferimento d’ufficio di Sanfilippo per incompatibilità ambientale (aprile ’92) ad altra sede con motivazioni del tipo “ha perso di credibilità e prestigio, decoro e fiducia nell’attuale sede”, e poi malgrado la conclusione della vicenda con l’amnistia, si arriva addirittura destituzione dall’ordine giudiziario. La persecuzione continua pochi anni dopo prima con una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per fatti avvenuti durante la sua presidenza alle misure di prevenzione ancorchè nella sentenza si legga che “il contributo realmente dato…dal Sanfilippo sia stato di poco conto” ma l’accusa “è confermata da testi di sicura attendibilità in primo luogo la dott.ssa SAGUTO”, conclusasi con una pena concordata; ancora con una richiesta da parte della procura di Palermo per sottoporre il Sanfilippo a misura di prevenzione patrimoniale ed infine con la richiesta di confisca del patrimonio ritenuta infondata per ben due volte dalla Corte d’Appello di Caltanissetta perché la Procura NON HA FORNITO “la prova della riconducibilità del patrimonio esaminato alle attività illecite dell’imputato” ed infine rigettato anche dalla Corte di Cassazione (in quest’ultima fase difeso dalla figlia Valeria, avvocato). Infine l’accusa di riciclaggio, mossa dal pool di Palermo, a firma Dario Scaletta, Calogero Ferrara e Ambrogio Cartosio, nei riguardi della moglie e della figlia che si risolve in un’assoluzione per non aver commesso il fatto nel marzo 2010: accusa sostenuta attraverso una consulenza tecnica a firma del dott. Salvatore Cincimino smentita punto per punto attraverso la consulenza tecnica di parte. La figlia, già titolare di uno studio legale, ha dedicato la sua vita a restituire onorabilità al nome del padre, da poco scomparso, anche se tutte le disavventure giudiziarie, legate a un bidone d’olio mai ricevuto, le hanno causato un danno di oltre 100 mila euro. La vicenda è da leggere nel clima di caccia alle streghe determinatosi nella Procura di Palermo dopo la morte di Falcone e Borsellino e nelle lotte all’interno della Procura, tra i vari magistrati. Particolare non indifferente: la Saguto, dopo il trasferimento di Sanfilippo, rimane nel collegio dell’Ufficio Misure di prevenzione, ma la sua testimonianza è determinante nel processo contro Sanfilippo sostenendo che non si interessava del suo ruolo e che riceveva nel suo ufficio strani individui… (Il pentito Vincenzo Scarantino, smentito in vari processi per la sua inattendibilità).
"Ufficio di collocamento beni sequestrati". La Saguto e le intercettazioni dello scandalo, scrive Martedì 20 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Secondo i finanzieri, l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe segnalato amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. "Io ti devo chiedere il favore per il prefetto". Ultimo giorno dello scorso mese di agosto. Poco dopo la undici e trenta Silvana Saguto contatta al telefono una dipendente che al Palazzo di Giustizia di Palermo fa il funzionario giudiziario. “... era per vedere cose nuove... volevo parlarti un minuto... - dice il magistrato - intanto cominciamo con tuo figlio sicuramente”. L'ufficio dell'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale è imbottito di microspie. Le hanno piazzate gli investigatori della Polizia tributaria su delega della Procura di Caltanissetta. I finanzieri scrivono nelle informative: “Gli approfondimenti investigativi hanno fatto emergere che Silvana Saguto segnala persone da contrattualizzare (amici, conoscenti, personali o di suoi familiari) ad alcuni amministratori giudiziari”. Insomma, saremmo di fronte ad una sorta di ufficio di collocamento con i nominativi delle persone da assumere suggeriti dal magistrato a capo, fino ad un mese e mezzo fa, del collegio che sequestra i beni alla mafia e nomina gli amministratori giudiziari. Suggerimenti che non sappiamo se abbiano fatto in tempo ad accogliere, visto che le conversazioni sono state intercettate in prossimità delle perquisizioni e dei sequestri che hanno fatto esplodere lo scandalo. Il lavoro degli investigatori, però, guarda indietro nel tempo per scovare assunzioni sospette avvenute in precedenza. L'ufficio del magistrato era tappa obbligata per gli amministratori giudiziari, le cui voci sono rimaste impresse nei nastri magnetici che raccontano il "pressing" del magistrato. Quarantasette minuti dopo le undici dello stesso giorno di fine agosto nella stanza dell'allora presidente entra l'avvocato Aulo Gigante. La richiesta della Saguto è diretta e svelerebbe un intreccio di posizioni di lavoro: “... senti qua per Vincenzo avremmo trovato probabilmente un posto adesso, nell'amministrazione Virga dove lui può essere preso intero, però c'è una persona che io voglio presa in cambio... il figlio di... la conosci... il cancelliere... questo ha esperienza... ha fatto fallimenti”. Ecco la richiesta di piazzare il figlio del funzionario giudiziario. Gigante prende tempo: “... il problema è che siamo in grosse difficoltà... mi devi dare tempo sino a dicembre, a dicembre io so se siamo vivi o morti”. Saguto: “... ma temporaneo non lo potresti prendere?... Se io non trovo di meglio subito lo prendiamo temporaneo al posto di Vincenzo appena Vincenzo lo mettiamo... incomprensibile... è bravo, ha fatto fallimenti come curatore”. Gigante torna a parlare delle sorti della catena di negozi di abbigliamento, tirando in ballo i vecchi proprietari alla cui gestione, almeno così sembrerebbe dalle sue parole, farebbe risalire lo stato di crisi aziendale: “... ci salviamo riducendo i costi, malgrado Massimo Niceta... vabbè comunque organizziamoci... lo facciamo”. Il 2 settembre successivo la Saguto contatta la funzionaria giudiziaria: “... dovremmo fare con tuo figlio, lo mettiamo da Niceta... in un posto che si libera... contabilità... quello che la faceva era un ragazzo che conoscevo pure io che non è diplomato ragioniere, quindi deve essere una contabilità all'ingrosso, diciamo... se dovesse andare male Niceta, proviamo altri posti... per tuo fratello ho parlato con Provenzano, il professore... ”. Tre giorni prima, il 28 agosto 2015, la Saguto chiede ad un altro amministratore, Alessandro Scimeca: “… allora io ti devo chiedere il favore per il prefetto... quello là (incomprensibile) assumere, devi trovare...”. “Silvana è improponibile... - Scimeca prova a resistere alle richieste - io faccio tutto quello che vuoi... ma come ti aiuto?... Io al prefetto l'aiuto pure, ma non con quella mansione, ma non con quella qualifica”. Saguto: “Io posso vedere anche in altri posti ma lui cosa sa fare, niente”. Nella stessa giornata la cimici captano la conversazione fra la Saguto e il titolare di un noto ristorante-sala ricevimenti in provincia di Palermo dove andrà a lavorare il figlio del magistrato, Elio, di professione chef. Quest'ultimo, a giudicare dalle parole della madre, non è rimasto molto contento della proposta economica. L'imprenditore tranquillizza la madre: “Credo che si può superare tutto”. All'indomani le cose si mettono a posto: “Sono contentissima io ed è contentissimo pure Elio”. “Hanno trovato l'intesa completa”, dice l'imprenditore. Ed è sempre il futuro di un altro figlio, Emanuele, che sta a cuore al magistrato. Al padre Vittorio dice “che per ora è tranquillo, dal primo ottobre il professore (Carmelo Provenzano, ndr) dice che qualche cosa gliela troverà da fare... intanto vuole fare sto concorso per commissario... poi vuole fare un corso in criminologia... io intanto lo scrivo per l'abilitazione di avvocato”. Provenzano, docente universitario ad Enna, secondo l'ipotesi della Procura di Caltanissetta, sarebbe stato inserito dalla Saguto fra gli amministratori giudiziari in cambio dell'aiuto al figlio, sia negli studi che nel mondo del lavoro.
L’inchiesta sui beni confiscati e le difficoltà economiche di casa Saguto, scrive “Palermo Blog Sicilia” il 19 ottobre 2015. Emergono poco alla volta le intercettazioni telefoniche ed ambientali in possesso alla procura di Caltanissetta che hanno convinto i magistrati nisseni a notificare l’avviso di garanzia correlato di perquisizione al collega Silvana Saguto ex Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Intercettazioni che lasciano sorpresi nelle quali il magistrato parla al telefono con l’avvocato Cappellano Seminara delle difficoltà economiche della sua famiglia. Ci sono riferimento a carte di credito in scadenza da 10 mila euro, al rischio di aver tagliata la luce per insolvenza a trance di pagamenti da 8800 euro. Insomma richiesta di aiuto economico rivolte dal magistrato all’avvocato che di per se non dimostrano la corruzione ma che vengono considerate interessanti dagli investigatori che ricostruiscono l’apparato accusatorio piuttosto pesante sulla base delle trascrizioni delle intercettazioni della Guardia di Finanza. Per parte suo il magistrato ha sempre ammesso le difficoltà economiche ma derubricandole a normali difficoltà comuni a ogni famiglia. Le telefonate non sono sempre comprensibili, come riporta oggi il Giornale di Sicilia in edicola, e sono riportate più volte omissioni per incomprensibilità di alcuni passaggi quando i due abbassano la voce durante la conversazione. C’è di tutto in queste intercettazioni, ivi compresi i riferimenti a Walter Virga figlio di Tommaso Virga all’epoca dei fatto membro del Csm. Walter è un giovane avvocato amministratore giudiziario di Bagagli e del gruppo Rappa ma di lui. Nello studio di Virga lavora anche la fidanzata del figlio della Saguto poi messa alla porta forze a causa dell’inchiesta. Di questa vicenda la Saguto e cappellano Seminara parlerebbero in una intercettazione, sempre secondo quanto riportato dal giornale. ‘Walter Virga è un ragazzino, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento’ sarebbe la frase intercettata che la Saguto rivolgerebbe a Cappellano Seminara l’8 giugno scorso. Uno spaccato tutto da interpretare ma che supporterebbe le accuse secondo la procura di Caltanissetta e che gli indagati dovranno spiegare in maniera compiuta.
Gite al mare, profumi e servizio taxi. La blindata tuttofare di Silvana Saguto, scrive Lunedì 19 Ottobre 2015 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: "Impiego della scorta per fini non istituzionali". Le intercettazione dell'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale. Più che una scorta era un servizio taxi. Gli uomini a bordo della blindata andavano in giro per la città a soddisfare le richieste di Silvana Saguto, ex presidente della Sezione misure di prevenzione finita sotto inchiesta della Procura di Caltanissetta. I finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo dedicano un capitolo delle indagini al tema: “Impiego della scorta per fini non istituzionali”. La mattina del 28 agosto scorso il magistrato spiega al figlio Emanuele che “ho mandato i miei (personale della scorta, ndr) a prendere tutte cose (materiale sanitario per suturare una ferita, ndr) alla clinica Zancla”. Sempre lo stesso giorno la Saguto contatta un agente della scorta invitandolo a comprare “il dopo sole” per portarglielo a casa. Tre giorni dopo l'ex presidente chiama Mariangela Pantò, fidanzata del figlio, per chiederle se all'indomani le va di trascorrere una giornata al mare: “Ti faccio prendere dalla scorta quando viene a prendere a me”. All'indomani, davanti all'abitazione della Pantò si appostano i finanzieri. La donna viene prelevata nella zona di corso Calatafimi e accompagnata a casa Saguto. Pochi minuti dopo escono assieme dall'abitazione del giudice, salgono a bordo della Bmw serie 5 blindata per dirigersi verso via Marchese di Villabianca. Il 2 settembre la storia si ripete. “Stanno venendo a prenderti, ti portano a casa - dice la Saguto alla Pantò - perché a me mi arrivò una direttissima... tu comincia ad andare a casa, se del caso mangiate e poi io arrivo”. L'ultimo episodio contestato dai finanzieri risale al 3 settembre scorso. La Saguto chiama un uomo della scorta: “Potete venire, però dovete passare dalla profumeria e prendermi i dischetti levatrucco, quelli grandi”. In profumeria la scorta ci passa davvero. C'è un problema, però: "Sta controllando meglio ma molto probabilmente non ci sono quelli grandi, ci sono quelli piccoli”.
Pino Maniaci: “La dottoressa Saguto? E' potente perché tiene in pugno personaggi importanti”, scrive Giulio Ambrosetti su "La Voce di New York" del 19 ottobre 2015. Dopo le nuove rivelazioni sulla gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo - una specie di stillicidio che coinvolge istituzioni e personaggi che rappresentano le stesse istituzioni giudiziarie - siamo tornati a chiedere ‘lumi’ a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato che ha fatto esplodere questo caso. Con lui affrontiamo tanti temi: a cominciare dal ruolo delle ‘holding’ dell’antimafia, Libera e Addiopizzo. Piano piano, al ritmo di uno stillicidio, vengono fuori le rivelazioni sul ‘caso’ della Sezione delle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Il riferimento è, per lo più, all’ex presidente, Silvana Saguto, e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. E’ già venuta fuori la storia di un debito della famiglia della dottoressa con un supermercato sequestrato alla mafia (debito che è stato in parte pagato). Quindi la storia del tonno sequestrato poi utilizzato per una cena. E oggi il Giornale di Sicilia pubblica un articolo con ampi stralci delle intercettazioni tra la dottoressa Saguto e l’avvocato cappellano Seminara. Articolo che lascia basiti per il tono e per gli argomenti. Tra questi, l’ex presidente della Sezione di misure di prevenzione che dice di non avere soldi per pagare l’energia elettrica. E i rapporti con la “Calcestruzzi”. Confessiamo di essere rimasti di stucco nel leggere l’articolo del Giornale di Sicilia. Così, ancora una volta, siamo andati a chiedere lumi a Pino Maniaci, il direttore di TeleJato, il giornalista che ha fatto scoppiare questo putiferio.
“Certo - ci dice - ho letto l’articolo. E mi pongo e pongo subito una domanda: quando si parla della Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere del Tribunale di Palermo, amministrata almeno dodici aziende di calcestruzzo. Detto questo, oltre che da quanto comincia a emergere dalla intercettazioni, io sono sbalordito dalle dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dalla stessa dottoressa Saguto”.
Ovvero?
“Guardi, la dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera, Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire, le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”.
Parliamo un po’ di Libera e di Addiopizzo?
“Qui entriamo in un campo molto particolare. Cominciamo col dire che sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Anche se ci sono aspetti che a me sembrano poco chiari. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta cinque-sei Euro; un vasetto di caponata cinque Euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Soprattutto alle famiglie indigenti. Invece avviene il contrario. Sull’argomento ho chiesto un parere a Don Ciotti. Ma non ho mai ricevuto risposta. Poi c’è, in prospettiva, la questione legata ai sequestri”.
Cioè?
“Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento nazionale deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Mattello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”.
Questo è un tema che voi di TeleJato avete sollevato con forza, non senza buone ragioni: tante imprese sequestrate vengono svuotate e poi riconsegnate semi fallite ai legittimi proprietari.
“Appunto. Anche grazie a questo metodo è stata distrutta buona parte dell’economia di Palermo e della sua provincia. Sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”.
A questo punto cogliamo l’occasione per invitare questi imprenditori a raccontarci le loro storie. Detto questo, passiamo all’avvocato Cappellano Seminara, che a quanto pare è e rimane un intoccabile.
“Proprio così, un intoccabile. Infatti fino ad oggi ha mantenuto tutti gli incarichi. E passa addirittura all’attacco. Un qualunque altro cittadino, al suo posto, sarebbe già in galera con i beni sequestrati”.
Sarebbe una nemesi: il gestore dei beni sequestrati che subisce un sequestro.
“Sarebbe un fatto di giustizia”.
Tornando all’avvocato Cappellano Seminara, la dottoressa Saguto ha detto che la Sezione gli ha assegnato solo otto incarichi.
“Non è affatto così. Nello studio dell’avvocato Cappellano Seminare operano trentacinque avvocati. Sono gli avvocati che noi di TeleJato abbiamo definito i quotini. Questi legali gestiscono tantissimi beni a Palermo e in provincia. Altro che solo otto incarichi!”.
A suo giudizio come si sta comportando in questa storia il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM)?
“Da quello che leggo e sento il comportamento del CSM risulterebbe un po’ ambiguo. Sembra che proponga ai magistrati coinvolti in questa storia di chiedere il trasferimento. Così ha detto la stessa dottoressa Saguto. Anche tale aspetto a me sembra devastante”.
Qualche magistrato ha parlato del pericolo di delegittimare la magistratura.
“Ho letto, in questo senso, dichiarazioni in generale. Non mi sembra che sia questo il problema. Anzi i magistrati hanno tutto l’interesse a chiarire i fatti. E poi, diciamolo con chiarezza: chi è che verrebbe delegittimato dalla richiesta di chiarezza in materia di gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia? La dottoressa Saguto? Io invece penso sempre al sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Che avrebbero pensato di tutta questa incredibile storia?”.
In questi giorni avete sollevato anche il caso dell’impresa Niceta. E’ vero che chiuderà i battenti?
“Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa cinquanta dipendenti. E ne hanno assunto ventiquattro. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici dei solito giro. L’ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare la testa lasciando il corpo non serve a nulla, perché tutto rimane come prima. Faccio un esempio concreto: a che serve mandare via Virga se poi i coadiutori nominati dallo stesso Virga restano?”.
Ma secondo lei chi c’è dietro questa storia? A parte gli avvocati, non ha parlato e non parla nessuno. A cominciare dall’Ordine dei commercialisti. E tutti restano sostanzialmente al proprio posto.
“Quello che posso dire è che dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti. E questo a me sembra un fatto gravissimo”.
Negozi Niceta: si chiude, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 15 ottobre 2015. LO AVEVAMO ANTICIPATO GIÀ DA ALCUNI MESI E ADESSO È DEFINITIVO: TUTTI I NEGOZI NICETA, DA PARTINICO, A CARINI, A PALERMO, AD AGRIGENTO, HANNO CHIUSO O STANNO PER FARLO, A CAUSA DELL’INCAPACITÀ GESTIONALE DIMOSTRATA DELL’AMMINISTRATORE GIUDIZIARIO AULO GIGANTI, UNO DEI “QUOTINI” DI CAPPELLANO SEMINARA AL QUALE È STATA AFFIDATA L’AZIENDA MESSA SOTTO SEQUESTRO PERCHÉ NEL PUNTO VENDITA DI CASTELVETRANO LAVORAVANO DUE NIPOTI DI MATTEO MESSINA DENARO. In poco più di un anno questo signore è stato capace di mandare a casa 45 lavoratori, di cui siamo in grado di fare nomi e cognomi: aveva anche fatto una lettera di licenziamento ad altri otto, avendo già deciso la chiusura dei residui punti vendita dei centri commerciali La Torre e Forum, ma improvvisamente, non si sa per quale folgorazione, ha deciso di ritirare i licenziamenti, di tenere ancora aperti i due punti, forse in attesa della prossima udienza fissata il 20.10, durante la quale di dovrebbe decidere definitivamente se continuare l’amministrazione giudiziaria del nulla o se restituire ai proprietari le briciole di un impero. Quello che più incuriosisce è che sono stati licenziati 54 lavoratori, ma ne sono stati assunti 27: anche di essi potremmo fare nomi e cognomi e sappiamo per certo che tra di essi ci sono due amici di un figlio della Saguto, uno è stato raccomandato da un giudice, uno dice che gli hanno rubato il furgone della ditta, mentre era in trasferta, due sono stati individuati come persone che attingevano a piene mani dalla cassa del punto vendita di Castelvetrano, una non si è mai vista. Insomma una bella lista di persone che hanno sostituito lavoratori ai quali, oggi, come da essi ultimamente denunciato, è stato anche negato il pagamento del TFR. E andiamo ad altro: Non è stato fatto ancora l’inventario dei beni, dei quali avrebbe dovuto occuparsi un perito, un certo Ferrara: adesso non si sa cosa dovrebbe inventariare, dal momento che è tutto scomparso, pure le attrezzature comprate in leasing. Non è stata pagata la retribuzione di sei mesi di lavoro al sig. Niceta che nei primi mesi ha mandato regolarmente avanti il negozio, fino a quando non gli è stato proibito di mettervi piede. L’amministratore giudiziario si è visto più o meno un’ora a settimana, ma ha incamerato profitti impressionanti, per sè e per i suoi collaboratori inutili, negando però che le cifre comparse su un noto quotidiano siano reali. E adesso siamo alla fine. Dopo aver cambiato tutti gli avvocati, dimostratisi incapaci di difendere i loro interessi, i Niceta hanno presentato una memoria al giudice delle misure di prevenzione e aspettano una risposta per il prossimo 29 ottobre.
Gli ex dipendenti Niceta scrivono a Pino Maniaci, scrive "Telejato" il 10 ottobre 2015.
GENTILISSIMO DIRETTORE, Chi parla è un gruppo di ex dipendenti Niceta, come ben sapete la situazione che avevamo predetto lo scorso inverno non solo si è avverata ma è anche peggiorata. Tanti di noi hanno perso il lavoro per dare posto a nuove assunzioni “Parentopoli” ed altri semplicemente sono stati mandati a casa. Nessuno di noi ha percepito né le ultime mensilità lavorative né tantomeno il TFR e per di più siamo venuti a conoscenza che sono stati saldati affitti arretrati di esercizi commerciali chiusi. Molti di noi hanno sottoscritto una scrittura privata dove l’amministratore avv. Gabriele Aulo Gigante si impegnava a rateizzare i TFR per non gravare copiosamente sulle spese aziendali, ma ovviamente questo impegno non è stato portato a termine. Ci chiediamo inoltre: è legittimo per un amministratore giudiziario vendere dei beni di un’azienda sotto sequestro preventivo? E se così fosse, a che scopo? Non dovrebbero essere i dipendenti i primi ad essere liquidati? I pochi ex dipendenti che hanno provato a sollecitare gli importi spettanti, come risposta dall’illustre amministratore Gigante, hanno avuto: “Neanche so se domani continueremo ad amministrare questa azienda visto il casino che sta succedendo!!!!! Perché dovremmo uscire questi soldi in un momento così difficile?” Di chi dovremmo fidarci? Dopo anni di sacrifici ci vediamo togliere sia il nostro diritto al lavoro sia tutto ciò che ci spetta. Abbiamo appena appreso dal vostro TG che la “Povera, Ladra, Dottoressa Silvana Saguto” è a casa in malattia per una depressione… Ci viene spontaneo chiederci, unni sui nostri piccioli (dove sono i nostri soldi)? Non dovremmo essere noi ad avere la depressione? Essendo molto dispiaciuti per la Dottoressa, Le auguriamo una pronta guarigione e di poter ritornare al lavoro presto, però con una nuova mansione, lavare fino all’età pensionabile le scale del tribunale di Palermo e non sarebbe neanche degna di fare questo essendo un lavoro onesto. Per lei, carissimo Seminara, non ci sono parole… ma la cosa che ci fa più ribrezzo è di dover pensare: possibile che non ci siano giudici non corrotti in grado di prendere in mano, in modo dignitoso e leale, questa grave situazione per ripristinare la giustizia? Quella giustizia che qualsiasi comune mortale avrebbe già pagato. Ma Seminara no… lui non si tocca. Quali valori ha e continua a insegnare ai suoi figli? Noi siamo persone oneste, non auguriamo nulla di brutto, ma dato che alla Saguto abbiamo augurato di lavare le scale del tribunale di Palermo, a lei Seminara, le auguriamo di essere il mocio di tutti i secchi dei tribunali d’Italia. Con tanta rabbia, tristezza, amarezza, chiediamo soltanto ciò che ci spetta. P.S.: un consiglio, togliete la frase “La legge è uguale per tutti” dai tribunali, perché è falsa. La legge è uguale solo per chi ha il Monopolio del potere.
Morto a pochi giorni dal sequestro. Si è spento Mario Niceta, scrive Mercoledì 18 Dicembre 2013 Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Pochi giorni fa, l'impero dell'imprenditore palermitano era finito nel mirino della Procura, che l'aveva accusato di aver costruito la sua fortuna all'ombra di Cosa nostra. Resterà per sempre uno dei nomi più noti tra gli imprenditori palermitani. Nella tomba si porta i ricordi di una scalata commerciale e, forse, anche il lato oscuro dei suoi successi. Mario Niceta è morto a 71 anni. Pochi giorni fa sul suo capo, e su quello dei suoi figli, si è abbattuta una disavventura giudiziaria. Di quelle che, se confermate, rischiano di lasciare una macchia indelebile in una vita intera. La Procura della Repubblica ritiene, infatti, che Mario Vittorio Niceta abbia costruito le sue fortune grazie all'appoggio dei pezzi da novanta della mafia. È scattato il sequestro preventivo di un patrimonio da 50 milioni di euro. Toccherà ai figli - Piero, Massimo e Olimpia - che ne hanno raccolto l'eredità imprenditoriale sobbarcarsi il peso della sua difesa, oltre che della loro. Di certo se ne va un cognome conosciuto da giovani e meno giovani. Da chi già negli anni Cinquanta comprava i tessuti nello storico negozio di via Roma e da chi, in epoca recente, ha seguito la moda nei tanti negozi con il marchio Niceta sparsi per Palermo e per altre città siciliane. Le fortune del gruppo sono nate nel punto vendita di via Roma, a pochi passi dalla stazione centrale, dove coppie di genitori arrivavano in treno dai paesi della provincia palermitana per comprare il corredo alle figlie prossime alle nozze. Nasceva la Niceta Srl, prima gestita dai fratelli Onofrio e Piero e poi, appunto da Mario. Negli ultimi anni, una grave malattia lo aveva costretto alla sedia a rotelle. Inevitabile che le sorti del marchio passassero ai tre figli che hanno differenziato l'attività. Non solo abbigliamento. E di recente il gruppo Niceta si è dovuto misurare con la crisi che lo ha obbligato ad una serie di operazioni di ristrutturazione dei debiti e di concordato preventivo per sanare le perdite. Poca cosa rispetto al ciclone giudiziario che si è di recente abbattuto anche su Mario Niceta. Su richiesta del Procura antimafia di Palermo e della Questura di Trapani a Mario e ai figli sono stati sequestrati tutti i beni. Carabinieri del Ros, poliziotti, finanzieri e agenti della Direzione investigativa antimafia sono giunti alla stessa conclusione: ci sarebbe la mafia dietro la scalata imprenditoriale. E la storia delle presunte contiguità illecite partono da lontano. Da quando Mario Niceta lavorava ancora con il calcestruzzo e sarebbe diventato il fornitore dei cantieri edili nella zona di Brancaccio per decisione dei capomafia della zona. Accuse pesanti ma anche ora tutte da verificare. Mario Niceta lascia la sua difesa in eredità ai figli.
Beni giudiziari confiscati: I negozi di Niceta, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 25 febbraio 2015. PROSSIMI ALLA CHIUSURA I NEGOZI NICETA. L’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA LI HA PORTATI AL FALLIMENTO. Stanno per chiudere i negozi Niceta, lo storico esercente palermitano che si occupa della vendita di capi di abbigliamento, accessori e preziosi. Anzi uno di essi, il punto vendita presso il centro commerciale Forum di Palermo, è già chiuso. Il peccato originale di Niceta Mario Vittorio Massimo, ovvero Niceta padre, è legato al possesso di una ditta di calcestruzzo in contrada Ciacculli-Brancaccio, che, secondo una dichiarazione del pentito Cannella, fatta nel 1995 davanti ai giudici Lo Forte e Di Lucia, sino al 1993 aveva come Amministratore unico Niceta Mario, e successivamente, sino al fallimento nel 1996, un tal Conigliaro Giuseppe, ma i cui reali padroni erano Pino Greco, detto Scarpuzzedda, i fratelli Graviano e Nino Mangano per conto di Bagarella. Cannella è quello che riferisce anche di “ingenti somme di denaro versate tra il 1976 e il 1978 dalle famiglie di Totuccio Inzerillo e Stefano Bontade nelle attività imprenditoriali di Silvio Berlusconi” (4.3.1998): non risulta tuttavia che, nei confronti di Berlusconi, malgrado le dichiarazioni di Cannella siano state confermate da molti altri pentiti, da Spatuzza a Galatolo, sia mai stato emesso un decreto di confisca dei suoi beni. Solo per curiosità aggiungiamo che Cannella parla anche dell’arruolamento nei servizi segreti, per intercessione dell’on. Gava, allora ministro, di Emanuele Piazza, fratello di un tossicodipendente cui Pino Greco forniva droga, poi implicato nell’attentato dell’Addaura contro Falcone. Tornando a Niceta, la proprietà, solo nominale, dell’impianto, da parte del Niceta è anche confermata dal pentito Angelo Siino in una deposizione del 1998. A partire dal 1993 Niceta, tetraparaplegico, e quindi in una difficilissima condizione esistenziale, abbandona tutto e dichiara il fallimento delle aziende nelle quali c’era il suo nome. L’altro ostacolo su cui vanno a inciampare i fratelli Massimo e Piero Niceta, si trova a Castelvetrano, al momento, nel 2007, dell’assegnazione degli spazi del grande centro commerciale Belicittà, gestito dalla 6 G.D.O. di cui è patron assoluto Grigoli, che è compare di Filippo Guttadauro in quanto suo testimone di nozze, mentre Filippo Guttadauro è padrino di Federica Grigoli. Con questo i fratelli Niceta stipulano nel 2007 un contratto d’affitto di ramo d’azienda per l’installazione di due punti vendita, il Blue Spirit e il Niceta Oggi, ma commettono l’imprudenza (?) di inserire nel personale di lavoro Francesco e Maria Guttadauro, figli di Filippo Guttadauro, che ha sposato la sorella di Matteo Messina Denaro Rosalia, detta Rosetta e che, secondo i Niceta non riescono a trovare lavoro a causa delle loro parentele: va detto che Filippo Guttadauro è fratello di Giuseppe, un medico che risulta essere capo-mandamento di Brancaccio-Ciaculli, cioè uno di quelli che controllava la cava di Niceta padre e che è padrino di Massimo Niceta. Secondo le conclusioni dei giudici, i fratelli Guttadauro sarebbero i soci occulti dei due punti vendita di Belicittà i cui intestatori fittizi sarebbero invece i fratelli Niceta, titolari dell’azienda NI.CA. La guardia di Finanza parla addirittura di un rapporto “sinallagmatico” (sic!), ovvero di un inesistente contratto, secondo cui tra le parti sarebbero state concordate obbligazioni reciproche, cioè niente. Aggiungasi che nei pizzini sequestrati nel 2007 ai Lo Piccolo c’è uno strano biglietto, attribuito a Matteo Messina Denaro in cui è scritto “amico Massimo N.” e che esiste una intercettazione telefonica del 2000 in cui Massimo Niceta, dovendo aprire un punto vendita Moda Italia in corso Finocchiaro Aprile a Palermo, telefona a Filippo Guttadauro, lamentandosi di uno sconosciuto, andato a chiedergli informazioni e chiedendo, secondo la chiave di lettura degli inquirenti, un intervento del padre Giuseppe, suo padrino, ove si trattasse di richiesta di pizzo. Altro elemento addotto è la nomina del ventunenne Niceta Pietro, nel lontano 1991 come Amministratore della Tecnotra, società operante nel settore dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, cui, nel 1992 subentrava il solito Conigliaro, che la metteva in liquidazione. Troviamo i nomi di Niceta Gioacchino e di Niceta Mario anche nel consiglio di Amministrazione della Parabancaria Consulting, una ditta che si è occupata di servizi bancari e parabancari, assicurativi e finanziari, sino al 1992, anno in cui si dimisero. C’è poi una serie di eventi nei quali entra in ballo l’on. Acierno, un deputato condannato nel 2012 a 6 anni per peculato e altre cose di questo genere, in stretto rapporto con i Guttadauro e con un tal Cappadonna, compare e “vivandiere” di Matteo Messina Denaro. Anche qua niente di penalmente rilevante, ma ce n’è abbastanza per disporre, prima da parte della procura di Trapani il sequestro dei due punti vendita di Castelvetrano, , poi, da parte della procura di Palermo, (2.12.2013) il sequestro di tutti e 16 punti vendita, case, azioni, depositi bancari, il tutto, persino un motociclo Piaggio, si dice, per un ammontare di 50 milioni di euro, sulla base di “evidenze indiziarie che fanno ritenere….”. L’amministrazione viene affidata, dalla dott.ssa Saguto, che dirige l’ufficio delle misure di prevenzione, a uno dei suoi pupilli, l’avvocato Aulo Gigante, già legale rappresentante del gruppo Aiello (Villa Teresa), il quale, in un primo tempo, si serve degli stessi fratelli Niceta per portare avanti la gestione dei negozi e disporre le ordinazioni e i pagamenti delle commesse, poi, rimproverato dalla Saguto, o essendosi accorto che la presenza del Niceta poteva costituire un forte ostacolo ai suoi progetti di speculazione, notifica ad Olimpia Niceta ( e quindi ai suoi fratelli) “l’interdizione della facoltà di accedere ai luoghi ove le attività in sequestro esplicano le loro attività aziendali nonché di sostare nei pressi delle medesime, con l’espresso divieto ad intrattenere rapporti di qualsiasi genere con i dipendenti” (16.10.2014). Neanche si trattasse di pericolosi terroristi! Da allora tutti i punti vendita cominciano a svuotarsi di merce e di persone con la prospettiva, entro nell’immediato breve tempo, forse qualche settimana, del fallimento, e con la seria preoccupazione dei 50 dipendenti di essere licenziati davanti alla chiusura di tutte le attività commerciali di quello che una volta fu l’impero dei Niceta. Il tutto con tanto di chiusura delle indagini e di proscioglimento da ogni accusa della famiglia Niceta, la cui richiesta viene fatta dai giudici Micucci e Guido, della Procura di Palermo già nel 2010. Nel frattempo il commissario giudiziario, tal Martina La Grassa, pagata con i soldi dell’azienda, dopo i 90 giorni di rito, presi per i dovuti accertamenti sul valore e sulla eventuale dolosa provenienza dei beni confiscati, si è preso altri 90 giorni e altri 90 se ne prenderà, in attesa che l’azienda chiuda. Tramite i propri legali i Niceta avevano presentato un piano di concordato preventivo ad un’assemblea dei creditori, ma pare che la cosa sia sfumata perché giudicata un’indebita intromissione nella gestione giudiziaria. Finisce nei guai, e i beni di sua proprietà, nonché quelli dei suoi parenti, sono messi sotto confisca e sommati a quelli dei Niceta, anche Vittorio Emanuele Orlando, un imprenditore di Terrasini, colpevole di avere sposato Olimpia Niceta, dalla quale si era separato nel 2012. Orlando, avendo dimostrato la sua estraneità, rientra in possesso dei suoi beni dopo qualche mese. In poco più di un anno di amministrazione giudiziaria il fatturato iniziale, inizialmente stimato in 20 milioni successivamente dimezzato, a causa della crisi, si è ulteriormente ridotto, soprattutto per il peso dei pagamenti dell’amministrazione, stimato in 500.000 euro finiti nelle tasche di Aulo Gigante e dei suoi sette collaboratori, che presentano fatture con esorbitanti spese di trasferta e sono pagati per un lavoro di controllo del tutto inutile. Queste passività sono andate a scapito dell’azienda, al punto che i dipendenti hanno dovuto piegarsi a un contratto di solidarietà, cioè rinunciare al 20% dello stipendio. Al momento. Per evitare licenziamenti e conseguente clamore mediatico, i dipendenti dei punti vendita chiusi sono spostati in quelli ancora aperti, facendo aumentare la passività nella gestione. Fornitori che aspettano di essere pagati e, senza garanzie non vogliono più fornire merce, scaffali vuoti, merce in liquidazione sono evidenti segnali di un’imminente chiusura.
L’ultima poco convinta proposta è di lasciare tutto nelle mani dei dipendenti, in una sorta di cooperativa che provi autonomamente a risollevare le sorti dell’azienda, oltre che continuare ad assicurare il pagamento dell’amministratore che ha procurato il dissesto. A costui si chiederebbe almeno un anno di attività libera da spese, prima di stipulare (guarda un po’!), un accordo per il pagamento di una quota di gestione. Cioè la cooperativa dovrebbe pagare una sorta di affitto o concessione, non chiamiamolo pizzo, all’amministratore giudiziario Gigante, che rappresenta lo stato, per poter far lavorare i soci-dipendenti. E’ tutto.
Negozi Niceta: L’amministratore giudiziario minaccia i dipendenti, scrive "Telejato" il 2 marzo 2015. MINACCIATI DI LICENZIAMENTO SE CI SARANNO ANCORA FUGHE DI NOTIZIE CON LA STAMPA. L’amministratore giudiziario dei negozi Niceta, Aulo Gigante, nominato dall’Ufficio misure di prevenzione di Palermo, dopo che il 2.12.2013 era stato disposto il sequestro dei beni dell’azienda, per sospetto di inquinamenti mafiosi, non ha gradito il nostro servizio, fra l’altro ripreso anche dal prestigioso sito “Antimafia Duemila” ed ha convocato i 90 dipendenti che ancora lavorano presso i punti vendita a lui affidati, minacciandoli di non riferire più alcun tipo di notizie alla stampa, pena il licenziamento o, cosa molto più probabile e imminente, la messa in part-time. Per quanto riguarda la famiglia Niceta ha lasciato capire che, dietro tutte le manovre che mirano a gettare discredito su di lui e, indirettamente sull’azienda a lui affidata, ci sono loro stessi e che ha intenzione, continuando così le cose, di sfrattarli dalla loro stessa casa di Mondello, bambini compresi, o, quantomeno di obbligarli a pagare l’affitto, essendo il bene attualmente sotto sequestro. Insomma, siamo davanti ad atteggiamenti padronali d’altri tempi e a misure, purtroppo consentite da una legislazione lesiva dei diritti umani che, si badi, può essere condivisa se si tratta di procedere nei confronti di mafiosi penalmente riconosciuti, ma che diventa arbitraria quando le misure di prevenzione sono effettuate nei confronti di persone delle quali deve essere verificata la continuità con la mafia o la realizzazione del patrimonio con il concorso di capitali mafiosi. In tal senso il commissario giudiziario Martina La Grassa continua a chiedere rinvii di 90 giorni, che gli sono accordati, per verificare documenti semplicissimi, quali atti di proprietà di case portate spesso in eredità dai coniugi delle persone inquisite. La poverina lavora in modo indefesso, ma non ce la fa, anche perché i rinvii gli assicurano ogni volta tre mesi di parcella a spese dell’azienda. Ma andiamo ai negozi: ormai siamo alla stretta finale. L’avvocato Gigante ha ammesso diverse volte di essere un neofita, di non possedere l’esperienza e le conoscenze necessarie per mandare avanti la baracca, e si è servito di collaboratori e dipendenti da lui nominati, che si sono rivelati per alcuni aspetti figure parassitarie e inutili nella conduzione aziendale: Tra di questi , va citato, per aver ricevuto l’incarico di buyer, cioè di compratore, di addetto agli acquisti con i vari fornitori, un tal Caponnetto, titolare di un negozio di giocattoli, che di abbigliamento non capiva niente e che ha già procurato un calo delle vendite di circa il 40%. Per metterci una pezza Gigante ha creduto opportuno di affiancargli “la persona ideale”: si tratta di Patrizia Di Dio, vicepresidente della Camera di Commercio, titolare di 5 negozi di abbigliamento a Palermo “La vie en rose”, che, ha recentemente messo in vendita, magazzino compreso, visto che gli affari non gli vanno bene: a parte l’evidente conflitto d’interesse, non ci vuole molto a concludere che il tempo della fine è più vicino. Anche perché la signora Di Dio ha detto che lavorerà gratis, ma se si valuta che la sua prima commessa è stata fatta con il 40% di aumento rispetto alla precedente, non ci vuole molto a concludere che costose trasferte e differenze di valore finiranno tutte col pesare sul bilancio del gruppo Niceta. I dipendenti sono pronti a formare una cooperativa e a gestire autonomamente i punti vendita, ma è chiaro che in tutto questo ci vuole l’intervento dello stato e la decisione di sganciare dalle mani voraci che la governano, tutta la gestione dell’azienda. Cioè niente. Riassumiamo le cause di un fallimento annunciato: mancata programmazione degli ordini, presenza inutile del personale assunto dall’amministrazione giudiziaria, per sorvegliare i punti vendita, , per non parlare di un elemento rilevato dai dipendenti stessi, ovvero la “mancanza di disponibilità al sacrificio lavorativo”, che tradotto in termini in termini volgari significa non avere alcuna voglia di lavorare, pagamento di indennità di trasferta sovradimensionate, concessione di ferie in modo arbitrario, mancata presenza sui posti da amministrare, poiché Gigante è anche amministratore della Italgas, un’azienda che si trova in puglia, dove egli si reca per tre giorni la settimana, mancato pagamento di alcuni fornitori, incapacità di gestire commercialmente una realtà di dimesioni più vaste di un semplice negozio, ma soprattutto atteggiamenti autoritari e scarsa disponibilità al rapporto con i lavoratori. E se questo significa rappresentare lo stato, siamo proprio messi male.
A proposito di Amministratori giudiziari e Niceta, scrive "Telejato" il 17 marzo 2015. ABBIAMO RICEVUTO UNA LETTERA INVIATA DALL’AVV. PIETRO MILONE, CON RICHIESTA DI RETTIFICA DI ALCUNE AFFERMAZIONI FATTE NEI CONFRONTI DELL’AVV. MARTINA LA GRASSA DA NOI FATTE IN DUE ARTICOLI DI SALVO VITALE RIGUARDANTI I FRATELLI NICETA. QUESTA LA NOSTRA RISPOSTA. Gentile avvocato, in risposta alla sua del 12 c.m. , con qualche giorno di ritardo, rispetto all’intimazione perentoria di due giorni da lei stabilita, dovuto a problemi personali, rispondo, anche a nome del direttore del telegiornale Riccardo Orioles e del titolare di Telejato Pino Maniaci, con una prima considerazione, più che altro una curiosità: come mai la dott.ssa Martina La Grassa, sua assistita, che è già un avvocato e, se non siamo in errore, ha un padre avvocato civilista con uno studio in via Libertà e un altro in via Rapisardi, dove abita lei stessa, invece di chiedere personalmente la richiesta di rettifica si è rivolta a un altro avvocato? Si tratta di una richiesta di rettifica di un privato che si ritiene parte lesa a un altro privato che è o dovrebbe essere responsabile dell’errore. Sul cerchio degli avvocati che ruota attorno alla Procura e, in particolare all’ufficio misure di prevenzione, ci siamo già occupati in altri articoli e vogliamo sperare che lei e la sua assistita non siano in quella “quota”. Ma andiamo ai fatti: non siamo riusciti a capire in che cosa consista l’offesa all’onore e alla reputazione della dott.ssa La Grassa: forse nel fatto che si ipotizzano rinvii e proroghe nella consegna del lavoro commissionato dalla procura? Se l’incarico di commissario giudiziale è cessato il 4 aprile 2014, quand’è iniziato? Si presume che la data sia stata quella del 2.12.2013, cioè quella del sequestro dei beni dei Niceta e, in tal senso sarà stato possibile qualche rinvio, ma c’è da fare un apprezzamento alla dott.ssa La Grassa per avere svolto il suo lavoro in circa quattro mesi, cioè nei tempi richiesti, o quasi, cosa che non si può dire di altri suoi colleghi. Giusta invece la richiesta di rettifica, relativa all’incarico, ricevuto dall’avv. Martina La Grassa di commissario nominato dal tribunale fallimentare per il concordato, mentre è il dott. Fabio Ferrara il perito nominato dal tribunale di Palermo per la perizia: evidentemente abbiamo erroneamente scambiato le competenze. Per il resto è giusta la precisazione, a noi nota che la parcella viene calcolata facendo riferimento all’ ammontare dell’attivo e del passivo risultanti dall’inventario redatto ai sensi dell’art.172 della legge fallimentare, ma la presunzione di dilatazione dei tempi, come abbiamo già ammesso, è stata dovuta a un errore nello scambio delle competenze e degli incarichi affidati dal tribunale. Si noti altresì che tra l’incarico di “redigere l’inventario” o quello di “verificare documenti e atti di proprietà”, ci pare non possa esserci qualche errore nell’attribuzione delle competenze, ma non ci sono elementi che possano causare offesa e danno all’immagine della dott.ssa La Grassa, alla quale, comunque va dato atto di avere svolto il lavoro in tempi rapidi. La presente sarà letta nel corso dell’odierno telegiornale. Ove ci siano altre cose da rettificare prego la S.V. di preparare lei stesso un comunicato di rettifica, scritto in termini giornalistici, cioè accessibili al telespettatore, che siamo pronti a sottoscrivere.
Partinico 17.3.2015
Salvo Vitale, Pino Maniaci, Riccardo Orioles
Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara. - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.
Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi - neanche tanto velatamente - altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente - diceva all'amministratore - una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio - avverte il Csm - in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.
Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.
Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.
Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!
Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?
"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).
Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto e della sua banda. Pino Maniaci.
S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.
Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara. E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.
Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.
Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.
Palermo, inchiesta su gestione beni confiscati: indagata Saguto. Lei: nessun dubbio su mio operato. Le ipotesi di reato sono corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. Tra gli indagati anche il marito del giudice e l’avvocato Cappellano Seminara, scrive la Redazione online de "Il Corriere della Sera”. A Palermo quasi la metà dei beni sequestrati d’Italia. La Procura di Caltanissetta ha aperto un’inchiesta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio nei confronti della Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, che si occupa della gestione dei patrimoni mafiosi sottoposti a sequestro. «Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata»: ha detto il magistrato al sito Live Sicilia. «Incarichi a mio marito? - ha aggiunto - Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione». «La notizia dell'inchiesta è contenuta in una nota ufficiale della stessa Procura di Caltanissetta «allo scopo - è scritto - di evitare il diffondersi di notizie inesatte». «Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge nella nota - militari del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015». «Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari». Risulterebbe indagato anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che per conto del tribunale gestisce numerosi beni sequestrati ai boss. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo avrebbero notificato un terzo provvedimento anche al marito della Saguto, l'ingegnere Lorenzo Caramma, che è stato consulente di Cappellano Seminara. L'affidamento di numerosi beni sequestrati alla gestione dell'avvocato Cappellano Seminara, con relative «parcelle d'oro», era stato denunciato dall'allora direttore dell'Agenzia per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, anche di fronte alla commissione parlamentare antimafia. I rilievi di Caruso, poi sostituito con il prefetto Umberto Postiglione dopo essere andato in pensione, erano stati giudicati «non esaurienti» dalla presidente Bindi secondo la quale c'era il rischio di «delegittimare l'intero sistema». Si tratta dunque, di un’inchiesta che scotta, visto che come la stessa Saguto comunicò lo scorso aprile «Palermo è una sezione speciale per la quantità di beni sequestrati: ne ha quasi la metà del resto di tutta l’Italia». Quattro mesi fa era trapelata l'indiscrezione su un progetto mafioso per uccidere Silvana Saguto. Ci sarebbe stato, secondo una segnalazione dei servizi di sicurezza, uno scambio di favori tra boss. Un sicario legato al clan Emmanuello di Gela avrebbe dovuto uccidere il giudice a Palermo e in cambio killer palermitani avrebbero dovuto eliminare Renato Di Natale, attualmente procuratore di Agrigento. Quando Di Natale ricopriva lo stesso incarico a Caltanissetta aveva coordinato le inchieste sulla cosca di Daniele Emmanuello, ucciso durante la latitanza nel 2007 in un conflitto a fuoco con la polizia nelle campagne di Enna. Il piano per eliminare i due magistrati sarebbe stato scoperto attraverso intercettazioni ambientali. Al giudice Saguto era stata subito rafforzata la scorta e assegnata un'auto con il livello massimo di blindatura.
Beni sequestrati alla mafia, Caltanissetta indaga su gestione del giudice Saguto. La procura nissena ha aperto un'inchiesta per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Nel registro degli indagati oltre alla presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, anche l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 9 settembre 2015. Ennesimo terremoto nel mondo dell’Antimafia: questa volta a finire sotto inchiesta è la gestione dei beni confiscati a Cosa nostra. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio è stata aperta dalla procura di Caltanissetta e coinvolge direttamente Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, la donna che si occupa della gestione dei patrimoni sottratti ai boss mafiosi. Sono indagati anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. A dare notizia dell’inchiesta è la stessa procura nissena, con una nota diffusa “allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte“. “Su disposizione della procura della Repubblica di Caltanissetta – si legge nella nota – i militari del nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015″. “Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. “Non ho dubbi sul mio operato e chiederò subito di essere interrogata”, ha commentato Saguto con il sito online livesicilia. Appena quattro mesi fa una nota dei servizi di sicurezza aveva fatto filtrare un allarme che indicava il magistrato come obbiettivo do un piano di morte di Cosa Nostra, citato anche in alcune intercettazioni ambientali. Secondo l’informativa, i boss palermitani avrebbero chiesto ai mafiosi di Gela di eliminare la donna che l’ex procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli definì in un’intervista “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”. Era il maggio del 2015 e la polemica sull’Olimpo degli amministratori giudiziari era tornata d’attualità grazie ad un servizio delle Iene, la trasmissione televisiva di Mediaset che aveva rilanciato le denunce di Pino Maniaci. Il direttore della piccola emittente Telejato aveva condotto una battaglia quasi solitaria contro quelli che lui chiama “gli uomini d’oro” e cioè i pochi amministratori giudiziari che si spartiscono la gestione dei beni sequestrati a Cosa nostra. Maniaci è anche l’autore di un esposto depositato alla procura di Caltanissetta e di parecchie interviste in cui attacca frontalmente lo stesso avvocato Cappellano Seminara, che per tutta risposta nei mesi scorsi lo ha denunciato per stalking. “I beni confiscati dovrebbero essere riutilizzati a fini sociali e invece, in troppi casi, sono stati considerati beni privati da alcuni amministratori giudiziari che li hanno gestiti come fortune sulle quali garantirsi un vitalizio”, aveva detto invece un anno prima l’ex direttore dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, davanti la commissione parlamentare Antimafia. Il prefetto (che nel frattempo è stato sostituito da Umberto Postiglione) aveva citato il caso dell’Immobiliare Strasburgo confiscata al costruttore Vincenzo Piazza e da diversi anni gestita proprio dall’avvocato Cappellano Seminara che, secondo l’ex direttore dell’Agenzia, aveva percepito una “parcella di 7 milioni di euro” come amministratore giudiziario mentre aveva incassato 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. “Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?” aveva sottolineato Caruso. “Faccio questo lavoro da 28 anni – aveva replicato Cappellano Seminara – con uno studio di 35 professionisti specializzati e non mi sembra che i nuovi amministratori siano stati nominati dall’Agenzia con criteri obiettivamente diversi da quelli utilizzati dal tribunale. Quanto ai compensi una cosa è gestire l’amministrazione dinamica di un’impresa che richiede progettualità e rischio, come abbiamo fatto noi fino al 2010, altra cosa è liquidare un’azienda secondo le nuove direttive dell’Agenzia”. Le parole del prefetto Caruso in ogni caso furono liquidate da Rosy Bindi, presidente di palazzo San Macuto, perché rischiavano di delegittimare “magistrati che rischiano la vita”. Dodici mesi dopo ecco che la gestione dei beni sequestrati ai boss di Cosa nostra è diventata argomento d’indagine per i pm nisseni.
Inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia, ecco tutte le accuse alla Saguto, scrive Riccardo Arena su "Il Giornale di Sicilia”. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto tra il 2004 e il 2014. A casa del presidente Saguto hanno sequestrato anche una collezione di coltellini e una tesi di laurea, entrambe appartenenti a uno dei figli del magistrato e dell'ingegnere Lorenzo Caramma, mentre Gaetano Cappellano Seminara è stato raggiunto e perquisito pure nella stanza dell'albergo romano in cui si trovava. L'inchiesta della Procura di Caltanissetta e del Nucleo regionale di polizia tributaria della Guardia di Finanza, sui presunti scambi di favori tra il giudice e l'amministratore giudiziario, poggia su tredici incarichi che Caramma ha avuto, tra il 2004 e il 2014, non solo a Palermo, ma anche a Caltanissetta e Trapani, ricevendo una retribuzione complessiva di 750 mila euro lordi: e 306.788 euro gli sarebbero stati «corrisposti direttamente dall'avvocato Cappellano Seminara». Non si trattava di prestazioni professionali ma ci sarebbe stato dietro uno scambio di favori, sostiene l'accusa, perché Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, a Cappellano Seminara affidò poi una serie di incarichi. L'avvocato è ritenuto una sorta di recordman delle amministrazioni giudiziarie: ma non lavora certo solo per conto dei magistrati palermitani. Nel mirino dei pm nisseni e del Gip Maria Carmela Giannazzo, che ha emesso il decreto con cui è stata autorizzata la perquisizione nello studio legale di Cappellano Seminara, c'è lo «stabile rapporto di collaborazione professionale» tra l'avvocato e Caramma, marito della dottoressa Saguto.
Gestione dei beni confiscati: "Bomba giudiziaria" a Palermo, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. La procura di Caltanissetta indaga sull'accusa di corruzione e abuso d'ufficio. Avviso di garanzia alla presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo e al più noto fra gli amministratori giudiziari del capoluogo. Perquisiti la cancelleria e l'ufficio del magistrato che replica: "Non ho dubbi sul mio operato, voglio essere interrogata". La bomba giudiziaria è esplosa stamani. Sotto inchiesta finiscono Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano appellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. È, infatti, la gestione del patrimonio sottratto ai boss a finire sotto accusa. Ipotesi pesanti quelle contestate dalla Procura di Caltanissetta: corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Stamani alla Saguto è stato notificato un avviso di garanzia - o meglio l'avviso dell'avviso, visto che era fuori città - e sono stati perquisiti il suo ufficio e la cancelleria al piano terra del nuovo palazzo di giustizia di Palermo. L'inchiesta affidata ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria ruota attorno agli incarichi che il marito della Saguto avrebbe ottenuto divenendo consulente di Cappellano Seminara. Il magistrato da noi raggiunto al telefono taglia corto: “Non ho dubbi suol mio operato e chiederò subito di essere interrogata. Incarichi a mio marito? Ne ha avuto uno solo a Palermo, e oggi chiuso, che risale agli anni in cui non ero alla sezione misure di prevenzione”. A dare notizia dell'inchiesta è stata la stessa Procura nissena "allo scopo - si legge in una nota - di evitare il diffondersi di notizie inesatte". "Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta - si legge ancora - militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori - prosegue la nota - sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". I pm non fanno i nomi, ma oltre alla Saguto l'indagine coinvolge il marito e Cappellano Seminara, l'uomo che più di tutti - facendo montare la polemica sulle parcelle - ha gestito il patrimonio sequestrato dai magistrati ai boss. L'avvocato è stato uno dei primi ad occuparsi del settore e negli anni ha costruito una macchina che ha gestito patrimoni sterminati: da quello del costruttore Piazza ai beni della famiglia di don Vito Ciancimino. Cappellano Seminara era stato uno dei principali obiettivi delle critiche mosse da Giuseppe Caruso, ex responsabile dell'agenzia per i beni confiscati. Il prefetto era stato piuttosto duro, sostenendo che alcuni amministratori avevano "usato a fini personali" i beni confiscati, incassando "parcelle stratosferiche" e mantenendo incarichi nei consigli di amministrazione delle stesse aziende confiscate. Convocato dalla Commissione parlamentare antimafia, arrivata appositamente in città nel marzo 2014, l'avvocato Seminara aveva risposto per le rime bollando come “sorprendenti e gravi” le parole di Caruso. Le definì “un ingiustificato attacco alla sua persona e a tutto il sistema dell'amministrazione giudiziaria”. Nel braccio di ferro alla fine Caruso ebbe la peggio. La presidente della Commissione, Rosi Bindi, e il suo vice, Claudio Fava, confermarono il rischio delegittimazione provocato dalle parole di Caruso, considerate tardive perché giunte alla vigilia della scadenza del suo mandato.
Indagati Saguto e Cappellano Seminara. Il grande intrigo dei beni confiscati, continua Riccardo Lo Verso. In ballo ci sono le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. L'inchiesta dei pm di Caltanissetta, che coinvolge la presidente delle Misure di Prevenzione e il più noto fra gli amministratori giudiziari, fa tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si basa il contrasto allo strapotere economico dei boss. “La faccenda è seria, molto seria” dice qualcuno bene informato. Ieri, fino a tarda serata, i finanzieri della Polizia tributaria di Palermo cercavano carte nello studio dell'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Prima erano stati nell'ufficio di Silvana Saguto, la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo e pure in cancelleria nel nuovo Palazzo di giustizia. Magistrati - in questo caso i pubblici ministeri di Caltanissetta - che frugano nella stanza di una collega. Basta questo per capire la portata dell'inchiesta che rischia di picconare l'intero sistema su cui si regge la gestione dei beni sequestrati alla mafia. Roba da fare tremare i polsi. Non si tratta delle voci degli addetti ai lavori che di scandalo hanno spesso parlato. O delle inchieste giornalistiche che hanno puntato il dito contro gestioni poco chiare e parcelle milionarie. Stavolta si è mossa la Procura di Caltanissetta che ieri si è presentata a Paleremo con avvisi di garanzia e decreti di perquisizione. Un'indagine che va avanti da mesi, forse anni se ad essa vanno collegate alcune tracce emerse nel tempo. Come la convocazione, nel marzo 2014, nelle vesti di persona informata sui fatti, del battagliero giornalista Pino Maniaci che alla gestione dei beni e agli scandali che ad essa sarebbero connessi ha dedicato una fetta importante del proprio lavoro. Erano i giorni in cui Cappello Seminara veniva nominato amministratore giudiziario di alcuni alberghi e qualcuno fece notare il suo presunto conflitto di interessi visto che l'avvocato era diventato, nel frattempo, titolare assieme ai familiari di un hotel nel centro storico di Palermo. Non sappiamo cosa ci sia nel fascicolo dei pm nisseni guidati, ancora per pochi giorni, da Sergio Lari, che dal 15 settembre diventerà procuratore generale sempre a Caltanissetta. Analizzando gli unici dati certi finora trapelati saremmo di fronte ad una partita di giro. Un magistrato, la Saguto, che stando ad una nota dei servizi segreti di alcuni in mesi fa la mafia voleva ammazzare, sarebbe in combutta illecita con un professionista, Cappellano Seminara, al quale avrebbe assegnato le amministrazioni giudiziarie facendogli guadagnare cifre consistenti. In cambio Cappellano avrebbe affidato, secondo la Procura, incarichi di consulenza a Lorenzo Caramma, ingegnere e soprattutto marito della Saguto. Il tutto in contesti diversi dal tribunale di Palermo. Da qui le ipotesi di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. C'è dell'altro? È solo l'inizio di un'inchiesta più ampia oppure l'approdo di una lunga scrematura investigativa? La nota della Procura, stilata quando ieri a Caltanissetta hanno capito che era impossibile tenere nascosta la notizia, dice tutto e niente: “Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari". Di certo l'inchiesta che i bene informati definiscono "molto seria" perchè ci sono "molte posizioni al vaglio" fra tremare il Palazzo di giustizia di Palermo e l'intero sistema su cui si è basato il contrasto economico allo strapotere dei boss. La Procura chiede, le forze investigative propongono e la sezione misure di prevenzione dispone il sequestro e le confische dei patrimoni affidati quindi alla gestione degli amministratori scelti in via fiduciaria. Sui provvedimenti, decine negli ultimi anni per centinaia di milioni di euro, c'è la firma della Saguto e di altri due magistrati che compongono il collegio. Lo stesso collegio che vista i passaggi seguiti dagli amministratori. Eppure il meccanismo che in questi anni ha colpito padrini, boss e picciotti della vecchia e nuova Cosa nostra sarebbe divenuto groviglio di interessi. Roba da comitato di affari. Fra i primi a specializzarsi nel settore delle amministrazioni giudiziarie c'è Cappellano Seminara che, solo per citare la pratica più conosciuta, ha gestito i beni di Massimo Ciancimino. E attorno al suo nome si è consumato un aspro conflitto. Perché la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia è stato spesso terreno di scontri e veleni. Una saga con tanti protagonisti. A cominciare dai parlamentari della Commissione nazionale antimafia. Nel 2014 il prefetto Giuseppe Caruso, poco prima di lasciare la direzione dell'Agenzia, sollevò un polverone denunciando la “gestione ad uso privato” dei beni da parte di alcuni amministratori giudiziari scelti dai Tribunali. Il riferimento, neppure nascosto, era a Cappellano Seminara che reagì con durezza. Ne venne fuori un braccio di ferro vinto dalla magistratura con l'appoggio “incondizionato” della politica. Un appoggio che si concretizzò nella due giorni di visita siciliana della Commissione guidata da Rosi Bindi. Allora il vice presidente, Claudio Fava, definì “bizzarro” il comportamento di Caruso, soprattutto per la tempistica delle dichiarazioni dell'allora direttore dell'Agenzia. La Bindi rincarò la dose: “Sono affermazioni (quelle di Caruso ndr) che possono delegittimare un intero sistema”. In realtà Caruso sul punto aveva sostenuto di non volere certo delegittimare il lavoro della magistratura, ma segnalare l'inopportunità che gli amministratori giudiziari fossero anche presidenti dei consigli di amministrazione delle società, molte delle quali non passavano e non passano dal sequestro alla confisca. Un anno dopo - febbraio 2015 - fu la commissione regionale antimafia, presieduta da Nello Musumeci, ad annunciare l'invio alle autorità competenti di un dossier su presunte anomalie: "In alcuni casi abbiamo ricevuto denunce di incompatibilità, eccessiva concentrazione di incarichi, in altri tentativi di favorire società o studi professionali vicini all’amministratore”. Un mese dopo di beni confiscati si tornò a parlare quando Antonello Montante, nominato dal governo all'Agenzia nazionale oggi guidata da Umberto Postiglione, fu “costretto” a fare un passo indietro dopo la notizia dell'indagine per mafia a suo carico. Montante avrebbe dovuto offrire la sua competenza di leader confindustriale per sdoganare da prefettizia a manageriale la gestione dei beni strappati alla criminalità organizzata. Un patrimonio sconfinato: quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende che spesso restano impantanati. Colpa della burocrazia, della cattiva gestione ma anche della difficoltà di misurarsi nel mercato con un socio “scomodo” come lo Stato. Stare nell'alveo della legalità è anti economico. Ieri l'ultima tappa dell'intrigo con le perquisizioni subite dalla Saguto e da Cappellano Seminara. L'avvocato che rispose così all'accusa di essere un professionista dalle parcelle d'oro: “Ho presentato una parcella lorda di 7 milioni di euro per 15 anni di lavoro durante il quale ho amministrato, insieme ad un team di 30 collaboratori, 32 società e ho accresciuto il valore commerciale degli asset a me conferiti a 1,5 miliardi di euro. Nel periodo di gestione giudiziaria i soli beni aziendali giunti a confisca hanno prodotto ricavi per oltre 280 milioni di euro, attestando così il costo della gestione giudiziaria a circa il 2,50% dei ricavi. Giova inoltre ricordare che dalla liquidazione disposta dal Tribunale, interamente corrisposta con fondi del patrimonio confiscato, ne è derivata a mio carico, in favore dell'Erario una imposizione fiscale di complessivi euro 4.248.281 pari al 60% del lordo percepito”. E la Saguto come replica? "Non ho dubbi sul mio operato e chiederò ai magistrati di essere subito interrogata", ha detto ieri a Livesicilia mentre si trovava fuori città.
Beni confiscati, consulenze, intercettazioni. I pm: "Ecco il prezzo della corruzione", continua ancora Riccardo Lo Verso. Nel cuore dell'inchiesta sul presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima si dice certa di poter dimostrare la propria correttezza, il legale: "Incarichi sempre decisi da giudici". Una ventina di consulenze in dieci anni per un totale di 750mila euro lordi. Ecco quale sarebbe il prezzo della corruzione, secondo i pubblici ministeri di Caltanissetta, nel presunto patto illecito fra il magistrato Silvana Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara. La prima è la presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo; il secondo è il più conosciuto fra gli amministratori giudiziari nell'intero territorio nazionale. La Saguto avrebbe assegnato a Cappellano Seminara la gestione di grossi patrimoni tolti alla mafia ottenendo in cambio incarichi per il marito Lorenzo Caramma, ingegnere e consulente dell'avvocato. Tutti e tre sono finiti nel registro degli indagati in un'inchiesta che ipotizza reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio. Reati tanto gravi da spingere i pm nisseni a perquisire persino l'ufficio della Saguto e la cancelleria del Tribunale. Settecentocinquantamila euro: a tanto ammontano i compensi liquidati all'ingegnere Caramma dal 2004 al 2014, in un arco temporale che inizia quando la Saguto è membro del collegio delle Misure di prevenzione e arriva fino a quando dello stesso collegio il magistrato è ormai divenuto presidente. E cioè dal 2010. Nel decreto di perquisizione notificato ieri agli indagati nel corso delle “viste” a casa, in studio e in Tribunale vengono snocciolati numeri, cifre e fatture delle consulenze. Incarichi che non riguardano fascicoli istruiti dal Tribunale di Palermo, ma da quelli di Agrigento, Trapani e Caltanissetta. Nel decreto si fa cenno ad un capitolo dell'indagine che, in realtà, costituirebbe il fronte più caldo dell'inchiesta. E cioè all'esistenza di intercettazioni telefoniche. Le cose sarebbero andate più o meno così: i pm ricevono nel 2014 alcuni esposti, fra cui quello del giornalista di Tele Jato Pino Maniaci, che gettano pesantissime ombre sulla gestione dei beni da parte del Tribunale presieduto dalla Saguto e denunciano presunti intrecci illeciti e pagamenti di parcelle d'oro; quindi i magistrati - l'inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Lia Sava e dal sostituto Gabriele Paci - decidono di mettere i telefoni sotto controllo. Ed è anche, e forse soprattutto, per trovare riscontri a quanto captato dai nastri magnetici che fino a stamattina i finanzieri del Nucleo di polizia Tributaria di Palermo hanno acquisito atti del tribunale, dichiarazioni dei redditi e documenti contabili. Ieri la Saguto si è difesa sostenendo di essere certa di potere dimostrare la propria correttezza ai magistrati dai quali spera di essere presto convocata. Oggi tocca a Cappellano Seminara, ultimate le operazioni dei finanzieri alla presenza del suo legale, l'avvocato Sergio Monaco, respingere le accuse. "Gli incarichi a Caramma, in qualità di Coadiutore o Consulente in alcune procedure di Amministrazione Giudiziaria, sono stati decisi dai Giudici Delegati dei rispettivi Tribunali, gli unici preposti a dette nomine ed alla liquidazione dei relativi compensi - precisa Cappellano Seminara in una nota -. Il mio ruolo è stato quello di proporre la figura di un affermato e stimato professionista che, da oltre trent’anni, collabora quale Consulente fiduciario con le Procure della Repubblica ed i Tribunali siciliani, sia in sede penale che civile, incluso il Tribunale di Caltanissetta. Caramma non è mai stato da me proposto nell’ambito di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo presieduto dalla dottoressa Saguto e le nomine del predetto, in talune procedure, sono avvenute diversi anni prima dell’incarico del Giudice Silvana Saguto alla Presidenza della Sezione. Osservo che in tutti i Tribunali siciliani congiunti dei Magistrati che ivi prestano servizio - ancora Cappellano Seminara -, ricevono quotidianamente, da altri Magistrati dello stesso Tribunale, incarichi sia quali Avvocati, Curatori, Consulenti, Amministratori Giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un Magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei Distretti delle Corti d’Appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente e senza rilievo alcuno".
La nota diramata dalla procura dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta non ammette repliche, dopo anni di denunce e inchieste la giustizia sta facendo il suo corso, scrive Telejato. L’abbiamo chiamata Mafia dell’Antimafia, cercando in questi lunghi mesi di denunciare il malaffare e la corruzione che hanno imperversato nella gestione di molti beni sequestrati alla mafia. Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari. La sezione del tribunale presieduta da Silvana Saguto gestisce un patrimonio immenso di misure di prevenzione, beni sottratti ai presunti mafiosi, circa il 43% di tutti quelle emesse in Italia. I beni negli anni sono stati gestiti in maniera molto discutibile secondo un sistema che Telejato ha definito in tempi non sospetti dei Quotini, amministratori giudiziari in quota che hanno gestito la maggior parte dei sequestri Palermo e provincia.
Nonostante le denunce cadute nel vuoto da parte dell’ex prefetto Caruso che aveva presieduto l’agenzia nazionale dei beni confiscati e vari casi eclatanti denunciati dalle Iene in collaborazione con Telejato, anche la commissione nazionale antimafia, ad eccezion fatta di un suo solo membro, ha sempre creduto alla versione dei fatti della Saguto, mostrandole anche solidarietà, come nel caso eclatante della famiglia Cavallotti. Fiduciosi che la giustizia farà il suo corso, aspettiamo con ansia il coro di sdegno dell’antimafia da passeggio e parolaia che in questi anni ha ignorato deliberatamente certe denunce, acclamando talvolta l’operato di queste persone.
Indagata la Saguto, il marito e Cappellano Seminara. Il triangolo no…non l’avevo considerato, continua "Telejato".
VENGONO AL PETTINE I NODI CHE DA TEMPO ABBIAMO DENUNCIATO E CHE PINO MANIACI AVEVA RIVELATO GIÀ CIRCA DUE ANNI FA ALLA PROCURA DI CALTANISSETTA, LA QUALE AVEVA PRESO L’IMPEGNO, MAI RISPETTATO DI RISENTIRLO.
Qualcuno potrebbe pensare che abbiamo fatto salti in aria di gioia quando abbiamo saputo che la signora Saguto, presidente dell’ufficio misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è sotto indagine, da parte della procura di Caltanissetta, per concussione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio. E invece no. Ogni volta che un rappresentante della giustizia, e pertanto che amministra la giustizia in nome dello stato, finisce sotto indagine, da parte dei suoi stessi colleghi, non possiamo che preoccuparci ed esprimere il nostro disagio su come si amministra la giustizia in Italia. E’ qualcosa che colpisce tutti e di cui non si può gioire, ma rattristarsi. E questa indagine dimostra proprio le due facce della giustizia italiana: quella di una procura, quella di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano l’operato dei magistrati di Palermo, che, in questo caso, scavalcando tutti i nostri dubbi e sospetti di reciproche protezioni tra magistrati che hanno lavorato fianco a fianco, ha “osato” posare l’occhio sull’operato di un settore della Procura di Palermo, e quella di un magistrato di questa procura che invece ha operato in assoluta libertà nell’uso di uno smisurato potere datole dalla normativa che regola le misure di prevenzione. Già Caselli aveva definito la Saguto una delle donne più potenti di Palermo e la sua potenza le deriva nell’avere costruito un patrimonio che supera i 40 miliardi di euro (parliamo solo della provincia di Palermo e di quella di Trapani, spesso ad essa connessa). In pratica buona parte del capitalismo siciliano è finita sotto sequestro, sotto il controllo dell’ufficio di prevenzione, con accuse spesso fondate su deduzioni, sospetti, dichiarazioni spesso pilotate di pentiti, scavalcando in parecchi casi anche la collaborazione offerta dagli stessi imprenditori che hanno fatto una scelta di legalità e si sono invece visti sequestrare tutto, senza alcuna possibilità di potere ricominciare un qualsiasi lavoro. Si potrebbe pensare che alla fine la giustizia arriva, come ogni tanto succede, ma moltissimi casi di sequestro sono stati ritenuti infondati da sentenze e dalla normale procedura penale e, nonostante ciò l’ufficio misure di prevenzione ha invece continuato ad emettere decreti di confisca nei confronti degli imprenditori assolti. Abbiamo denunciato la gestione e i metodi disinvolti, per usare un eufemismo, della “signora” di Palermo da quasi due anni. Abbiamo ricostruito pezzi del suo “cerchio magico” fatto da magistrati e avvocati che abbiamo chiamato “quotini”, cioè in quota al re degli amministratori giudiziari palermitani, Cappellano Seminara, il quale oggi si ritrova anche lui indagato assieme al marito della Saguto, l’ing. Caramma, suo collaboratore. Si tratta di nomi ormai noti, Dara, Turchio, Benanti, Santangelo, Miserendino, Virga, Ribolla, Modica de Moach, di avvocati che dovrebbero tutelare gli interessi dei clienti e che invece cercano accordi e intese con i magistrati per dare il contentino al cliente ma anche per non mettersi contro le decisioni dell’apparato giudiziario nel quale essi convivono. E così l’imprenditoria siciliana non ha scelta: o schierarsi con l’apparente scelta di legalità della Confindustria ed entrare “in quota”, o correre giornalmente il rischio di finire sotto sequestro per una parentela, una presenza, una commissione fatta nel corso degli anni con qualche mafioso, cosa che in Sicilia capita spesso. Nel caso del triangolo Saguto-Caramma-Seminara abbiamo da tempo denunciato gli intrecci tra il figlio della Saguto, Elio Crazy, chef valente che lavora presso l’hotel Brunaccini, nell’albergo di Cappellano Seminara, di cui è consulente suo padre l’ing. Caramma. Con abile mossa l’avvocato Cappellano è riuscito a mettere le mani su una parte del settore alberghiero palermitano, quello del Gruppo Ponte, con la scusa della presenza del mafioso Sbeglia, tra i presunti lavoratori dell’albergo. Adesso la situazione dell’albergo è pietosa, ci sono state denunce di clienti che si sono trovati in stanze con le vasche da bagno sporche e con fuoriuscita di acqua verdastra dai rubinetti, ma il solito Cappellano ha invitato il cliente a soprassedere. La longa manus di Cappellano, sempre con la firma della Saguto, si è estesa a novanta incarichi ad esso assegnati, di cui siamo in grado di fornire l’elenco, e dove si incontrano enormi patrimoni interamente assorbiti dal nulla o rivenduti ad amici o finiti in partite di giro dove ci sono strani passaggi di mezzi, beni, merci e quant’altro da un’azienda a un’altra, il tutto svenduto per quattro soldi. E’ il caso dell’Aedilia Venustas, per non parlare di quello della Immobiliare Strasburgo del mafioso Piazza, per la cui amministrazione, secondo l’ex prefetto Caruso, Cappellano avrebbe incassato 7 milioni di euro e altri 100 mila euro come compenso del suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione. Altra pagina che lascia sgomenti e per la quale Cappellano è indagato è quella della discarica di Glina, che il nostro insaziabile rappresentante dello stato avrebbe cercato di controllare interamente, mandando un lustrascarpe a comprarne una quota per 300 mila euro. Si potrebbe andare avanti, ma parliamo di cose che abbiamo denunciato da tempo e che speriamo possano emergere adesso se il giudice Paci di Caltanissetta avrà la possibilità di procedere serenamente, senza interferenze, pressioni, o peggio che mai, minacce. Non è certo un’indagine su un magistrato potente che risolverà il problema dei beni confiscati e soprattutto sulla anomalia tutta italiana dei poteri dati a un ufficio di prevenzione che, nel 90 per cento dei casi invece di prevenire affossa e chiede all’imputato l’onere della prova, compito che invece spetterebbe al magistrato. E questo onere è costantemente rinviato in attesa di una giustizia che non arriva, che distrugge le aziende e le lascia nelle mani di parassiti, sono pagati con i proventi dell’azienda stessa. Tra i tanti commenti che abbiamo letto su “Il fatto quotidiano” ne riportiamo uno che scrive: “spero che Caltanissetta stia indagando anche sugli altri amministratori, come il giovane avvocato trentenne che l’anno scorso si è visto assegnare, sempre dalla Saguto, la gestione di un patrimonio da 600 milioni (aggiungiamo, quello dei fratelli Rappa), non si sa grazie a quali incredibili capacità. Si può soltanto dire che prima di questa assegnazione lo stesso avvocato gestiva 4 negozi di scarpe, sempre per il tribunale di Palermo (presumiamo che si riferisca a Bagagli). Si sa che il padre, giudice presso il tribunale di Palermo, al momento della nomina era membro togato del CSM. In quel periodo imperversava la polemica con il prefetto Caruso per le parcelle d’oro accordate agli amministratori dalla Saguto. Negli stessi giorni il CSM archiviava il procedimento disciplinare, sempre nei confronti della Saguto. Lo stesso giudice, padre del trentenne amministratore, non è stato rieletto al CSM e ora fa il giudice di corte d’appello a Palermo. In ultimo l’amministratore trentenne ha acquistato da poco una villa a Mondello”. La nota è firmata “Bastian Contrario”. Nulla di nuovo rispetto a quanto abbiamo già detto, ma che giova ripetere. E, a proposito di ville, pare che, secondo il nostro commentatore, “un’altra villa a Mondello sia stata acquistata da Cappellano Seminara per un milione e duecentomila euro gentilmente anticipati da una banca. Le garanzie per tale anticipazione sono le parcelle già emesse per l’attività di amministratore giudiziario del patrimonio a lui assegnato dalla Saguto, che, ricordo, essere superiore ai 600 milioni (si riferisce, pare, all’Immobiliare Strasburgo) e, visto che non erano sufficienti, ha messo a garanzia anche quelle che emetterà sempre per la sua attività di amministratore giudiziario”. Ci fermiamo, perché sull’argomento abbiamo già scritto un dossier di oltre cento pagine, che nessuno si è detto disponibile a pubblicare. Ora che è scoppiata la bomba, forse qualcuno si accorgerà che non abbiamo fatto, come ci hanno accusato di fare, il gioco dei mafiosi, ma quello di una giustizia che protegga gli interessi di tutti i cittadini, che sia uguale per tutti, che metta a posto le disfunzioni senza distruggere l’economia e i posti di lavoro, in una drammatica situazione di povertà in cui stiamo vivendo. Un’ultima cosa: la signora Saguto ha detto che vuole essere ascoltata, e ci mancherebbe altro, che chiarirà tutto, e ci auguriamo che lo faccia bene e senza truccare le carte. Già ha detto che l’incarico a suo marito è stato dato quando non era all’ufficio di prevenzione. E dov’era? Adesso il procedimento andrà nelle mani del Presidente del tribunale dott. Vitale, il quale deciderà sulle misure da adottare e, con ogni probabilità invierà tutto al CSM, quello che ha già archiviato il primo procedimento sulla Saguto. Perché, in un paese normale, come abbiamo letto in un altro messaggio, questa gente sarebbe già agli arresti per il rischio di inquinamento delle prove e la possibilità di reiterare il reato. In Italia siamo più buoni, diamo una possibilità a tutti e, considerato che abbiamo 7 mila km di costa con infiniti granelli di sabbia, la possibilità che tutto sia ricoperto, mare o sabbia non importa, appartiene al nostro modo di essere italiani.
Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. “Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia” ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale, che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante, pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta.
Mafia e “antimafia” qualcosa si muove, scrive Marco Salfi su “Telejato”. La notizia è molto recente, sembrerebbe che dopo anni di denunce, editoriali e servizi da parte di questa testata qualcosa si stia muovendo. Ad essere sotto indagine per l’accusa d’abuso d’ufficio teoricamente dovrebbe esserci Andrea Modica de Moach ex amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti, tuttavia al momento non si sa nulla in merito. Quello che è certo è che nei giorni scorsi un servizio delle Iene realizzato con la collaborazione della nostra redazione ha messo in luce la storia dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, imprenditori assolti dall’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e nonostante tutto oggetto ancora di misure di prevenzione patrimoniali. Il processo penale che ha visto l’assoluzione con formula perché il fatto non sussiste che ha visto protagonisti i 6 fratelli del piccolo paesino in provincia di Palermo era incentrato sulle presunte raccomandazioni che questi avrebbero avuto nell’aggiudicazione di alcuni appalti per la metanizzazione nei comuni di Agira e Centuripe. In realtà i pizzini che secondo l’accusa, e a tutt’oggi secondo le misure di prevenzione di Palermo incriminerebbero i Cavallotti indicavano chiaramente il pagamento del pizzo, la così detta in gergo mafioso “messa a posto” e non una raccomandazione che lascerebbe così spazio all’ipotesi di turbativa d’asta. Modica de Moach è stato nominato amministratore giudiziario delle aziende del gruppo Cavallotti nel 1999 dal tribunale di Palermo. Il suo compito era quello di amministrare le aziende in attesa che venisse concluso il processo legato alle misure cautelari che procede parallelamente a quello penale. Stando alla legge Modica avrebbe dovuto mantenere in attivo le aziende preservando i livelli occupazionali e mantenendo inalterato il volume d’affari. Tuttavia nulla di tutto questo è avvenuto. Per quella che in una relazione dello stesso modica è stata definita insolvenza tecnica è stato dato il via ad una serie di operazioni finanziarie, avallate per altro dal tribunale di Palermo, nelle quali attraverso alcune compravendite di rami d’azienda e alla cessione di debiti già prescritti Modica avrebbe percepito indebitamente del denaro dalle casse della Comest azienda del gruppo Cavallotti specializzata nella metanizzazione. Il dottor Vincenzo Paturzo curatore fallimentare presso il tribunale di Milano, analizzando dodici anni di bilanci aziendali ha riscontrato una situazione davvero singolare. Al contrario di quanto sostenuto da Modica la Comest aveva tutte le risorse finanziarie e non era come affermato in uno stato di “insolvenza tecnica”. Certo parliamo di una azienda sconvolta da una vicenda giudiziari importante ma non così malata. Al fine di risanare le sorti finanziarie Modica ha ceduto dei rami d’azienda del gruppo e li ha fatti rilevare da una società in amministrazione giudiziaria la Tosa, confiscata in via definitiva e amministrata dal fratello Giuseppe Modica con l’avallo del tribunale. Un operazione che nei bilanci non avrà alcun beneficio. Beneficio che invece trarranno le società che venderanno i rami d’azienda in questione realizzando un profitto di un milione di euro. Quanto ai debiti prescritti (quindi non più dovuti ne esigibili) nel 2009 questi vengono ceduti tramite scrittura privata da Comest e Icotel (società del gruppo Cavallotti) alla Advisor and services for Business di cui diventerà amministratore unico proprio Modica de Moach pochi mesi dopo la firma di questa scrittura privata, facendogli così acquisire indebitamente un milione di euro. Sui fatti esposti, la commissione regionale antimafia dapprima ha audito Pino Maniaci e qualche giorno fa ha ascoltato la testimonianza di Pietro Cavallotti. Sulla scorta di queste audizioni e delle numerose denunce di anomalie la commissione guidata da Nello Musumeci sta preparando un dossier. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria’. «Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Pietro Cavallotti dopo l’audizione si è detto soddisfatto per aver avuto la possibilità di raccontare davanti alle istituzioni la storia della sua famiglia. «Ho avuto la possibilità – ha affermato Cavallotti – di replicare alle affermazioni fuorvianti rese dai magistrati Scaletta e Petralia lo scorso 21 ottobre alla Commissione Nazionale Antimafia» «Viviamo in una condizione di indigenza a seguito dei vari provvedimenti giudiziari e siamo impossibilitati a trovare un lavoro per la cattiva reputazione costruita attorno alla nostra famiglia» Cavallotti ha chiosato «Tuttavia ringrazio Telejato per avere per primi avuto il coraggio di denunciare il malaffare che ruota attorno al sistema dei beni sequestrati». Continuerà l’indagine di Telejato che da anni sta denunciando questa gravissima situazione, anche attraverso la petizione lanciata su change.org nella quale si chiede che Pino Maniaci venga ascoltato dalla commissione nazionale antimafia.
Il lato oscuro dell'antimafia, scrive “La Repubblica” che diventa paladina di quell’antimafia partigiana, di sinistra e pro magistrati che vedono in “Libera” lo sbocco naturale e interessato. Perché al di la di “Libera” c’è un sistema emarginato di associazioni libere di fatto che ogni giorno devono combattere la mafia e l’antimafia.
Le associazioni che si presentano come paladine della legalità sono centinaia ma non tutte sono affidabili. Anzi. La loro presenza e la loro attività rischiano di svilire il lavoro eccezionale di gruppi storici diventati paladini della lotta ai clan. Rapporti della polizia giudiziaria, racconti dei pentiti, inchieste dei magistrati, svelano che spesso dietro una pretesa onestà si nascondono interessi personali e, in alcuni casi, contigui con la stessa criminalità organizzata. Il tutto all'ombra di fondi pubblici, raccolte di beneficenza e, persino, utilizzo di beni sequestrati alle cosche. Una realtà allarmante su un tema delicatissimo.
Quando crollano passione e onestà, scrive Federica Angeli. E' la faccia oscura dell'antimafia. La parte che insinua sospetti e che inquina, alla fine, il grande lavoro svolto per il trionfo della legalità. Una faccia disegnata da decine di piccole e grandi associazioni. Nascono, da nord a sud, soprattutto sull'onda emotiva di arresti o inchieste eclatanti contro il crimine organizzato nei propri territori. Si vestono di buoni principi e di slogan efficaci. Ma poi, lontano dai riflettori, finiscono per emergere i veri elementi che li sorreggono: una galassia costellata di opportunisti, personaggi ambigui, cacciatori di immagine, uomini e donne che agiscono con prevaricazioni, spesso ricatti, per far tacere chi osa denunciarli. Così si disperde quella lotta che è fatta di passione e onestà, e si dissolve in mille rivoli, partendo da un'antipolitica spinta al parossismo, fatta di scherni e nomignoli affidati al politico di turno, con l'obiettivo di affossarlo per prenderne il posto. Fino ad arrivare al lavoro sottotraccia e silenzioso, necessario per infiltrarsi in aziende e mettere le mani sui beni confiscati dallo Stato alla malavita organizzata e assegnati in gestione alle cooperative. Sciascia li chiamava i "professionisti dell'antimafia". Sbagliava bersaglio il giornalista e scrittore siciliano, ma il concetto è ancora vivo. I cosiddetti "Eroi della sesta" che, attraverso lo stendardo della lotta al crimine organizzato e alla malavita, si accreditano su un territorio e poi si gettano su carriere politiche e finiscono per fare il gioco della criminalità, purtroppo esistono. Perché vestirsi di antimafia oggi spesso diventa un modo per ripulire la propria immagine. "La 'ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare a fare i propri interessi. È una strategia", sostiene il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura. Il fenomeno in Italia è cresciuto in maniera esponenziale. Sono tante le piccole associazioni nate dalla Lombardia alla Puglia, passando per il Lazio, all'ombra e sul modello di associazioni serie come Libera, il movimento delle Agende Rosse, daSud, Caponnetto, Addiopizzo. Perché parlare di mafia può attirare fondi e consenso elettorale, soprattutto nelle piccole realtà. Come si diventa associazione antimafia. Ma chi si nasconde dietro le associazioni antimafia? E chi controlla che dietro questo business non ci sia l'ombra della malavita? Nessuno. Il difetto sta alla radice. Il percorso per avere il bollo di antimafia è infatti identico a quello che segue un circolo ricreativo. Per aprire un "club" antimafia ci sono diverse strade: quella della costituzione di un'associazione, che nella stragrande maggioranza diventa onlus, quello delle attività di promozione sociale e quello delle fondazioni. Nel primo caso basta un semplice atto costitutivo che ne sancisca la nascita e lo scopo, uno statuto che stabilisce regole e organizzazione del gruppo. Quindi si deposita il contratto d'associazione presso l'ufficio del registro competente e si fa richiesta di iscrizione all'albo regionale delle organizzazioni di volontariato, al registro provinciale delle associazioni e all'anagrafe comunale delle associazioni. Poi ci sono le attività di promozione sociale: queste associazioni presentano uno statuto e devono essere iscritte presso la presidenza del Consiglio dei ministri, dipartimento per gli Affari Sociali e sono iscritte a un registro nazionale del ministero del Lavoro e delle politiche sociali. In Italia ce ne sono 174 e come associazione antimafia riconosciuta c'è solo Libera, il faro di tutte le realtà che fanno concretamente antimafia sul territorio nazionale. Infine, le fondazioni: una volta redatto l'atto costitutivo e depositato da un notaio lo statuto, chiedono un riconoscimento presso la prefettura di competenza se operano a livello nazionale, o presso la Regione se sono attive soltanto in un territorio circoscritto. Sull'ultima modalità si è di recente espresso Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità anticorruzione, gettando più di un dubbio sul grado di trasparenza della gestione di alcune fondazioni: "La maggior parte delle attività politiche si è spostata fuori dai partiti, contenitori non sempre pieni, e si svolge nelle fondazioni che dovrebbero essere trasparenti. Il business dei falsi paladini. Scandagliando i registri di Regioni, Province e Comuni, in Italia si tocca quota 87mila di associazioni. Di queste 49.801 sono diventate onlus, si sono iscritte al registro dell'Agenzia delle entrate e hanno fatto richiesta di ricevere il 5 per mille dei contributi Irpef degli italiani. Oltre 2.000 dovrebbero essere antimafia a giudicare dal nome di battesimo che hanno scelto, legato ai personaggi che attraverso la lotta alla mafia hanno fatto grande il nostro paese. Così si trovano associazioni nate nel nome di Borsellino, di Falcone e di tanti altri. Molte rievocano intestazioni da codice penale "416bis" o "41bis". Poi ci sono altre, tantissime altre associazioni che agiscono all'ombra di quelle grandi e piccole organizzazioni virtuose e realmente operative. Prendendo soldi dagli iscritti all'associazione (contributi volontari si legge negli statuti, laddove sono pubblicati), oppure dallo Stato con richieste di alloggi o di progetti da finanziare. Tradotto in soldi: migliaia e migliaia di euro che non si sa dove finiscono, visto che moltissime di queste associazioni non hanno mai pubblicato in rete i loro bilanci. Eppure, nei vari territori in cui operano, si continuano a spacciare per comitati o coordinamenti "contro tutte le mafie". Poi però, seguendole attraverso i social network o nei dibattiti pubblici, si scopre che tutto fanno tranne contrastare le mafie. Così capita di leggere anatemi contro Saviano, insulti a presidenti di municipio tacciati di essere denunciati per mafia quando la notizia è destituita di ogni fondamento, attacchi strumentali al partito che governa quel territorio, fino a scoraggiare le persone dal fare nomi e cognomi di clan malavitosi perché "le denunce non siamo noi a doverle fare", o anche a gettare ombre sulle associazioni antimafia serie che operano sul territorio. Ma di comunicati antimafia neanche l'ombra. Quasi sempre, quando si indaga sui personaggi che le governano, ci si accorge che a farne parte sono persone che non hanno sfondato in politica e che tentano di riavvicinarsi alla poltrona attraverso l'Antimafia. Oppure persone allontanate dalle forze dell'ordine che sotto lo stendardo dell'associazionismo antimafia, sfilano in marce per la legalità al fianco di personaggi collusi con la criminalità organizzata oppure hanno ricevuto locali per la sede di associazioni da presidenti di provincia rimossi dall'incarico e condannati per abuso di ufficio. Gli inganni dell'antimafia. Nel composito - e talvolta oscuro - universo delle associazioni antimafia può quindi capitare di imbattersi in "icone" e personaggi dal doppio volto. Si prendano ad esempio le peripezie di Rosy Canale. A stravolgere l'immagine pubblica della coordinatrice del "Movimento delle donne di San Luca", considerata un'eroina in perenne battaglia contro la malavita organizzata, è stata l'inchiesta della Dda di Reggio Calabria sugli affari delle cosche 'ndranghetiste Nirta e Strangio di San Luca. Un'indagine che alla fondatrice dell'associazione antimafia, lo scorso giugno, è costato un rinvio a giudizio per truffa e malversazione. Le accuse contro Rosy Canale sono state formulate a margine dell'operazione che ha portato all'arresto dell'ex sindaco del piccolo Comune calabrese, poi sciolto per infiltrazioni mafiose. Si tratta di Sebastiano Giorgi, un politico "capace", che sfilava in cortei contro la 'ndrangheta al mattino e stringeva accordi elettorali con le cosche alla sera. In cambio di voti avrebbe assegnato l'appalto per la metanizzazione della cittadina alle cosche Pelle e Nirta. E Rosy Canale? Nell'operazione simbolicamente nominata "Inganno", i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato l'autrice di libri sulla 'ndrangheta per truffa e peculato. Attraverso il proprio movimento e la fondazione "Enel Cuore" aveva ottenuto tutto il necessario per inaugurare un vero gioiello dell'antimafia nel cuore di San Luca: 160 mila euro pubblici e uno stabile confiscato ai Pelle. Peccato che la struttura non abbia mai visto la luce: la Canale avrebbe infatti speso i soldi di prefettura e Regione per quelli che i militari dell'Arma hanno definito "motivi esclusivamente personali". Così, se da una parte nella lista degli acquisti di Rosy Canale finivano una Smart e una Fiat 500, dall'altra l'eroina affossava anche le speranze delle donne che hanno deciso di seguirla nelle sue battaglie: i 40 mila euro del progetto "Le botteghe artigianali" sono stati spesi non per promuovere l'attività manifatturiera del sapone, ma per acquistare cosmetici da rivendere con il logo dell'associazione. L'antimafia come arricchimento personale è però un volume che si compone di diversi capitoli. Ecco, rimanendo ancora in provincia di Reggio Calabria, la vicenda di Aldo Pecora, leader di "Ammazzateci tutti", finito nell'occhio del ciclone per via della propria residenza. Il presidente e fondatore del movimento contro le 'ndrine, fondato nel 2005 dopo l'uccisione del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno e supportato anche dalla figlia del magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991, risultava essere residente in uno degli appartamenti ricavati in un "fabbricato in corso di costruzione" a Cinquefrondi. Nulla di cui dubitare, se non fosse che il palazzo in questione sia stato di proprietà della cosca Longo di Polistena, clan egemone nella zona dagli anni '80 e disarticolato dalle operazioni Scacco Matto del 2011 e Crimine del 2010. Pronta la reazione dell'avvocato della famiglia Pecora, che in una replica agli articoli della cronaca locale ha minacciato querela per poi parlare di "agguato mediatico" e spiegare che né Aldo né i genitori hanno mai pensato che il palazzo dove vivevano in affitto potesse essere patrimonio mafioso prima del sequestro del 7 febbraio 2012. Sul caso e la relativa denuncia per diffamazione decideranno i giudici del tribunale di Reggio Calabria. Nel frattempo, le procure di tutta Italia indagano su casi simili. Perché, come scrive il gip Domenico Santoro nell'ordinanza di custodia cautelare redatta per il caso Canale, "fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l'utilizzare scientemente per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente l'antimafia. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa".
A Ostia minacce e ricatti per ottenere favori, scrive Lorenzo D’Albergo.
Andrea Tassone, lei è stato minacciato da una persona che ora fa antimafia, non appena è stato eletto presidente del X Municipio di Roma. È così?
"Sì, lui prima era candidato nella Lista civica Marino e faceva parte della mia coalizione, ma non lo avevo di certo fatto io il suo nome. Prese un centinaio di voti e non appena fui eletto mi mandò il seguente messaggio, via sms: O mi dai l'assessorato Turismo e Cultura e due persone a mia scelta o ti pianto un casino".
Lei come ha risposto?
"Andando dai carabinieri a sporgere denuncia per estorsione. Denuncia che ora è in mano a un magistrato".
Questa persona ora fa parte di un'associazione antimafia, giusto?
"Sì, ma per quanto mi riguarda il comportamento che ha quel soggetto e altre persone a lui vicine non è affatto coerente con quanto sostengono di fare. Io penso che la mafia vada combattuta nelle sedi istituzionali tagliando tutti i ponti con alchimie e collusioni con soggetti che facevano parte della vecchia amministrazione. E certo non si combatte attraverso un social network né facendo antipolitica. L'antimafia non dovrebbe avere un colore politico. O sbaglio?".
Probabilmente possono avere delle prove schiaccianti contro di lei e il suo modo di gestire il denaro pubblico.
"Se hanno queste prove andassero in procura a denunciarle. Sono mesi che, con frequenza quotidiana, insinuano che questa amministrazione operi in modo poco chiaro e insinuano che ci siamo messi in tasca dei soldi per opere che abbiamo fatto e hanno persino scritto che io ero stato denunciato per mafia. Tutto falso. Sono stato denunciato perché non ho dato loro la sala consiliare per fare un'assemblea contro la mafia e parliamo di agosto 2013. Non conoscevo lo statuto dell'associazione, perché non me lo hanno inviato, e come non l'ho data a nessuno e solo ai rappresentanti politici per una presentazione, non vedo perché loro avrebbero dovuto avere un palco privilegiato. Soprattutto alla luce del fatto che di un argomento così serio come l'antimafia possono dibattere soltanto persone più che titolate a farlo. Non chi di antimafia non sa nulla, ma al contrario assume certi atteggiamenti, come ricattarmi per avere un assessorato".
Da chi è composta questa associazione antimafia?
"Io conosco solo tre persone e so che sono state allontanate dalla politica, sono persone che non sono state votate e ora smaniano per avere consulenze o incarichi che magari possono aver avuto nelle precedenti amministrazioni. Nella mia non c'è posto per persone così, persone che mistificano la realtà, e sostengono che noi siamo tutti collusi e ladri. Lo dimostrassero invece di spargere fango".
Insomma, da lotta antimafia ad attacco politico, fino ad arrivare a un cosiddetto stalking telamatico.
"Con frequenza quotidiana parlano di me attraverso i social network e i siti delle loro molteplici associazioni. Sì, perché ne hanno almeno sei di associazioni, virtuali e non, sul territorio attraverso cui spargono fango. Non solo quella antimafia. Ogni cosa è motivo di critica. La critica è giusta, per carità, ma a queste persone interessava far parte dell'amministrazione e avere un ruolo. E se i cittadini non li hanno voluti, non ci posso fare nulla. Siamo ancora in democrazia".
Quindi, torno a chiederle, questa associazione non fa antimafia?
"Non so cosa fa, ma l'amministrazione ha messo dei paletti ben precisi sul taglio delle collusioni tra amministrazione e mafia. Se ho sentore di questo o di atteggiamenti di prevaricazione e ricatto io non do alcun credito, l'aria è cambiata: qui a Ostia non funziona più così".
Lei ha paura di queste persone?
"Io non ho paura di nessuno, la cosa che mi dispiace è che da loro vengono pubblicati gli indirizzi di casa mia e dei miei anziani genitori su Facebook. Io sono il presidente di un municipio e abito in un posto isolato con un figlio minorenne. Se qualcuno, fomentato dalle loro menzogne, non fosse in linea con le mie scelte, decidesse di farmi del male conoscendo la mia abitazione? Non lo trovo giusto, ho informato i carabinieri che mi stanno davvero aiutando molto".
Lei lo ha denunciato per estorsione, la procura ha in mano il fascicolo. È fiducioso?
"Sono stato qualche tempo fa dal procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Le sue parole mi risuonano ancora nelle orecchie: "Non si lasci scoraggiare presidente, vada avanti". Sono parole che danno molta carica e molta voglia di fare bene. Non posso non aver fiducia nella magistratura, quando ho visto con i miei occhi quello che la procura di Roma ha fatto per questo territorio con l'operazione Alba Nuova, che ha portato all'arresto di 51 persone".
La garanzia del modello Libera, scrivono Federica Angeli e Lorenzo D’Albergo. Se alcune delle associazioni passate in rassegna sembrano essere più attente alla propria partita Iva che al contrasto alla malavita organizzata, dall'altra sponda del fiume antimafia c'è Libera. Riconosciuta come associazione di promozione sociale dal ministero del Lavoro e inserita nel 2012 nella lista delle 100 migliori organizzazioni non governative del mondo per la trasparenza dei suoi bilanci e dei contratti dei suoi 15 dipendenti, Libera pubblica tutti i suoi rendiconti sul proprio sito a garanzia di una condotta a prova di "antimafia". A denunciare la latitanza di un sistema di controlli efficace è Gabriella Stramaccioni, responsabile delle politiche sociali, per 18 anni coordinatrice nazionale di Libera e braccio destro del presidente Don Luigi Ciotti: "Purtroppo non esiste una Authority che controlli il terzo settore (il comparto onlus e associazioni, ndr) ed è praticamente impossibile monitorare e attenzionare chi gravita nell'associazionismo che fa antimafia. O meglio, un organismo di controllo c'era, ma è stato abolito dal governo Monti. Abbiamo chiesto che venga ripristinato e c'è una proposta di legge attualmente in discussione in Parlamento (Il ripristino dell'Authority è nelle linee guida della Riforma del terzo settore a cui sta lavorando il governo ndr)". "E' difficile fare differenza tra buoni e cattivi - continua Gabriella Stramaccioni - perché ci sono movimenti che nascono sull'onda emotiva, che servono per denunciare quel particolare fenomeno. Poi, però, sull'azione di lungo raggio, ci si accorge che non si tratta più di antimafia. Noi, invece, siamo seriamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata". Mettendo in rete più di 20 mila volontari e 1.300 associazioni a livello nazionale e locale e incontrandone i rappresentanti durante le assemblee e gli stati generali antimafia, come quello previsto ad ottobre a Roma, Libera ha fatto passi da gigante negli anni: ha un protocollo col ministero dell'Istruzione, organizza centinaia di interventi nelle scuole e nelle università con i familiari di vittime di mafia e testimoni pronti a incontrare i ragazzi. "Autofinanziandoci - spiega ancora la coordinatrice di Libera - abbiamo indagato e scritto dossier sulla ricostruzione dell'Aquila, sulle mafie nel pallone e le loro infiltrazioni nel calcio, e sullo scandalo delle sale slot. Naturalmente, come è esplicitato nello statuto di ogni associazione antimafia veramente operativa, supportiamo i cittadini vittima della malavita costituendoci parte civile nei processi penali. "Quanto ai beni confiscati - prosegue Stramaccioni - Libera non li gestisce direttamente, ma dà supporto alle cooperative che partecipano ai bandi. Le nostre battaglie non le abbiamo mai fatte contro una casacca politica, ma contro quello che ritenevamo dovesse essere cambiato. Così è stato per il 416ter, la gestione dei beni confiscati". Una gestione che certo non piace alla mafia e ai suoi capi come dimostrano le recenti minacce fatte da Riina a Don Ciotti.
Eppure Sciascia si sbagliava, scrive Federica Angeli. Sciascia parlava dei professionisti dell'antimafia, intendendo coloro che fanno l'antimafia "come formidabile strumento per fare carriera, procurarsi il consenso del pubblico, acquisire crediti da spendere in qualsivoglia impresa". Insomma i quaquaraquà dell'antimafia. Esiste questo pericolo? Giriamo la domanda al Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. "Sciascia - risponde - sbagliava completamente bersaglio, perché se la prendeva con magistrati di cui poi si è dimostrato l'effettivo impegno nell'antimafia, fino al sacrificio della vita, come nel caso di Borsellino. A parte questo clamoroso errore, il rischio è molto concreto. Ne esiste uno generale che soggetti che perseguono interessi personali non confessabili e non coerenti con interessi della collettività si inseriscano nelle associazioni antimafia o le fondino per crearsi o ricrearsi una verginità sotto il simbolo della lotta alle mafie. Poi esiste un altro pericolo, ovvero che imprenditori un tempo contigui alle associazioni mafiose entrando in questi sodalizi si rimpossessino del bene confiscato. Negli anni passati abbiamo verificato attraverso indagini della Dda di Napoli che alcuni soggetti si erano avvicinati nel casertano a cooperative a cui era stata affidata la gestione dei terreni confiscati".
Il vessillo dell'antimafia viene dunque sfruttato oggi come una sorta di trampolino di lancio per avere una credibilità. Un segnale può essere il proliferare di tante di queste presunte associazioni?
"Non c'è dubbio che bisogna sempre stare molto attenti a chi ha le insegne dell'antimafia e che cura interessi che non sono corretti e che sono ben diversi da quelli della collettività. L'antimafia non può avere contropartite personali. La proliferazione è un fatto di per sé positivo, la cultura della legalità va benissimo, ma in concreto bisogna vedere cosa queste associazioni fanno e le istituzioni di polizia e della magistratura devono vigilare".
Prima che il governo Monti la abolisse, esisteva l'Authority del Terzo Settore. Esiste oggi un organo che controlli tutte queste associazioni antimafia?
"No attualmente non esiste, è un po' affidato all'autodisciplina dei dirigenti di queste benemerite associazioni ai quali raccomandiamo di vigilare sui soggetti che ne entrano a fare parte e di segnalarli immediatamente agli organi competenti".
Come può un cittadino difendersi da chi fa finta antimafia e abusa della credibilità altrui?
"Il cittadino può segnalare elementi di sospetto, ma siamo noi delle istituzioni che dobbiamo vigilare e immunizzare certe realtà. La collaborazione del cittadino la promuovi e la incentivi nel momento in cui lo Stato dimostra di fare sul serio".
Lei propose concretamente, quando era nella Dda di Napoli, di fare qualcosa per stanare l'antimafia di facciata. Cosa?
"Proposi, nella riassegnazione dei beni confiscati, il controllo capillare di quel bene. Vede, i beni confiscati riassegnati, specialmente le aziende produttive, sono spesso a rischio di riconquista mafiosa. Le mafie non perdono mai interesse verso il bene che è stato loro confiscato e c'è sempre il rischio di un ritorno al possesso di quel bene, attraverso dei prestanome e delle finte associazioni appunto. Seguire tutte le vicende societarie di quel bene, partendo dagli organismi dirigenti delle aziende, perché non ricada nelle mani della criminalità organizzata, diventa dunque uno strumento fondamentale per l'azione di contrasto all'accumulazione di ricchezza criminale".
Che tipo di controlli si possono fare?
"Vanno fatti rigorosi controlli preventivi. Per esempio non dimentichiamo che stanno per partire gli appalti per la bonifica della Terra dei Fuochi su cui va concentrata la massima attenzione investigativa".
Secondo lei un'associazione antimafia che attacca continuamente attraverso dibattiti e attraverso internet politici dalla fedina penale immacolata o altre associazioni antimafia e giornalisti che hanno fatto inchieste sulla mafia possono essere credibili su un territorio?
"Questi sono evidentemente atteggiamenti sospetti che andrebbero valutati".
Le associazioni che evitano di fare il nome di criminali nella zona in cui fanno antimafia hanno invece credibilità?
"Direi assolutamente no, ma bisogna distinguere caso per caso e capire per quale motivo si comportano così".
Ci sono associazioni antimafia come la capofila Libera, daSud, il movimento Agende Rosse, Caponnetto, Addiopizzo di Palermo che giorno dopo giorno si muovono con strumenti efficaci e danno concretezza alla loro lotta. Possiamo fidarci di queste?
"Assolutamente sì".
Un'associazione per i testimoni, scrive Alan David Scifo. Fra tutte le associazioni antimafia in Italia ce n'è una che nasce dalla voglia di un uomo che ha vissuto in prima persona gli effetti dell'estorsione nei suoi confronti. Questo uomo è Ignazio Cutrò, imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino, che nel 1999 ha avuto la forza di dire un secco "no" alle richiesta di pizzo delle cosche. Cedere avrebbe significato non avere più la forza di guardare negli occhi i suoi figli, ma dopo questa risposta negativa il lavoro di Cutrò è crollato. Numerosi mezzi edili sono stati bruciati e nessuno ha più voluto affidargli lavori per paura di futuri problemi. Dal 2006 l'imprenditore, insieme alla propria famiglia, è stato inserito nel programma di protezione dei testimoni giustizia. Dopo aver dato vita all'associazione "Libere Terre" ad Agrigento, ha fondato un'associazione antimafia che raccoglie i testimoni di giustizia d'Italia.
Ignazio Cutrò come mai ha deciso di fondare questa associazione?
"Volevo fare qualcosa di diverso dalle altre associazioni. In Italia ci sono associazioni antimafia solo di nome ma che poi non agiscono sul campo, la mia si è più volte costituita parte civile in molti processi antimafia, ha aperto sportelli on-line per essere sempre contattabile da chiunque voglia ribellarsi alle cosche. Inoltre siamo riusciti, attraverso l'associazione di cui sono presidente, a far approvare il decreto legge che permette ai testimoni di giustizia di essere assunti nella pubblica amministrazione.
Ma come mai non si è rivolto alle associazioni antimafia esistenti?
Perché molto spesso accade che nessuno ti cerca quando sei in una posizione del genere. Nessuna associazione mi ha aiutato all'inizio, l'unica persona che mi è stata vicina sin dall'inizio è stato Don Luigi Ciotti. Le altre associazioni che invece agiscono contro la mafia solo di facciata ma poi non aiutano le persone che veramente ne hanno bisogno fanno il gioco della mafia. Molto spesso queste associazioni, oltre a non aver al proprio interno persone che hanno vissuto le intimidazioni sulla propria pelle, non hanno mai contattato nessuno che è stato vittima di estorsioni.
Per quanto riguarda i fondi, da chi è finanziata la vostra associazione?
Non riceviamo alcun tipo di finanziamento. La nostra associazione è interamente autogestita nonostante personalmente sono in ristrettezze economiche. Nei processi confidiamo sull'aiuto di avvocati che lavorano gratis per noi, ma nessuno ci ha mai aiutato economicamente. Molte associazioni vengono finanziate dallo stato, ma cosa fanno di concreto?
Lei ha denunciato i suoi estorsori e poi hai rifiutato di andare via dalla Sicilia, nonostante lo Stato le avesse dato la disponibilità di farsi una nuova vita. Perché?
Io la mafia voglio combatterla da qui. Io amo la mia terra e sono fiero di essere siciliano. Per questo motivo ho deciso di non scappare e di aiutare anche gli altri che sono nel mio Stato. In Italia siamo 88, di cui 44 fanno parte dell'associazione, molto spesso siamo abbandonati da tutti. Quando dico che lo stato ci ha abbandonato, non intendo i governanti, ma i singoli cittadini. Io ho rifiutato un posto regionale e tutto ciò che era pronto per farmi vivere una seconda vita, ma con la mia famiglia abbiamo deciso di lottare da qui. Decidendo questo però adesso sto combattendo una guerra difficile: non lavoro più e ora mi hanno pure tagliato il gas.
Alcune volte le associazioni antimafia sono usate come trampolino per la politica.
Lo so bene. Ma chi nasce soldato deve morire soldato. Io ho rifiutato posti in politica che mi sono anche stati proposti. Io sono un imprenditore e voglio continuare il mio lavoro da imprenditore.
“Buttanissima Sicilia” a Palermo. Intervista a Salvo Piparo e Pietrangelo Buttafuoco di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”. Il 31 gennaio 2015 Buttanissima Sicilia arriva a Palermo. In questa tappa, che si preannuncia la più importante, sarà il Teatro Biondo a offrire il palco al libro denuncia di Pietrangelo Buttafuoco – già successo editoriale di questa estate – divenuto recitazione per mezzo dello stile inconfondibile di Salvo Piparo, Rosemary Enea e Costanza Licata. Un grido di disperazione e d’amore, amore terribile, verso una terra ormai patria del malaffare e del peggiore costume politico. Ed è il fardello di ogni siciliano: soffrire. Perchè – e qui Carmen Consoli ci permetta la citazione – amare la Sicilia è come amare una prostituta, ti tradirà sempre, ma ne sei così innamorato che non puoi separartene. Abbiamo incontrato per voi i protagonisti: Pietrangelo Buttafuoco e Salvo Piparo, il giornalista scrittore e il cuntastorie, ”un cronista ai tempi in cui non esisteva ancora il telegiornale”.
INTERVISTA A SALVO PIPARO.
Come nasce l’incontro con Buttafuoco e l’idea di portare a teatro Buttanissima Sicilia?
«Salvo e Valentino (Ficarra e Picone) mi parlavano da tempo di Pietrangelo Buttafuoco e della sua scrittura. E’ stato durante le riprese di “Andiamo a quel paese” che poi ci siamo effettivamente incontrati, avevo comprato in quei giorni Buttanissima Sicilia e lo stavo per finire. Lui mi ha detto: se ti piace, hai carta bianca, lo puoi mettere in scena. Lo spettacolo è diventato una sorta di centro di aggregazione dove dentro ci sono finiti Salvo, Valentino (loro è la scrittura del racconto finale), le canzoni e l’ironia di Costanza Licata e anche la satira religiosa: un rosario di Sicilia che si presta al gioco di parole con Rosario Crocetta, la denuncia di una serie di sue farfallonate».
Quale è stata la risposta del pubblico?
«Durante queste repliche abbiamo avuto tutti la sensazione che lo spettacolo sia cresciuto, si sia ormai collaudato. Ci capiamo di più tra noi attori, ma anche il messaggio arriva meglio al pubblico. Ad esempio, per me parlare dell’Autonomia aveva un certo margine di rischio, oggi noi con le repliche e con lo studio che abbiamo fatto sulle cose che sono accadute nel frattempo con il Governo Crocetta, ci trovavamo a infiammarci nel raccontare una regione veramente buttanissima, che si prostituisce, con le trivelle che arrivano, dove si grida ad un No Muos che però poi si fa, e dove tutto diventa una farsa. E poi il teatrino della mafia dell’antimafia…»
Ecco, a proposito di quest’ultimo concetto, la mafia dell’antimafia.
«Parleremo di due mafie e le faremo duellare, sono la mafia e la mafia dell’antimafia che si sta arricchendo. Certo, anche questo è un concetto rischioso, lo sapevamo tutti quanti, per molti è ancora prematuro, però è un concetto antico già affrontato da Sciascia alla sua maniera. Noi siciliani, d’altronde, siamo esattamente spaccati in due. Spiritosi quanto delittuosi. Ma dal voto corrotto in poi si arriva al degrado. Io e Costanza Licata siamo nati in due quartieri popolari, sappiamo benissimo qual è il carattere di questa città e di questa regione, l’animo di noi isolani è pessimista perchè respiriamo l’irredimibile, e possiamo anche aggrapparci a degli specchietti… il fermento, la primavera di Orlando, il tram, ma la verità è che la città ha bisogno di alcune scosse. La Sicilia non può essere solo fiction, mi vergogno di avere partecipato a Squadra Antimafia – Palermo oggi, già il titolo è tutto sbagliato».
«E in questo quale dovrebbe essere il ruolo della satira? Oggi dopo la strage di Parigise ne torna a parlare.
«Il teatro civile questo deve fare: denunciare, innescare nella gente un senso di rivalsa. Ma il teatro non può essere mai violenza. Lungi da noi fare uno spettacolo politico, ma nella satira è così, si prende in giro Crocetta così come Nello Musumeci. Ce la prendiamo con un sistema, non con la persona».
La Sicilia che spazi offre per l’arte?
«Io ho 34 anni, mi considero ancora un giovane. Come giovane ti dico che non si può vivere di teatro in questa nostra terra. Conosco un sacco di talenti palermitani che sono costretti a fare i caffè nei bar per poter andare a fare teatro la sera. Altrimenti significa che ti passano dei finanziamenti, come viveva la vecchia guardia palermitana: impiegati pubblici a tutti gli effetti, prendevano finanziamenti dal Comune, dalla Provincia e dalla Regione. Erano dei privilegiati. Oggi soldi non ci sono più. Ameno che non diventi Ficarra e Picone, che non hanno bisogno di queste logiche, ma stiamo parlando di eccezioni. La soluzione è fare gruppo con un pugno di persone che hanno le idee chiare e che si stimano a vicenda. Questo è quello che faccio con la cooperativa Terradamare, ragazzi con tanta voglia di fare».
Nell’epoca del teatro sperimentale, tu scegli di ritornare a un genere antichissimo come quello del cunto. Come mai?
«Il cabaret non è mai stato il mio obiettivo, volevo raccontare le cose che mi piacciono, la storia di Palermo. Ho iniziato col raccontare il mio quartiere, l’Albergheria, poi sono andato oltre, Brancaccio, la Guadagna, il Capo, Passo di Rigano che si chiama così perchè era un passo pieno pieno di origano, ho raccontato l’Ucciardone, perchè tutto coltivato a cardoni, la Via Libertà che di libertà non ha niente perchè in una notte Ciancimino la debellò, abbattendo le ville liberty. Ci sono delle storie splendide che ho ereditato da mio nonno. Questo voglio raccontare: noi, chi siamo. Ho lavorato degli anni a Milano, ma ero siciliano solo nella carta d’identità e quindi un perdente perchè di siciliano non sapevo niente. Lì ho aperto gli occhi e tornato a Palermo ho iniziato a divulgare questo verbo, la nostra identità. Ma la cosa più importante è che la gente uscendo da teatro ha capito quello che ha visto, in nome del teatro sperimentale la gente esce dopo aver visto una cosa che non ha capito però ha battuto pure le mani».
Di questa Sicilia forse fra qualche secolo ne faranno un cunto. Manca però la natura epico-cavalleresca, cosa ci sarà da raccontare?
«Ti dico una cosa. In verità il cunto non viene dalla tradizione epico-cavalleresca. Hanno voluto dire così perchè conveniva dire così. I cunti vengono dagli antichi greci, Omero quindi – cuntastorie per eccellenza – raccontava le storie della mitologia greca. Ora, i greci vennero in Sicilia, i francesi vennero in Sicilia, la mistura delle due tecniche fece nascere il mestiere del cuntastorie siciliano che unì le gesta dei paladini di Francia, lasciate in eredità dai francesi, con la metrica greca. I nostri avi si mettevano attorno a un fuoco, quando non esisteva la televisione, e si raccontavano le storie, le sciarre, i duelli all’arma bianca, lo stesso episodio della Baronessa di Carini è una storia delittuosa, non c’è niente di epico-cavalleresco. I cuntastorie, quindi, alla loro maniera, raccontavano fatti di cronaca. Ed è quello che stiamo facendo anche noi con Buttanissima Sicilia, raccontando l’attualità continuiamo la tradizione».
INTERVISTA A PIETRANGELO BUTTAFUOCO di Gianluca Ferrari su “La Gazzetta Palermitana”.
Dopo un fortunato tour nel resto dell’Isola, lo spettacolo finalmente va in scena a Palermo, proprio la sede di quel “Palazzo” al centro della sua invettiva. Palermo è il punto di arrivo e contemporaneamente la tappa di partenza. La città, per la sua sensibilità, per la sua storia, soprattutto la tradizione legata al Teatro Biondo laurea questo spettacolo, e mi auguro che il pubblico possa essere partecipe così come a Caltanissetta, a Catania, a Noto, a Comiso. La cosa che più mi coinvolge è che il libro sia diventato uno spettacolo che ha persino un’esigenza, quella di trovare un genere che lo possa definire. E quindi la forma migliore è quella di essere affidata e destinata alla grandezza, alla bravura, alla perfezione che hanno voluto dare loro Salvo Piparo, Costanza Licata e Rosy Enea.
Come nasce l’incontro con Salvo Piparo?
«Nasce nel solco della mia ammirazione nei confronti della sua bravura che si è saldata anche in un’amicizia. Si è poi stabilita un’elettricità virtuosa determinata anche, anzi vorrei dire soprattutto, dalla firma che noi leggiamo in locandina della regia, che è quella di Peppino Sottile, che per me è stato ed è maestro di scrittura e si conferma maestro nella drammaturgia e nella scrittura scenica. Oggi anche un idolo pop come Pif dice che l’autonomia va abolita».
Il libro è ormai diventato un manifesto controrivoluzionario, rispetto all’epopea crocettiana?
«C’è un sentimento spontaneo nell’opinione pubblica che è diventato patrimonio comune di tanti siciliani a maggior ragione, poi, di chi abitando, vivendo, soffrendo la Sicilia capisce qual è l’urgenza da risolvere. E cioè quella di poter cominciare a costruire un futuro in questa terra. Il fatto è che lui (Crocetta) non sapendo risolvere i problemi li criminalizza, e questo non è certamente il modo per potere governare. Potrebbe soltanto portare e aumentare incenso all’altare del suo ego, ma non è sicuramente questa una soluzione per la Sicilia».
Chi tocca l’antimafia si scotta. Beppe Lumia, che lei definisce “il più professionista dei professionisti dell’antimafia”, le ha risposto attaccandola in prima persona, anche associando il suo nome a quello di figure non specchiate.
«Se si riferisce alle reazioni che hanno nei confronti del mio lavoro giornalistico, come avrà notato, l’atteggiamento è presto detto, e cioè: non avendo nessun argomento per smentire ciò che scrivo, non hanno altra alternativa che quella di delegittimarmi, ed è quella di mascariare, di cercare di ridicolizzare o criminalizzare l’avversario».
L’esempio dell’Abercrombie è esilarante. Il brand americano ha due sedi in Italia: a Milano e… ad Agira. E questo perchè a Mirello Crisafulli tutti dicono I love you. E’ questa la fogna del potere?
«Quello è un esempio scelto apposta per raccontare le contraddizioni di una realtà sociale qual è quella siciliana. La definizione “fogna del potere” si riferisce poi a quell’idea di fare della Sicilia territorio, laboratorio esperimento per operazioni di trasformismo che da sempre hanno visto in Sicilia l’epicentro per sommovimenti che poi hanno coinvolto l’intero territorio nazionale».
Nel libro lei denuncia in tempi non sospetti la realtà del Cara di Mineo. Poi c’è il Muos, le trivelle, sembra che la Sicilia sia riconosciuta a livello internazionale come zona franca.
«Perchè qui trovano un facile terreno che è quello di avere dei compari disponibili ad assecondare qualunque gusto e qualunque menù».
Concludiamo con un invito allo spettacolo.
«La locandina, il titolo, i nomi degli attori in scena, la firma della regia di Peppino Sottile, già questo è un succulento invito, sono sicuro nessuno rimarrà deluso, perfino lo stesso Crocetta».
Pensa che verrà?
«Verrà di sicuro! Tra tanti inciampi e disavventure derivate dal suo essere maldestro, per fortuna conserva una qualità: è un uomo di spirito, e non potrà certo mancare a questo appuntamento».
Ascesa e declino dell'Antimafia degli affari "che non si possono rifiutare", scrive Giulio Ambrosetti su “La Voce di New York”. Un' inchiesta coinvolge la dirigenza di Confindustria Sicilia e indirettamente quei politiici antimafia che dovevano rappresentare "il nuovo" rispetto ai vecchi "comitati d'affari". Mala gestione dei beni sequestrati alla mafia, conflitti d'interessi alla Regione, irregolarità sull'utilizzo dei fondi europei, privatizzazione degli aeroporti... La magistratura ultimo baluardo in difesa della legalità? Tira un’aria pesante in questi giorni lungo l’asse Palermo-Caltanissetta-Roma. Agli incroci di mafia e antimafia c’è un po’ di traffico. Un ingorgo da legalità strillata. Storie strane. E un’inchiesta su presunti fatti di mafia che coinvolge il presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, considerato uno degli uomini di punta dell’antimafia e dell’antiracket. Si tratta di dichiarazioni di pentiti di Cosa nostra che lo tirano in ballo. Notizie da prendere con le pinze, ovviamente. Ma il fatto che siano venute fuori, beh, è segno che alcune ‘cose’, nell’Isola, stanno cambiando. Anche, anzi soprattutto per chi, dal 2008, di diritto o di rovescio, esercita in Sicilia un potere pieno e, adesso, un po’ controllato: il senatore del Megafono-Pd, Giuseppe Lumia. E’ lui, ormai da sette lunghi anni, l’uomo politico più potente della nuova e della ‘vecchia’ Sicilia. E’ lui il garante di tanti, forse troppi accordi in bilico tra politica, economia e chissà cos’altro ancora. A lui fa riferimento Antonello Montante, oggi sfiorato dal dubbio che dai tempi di Crispi e di Giolitti fino ai nostri giorni illumina come un’ombra sinistra tanti politici siciliani ascesi al soglio del potere. Dubbi che, nel caso dell’ex presidente della Regione, Totò Cuffaro, si sono trasformati in condanna a sette anni per mafia. Dubbi che hanno accompagnato il suo successore, Raffaele Lombardo, anche lui fulminato da una condanna di primo grado sempre per mafia (in questi giorni dovrebbe iniziare il processo di secondo grado). Ogni storia giudiziaria, ogni inchiesta dei magistrati inquirenti, si sa, è storia a sé. Ma è impossibile non vedere in questa vicenda il contesto politico in cui è maturata la svolta giudiziaria che coinvolge Montante. Proviamo a illustrarla. In politica sono importanti i segnali. E il primo segnale sinistro è arrivato circa una settimana prima del ‘siluro’ che ha colpito il presidente di Confindustria Sicilia. Ed è stata la scoperta che la Regione siciliana della quale Rosario Crocetta è il presidente - anche lui, neanche a dirlo, personaggio legato a doppio filo al senatore Lumia - non si è costituita parte civile in un procedimento giudiziario che coinvolge un funzionario regionale finito in manette per tangenti. Questa mancata costituzione di parte civile da parte della Regione, stando a indiscrezioni, potrebbe essere legata al fatto che il funzionario finito sotto processo, Gianfranco Cannova, era il responsabile del procedimento amministrativo di importanti autorizzazioni ambientali. La firma sui provvedimenti di autorizzazione non poteva essere la sua, perché si tratta, come già accennato, di un funzionario e non di un dirigente. Viene da chiedersi, a questo punto, perché hanno arrestato lui, se a firmare erano, a norma di legge, altri dirigenti. E’ in questo scenario che si inserisce la mancata costituzione di parte civile da parte del governo regionale di Crocetta. Con molta probabilità, dietro questa storia c’è un comitato di affari. E questo comitato di affari che la Regione sta cercando di proteggere non costituendosi parte civile? E’ Cannova non sa nulla di questa storia? Le domande sono più che legittime, perché quello che sta succedendo è veramente strano. In ogni caso, per il presidente Crocetta - un personaggio che, a parole, si proclama sempre antimafioso e paladino della cultura della legalità - è una pessima figura, sia nel caso in cui avesse semplicemente ‘dimenticato’ di costituirsi parte civile, sia nel caso in cui si dovesse venire a scoprire che dietro questa storia c’è un comitato di affari. La cosa strana è che gli ultimi due dirigenti che stavano sopra il funzionario regionale finito in manette non ci sono più. Il primo - Vincenzo Sansone - è andato in pensione negli stessi giorni in cui esplodeva il caso Cannova. Il secondo - Natale Zuccarelo - con parenti importanti nel mondo politico siciliano, è stato trasferito negli uffici del dipartimento regionale dei Rifiuti. Una settimana dopo lo scivolone di Crocetta (che comunque, come già accennato, non è nuovo a questo genere di stranezze, se è vero che il suo governo, in tanti, forse troppi casi, ha ignorato le regole sull’anticorruzione) è arrivata la botta a Montante. Agli osservatori non sfugge che il presidente di Confindustria Sicilia è stato chiamato a far parte dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Una struttura, inventata dalla politica italiana, della cui presenza in vita i cittadini del nostro Paese non avvertivano e non avvertono ancora oggi il bisogno. Su questo punto è bene essere chiari. Dei beni sequestrati e confiscati alla mafia si occupa già la magistratura. Ci sono state polemiche sul fatto che chi va a gestire questi beni - che di solito sono avvocati e commercialisti nominati dai magistrati - non avrebbe e competenze imprenditoriali per gestire aziende confiscate che poi, magari, falliscono. Il problema esiste. Ma non si capisce perché, a risolverlo, dovrebbero essere soggetti nominati da una politica che spesso è collusa con la mafia. Insomma, senza girarci tanto attorno, il dubbio, tutt’altro che campato in aria, è che la politica stia provando a togliere ai magistrati la gestione dei beni confiscati alla mafia. E siccome sono noti i rapporti tra mafia e politica, non è da escludere che i politici, con questo stratagemma, puntino a restituire, sottobanco, i beni confiscati ai mafiosi o ai loro eventuali prestanome. Nessuno, per carità!, vuole offendere i soggetti - Prefetti in testa - chiamati a gestire l’Agenzia per i beni confiscati o sequestrati alla mafia. Le nostre sono semplici considerazioni politiche che non coinvolgono i Prefetti. Considerazioni legate, piaccia o no, alla storia del nostro Paese. E’ un peccato di lesa maestà ricordare - lo faceva nei primi del ‘900 Gaetano Salvemini - che Giolitti, nel Sud d’Italia, esercitava il suo potere proprio con i Prefetti in combutta con i prepotenti e i mafiosi dell’epoca? E ci sono dubbi sul fatto che, in Italia, ancora una volta, l’ultimo baluardo contro un’illegalità mai doma è rappresentato dalla magistratura? Detto questo, la politica farebbe bene a sbaraccare subito questa inutile Agenzia per i beni confiscati e sequestrati alla mafia. Quanto ai problemi legati alla mancata gestione imprenditoriale delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, beh, è sufficiente affiancare ai commercialisti e agli avvocati imprenditori o associazioni di imprese. Ma questo deve farlo la magistratura e non i politici attraverso un’inutile Agenzia controllata dalla politica! Fine delle considerazioni sull’aria pesante che oggi si respira nell’Isola? Niente affatto. I cambiamenti in corso sono ancora più profondi. Qualcuno, in Sicilia, a partire dal 1994, pensava di essere immune da qualunque controllo di legge. E, in effetti, forse in parte è stato così. Chi scrive ricorda un sindaco di Corleone di sinistra che in quegli anni affidava e rinnovava appalti a una società riconducibile a parenti stretti del boss Bernardo Provenzano. Per non parlare della storia del miliardo di vecchie lire messo a disposizione dall’Onu nel 2000. Soldi, affidati a soggetti dell’antimafia, di cui non si è saputo più nulla. Tra i personaggi che hanno sempre navigato in un’Antimafia molto discutibile c’è il già citato senatore Lumia. Che oggi non sembra più il politico irresistibile di un tempo. Qualcuno ha creduto che lui e i personaggi a lui vicini non sarebbero mai stati chiamati a rispondere del proprio operato. Forse perché ha pensato, errando di grosso, che la magistratura era assimilabile agli altri poteri dello Stato italiano, più o meno addomesticabili. Ebbene, questo qualcuno si è sbagliato. Perché sia la magistratura nel suo complesso (con riferimento, come vedremo, anche al Tar, sigla che sta per Tribunale amministrativo regionale della Sicilia), sia la Corte dei Conti stanno rispondendo ai prepotenti, ai furbi e anche ai mafiosi, vecchi e nuovi con un solo linguaggio: quello della legalità. La vicenda che oggi coinvolge Montante - vicenda, lo ribadiamo, legata a dichiarazioni di pentiti ancora tutte da verificare - arriva da lontano e, con molta probabilità, è destinata ad andare lontano. Toccando tutti i gangli del sistema di potere che dal 2008 tiene in pugno la Sicilia. Chi scrive, già nei primi mesi dello scorso anno, sul quotidiano on line LinkSicilia, segnalava, ad esempio, lo strano caso di Patrizia Monterosso, segretario generale della presidenza della Regione (in pratica, il più alto burocrate della Regione siciliana che, lo ricordiamo, in virtù della propria Autonomia, potrebbe essere assimilato a uno Stato americano se la stessa Autonomia venisse applicata correttamente: cosa che non avviene), e di suo marito, l’avvocato Claudio Alongi. Con la prima che si pronunciava su un incarico del marito presso la stessa amministrazione regionale! E con il secondo che forniva pareri legali alla moglie per fatti che riguardano la stessa amministrazione regionale! Entrambi in palese conflitto di interessi. Quando abbiamo scritto queste cose ci hanno quasi presi per matti. Non ci credevano. Ma oggi questa vicenda è diventata di dominio pubblico. E, con molta probabilità, è al vaglio delle autorità competenti. Superfluo aggiungere che anche la Monterosso fa parte del sistema di potere del senatore Lumia. Il senatore Lumia - che è il vero presidente ombra della Regione siciliana, in quanto inventore della candidatura di Crocetta insieme con i geni dell’Udc, formazione politica in via di decomposizione politica - comincia a perdere colpi. Ben prima del ‘siluro’ che in questi giorni ha centrato Montante, lo stesso segretario generale della presidenza della Regione, la già citata Patrizia Monterosso, è stata condannata dalla Corte dei Conti al pagamento di oltre un milione di euro per fatti riguardanti il settore della formazione professionale. Un altro ‘pezzo’ importante del sistema di potere di Lumia - la dirigente generale del dipartimento Lavoro della Regione, Anna Rosa Corsello - è stata di recente ‘bastonata’ dal Tar Sicilia, che ha dichiarato nullo un atto amministrativo da lei confezionato (si tratta del decreto di accreditamento degli enti di formazione, atto che avrebbe dovuto essere firmato dal presidente della Regione e che, invece, è stato firmato dall’ex assessore regionale, Nelli Scilabra). Il decreto dichiarato nullo dal Tar Sicilia potrebbe avere effetti dirompenti, perché sui soldi già spesi sulla base di un decreto nullo la Corte dei Conti dovrebbe avviare un’azione di responsabilità a carico dei protagonisti di questa incredibile storia (parliamo di milioni di euro). Non solo. Sembra che, adesso, anche l’Unione europea si stia svegliando. Fino ad oggi Bruxelles, sulla formazione professionale, ha fatto finta di non vedere violazioni incredibili. I burocrati legati all’attuale governo regionale hanno bloccato l’assegnazione di fondi europei per rivalersi su errori commessi nell’erogazione di fondi pubblici. Solo che i fondi erogati irregolarmente erano regionali, mentre quelli con i quali la Regione ha provato a rivalersi erano europei. Due tipologie di fondi pubblici non sovrapponibili. Morale: la Regione non avrebbe dovuto bloccare l’erogazione di fondi europei per recuperare fondi regionali erogati illegittimamente. Ma c’è, nella gestione della formazione professionale siciliana, un’irregolarità che sta ancora più a monte. Una storia molto più grave che Bruxelles non ha ancora sanzionato. I fondi europei, per definizione, sono ‘addizionali’: si debbono, cioè, sommare ai fondi nazionali e regionali. La Regione siciliana, invece, dal 2012, utilizza i fondi europei sostituendoli totalmente ai fondi regionali. E questo non si può fare. Non a caso è in corso una class action da parte del mondo della formazione professionale siciliana contro la Regione che, ormai da quattro anni, non si dota del Piano formativo regionale della formazione professionale con fondi regionali, finanziando tutto con le risorse del Fondo sociale europeo. Cosa, questa, che non si dovrebbe fare perché a vietarlo è la stessa Unione europea che, fino ad oggi, violando leggi e regolamenti che essa stessa si è data, fa finta di non vedere tutto quello che succede in Sicilia in questo settore, rendendosi complice di un’irregolarità ai danni di se stessa. Tutto questo vale per il passato e per il presente. Ma il siluro che ha colpito Montante e il sistema di potere del senatore Lumia riguarda anche il futuro. E’ noto a tutti che, guarda caso in questi giorni, si è aperta la caccia alle tre società che gestiscono gli aeroporti siciliani. Sono la Sac, che gestisce gli aeroporti di Catania Fontanarossa e Comiso; la Gesap, che gestisce l’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo; e l’Airgest, che gestisce l’aeroporto ‘Vincenzo Florio’ di Trapani. Per motivi misteriosi queste tre società - fino ad oggi controllate da soggetti pubblici - dovrebbero essere privatizzate. Si tratta di società che, se gestite con oculatezza, potrebbero dare utili e ricchezza alla collettività. Ma siccome siamo in Italia questa ricchezza se la debbono incamerare i privati. A questo sembra che punti il governo Renzi che, non a caso, su questi e su altri argomenti è perfettamente in linea con Berlusconi, alla faccia della sinistra che lo stesso Pd di Renzi dice di rappresentare! L’affare più grosso è rappresentato dall’aeroporto di Catania, il più importante della Sicilia, destinato a diventare un hub. Non a caso su questo aeroporto si è già gettato come un falco Ivan Lo Bello, altro esponente di Confindustria Sicilia vicino a Montante. Chi prenderà il controllo della Sac - società per azioni oggi controllata dalle Camere di Commercio di Catania, Siracusa e Ragusa, dall’Istituto regionale per le attività produttive e dalle Province di Catania e Siracusa - assumerà pure la gestione dell’aeroporto di Comiso, snodo aeroportuale importante per il flusso turistico verso il Barocco di Noto, Siracusa e Ragusa e per il trasporto cargo di tutta l’ortofrutta prodotta nelle serre che, dal Ragusano, arrivano fino a Gela e Licata. Un po’ meno importanti - ma non per questo da tralasciare - gli aeroporti di Palermo e Trapani. Nella Gesap - società che, come ricordato, gestisce l’aeroporto ‘Falcone-Borsellino’ - troviamo la Provincia di Palermo come socio di maggioranza, poi il Comune e la Camera di Commercio, sempre di Palermo. Mentre l’Airgest fa capo per il 49 per cento alla Provincia di Trapani, per il 2 per cento alla Camera di Commercio, sempre di Trapani, e per il restante 49 per cento a un gruppo di privati. Non sfugge agli osservatori che Montante, oltre che presiedere la Camera di Commercio di Caltanissetta, è presidente dell’Unioncamere, cioè dell’Unione delle Camere di Commercio della Sicilia. E le Camere di Commercio, in tutt’e tre le eventuali privatizzazioni delle società aeroportuali, giocheranno un ruolo centrale. Lo stesso discorso vale per le Province siciliane, tutte commissariate e gestite dalla stessa Regione, cioè dall’accoppiata Lumia-Crocetta…Insomma, i conti tornano. O meglio, cominciano a non tornare per Lumia, per Montante e per Crocetta. Tre personaggi che hanno fatto fortuna utilizzando l’antimafia come trampolino di lancio per la politica (e per gli affari). Ma adesso tutto questo mondo sembra in difficoltà. Una caduta che non sembra risparmiare nemmeno il numero due di Confindustria Sicilia, Giuseppe Catanzaro, titolare della più grande discarica della Sicilia in quel di Siculiana, in provincia di Agrigento. Sotto scacco - non a caso sempre da parte della magistratura - è finita tutta la gestione dei rifiuti in Sicilia imperniata ancora sulle discariche. Una follia tutta siciliana che inquina l’ambiente. Va ricordato che quasi tutte le discariche siciliane non sono a norma di legge. Nelle discariche non possono essere sotterrati i residui organici, cioè il cosiddetto ‘umido’ che andrebbe lavorato a parte. Invece in quasi tutte le discariche siciliane i camion pieni di immondizia entrano, scaricano e vanno via. Ma questo non si può fare, la legge non lo consente. E invece si fa. Ma adesso la festa sembra finita. Non va meglio per la gestione dell’acqua. Tutti in Sicilia sanno che, in due anni e oltre di legislatura, il Parlamento siciliano, di fatto, ha bloccato il disegno di legge d’iniziativa popolare per il ritorno alla gestione dell’acqua pubblica. La mafia, in Sicilia, è sempre stata contro l’acqua pubblica. Era così ai tempi di Don Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Ed è così anche oggi che la mafia opera da Bruxelles, imponendo i proventi delle attività criminali nel calcolo del Pil dei Paesi dell’Unione europea. La mafia non vuole il ritorno all’acqua pubblica. E la politica siciliana si sta adeguando alle ‘richieste della mafia che, come insegna ‘Il Padrino’, in genere, non si possono rifiutare. Questo spiega perché, proprio mentre scriviamo, mezza Regione siciliana è mobilitata a bloccare i tentativi di alcuni Sindaci dell’Agrigentino di gestire l’acqua nell’interesse dei cittadini. Un esempio intollerabile…Insomma, tutto il mondo che gira attorno a Lumia, Montante, Catanzaro, Lo Bello e Crocetta - che è un mondo di politica legata agli affari, dall’agenzia dei beni confiscati alla mafia alla gestione della burocrazia, dalle società aeroportuali ai rifiuti, fino all’acqua - in un modo o nell’altro non sembra più in sintonia con una certa idea di antimafia. La Giustizia da una parte e i grandi interessi che si scontrano, dall’altra parte, stanno disegnando in Sicilia nuovi scenari.
Palermo, un politico ambasciatore dei padrini. 14 commercianti denunciano il pizzo, 27 arresti. In manette il consigliere comunale Giuseppe Faraone, è accusato di concorso in tentata estorsione: per conto dei boss avrebbe chiesto soldi a un imprenditore. Alle ultime regionali in Sicilia era stato candidato nella lista del governatore Crocetta, risultò il primo dei non eletti. All'alba, il blitz di carabinieri, squadra mobile e nucleo speciale di polizia valutaria. Il procuratore Lo Voi: "Agli estorti dico, non avete futuro", scrive Salvo Palazzolo su “La Repubblica” In campagna elettorale Giuseppe "Pino" Faraone si definiva un "paladino della legalità" e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: "Amo Palermo". Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D'Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, che hanno fotografato il politico mentre bacia il mafioso, davanti a un bar di viale Strasburgo. Eccola, l'ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un'imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l'insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E' un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent'anni è passato dall'Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Faraone aderisce proprio al gruppo del Megafono. Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le dichiarazioni fatte alle forze dell'ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all'evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c'era anche l'insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della "mesata", ma anche assunzioni. Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia. Il procuratore capo Franco Lo Voi dice in conferenza stampa: "Il contributo delle vittime, sostenute anche da Addiopizzo, è stato fondamentale per questa indagine. Agli uomini che ancora pretendono le estorsioni voglio dire che non hanno molta strada davanti a loro, non hanno futuro. E questo sia grazie alle collaborazioni sempre più numerose delle vittime, sia grazie alle indagini". Il sindaco Orlando annunciato invece la costituzione di parte civile nel processo. La denuncia. "Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all'interno dell'amministrazione comunale". Inizia così il drammatico racconto dell'imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: "E' Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l'ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva". Iniziarono giorni terribili per l'imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, "perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto", disse all'imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: "Rivolgiti agli amici". Fino a quando l'imprenditore decise di affrontare Faraone: "Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda. Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò".
Giuseppe Faraone Arrestato, il consigliere che nessuno vuole: Rosario Crocetta lo scarica e Matteo Salvini non lo riconosce, scrive Gabriella Cerami, L'Huffington Post. La storia è quella di sempre: nessuno sa. Tutti si affrettano a scaricare l’accusato, anzi, in questo caso l’arrestato. Giuseppe Faraone, il consigliere comunale di Palermo finito in carcere con l’accusa di tentata estorsione, viene rinnegato da chiunque. Soprattutto dal presidente siciliano, Rosario Crocetta, che eppure lo aveva candidato alle Regionali del 2012 nella lista il Megafono, movimento che fa capo proprio al governatore. La prima reazione di Crocetta è la seguente: “Hanno fatto bene ad arrestarlo. Se ha lasciato il Megafono vuol dire che non si trovava bene. Mi risulta che aveva aderito alla Lega Nord, così Salvini impara a non utilizzare la Lega come un taxi”. In realtà, non c’è traccia dell’addio di Faraone al Megafono, anzi ancora oggi risulta essere il presidente del gruppo consiliare del comune di Palermo “Megafono-Noi con Salvini”. Dal canto suo il segretario della Lega Nord prende le distanze dicendo di non aver mai conosciuto Faraone, che fa capo al Megafono, mentre il consigliere di Noi con Salvini a Palermo è Giorgio Calì. In sostanza, i due hanno creato un gruppo consiliare unico pur mantenendo il proprio riferimento politico. Per capire la vicenda occorre fare un passo indietro. Faraone entra nel maggio del 2012 nel Consiglio comunale del capoluogo di Regione con la lista “Amo Palermo” e aderisce al gruppo Misto. Nell’ottobre dello stesso anno si candida alle elezioni regionali nella lista il Megafono e risulta il primo dei non eletti. Ma dopo l’esperienza di questa campagna elettorale lascia il gruppo Misto per creare, nell’aprile del 2013, il gruppo consiliare “Megafono-Centro democratico”. Per formare un gruppo occorre essere almeno in due. Il collega di Faraone è Giorgio Calì, eletto con Italia dei Valori e poi passato a Centro democratico. La storia politica di Calì è caratterizzata da diversi cambi di casacca. Dal Centro democratico, nell’aprile del 2014, passa al Dpr (con annesso cambio di nome del gruppo consiliare che ora diventa “Megafono-Dpr”). Alla fine Calì approda alla Lega Nord e annuncia, in conferenza stampa, la sua adesione al movimento di Salvini. A questo punto il 22 gennaio scorso il gruppo consiliare si trasforma in “Megafono-Noi con Salvini”. Alla luce dell’arresto di Faraone, l’associazione del suo nome alla Lega Nord è immediata. Tanto che Salvini annuncia querele “a pioggia”: “Specifico – dice - che non lo conosco, non so chi sia, non fa parte di NcS. Il problema Faraone è tutto di Crocetta”. Ma ecco la replica del governatore della Sicilia, nel gioco dello scarica barile: “Ci sono una serie di personaggi che si vogliono riciclare, Salvini in Sicilia deve stare attento, rischia di imbarcare criminali". E poi ancora: “Faraone non è mai stato autorizzato a utilizzare il nome e il simbolo del megafono”. Fatto sta il simbolo che appare sul sito del comune di Palermo non lascia spazio a equivoci. Così, in tutta questa vicenda, a tanti è rimasto un dubbio: come mai il presidente della Regione non si era accorto che proprio a Palermo, capoluogo di Regione, c’era un gruppo con il simbolo del suo movimento? Adesso Crocetta garantisce che “sta mettendo ordine, istituendo segreterie territoriali e provinciali. Abbiamo cominciato in alcune zone della Sicilia, dobbiamo farlo al più presto anche a Palermo”. I dubbi rimangono. E la Lega Nord era a conoscenza del fatto che un suo consigliere avesse come alleato un esponente del Megafono di Crocetta? “Assolutamente no”, dice il deputato Angelo Attaguile, catanese e uomo del Carroccio che sta organizzando la Lega in Sicilia. “Calì è stato superficiale e noi davamo per scontato che facesse parte del gruppo Misto. Questa mattina l’ho richiamato dicendogli di passare subito al Misto. Faraone invece non so chi sia, non lo conosco e non è mai venuto alle nostre riunioni. Di Calì posso assicurare che è una persona perbene perché ho verificato il suo curriculum”. Alla fine della storia, nel tira e molla tutto politico all'indomani dello sbarco della Lega Nord in Sicilia, ciò che rimane è il simbolo che mette insieme il "Megafono" di Crocetta e il logo "Noi con Salvini", e dunque Faraone e Calì, che dall'aprile 2013 fanno parte dello stesso gruppo in consiglio comunale.
Pif: un selfie antimafia li seppellirà? Scrive Antonio Roccuzzo su “Il Fatto Quotidiano”. Antimafia da selfie? Sì. E poi, in fondo, perché no, se il fine giustifica il mezzo? Postando su Twitter il suo video alla lapide di via Libertà che a Palermo ricorda l’uccisione di Piersanti Mattarella, nel giorno dell’elezione al Quirinale del fratello Sergio, forse quel tardo-post-sessantottino di Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) avrà ricordato la vecchia frase di Michail Bakunin: “Sarà una risata a seppellirvi”. A seppellire almeno un altro pezzettino di consenso ai mafiosi. Lui, Pif, inquieta e – il suo film La mafia uccide solo d’estate cos’è se non questo? – cerca di resuscitare con un sorriso la memoria di fatti tragici che il nostro Paese ha smarrito e non coltiva come si deve. Pur avendo segnato la vita quotidiana di un sacco di gente, anche della gente indifferente. E allora che selfie sia, anche a chi non piace lo strumento di comunicazione renziana per eccellenza. Un selfie non vi seppellirà, ma almeno vi farà pensare. L’amarissimo paradosso e il provocatorio “cazzeggio” di quel selfie da cantastorie antimafia è il seguente: bisogna avere un fratello eletto al Colle, per essere ricordato da tutti come un eroe antimafia! Deve aver pensato questo Pif che è mediaticamente dovunque ma in questo caso apre una sua parentesi (tra uno spot e l’altro, tra una comparsata e un – meritato – premio) per far passare messaggi. E in questo caso qual è il messaggio? “Caro dottor Mattarella (Piersanti, ndr) ho il sospetto che il prossimo 6 gennaio ci sarà un po’ più di gente a ricordarla”, dice il nostro sovraesposto testimonial dell’antimafia che sorride. E poi chissà perché l’idea antimafia deve essere sempre accoppiata soltanto al pianto. Perché? Io un po’ di memoria sicula la custodisco e nei primi movimenti di studenti palermitani negli anni Ottanta ho visto un sacco di sorrisi, speranze, parole dolci. Per esempio tra i ragazzi in corteo a Ciaculli, 1983, quartiere occupato dal boss Michele Greco. Io c’ero e l’aria era di una passeggiata festosa al di là di una porta che nessuno aveva mai aperto: un “cazzeggio” di ragazzi che trasgredivano una regola, quella del non parlare, non gridare, non sorridere. Ricordo il sorriso di Giovanni Falcone, davanti alla notizia di quel corteo variopinto che aveva illuminato quelle strade buie di Palermo. Allora, negli anni Ottanta, non c’erano cellulari e selfie non se ne facevano. La lotta alla mafia, 35 anni dopo, si fa anche così, con un sorriso e l’amarezza di chi ricorda – Pif la cita senza dirla – la frase di Bertold Brecht da Vita di Galileo: “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E per contrasto beato il Paese che di eroi può fare a meno. Non è purtroppo il caso del nostro Paese, perché – per esempio a Palermo – di lapidi simili a quella del selfie di Pif è disseminato quasi ogni incrocio. Ho iniziato a fare il cronista in Sicilia proprio in quel lontano 1980, quando a Palermo la mafia uccideva chiunque e in tutte le stagioni: Piersanti Mattarella (presidente della Regione, 6 gennaio), Emanuele Basile (capitano dei carabinieri, 4 maggio), Gaetano Costa (procuratore della Repubblica, 6 agosto) e la guerra di mafia mieteva cento-centoventi picciotti morti ammazzati all’anno e negli anni prima e dopo altri omicidi e altre lapidi da selfie antimafia. E allora, alzino onestamente la mano quanti – tra le persone comuni ma anche tra i 1.009 grandi elettori di Sergio Mattarella – ricordano quei lontani eventi. Quel banale e sgangherato selfie di Pif non riesumerà la memoria, ma già aiuta a seppellire la nostra cattiva coscienza.
3 marzo 2015. Predica contro il pizzo, arrestato per estorsione. Il presidente della Camera di Commercio di Palermo, che spesso si era vantato di essere dalla parte della legalità, è stato colto in flagrante dai carabinieri mentre riscuoteva il denaro che aveva preteso in cambio di "un favore", scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Negli ultimi dieci anni il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, ha firmato protocolli di legalità per contrastare - sulla carta - le estorsioni; ha pure stretto accordi – sempre sulla carta - per sostenere legalmente ed economicamente le vittime del pizzo che decidono di denunciare gli esattori del racket ed è stato sempre pronto a fare dichiarazioni puntuali alla stampa, con frasi ad effetto in cui diceva di condannare chi si piegava al ricatto della mafia. Tutto questo è accaduto a Palermo dove Roberto Helg, con un passato travagliato fra dichiarazioni di pentiti che lo citavano, è diventato il leader dei Commercianti, prima in Confcommercio e poi alla Camera di Commercio, e ha continuato a rappresentarli anche dopo che la sua azienda è fallita. “La royalty... dal 7 noi passiamo al 10... quindi tu hai un risparmio... (...) Ne paghi 110 di aumento, dal 7 al 10... Cento sono quelli che dobbiamo dare... Tu hai un risparmio di 104 mila 440... E sei dentro, al dieci”. “Quindi praticamente quello che dovrei dare io in più sono questi centomila euro... ”. “Di cui io ho ottenuto anche 50 lunedì, prima del consiglio... Gli altri, 10 mila al mese. Ho detto che ne rispondo io, mi farà un assegno e m’u tegnu sarbatu...”. Ecco i dialoghi tra Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo arrestato mentre intascava una tangente, e Santi Palazzolo, titolare delle omonime pasticcerie di Cinisi e dell’aeroporto di Punta Raisi, che ha denunciato l’estorsione che gli avrebbe permesso un risparmio sui canoni di affitto degli spazi in aeroporto. Il dialogo tra i due è stato interrotto dai carabinieri, che hanno arrestato Helg. A leggere la rassegna stampa degli ultimi anni Helg viene disegnato come un paladino della legalità che sprona i propri associati a denunciare. I palermitani nascondono sempre delle sorprese. Anche in quelle giornate che sembrano uguali alle altre. Non è sempre come appare. Come ieri pomeriggio quando nella stanza super accogliente del presidente della Camera di Commercio si consuma un'estorsione. E si scopre che la vittima non è il presidente, bensì un ristoratore, a cui Helg che lo aveva convocato aveva imposto il pagamento di centomila euro per ottenere la proroga di affitto di uno spazio commerciale all'aeroporto di Palermo dove lo stesso Helg è vice presidente. Basta dunque un pomeriggio come quello di ieri, in cui viene fuori un mondo ribaltato, come pure la coscienza del povero ristoratore che per continuare a lavorare è costretto a versare una somma di denaro, come se fosse un pizzo, e a chiederglielo non è un mafioso, bensì il presidente della Camera di Commercio. L'uomo non ci sta a questa richiesta e si rivolge ai carabinieri, denuncia come spesso lo stesso Helg aveva invitato a fare, e i militari predispongono un servizio di appostamento e mettono addosso alla vittima una microspia per registrare la conversazione. Tutto è pronto. Scatta l'operazione che viene coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia. Ecco la scena: tutto si svolge poco prima delle ore 17 di martedì 2 marzo. Il ristoratore come da appuntamento preso con Helg si presenta nel grande edificio della Camera di Commercio di Palermo che si affaccia sul porto. Raggiunge l'ufficio e il leader dei commercianti lo accoglie sulla porta. Fa accomodare il ristoratore e questo gli consegna una somma in contanti di 50 mila euro, come aveva preteso Helg e poi l'impegno da parte del commerciante della corresponsione rateale di diecimila euro al mese fino a raggiungere il residuo importo di 50 mila euro. A garanzia di questo impegno Helg pretende un assegno in bianco. Il ristoratore lascia l'ufficio e subito dopo fanno irruzione nella stanza i carabinieri che avevano ascoltato la conversazione. Sulla scrivania gli investigatori trovano una busta con trentamila euro in contanti e in una tasca della giacca di Helg c'è l'assegno in bianco. Il presidente della Camera di Commercio viene arrestato per estorsione e portato in carcere. I magistrati lo interrogano ed Helg avrebbe risposto facendo rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini. All'interrogatorio che è durato tutta la notte hanno preso parte oltre all'aggiunto Petralia anche il procuratore Francesco Lo Voi. Roberto Helg, cinque anni fa, quando era presidente di Confcommercio, ricordava Libero Grassi sostenendo che Palermo non era più quella del 1991 quando l'imprenditore venne assassinato perché si era opposto al pagamento del pizzo. E sosteneva pure che Palermo era cambiata anche nel mondo delle associazioni, e aggiungeva: «oggi posso affermare con certezza che nessun imprenditore resta solo, in quanto tutte le associazioni si impegnano nell'invitare i propri associati alla denuncia». E la certezza ad Helg è arrivata praticamente ieri pomeriggio. Solo che dalla parte dell'estorsore questa volta c'è lui.
Intasca mazzetta da 100mila euro, preso presidente Camera Commercio. E lui: «L’ho fatto per bisogno». Roberto Helg, in qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, avrebbe chiesto e ottenuto la tangente per favorire l’apertura di un ristorante nello scalo siciliano. Era in prima linea nella lotta a racket e corruzione, scrive Chiara Marasca su “Il Corriere della Sera”. Una busta con 30mila euro in contanti sulla scrivania, un assegno in tasca: il presidente della Camera di Commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato lunedì pomeriggio mentre incassava una «mazzetta». In qualità di vicepresidente della Gesap, la società che gestisce l’aeroporto di Palermo, spiega la procura in una nota, Helg avrebbe «chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100.000 euro da un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell’aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli». La richiesta e la consegna del denaro sono state integralmente monitorate dalla polizia giudiziaria. Helg, noto imprenditore palermitano la cui storica azienda era però fallita nel 2012, era in prima linea nella lotta alla corruzione e al racket. L’accusa per Helg è di estorsione aggravata: ha prospettato al commerciante le difficoltà dell’operazione di rinnovo se non supportata dal suo intervento e dal pagamento di 50 mila euro in contanti e di 10 mila euro al mese per 5 mesi, con il contestuale rilascio, come garanzia dell’impegno, di un assegno in bianco del residuo importo di 50 mila euro. Al sopraggiungere della polizia giudiziaria nella stanza di Helg attorno alle 17 di ieri, il presidente della camera di commercio aveva già ricevuto e messo in tasca l’assegno; sulla sua scrivania c’era anche una busta con 30mila euro in contanti. Interrogato dai magistrati della Procura, Helg ha fatto ammissioni sulle quali sono in corso indagini. «L’ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa», si sarebbe giustificato il presidente della Camera di Commercio di Palermo nel corso del lungo interrogatorio della scorsa notte. L’indagato avrebbe negato per ore tentando di giustificare la presenza dei contanti e dell’assegno dell’imprenditore. Intorno alle due di notte, sentendo che gli inquirenti erano in possesso della registrazione della sua conversazione con la vittima all’atto della consegna dei soldi, ha deciso di ammettere la richiesta della tangente sostenendo di aver avuto bisogno di denaro. È stata la vittima dell’estorsione, titolare della pasticceria Palazzolo, che ha un punto vendita all’aeroporto di Palermo, a rivolgersi ai carabinieri dopo la richiesta del denaro. Le investigazioni sono state svolte dai militari del Nucleo investigativo del reparto operativo di Palermo sotto il comando del maggiore Alberto Raucci e con il coordinamento del comandante del reparto, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale colonnello Giuseppe De Riggi. L’indagine è condotta dai pm Luca Battinieri e Geri Ferrara, del dipartimento reati contro la pubblica amministrazione, con il coordinamento del procuratore aggiunto Dino Petralia e la supervisione del procuratore capo Francesco Lo Voi che ha partecipato all’interrogatorio notturno di Helg, che ora si trova nel carcere palermitano di Pagliarelli. Il legale di Helg, l’avvocato Fabio Lanfranca, ha chiesto alla Procura la concessione dei domiciliari per motivi di età, e per motivi di salute essendo affetto da una grave cardiopatia. Roberto Helg compirà 78 anni il prossimo 5 maggio. Dal ‘97 è presidente di Confcommercio Palermo. Nel 1976 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica italiana, e nel 2003 quella di Cavaliere ufficiale della Repubblica e nel 2012 quella di Commendatore ordine al merito della Repubblica Italiana. Helg navigava da tempo in cattive acque. La sua storica ditta (settore tavola, cristallerie, argenterie e arredamento), aveva chiuso nel 2012 dopo quasi quarant’anni di attività. Helg, dal 1997 anche alla guida di Confcommercio Palermo, aveva dichiarato: «Non riusciamo più ad andare avanti». E i dipendenti aspettavano lo stipendio da due anni. Roberto Helg, di recente, aveva approvato insieme alla giunta camerale di Confcommercio il piano triennale di prevenzione della corruzione. L’associazione da lui guidata, inoltre, è stata la prima in Italia ad aprire uno sportello per la legalità, per assistere gli imprenditori che denunciano usura e richieste di pizzo. Proprio la lotta al racket è stato il suo impegno negli ultimi anni: Helg è stato tra coloro i quali con un comunicato stampa nei giorni scorsi aveva espresso solidarietà ad Antonello Montante, il leader di Confindustria in Sicilia e paladino della lotta al pizzo, indagato per frequentazioni mafiose dalla Procure di Caltanissetta. Risale ad alcuni mesi fa, infine, una dura polemica tra Helg e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano, Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un’intervista al Giornale di Sicilia che il 90 per cento dei commercianti palermitani paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto “salotto buono” paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell’ordine diano a Todaro notizie così riservate». «Ho deciso di rinunciare al mandato difensivo di Roberto Helg perché lo ritengo incompatibile con il mio ruolo di legale di Confcommercio Palermo e con la scelta di assistere le vittime di estorsione che ho fatto molti anni fa». Parole dell’avvocato Fabio Lanfranca nominato difensore da Roberto Helg.
Palermo, arrestato Helg mentre intasca una tangente. Indagini sull'ipotesi di un sistema corruttivo. Il presidente della Camera di Commercio è stato fermato per estorsione: è stato denunciato dal titolare delle pasticcerie Palazzolo ed è scattata la trappola. "L'ho fatto per bisogno, ho la casa pignorata" ha detto durante la confessione. Pioggia di richieste di danni, Confcommercio lo espelle. L'avvocato rinuncia a difenderlo, scrive invece “La Repubblica”. Il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, è stato arrestato dai carabinieri di Palermo mentre intascava una tangente. Helg, personaggio assai noto in città, presidente di Confcommercio Palermo, è attualmente anche vice presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto Falcone Borsellino di Palermo. Spiegano i carabinieri che "proprio nella veste di rappresentante Gesap, Helg ha chiesto e ottenuto il pagamento di una somma di denaro di 100 mila euro a un esercente del settore della ristorazione, affittuario di uno degli spazi commerciali dell'aeroporto, il quale si era rivolto a lui per ottenere la proroga triennale del contratto a condizioni favorevoli. La richiesta e la consegna del denaro ha fatto registrare la classica sequenza estorsiva consistente nella prospettazione, da parte di Helg, della difficoltà dell'operazione di rinnovo se non supportata dal suo prezioso intervento e, da parte del commerciante, nell'adesione all'illecito pagamento" per il quale Helg "ha preteso, oltre alla consegna di una somma in contanti di 50 mila euro, l'impegno da parte del commerciante alla corresponsione rateale di 10 mila euro al mese con il contestuale rilascio, in funzione di garanzia dell'impegno, di un assegno in bianco". Dalla confessioni di Helg l'indagine potrebbe allargarsi fino a rivelare un sistema corruttivo più ampio. Gli investigatori sono al lavoro. All'arrivo dei militari nella stanza di Helg, attorno alle 17 di ieri negli uffici della Camera di commercio, Helg aveva già ricevuto l'assegno, che aveva riposto nella tasca della giacca, e sulla sua scrivania era presente una busta con 30 mila euro in contanti. "Il contestuale colloquio intercettato era in termini del tutto coerenti con la vicenda estorsiva - dicono gli investigatori - Interrogato dai magistrati della Procura, a fronte di specifiche e dettagliate contestazioni, Roberto Helg ha fatto rilevanti ammissioni sulle quali sono in corso indagini". La notizia-bomba dell'arresto si è diffusa stamattina nel bel mezzo di un incontro sul lavoro femminile che si teneva proprio alla Camera di commercio di Palermo e ha colto di sorpresa i presenti, in gran parte imprenditrici o aspiranti tali. Incredulità e sgomento i sentimenti prevalenti, nessuna voglia di parlare: "Non e' il momento di fare dichiarazioni", si è limitata a dire Patrizia Di Dio, presidente nazionale di Terziario Donna Confcommercio e promotrice dell'appuntamento. Il Comune di Palermo ha annunciato che si costituirà parte civile. L'operazione conclusa ieri ha avuto inizio da una denuncia dell'imprenditore Santi Palazzolo, titolare di una storica pasticceria di Cinisi e del punto di ristorazione interno all'aeroporto di Punta Raisi, che si è rivolto ai carabinieri e ha rivelato i dettagli dell'illecita richiesta di denaro e delle sue modalità estorsive. L'imprenditore si è presentato venerdì pomeriggio dai carabinieri. L'uomo, visibilmente agitato, ha chiesto di parlare con i militari per denunciare che Helg gli avrebbe chiesto una tangente di centomila euro per il rinnovo degli affitti dei locali dell'aeroporto. "Proprio da lui, uomo della legalità non me lo aspettavo - ha detto agli inquirenti - sono esterrefatto, ecco perché sono qui". Le investigazioni sono svolte dai militari del nucleo Investigativo diretto dal maggiore Alberto Raucci, con il coordinamento del comandante del Reparto Operativo, il tenente colonnello Salvatore Altavilla, e del comandante provinciale, il colonnello Giuseppe De Riggi. L'indagine è condotta dal procuratore aggiunto Petralia e dai sostituti Battinieri e Ferrari. "L'ho fatto per bisogno, mi hanno pignorato la casa", ha detto Helg durante la confessione. Ieri notte, il procuratore capo di Palermo Francesco Lo Voi ha partecipato personalmente all'interrogatorio di Helg nel carcere di Pagliarelli. In un primo momento Helg avrebbe tentato di negare la tangente. "Poi è stato smentito dalle sue stesse parole registrate - dice il procuratore Lo Voi - e non ha potuto che ammettere tutto". Ha spiegato agli inquirenti di avere agito "per difficoltà economiche". Helg "non si aspettava che l'imprenditore vittima della tangente lo denunciasse ai carabinieri", dice il procuratore Lo Voi. A chi gli fa notare che Helg era considerato a Palermo un paladino della legalità e dell'antimafia, il procuratore allarga le braccia e dice: "Purtroppo a Palermo succede anche questo..." Helg però non si sarebbe limitato a confessare. E avrebbe fatto rivelazioni sull'esistenza di un sistema corruttivo più ampio. L'intercettazione della sua richiesta di denaro, fatta dalle microspie dei carabinieri piazzate addosso al commerciante che ha denunciato tutto, farebbero pensare al coinvolgimento di altri personaggi. La Procura, dunque, sta cercando di capire se dietro la richiesta ci sia una sorta di organizzazione che si spartiva le tangenti incassate dai commercianti e se Helg avesse già fatto richieste estorsive ad altri. La Procura è in contatto con l'Anac, l'autorità nazionale anticorruzione guidata dal magistrato Raffaele Cantone, e non si escluderebbe un commissariamento della Gesap. I pm, inoltre, stanno facendo uno screening del patrimonio di Helg per eventuali misure di prevenzione. Per 40 anni Roberto Helg è stato titolare di negozi di articoli da regalo a Palermo, attività aperta nel 1974 e fallita nel dicembre 2012, l'anno successivo alla rielezione di Helg alla presidenza della Camera di commercio di Palermo, che guida dal 2006, nonostante il fallimento della sua attività commerciale. La sede commerciale più prestigiosa si trovava in via Ruggero Settimo, a Palermo, e chiuse nel 2000; altri negozi, compreso quello del centro Etnapolis di Belpasso, nel Catanese, chiusero negli anni successivi. L'ultimo negozio ad abbassare le saracinesche fu quello di Carini (Palermo), inaugurato nel 2008. Da paladino della legalità all'arresto per estorsione aggravata. Ecco la parabola discendente di Roberto Helg, 79 anni, sorpreso dai Carabinieri con una bustarella di 30.000 euro sul tavolo del suo ufficio avuta da un imprenditore in cambio del rinnovo dell'affitto di un locale all'aeroporto Falcone e Borsellino. La somma complessiva da pagare era di 100.000 euro. Ma chi è Helg? Non ha mai mancato un convegno sull'antimafia, si è sempre schierato con la legalità e contro il pizzo. Lo scorso dicembre, Roberto Helg, era stato al centro di una polemica con Confindustria. A fare scoppiare la miccia era stata una intervista rilasciata da delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, in cui sosteneva che che il 90% dei commercianti di Palermo "pagano il pizzo". Helg aveva duramente contestato quella dichiarazione dicendo che non era vero. quella percentuale e aveva sostenuto: "Non è vero".La causa del fallimento, spiegò Helg, stava nel drastico calo dei consumi e dai mancati incassi per vendite effettuate all'ingrosso anche all'estero, soprattutto in Tunisia. Le attività erano gestite dalla Gearr srl (50 mila euro di capitale, che aveva raggiunto un'esposizione con le banche di oltre 3,5 milioni), di cui era socio anche il fratello di Helg, Fulvio. Helg nel gennaio dello scorso anno ha approvato insieme alla giunta camerale il piano triennale di prevenzione della corruzione. La Camera di commercio, infatti, "ai sensi del proprio Statuto promuove la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Nella struttura camerale, che ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione nel gennaio 2014, esiste anche lo sportello legalità al fine "di avviare una propria concreta iniziativa nel settore della prevenzione all'usura e dei fenomeni estorsivi, in stretta collaborazione con la Prefettura di Palermo con la quale ha sottoscritto un Protocollo di Intesa per attuare una più stretta sinergia di intervento nella tutela degli imprenditori della provincia". "Ciò - è scritto nel sito della Camera di commercio - ha consentito di avviare la realizzazione di un'importante 'rete di partenariato' con soggetti pubblici e privati di provata esperienza ed impegno su queste tematiche , che ci consente di fornire gratuitamente assistenza quotidiana agli imprenditori della provincia di Palermo, che versano in gravi condizioni economiche e quindi a rischio usura, o già vittime di fenomeni usurari o estorsivi". "Appresa dalla stampa la notizia dell'arresto del presidente Roberto Helg, la Confcommercio di Palermo ha convocato d'urgenza la Giunta Esecutiva per assumere gli eventuali necessari provvedimenti", si legge in una nota dell'associazione. Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società di gestione dell'aeroporto di Palermo, ha convocato per oggi alle 16,30 una conferenza stampa presso l'hotel Borsa. Il consiglio di amministrazione della società si riunirà alle 15. Il Comune di Palermo, Confcommercio, la Gesap e la Camera di commercio hanno annunciato che si costituiranno parte civile nel processo. Il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, esprime "appezzamento per l'operato delle forze dell'ordine e della magistratura, per questo ennesimo contributo all'affermazione della legalità nella nostra città" e annuncia di avere dato mandato all'avvocatura comunale per la costituzione di parte civile "ove ciò dovesse essere processualmente possibile". Anche Fabio Giambrone, presidente della Gesap, la società che gestisce l'aeroporto di Punta Raisi, annuncia che la Gesap si costituirà parte civile e che ha consegnato copia del verbale del consiglio di amministrazione della Gesap all'autorità giudiziaria: "La società non può subire questa esposizione, abbiamo revocato le funzioni e la carica di Roberto Helg e convocato l'assemblea dei soci per il 12 marzo per nominare il successore". Raffaele Cantone, presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione ricorda: "Fece un intervento particolarmente appassionato contro la corruzione". E continua: "ferma restando la presunzione di innocenza, è evidente come in questo mondo ci sia tanta ipocrisia e questa fa molti più danni, rispetto alla stessa corruzione. Se un soggetto del genere parla di contrasto alla corruzione e poi viene arrestato il rischio vero è che si mette in discussione anche la battaglia oltre alle sue parole". Il gruppo dirigente di Confcommercio ha deciso di applicare la sanzione estrema, l'espulsione. A comunicarlo oggi pomeriggio, nella sede di via Emerico Amari, i quattro vice presidenti di Confcommercio di Palermo, Antonello Di Liberto, Patrizia Di Dio, Luigi Genuardi, Rosanna Montalto, e il direttore Vincenzo Costa. "Esprimiamo coralmente solidarietà e vicinanza all'imprenditore anch'egli dirigente di Confcommercio Palermo, che ha denunciato i gravi fatti - si legge nella nota diffusa alla stamp a- abbiamo deciso di applicare la massima sanzione prevista dalla Statuto, ovvero l'espulsione nei confronti di Helg. La Confcommercio, nel confermare il suo impegno per la legalità, si costituirà parte civile nel processo e il gruppo dirigente di Confcommercio Palermo esprime apprezzamento per il lavoro svolto dalla magistratura e dalle forze dell'ordine". Nella sala dove si è tenuta la conferenza stampa ci sono ancora le foto di Helg con l'attuale presidente del Senato Pietro Grasso e i codici etici di legalità siglati da Concommercio. "Non è una giornata felice per Confcommercio -ha detto Genuardi- ma riteniamo che abbiamo fatto quello che andava fatto. Riteniamo che questi sono fatti straordinari e la Confcommercio conferma il suo percorso per la legalità e non si fermerà davanti a questo brutto episodio. L'importante -ha concluso- è la risposta che sapremo dare". Il difensore di Roberto Helg, l'avvocato Fabio Lanfranca, ha rinunciato al suo incarico "per ragioni di incompatibilità". Lo stesso legale è anche il difensore di Confcommercio. "Sono fuori Palermo - dice Lanfranca - e sto apprendendo, ora dopo ora, sempre nuovi particolari sullal vicenda. Purtroppo ci sono profili di incompatibilità. Ho appreso anche della sua ammissione. E io sono legale dell'associazione dei commercianti. non posso accettare. Io assisto le vittime degli estorsori, non posso difendere Helg".
Pizzo in città, quando Helg polemizzò con i dati diffusi da Confindustria. Giuseppe Todaro, aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia, che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo, scrive “Il Corriere della Sera”. Risale a poco dopo Natale la polemica che vide contrapposti il presidente della Camera di commercio di Palermo, Roberto Helg, arrestato ieri per tangenti, e il delegato per la legalità di Confindustria nel capoluogo siciliano Giuseppe Todaro, che è anche componente di Addiopizzo, il quale aveva sostenuto in un'intervista al Giornale di Sicilia che il 90% dei commercianti della città paga il pizzo. Helg aveva contestato quella percentuale e aveva sostenuto: «Non mi è chiaro se chi l'ha intervistato abbia capito bene quanto da lui detto. Mi sento di smentire categoricamente che il 90% dei commercianti del cosiddetto "salotto buono" paghi il pizzo e mi rifiuto di credere che le forze dell'ordine diano a Todaro notizie così riservate». Sulla questione era intervenuto il Comitato di redazione del Giornale di Sicilia, che aveva parlato di «assolute anomalie» contenute nelle dichiarazioni di Helg, prima delle quali «la smentita di un'intervista non rilasciata da lui. È la prima volta che accade in 200 anni di giornalismo. Seconda anomalia, Helg ha chiuso le sue attività per fallimento, continuando a rappresentare gli altri imprenditori che invece le mantengono in vita. Non ci risultano altri casi simili». Helg, sempre in quella circostanza, aveva spiegato: «Da anni sostengo che la lotta al racket vada fatta tutti insieme e non una associazione contro un'altra: questa è una strategia di basso profilo e che non porta buoni frutti. I risultati ottenuti a Palermo dimostrano che la mia posizione è vincente e mi vedo costretto a chiedere all'amico Giuseppe Todaro di smentire quanto riportato a suo nome dall'articolo o di rilasciare altra intervista con l'elenco dei nomi di tutti i commercianti che continuano a pagare il pizzo nella zona bene di Palermo, negandolo poi alle Forze dell'ordine. Se l'amico Todaro ci darà i nomi che dice di conoscere, agiremo di conseguenza come facciamo da anni: contattando l'imprenditore per convincerlo a collaborare con le forze dell'ordine e, in caso di un suo rifiuto, sospendendolo dall'associazione, com'è ormai prassi consolidata».
I due volti di Helg, l'uomo per tutte le stagioni che diceva: "Qui non si paga il pizzo". Il presidente della Camera di commercio arrestato ieri è un esponente di spicco, assieme a Montante, di Unioncamere Sicilia cui Crocetta ha affidato un appalto da due milioni per l'Expo, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica” Il primo problema, adesso, se lo porrà il governatore Rosario Crocetta. Che ha assegnato con affidamento diretto un appalto da due milioni di euro per l'Expo a un'associazione, Unioncamere Sicilia, i cui vertici sono stati stati investiti da inchieste giudiziarie: il presidente Antonello Montante è indagato per mafia e un autorevole membro della giunta, Roberto Helg, è appena finito in carcere per tangenti. E' solo uno dei risvolti dell'operazione che ha portato all'arresto di Helg, commerciante del settore degli articoli da regalo e influentissimo attore della vita amministrativa e politica della città. Helg, 78 anni, Cavaliere del lavoro dal 1976 e più recentemente insignito del titolo di commendatore, è un collezionista di cariche che ha ricoperto incarichi di punta in tutte le stagioni politiche palermitane. E' presidente della Camera di commercio dal 2006 e il suo secondo mandato scade l'anno prossimo. E' stato presidente di Confcommercio Sicilia dal 2006 al 2008, dopo essere stato per nove anni il vice di Sergio Billè. Oggi continua a guidare Confcommercio Palermo. Un uomo per tutte le stagioni, vicino a Forza Italia al tempo della giunta Cammarata e non distante oggi a una parte del Pd "di governo". Uno dei più potenti rappresentanti del mondo produttivo siciliano, con un'anomalia sullo sfondo: l'attività imprenditoriale di Helg è fallita nel 2012. Considerato un paladino della legalità, il presidente della Camera di commercio palermitana non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. La giunta camerale da lui guidata, nel gennaio 2014, ha adottato il piano triennale di prevenzione della corruzione. Con l'obiettivo di "promuovere la cultura della legalità come condizione necessaria per la crescita economica, in particolare, nel campo della lotta al racket delle estorsioni e dell'usura". Il 27 dicembre scorso, nel rispondere piccato al delegato per la legalità di Confindustria Palermo Giuseppe Todaro, Helg aveva detto: "Smentisco categoricamente che il 90 per cento dei commercianti del centro della città paghi il pizzo". Oggi che lo stesso Helg è stato colto in flagrante mentre intascava una mazzetta, quelle parole suonano decisamente beffarde.
Il grande inganno dell'antimafia siciliana: così l'eroe della legalità mette le mani sull'Expo. Montante, indagato assieme all'ex governatore Lombardo, condannato, sono i creatori di Caltanissetta "zona franca" anti-pizzo. Tra collusioni e fiumi di soldi, tutti i paradossi di un'impostura politica dietro la dittatura degli affari, scrivono Attilio Bolzoni ed Emanuele Lauria su su “La Repubblica”. Lo sapevate che esiste una "zona franca della legalità" dove ci sono gli abitanti più buoni e più onesti d'Italia? E lo sapevate che l'hanno fortemente voluta un governatore condannato per mafia e un imprenditore indagato per mafia? Per capirne di più bisogna andare a Caltanissetta, quella che è diventata la capitale dell'impostura siciliana. Nella città dove è iniziata l'irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante detto Antonello, presidente di Confindustria Sicilia, presidente della locale Camera di commercio, presidente di tutte le Camere di commercio dell'isola, consigliere per Banca d'Italia, delegato nazionale di Confindustria (per la legalità, naturalmente) e membro dell'Agenzia nazionale dei beni confiscati (unica carica dalla quale si è al momento autosospeso per un'indagine a suo carico per concorso esterno), si può scoprire come in nome di una assai incerta antimafia si è instaurata una sorta di dittatura degli affari. Un califfato che si estende in tutta la Sicilia ma che è nato qui, a Caltanissetta, dove commistioni - e in alcuni casi connivenze - fra imprese e politica, impresa e stampa, imprese e forze di polizia, imprese e magistratura, hanno ammorbato l'aria e fatto calare una cappa irrespirabile sulla città. In Sicilia tutto si fonda su due parole magiche: legalità e antimafia. È una "legalità" costruita a tavolino e un'"antimafia padronale" che copre operazioni politiche opache e favorisce gruppi di interesse. Dopo la felice stagione iniziata con la "rivolta degli imprenditori" del 2007 guidata da Ivan Lo Bello contro il racket, trasformismo e ingordigia hanno snaturato l'iniziale esperienza e una consorteria si è impadronita di tutto. La "zona franca" l'ha pretesa la Confindustria siciliana di Montante, l'unico "partito" che nel governo regionale siede ininterrottamente da sei anni con un proprio rappresentante. Quando governatore era Raffaele Lombardo - il 2 maggio del 2012 - fu istituita con un atto ufficiale la Provincia di Caltanissetta fu riconosciuta come "zona franca della legalità". L'obiettivo era quello di concedere benefici fiscali alle aziende che "si oppongono alle richieste estorsive della criminalità organizzata". Previsione di spesa: 50 milioni di euro. Lombardo, che al momento della firma era già indagato per reati di mafia, due mesi più tardi si è dimesso e un anno dopo è stato condannato in primo grado a 6 anni e 8 mesi. Un (presunto) amico dei boss che concede agevolazioni a chi si batte contro il racket su richiesta di chi - Montante - è oggi a sua volta chiamato in causa da cinque pentiti per legami con le "famiglie". Trame di potere in una Sicilia che non ha mai temuto il paradosso. La Confindustria di Montante ormai è ovunque. Guida l'Irsap, l'istituto che gestisce le aree industriali siciliane, ha un peso decisivo nel business dei rifiuti e ora ha messo le mani sull'Expo. Pochi giorni fa, l'assessore alle Attività produttive Linda Vancheri, il rappresentante di Confindustria nella giunta di Rosario Crocetta, ha siglato una convenzione che assegna a Unioncamere un pacchetto di interventi per due milioni di euro. Chi guida Unioncamere in Sicilia? Antonello Montante. Sarà lui, malgrado l'inchiesta per concorso esterno, a decidere quali "eccellenze" siciliane del settore agro-alimentare dovranno figurare nella vetrina di Milano e in undici stand fra porti e aeroporti dell'isola. Materia d'indagine per almeno due procure (Palermo e Caltanissetta) e per Raffaele Cantone, il presidente dell'Authority contro la corruzione che, appena il 16 gennaio scorso, ha annunciato che su Expo è stato avviato "il più grande controllo antimafia di tutti i tempi". Una rete di interessi così fitta è protetta anche da una stampa a volte troppo compiacente con Montante e i suoi amici. Al punto da proporre (l'ha fatto La Sicilia in un lungo articolo) la notizia di una laurea honoris causa in Economia e Commercio riconosciuta dall'Università "La Sapienza" all'imprenditore. L'ateneo ha smentito il giorno dopo. Era falso. Nelle sue molteplici vesti istituzionali Montante ha spesso offerto un "sostegno" a mezzi d'informazione e singoli giornalisti. Da presidente della Camera di Commercio di Caltanissetta ha erogato una pioggia di contributi, sotto la voce "azione di marketing territoriale". Ne hanno beneficiato cronisti-scrittori, ancora prima della pubblicazione dei loro libri e testate web. Una settimana fa Il Fatto Nisseno, uno dei siti favoriti, ha cancellato un'intervista di Michele Costa (il figlio del procuratore ucciso a Palermo nel 1980) che manifestava perplessità sull'opportunità che Montante - sott'inchiesta - mantenesse le sue cariche. L'intervista è sparita nella notte "dopo devastanti pressioni". Un altro clamoroso caso riguarda un contratto di collaborazione per due anni - 1.300 euro al mese - che Confindustria Centro Sicilia (sempre Montante presidente) ha firmato con il responsabile delle pagine di Caltanissetta de Il Giornale di Sicilia. Tutti episodi, quelli citati, che hanno spinto l'Ordine dei giornalisti ad aprire un'indagine conoscitiva. Oltre ad Antonello Montante, c'è un altro campione dell'antimafia a Caltanissetta. Si chiama Massimo Romano, socio e amico del Cavaliere, è il proprietario di 34 supermercati sparsi per la Sicilia e, qualche anno fa, era già finito nelle pieghe di un'indagine sui "pizzini" di Bernardo Provenzano molto interessato alla grande distribuzione. Romano da molto tempo siede a tavoli istituzionali con questori e prefetti, è il presidente del Confidi (un consorzio che cede prestiti a piccole e medie imprese) e il suo nome è scivolato in un'operazione antimafia dove il fratello Vincenzo - secondo il giudizio dei magistrati - l'avrebbe tenuto fuori dalla faccenda delle estorsioni "per preservarlo da possibili negative conseguenze sia di immagine che di carattere giudiziario". Il doppio volto di Caltanissetta zona franca per la legalità. C'è promiscuità fra investigatori e magistrati e l'indagato di mafia Montante. A Roma e in Sicilia. A Caltanissetta - visti i suoi rapporti intensi con Angelino Alfano che poi l'ha designato anche all'Agenzia dei beni confiscati - Antonello Montante è riuscito, il 21 ottobre del 2013, a far presiedere al ministro dell'Interno il comitato nazionale per l'ordine pubblico e sicurezza. Un organismo che, solo in casi straordinari, si riunisce lontano da Roma. In Sicilia non accadeva dai tempi delle stragi di Falcone e Borsellino. Perché la scelta di Caltanissetta? Per farla diventare quella che non è mai stata, cioè una roccaforte dell'antimafia. In Sicilia e a Caltanissetta c'è una vicinanza molesta fra imprenditori e rappresentanti dello Stato (si racconta di questori che si trasformano in tappetini al cospetto di Montante, di prefetti che hanno ricevuto esagerate regalie), ci sono investigatori che si fanno assumere parenti e amiche dalla cordata (è il caso di un ufficiale della Dia e di un maggiore della Finanza), ci sono uomini dei servizi segreti che sguazzano allegramente nell'ambiente "antimafioso", c'è una prossimità imbarazzante con molte toghe. Tanto evidente che ha portato il nuovo presidente dell'Associazione nazionale magistrati Fernando Asaro a invitare i suoi colleghi "a una ineludibile concreta distanza da centri di potere economici ". Più chiaro di così.
Montante, il nuovo mostro da sbattere in prima pagina. L'imprenditore pro-legalità Antonello Montante è oggetto delle dichiarazioni di alcuni pentiti. Non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia. Ma tanto basta a massacrarlo sulle pagine di alcuni giornali, scrive Filippo Astone su “Affari Italiani”. Antonello Montante rappresenta l'Enzo Tortora del terzo millennio? Per fortuna no. Almeno per il momento. Dando seguito alle dichiarazioni di alcuni pentiti, Tortora venne processato e condannato in alcuni gradi di giudizio, subendo anche un linciaggio mediatico, con penne importanti (Camilla Cederna e Giorgio Bocca) che si dichiararono convinte della sua colpevolezza. Come Tortora, Montante è oggetto di dichiarazioni di un paio di pentiti, ancora tutte da riscontrare. Però non ha pendenze giudiziarie, non ha ricevuto nemmeno un avviso di garanzia, e subisce un linciaggio mediatico solo da parte di alcuni, che sono giornalisti di calibro nemmeno lontanamente paragonabile a quello di Cederna e Bocca. Tuttavia il torto subito da Montante, e il danno per le battaglie che ha condotto in questi anni, sono molto rilevanti. Enzo Tortora però non si è mai occupato di giustizia o di antimafia, ed è incappato nelle spire dei pentiti "a gettone" solo per un puro scherzo del caso. Da un nome segnato su una agenda, si è arrivati a giochi di parole, a scherzi e quindi a una tragica realtà. Tutt'altro che casuale sembra essere invece il discredito che si tenta di gettare sull'attuale presidente di Confindustria Sicilia nonché vice presidente nazionale di Confindustria con delega sulla legalità. Antonello Montante, 52 anni, nativo di Serradifalco, a pochi chilometri da Caltanissetta, con la mafia c'entra eccome. E' infatti un imprenditore che ha fatto dell'antimafia e della lotta per la legalità la sua ragione di vita, guidando insieme ad altri imprenditori meridionali di Confindustria (il suo alter ego Ivan Lo Bello, e poi Giuseppe Catanzaro, Marco Venturi, Giuseppe Todaro e tanti altri) una rivoluzione pro-legalità che ha segnato uno spartiacque storico. Con le sue battaglie, Antonello Montante ha rischiato la vita e ci ha messo la faccia, ottenendo risultati importanti: oltre 100 imprenditori espulsi da Confindustria per contiguità alla mafia; dozzine di dimissioni spontanee da Confindustria per non essere espulsi; la creazione nelle principali città di un percorso che accompagna per mano gli imprenditori che vogliono denunciare i loro estortori (lo stesso Montante si è esposto in prima persona molte volte, per convincere alcuni colleghi a denunciare); la creazione di un "rating" per la legalità che è diventato legge nazionale dello Stato; la riforma delle Asi, enti clientelari che dovevano gestire gli insediamenti industriali in Sicilia e invece alimentavano solo il malaffare (al loro interno, i mafiosi avevano addirittura la faccia tosta di convocare le riunioni); e soprattutto una nuova mentalità in Confindustria, per cui la legalità, almeno in teoria, coincide con la normalità, e chi non accetta questo principio se ne deve andare. Questa nuova cultura è una rivoluzione copernicana. La Confindustria siciliana prima della rivoluzione di Montante e Lo Bello era pressappoco la stessa che non voleva espellere i mafiosi e i collusi, ma proprio Libero Grassi, che se non fosse stato ucciso era destinato a venir cacciato dall’associazione imprenditoriale. Gran parte dei vertici di quella Confindustria Sicilia (nelle sue diramazioni settoriali e territoriali) erano collusi, come dimostrato da varie inchieste giudiziarie, che li hanno condannati e in alcuni casi incarcerati. Questo è Antonello Montante. Che nella sua giornata di 24 ore trova anche il tempo di gestire due imprese, una che fa ammortizzatori ad alto contenuto tecnologico, e un'altra che produce biciclette di lusso. Le presunte "rivelazioni" dei pentiti, ancora tutte da verificare (le due inchieste di Caltanissetta e Catania, non su Montante ma sulle dichiarazioni dei pentiti nel loro complesso, hanno questo scopo) servono a delegittimarlo proprio pochi giorni dopo che il suo ingresso nel consiglio dell'Ansbc, l'Autorità nazionale dei beni sequestrati e confiscati, un colosso che gestisce qualcosa come 65 miliardi di euro di controvalore (tra cui 10.500 immobili e 1500 aziende), quasi quanto il fatturato della Fiat. Montante, unico imprenditore in un cda di prefetti e magistrati, avrebbe potuto assumere dopo poche settimane un ruolo chiave nell'Ansbc. Ma lo hanno rallentato, con la classica strategia mafiosa del "mascariare", già tentata perfino con Giovanni Falcone (vi ricordate le lettere del "Corvo"). «Mascariare» in siciliano significa tingere con il carbone. Basta un tocco e resta un segno. Quello del sospetto, ovviamente. Ma non è solo per delegittimare qualcuno che la mafia lo tinge con il carbone. Quello è solo il primo passo. Il secondo, se la delegittimazione funziona, può essere quello di porre fine alla vita del delegittimato, sperando poi che la cosa venga vista da molti non come l'eliminazione di un eroe, ma come una "vicenda tra loro". Spiace che alcuni giornalisti, sicuramente in buona fede ma traviati dalla convinzione di avere la verità in tasca (soprattutto se si deve dar contro a qualcuno, processarlo e condannarlo in quattro e quattr'otto, senza nessun aggancio alla realtà dei fatti né a quella giudiziaria) si prestino a questo gioco al massacro. Nelle ultime settimane Montante è stato rappresentato da alcuni quotidiani come se fosse indagato per mafia (e non è vero, non ha ricevuto nessun avviso di garanzia, gli unici fascicoli aperti riguardano le dichiarazioni di alcuni pentiti, sulle quali la magistratura è obbligata a cercare riscontri), come se fosse un personaggio discutibile (e da chi? perchè?), come se si fosse dimesso dall'Ansbc (e invece si è solo "autosospeso", cioé per il momento non partecipa alle riunioni), come se ci fosse una presa di distanza della magistrature e delle forze dell'ordine da lui (invece la collaborazione continua). Eppure, il 24 gennaio 2015 (poco prima delle rivelazioni pentitizie a "orologeria", guarda caso) il presidente della Corte di Appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario aveva detto: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». Parole simili le ebbe a dire Sergio Lari, capo di quella stessa procura di Caltanissetta oggi chiamata a far luce sulle rivelazioni di questi pentiti a proposito di Montante e di altro. L'occasione era un convegno a Chianciano Terme, nel settembre 2013. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti, che mirano a screditare chi in Sicilia combatte malaffare e mafia.Una campagna di delegittimazione, che è anche una strategia della tensione potrebbe tradursi in attentati e stragi», disse Lari. Il magistrato parlava chiaro: «Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali on line gettano sospetti e fango su chi l'antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci e altri messaggi inquietanti». Non si possono tacere neanche le dichiarazioni del prefetto Umberto Postiglione, direttore dell'Agenzia per i beni sequestrati, alla commissione antimafia della Regione Sicilia. «Quando ero Prefetto ad Agrigento» ha spiegato Postiglione durante l'udienza, «mi dicevano: Eccellenza, siamo nella casa di Pirandello , e io dicevo che Pirandello era un dilettante a confronto. Le cose che si riescono a costruire in Sicilia possono essere estremamente articolate anche nell’architettura diffamatoria. Se c’è qualcuno che nell’ombra ha bisogno di vendicarsi potrebbe farlo attraverso questi meccanismi, insomma una forma di ritorsione per la svolta confindustriale. Bisogna venirne fuori cercando di recuperare la verità. Io ripeto che non ho giudizi da esprimere, Montante lo conosco e mi è sempre sembrato una persona che lotta per la legalità». Montante viene difeso anche dalla Dna, la Direzione nazionale antimafia, che nella relazione 2014, presentata al Parlamento il 24 febbraio 2015 (cioé ben dopo l'emergere dello "scandalo"), scrive: «Nell’ultimo periodo si assiste ad una crescente reazione delle organizzazioni mafiose e dei suoi poteri collegati (come ad esempio quello dei “colletti bianchi”) contro l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, nonché contro l’opera di legalità posta in essere in questi anni dall’Associazione Confindustriale di Caltanissetta e, in generale, da quella regionale». “In tale contesto – prosegue la Dna – sembrano iscriversi gli atti intimidatori consumati ai danni del Presidente dell’Irsap (Istituto regionale per lo sviluppo delle attività produttive), Alfonso Cicero. In definitiva, sembra che la reazione di cosa nostra, attuata su più piani, abbia come obiettivo quello di innalzare il livello di aggressione contro quel modello voluto anche da Confindustria Sicilia, che ha costituito, in questi ultimi anni, un elemento di forte discontinuità rispetto al passato”. E che dire dell'intercettazione ambientale di un colloquio fra due mafiosi, in un bar di San Cataldo, cittadina della provincia nissena? «Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più», si dicono i due nel colloquio, registrato nel settembre 2014. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Lo Bello: «Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine». Ma in che cosa consistono le accuse dei pentiti contro Montante? Secondo quanto emerge dalle anticipazioni giornalistiche, tra il 1999 e il 2002, Montante avrebbe pilotato alcuni appalti all'interno del consorzio Asi di Caltanissetta. La cosa stupisce, perché all'epoca l'imprenditore non aveva cariche né in Confindustria, né a livello politico, né all'interno dell'Asi. Ma contrasterebbe vieppiù con la battaglia condotta da Montante e Lo Bello (e da Alfonso Cicero, funzionario regionale che ha sempre lavorato in sintonia con loro) per la bonifica di questi consorzi. Da leggere, quello che denunciarono Montante e Lo Bello nel giugno 2014 in Commissione parlamentare antimafia. Una denuncia che è solo l'ennesima, e fa eco alle decine di azioni simili condotte in passate. Disse Lo Bello: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso». E aggiunse Montante: «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare».
Coinvolto in due inchieste per mafia, Montante lascia l'Agenzia per i beni confiscati. Il delegato per la legalità di Confindustria, presidente dell'associazione in Sicilia, si sospende dall'incarico dopo le notizie pubblicate da Repubblica delle indagini che lo riguardano a Caltanissetta e Catania, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. Antonello Montante lascia la carica di consigliere dell'Agenzia per i beni confiscati ai boss. Una decisione sofferta. maturata solo nelle ultime ore, dopo un frenetico giro di consultazioni. Il presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la legalità dell'associazione di viale dell'Astronomia, si sospende dai vertici dell'Agenzia dopo le notizie, pubblicate da Repubblica, di due inchieste per mafia, a Caltanissetta e Catania, che lo vedono coinvolto. A parlare di Montante sono cinque pentiti, che raccontano di una vicinanza dell'imprenditore di Serradifalco (Caltanissetta) con esponenti di spicco delle locali "famiglie". Montante, in una nota, annuncia la sospensione dall'incarico nel direttivo dell'Agenzia presieduta dal prefetto Umberto Postiglione e di cui fa parte anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Negli ultimi giorni anche da ambienti confindustriali era giunta a Montante la sollecitazione a compiere questo passo: una mossa che dovrebbe servire a placare le polemiche, in attesa di sviluppi giudiziari. Scrive il leader confindustriale: "È per il profondo rispetto verso tutte le istituzioni, a partire da magistratura e forze dell’ordine, che oggi, alla luce delle notizie che ho appreso dalla stampa, seppure sconsigliato da tanti, ho deciso di autosospendermi dal consiglio direttivo dell’Agenzia". Montante mantiene gli incarichi all'interno di Confindustria: il comitato di presidenza di viale dell'Astronomia mercoledì aveva ribadito la fiducia all'imprenditore, uno dei protagonisti nell'Isola della rivolta degli industriali contro il racket: passaggio non scontato, che aveva fatto seguito al sostegno offerto il giorno prima, a Palermo, dai vertici di Confindustria Sicilia, Ance Sicilia, Piccola Industria e Giovani industriali dell'Isola. Ma la questione centrale, ogni giorno di più, era diventata la permanenza di Montante nel ruolo di consigliere dell'Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia. "Montante si dovrebbe dimettere? Non lo so, dipende da una sua sensibile valutazione ", aveva detto il prefetto Postiglione, pur rimanendo prudente: "Nessuno è colpevole fino a che non è condannato né è costretto a dimettersi per legge". In un silenzio sostanziale di quasi tutti i principali partiti, Sel, grillini e Rifondazione Comunista avevano auspicato un passo indietro di Montante. L'autosospensione, in particolare, era stata chiesta dal vicepresidente della commissione antimafia Claudio Fava. Una decisione che Montante ha preso stamattina. "Mai avrei pensato – scrive Montante – di dovermi trovare un giorno in una situazione simile dopo anni trascorsi in trincea, insieme a tanti altri imprenditori, sempre al fianco delle istituzioni. Anni durante i quali un gruppo di giovani imprenditori siciliani ha preso coraggio e ha espulso dalla propria associazione persone che avevano rivestito ruoli apicali negli organi associativi regionali e che, come hanno sottolineato alti magistrati in occasioni pubbliche, grazie al metodo mafioso e a protezioni politiche, avevano creato un sistema di potere di portata regionale se non nazionale. Anni durante i quali abbiamo accompagnato decine di colleghi alla denuncia, sostenendoli anche nelle aule di tribunale, anni in cui abbiamo sollecitato controlli antimafia preventivi, in alcuni casi mai fatti prima, e ci siamo costituiti parte civile, insieme con tutte le associazioni aderenti a Confindustria, in processi contro esponenti di spicco della criminalità organizzata". Il presidente degli industriali siciliani parla anche dei collaboratori di giustizia che lo chiamano in causa: "Le persone che vedo citate negli articoli giornalistici pubblicati in questi giorni - afferma Montante - sono state da noi tutte denunciate e messe alla porta, così come è possibile leggere in documenti pubblici consegnati in commissione Antimafia, in occasione dei Comitati per l'ordine e la sicurezza pubblica e, comunque, a tutti gli organi antimafia del Paese. Lo abbiamo fatto subendo minacce gravissime e mettendo a rischio la nostra vita. Tutto per affermare una rivoluzione innanzitutto culturale".
L'antimafia dei veleni. Dietro il caso Montante Pentiti e manovre politiche, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Cosa c'è dietro il caso Montante e dietro la notizia delle indagini che lo riguardano? Radiografia di una vicenda che potrebbe affondare le sue radici nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Cosa c'è dentro il caso giudiziario di Antonello Montante e quali contesti politici si agitano attorno alla figura del presidente degli industriali siciliani? Innanzitutto ci sono pentiti vecchi e nuovi. Come le indagini. Il caso Montante esplode oggi ma, a giudicare dalle parole di alcune autorevoli voci, interessate e non, sembra avere radici antiche. Radici che potrebbero affondare nella guerra che cova sotto il movimento Antimafia. Un movimento attraversato più che da spaccature da vere e proprie logiche di fazione. Il quotidiano 'La Repubblica' dà notizia dell'esistenza di un'indagine per reati di mafia a carico di Montante. Anzi, le indagini sarebbero due: una a Caltanissetta e l'altra a Catania. Tre pentiti lo chiamerebbero in causa. Di uno di loro viene fatto il nome, Salvatore Dario Di Francesco. Arrestato un anno fa, Di Francesco ha iniziato a fare i nomi e a parlare di appalti pilotati tra il 1999 e il 2004 nell'Area di sviluppo industriale di Caltanissetta, dove lui stesso prestava servizio. Ambienti vicinissimi alla Confindustria lo vorrebbero animato da risentimenti personali - per alcuni addirittura spinto da propositi di vendetta - nei confronti della stessa organizzazione che ne aveva duramente contestato l'operato. Di Francesco è compare di nozze di Vincenzo Arnone, figlio di Paolino che nel 1992 si suicidò in carcere dove era stato richiuso perché coinvolto in un blitz antimafia. Vincenzo Arnone, a sua volta, è compare di nozze di Montante. Nell'abitazione di quest'ultimo, era il 2010, furono trovate alcune fotografie che li ritraevano assieme a metà degli anni Ottanta. Le foto e pure il certificato di matrimonio, nell'aprile dell'anno scorso, furono pubblicate sulla rivista I Siciliani Giovani e oggi vengono rilanciate da La Repubblica. Non si conoscono ancora i contenuti delle dichiarazioni di Di Francesco e degli altri due collaboratori di giustizia di cui pure i nomi restano segreti. Uno potrebbe essere Carmelo Barbieri che già nel 2009 proprio ai pm nisseni - c'era anche il capo della Procura, Sergio Lari, ad interrogarlo - fece il nome di Montante. Non sappiamo che fine abbia fatto questa indagine. Né conosciamo l'evolversi di quella che sarebbe stata aperta a Catania un anno fa. Si sa, ma solo in virtù di alcune indiscrezioni, che si tratterebbe di un'inchiesta nata da un esposto. Il fatto che siano i magistrati etnei ad occuparsene, però, sembrerebbe giustificato dalla presenza di un pm nisseno nel contenuto della stessa denuncia. Chi e cosa abbia denunciato non è dato sapere. La questione potrebbe essere legata, ma anche questa è solo un'ipotesi, alle vicende sollevate dall'ex pm di Caltanissetta ed ex assessore regionale ai Rifiuti, Nicolò Marino, che in un'intervista del novembre scorso al quotidiano 'La Sicilia' ricordò al cronista e ai lettori: “Non dimenticate che io e Lari eravamo a Caltanissetta assieme e che entrambi sappiamo chi è Montante”. Un passaggio che potrebbe avere fatto nascere l'esigenza di un approfondimento investigativo. Montante, in una nota tranciante, si limita oggi a replicare citando le parole, definite “profetiche”, del presidente della Corte d’Appello di Caltanissetta. Secondo Montante, saremmo di fronte ad un atto di delegittimazione nei confronti dell'azione concreta di Confindustria sul fronte della lotta alla mafia. Lo stesso Montante, dunque, ci obbliga a rileggere le parole pronunciate da Salvatore Cardinale - è lui il presidente della Corte d'appello citato dal rappresentante degli industriali siciliani - durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario nisseno. Cardinale aveva stigmatizzato "un clima di allarme, fatto di intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a una platea di magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell'antimafia e della lotta all'illegalità". Ed aveva citato, in maniera esplicita, “gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l'accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell'antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti". L'indagine su Montante si muove su due piani, uno giudiziario e uno politico. Il fronte giudiziario sarebbe alle battute iniziali. L'attualità dei tempi viene dettata dal fatto che per Di Francesco non è ancora scaduto, o forse lo è da pochi giorni, il termine dei 180 giorni previsto dalla legge per raccoglierne le confessioni. Attuale è anche l'aspetto politico della vicenda, visto che Montante, presidente degli industriali siciliani e delegato nazionale di Confindustria per la legalità, appena quindici giorni fa, è stato chiamato dal governo nazionale, e dunque dalla politica, nel direttivo dell'Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Dovrà dare il suo contributo per mettere ordine in un settore apparso finora lacunoso. A cominciare dal fatto che migliaia di beni restano improduttivi e molti sono addirittura ancora in mano agli stessi mafiosi a cui sono stati sottratti. L'Agenzia per i beni confiscati, dati alla mano, è una delle più grosse holding italiane la cui gestione, storicamente, è stata terreno di scontro fra le correnti di pensiero, e non solo, dell'Antimafia. Montante ha da subito parlato della necessità di un'inversione di rotta, forse suscitando timori e gelosie.
Il caso Montante: l’inchiesta per mafia che spacca l’Antimafia. Crocetta e Lumia lo difendono a spada tratta, il M5S, Libera e Addiopizzo chiedono che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa”. L’indagine di Caltanissetta divide il mondo politico e imprenditoriale tra chi non crede alla delegittimazione dell’industriale e chi si interroga sul rischio di un impegno di cartapesta, scrive Paolo Patania su “L’Ora Quotidiano”. Crocetta lo difende a spada tratta, il M5S chiede che faccia un passo indietro. Il presidente di Confindustria nazionale Giorgio Squinzi si limita ad esprimere la propria ”sorpresa” e quello della Camera di commercio di Palermo Roberto Helg si augura che ”si possa fare chiarezza in brevissimo tempo”. Enrico Fontana, coordinatore dell’associazione Libera di don Luigi Ciotti, chiede che lasci subito l’incarico che ricopre all’Agenzia dei beni confiscati. La notizia dell’indagine per mafia su Antonello Montante, 52 anni, il leader degli industriali siciliani che ha inventato il ”codice etico” dell’imprenditoria schierata contro il racket delle estorsioni, spacca l’Antimafia istituzionale, rimbalza tra i salotti della politica e quelli della finanza isolana, e minaccia di appannare un simbolo del contrasto alle cosche mafiose, appoggiato pubblicamente negli ultimi anni anche da magistrati del calibro di Sergio Lari, procuratore di Caltanissetta, capo dell’ufficio inquirente che lo ha iscritto nel registro degli indagati e che ora si limita a dichiarare: ”No comment, di più non posso dire”. L’indagine della procura nissena, come ha scritto Repubblica lunedì scorso, sarebbe aperta dall’estate scorsa, e sarebbe entrata nel vivo solo a dicembre. Ieri il Corriere della Sera, ha rivelato l’esistenza di alcune strane intercettazioni recapitate il 2 ottobre scorso nella sede di Confindustria in via dell’Astronomia, a Roma, con una sorta di verbale, non ufficiale ma dettagliato. Qualcuno aveva registrato, più volte dal 4 al 18 settembre, alcune persone sedute in un bar di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, mentre si scambiavano del denaro e pronunciavano frasi del tipo: “Questa è la seconda tranche da fare arrivare ai familiari del ‘cantante’. Devi sapere che il sistema così viene meglio incentivato e nelle sue cantate si ricorda sempre qualcuno in più”. E poi, un riferimento esplicito a Montante e Ivan Lo Bello: “Giuro su mia mamma che questi devono scomparire dalla faccia della terra… a noi interessa solo che viene anticipata quella notizia sul giornale per massacrarli nell’immagine”. Gli uffici di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, avrebbero consegnato l’anomalo verbale al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che a sua volta lo avrebbe trasmesso ai procuratori di Caltanissetta, Sergio Lari, e Catania, Giovanni Salvi. Ma oggi Repubblica torna all’attacco, pubblicando i nomi di altri tre dei cinque pentiti che accusano Montante: oltre a Salvatore Dario Di Francesco, sarebbero Pietro Riggio, Aldo Riggi e Carmelo Barbieri, nipote del boss della Cupola Giuseppe Madonia. Secondo il quotidiano, i tre, a vario titolo, avrebbero parlato di rapporti di Montante col vecchio Paolino Arnone, boss di Serradifalco, di ”mediazioni” per far lavorare una ditta di mafia, del ”rispetto” che alcuni picciotti dovevano portare all’industriale proprio per la sua vicinanza con gli Arnone. Nessuno può dire al momento se le accuse dei collaboratori che denunciano le ”relazioni pericolose” di Montante con esponenti di Cosa nostra siano solide al punto da rivelare l’impostura di un’antimafia di facciata oppure se siano il tentativo di travolgere in una furia iconoclasta Montante in quanto simbolo del ”nuovo corso” di un’imprenditoria siciliana davvero desiderosa di riscattarsi dal giogo mafioso. Lui, il diretto interessato, si è difeso con una nota nella quale sostiene che ”gli attacchi” a Confindustria sono il frutto di una ”campagna di delegittimazione” che punta a distruggere la stagione di rinnovamento avviata in Sicilia a partire dal ”codice etico”. E qualcuno oggi parla di intrigo politico e giudiziario che ruoterebbe attorno alll’Agenzia dei beni confiscati, che gestisce quasi 10.500 immobili, circa 4.000 beni mobili e oltre 1.500 aziende. Di certo ci sono due cose: la prima è che i siciliani di Confindustria negli ultimi anni sono stati accusati più volte di aver costituito una sorta di ”partito dell’antimafia”, protagonista di una vera e propria marcia di occupazione di posti-chiave del potere economico dell’isola e anche aldilà dello Stretto. La seconda è che, aldilà degli esiti al momento impossibili da prevedere, l’inchiesta di Caltanissetta ha disorientato il mondo politico e industriale, spaccando il fronte dell’antimafia tra chi ipotizza manovre occulte per screditare la ”rivoluzione copernicana” di Montante e chi invece ritiene le accuse dei pentiti il primo passo del disvelamento di un’antimafia di cartapesta. Risultato? Negli ultimi due giorni agenzie hanno battuto un diluvio di dichiarazioni pro, contro, e anche in buona parte ”attendiste”, nei confronti del paradosso tutto siciliano di un paladino dell’imprenditoria contro le cosche finito sotto accusa per mafia. Il commento più duro è quello dei deputati siciliani del M5S Giancarlo Cancelleri e Valentina Zafarana, che chiedono un passo indietro di Montante perché ”un simbolo non può essere appannato dai sospetti”: ”Si dimetta, in attesa che la giustizia faccia il suo corso”. Il più morbido è quello di Crocetta, che da Confindustria ha ricevuto un sostegno più che robusto per la sua scalata a Palazzo d’Orleans e oggi restituisce il favore: “Montante lo conosco come persona che ha lottato e lotta contro il racket delle estorsioni e contro la mafia. Aspettiamo serenamente cosa dirà la magistratura, al momento si tratta di indiscrezioni giornalistiche, non e’ detto che sia iscritto nel registro degli indagati. Non sappiamo nulla”. Ora Crocetta sottolinea che “proprio con Montante, Confindustria ha avviato il percorso di discontinuita’ nella lotta alla mafia rispetto a quanto avveniva in passato”. E sulla vicenda che sarebbe oggetto dell’indagine, le nozze di Montante e i suoi testimoni, tra i quali il mafioso Vincenzo Arnone, figlio dello storico padrino Paolino Arnone, boss di Serradifalco, il Governatore dichiara: “Montante all’epoca aveva 17 anni, cosa doveva capirne di mafia. Allora qualunque siciliano che abbia avuto un vicino di casa o un compagno di scuola mafioso puo’ essere indagato? Basta questo per essere accusati?” Ma il più ”pesante” è quello di Libera, che guida 1500 tra associazioni e gruppi impegnati nel “recupero sociale e produttivo dei beni liberati dalle mafie”. E chiede le dimissioni di Montante dal direttivo dell’Agenzia dei Beni confiscati. All’attacco anche Addiopizzo di Catania: ”Nell’attesa di ulteriori sviluppi -scrive l’associazione in una nota – e certi che Montante potrà difendersi nelle opportune sedi, siamo altrettanto sicuri che l’Agenzia vorrà prendere i più opportuni provvedimenti al fine di assicurare la massima prudenza e trasparenza nella scelta di chi, seppure indirettamente, deve gestire senza ombre, pin nome e per conto dello Stato e di tutti i cittadini, beni e aziende confiscate alla criminalità organizzata”. E il magistrato Piergiorgio Morosini, componente del Csm, dichiara che ”un’indagine di per sé non significa nulla, specie in una terra difficile come la Sicilia. Ma il ruolo di componente di un’agenzia pubblica come quella dei beni confiscati alla mafia richiede da parte di Montante un’autosospensione dalle funzioni. Sarebbe un’espressione della stessa cautela che richiediamo ai politici coinvolti in vicende di questo tipo”. Beppe Lumia, senatore Pd, ex presidente della Commissione Antimafia, transitato nel 2012 dal Pd alla lista Il Megafono (quella di Crocetta) invita ad osservare tutta la faccenda da questo punto di vista: “Salvatore Dario Di Francesco (uno dei pentiti che accusa Montante, ndr) è un ex colletto bianco, un imprenditore che è stato bombardato da Montante ai tempi della rivoluzione in Confindustria. Da quello che emerge, non c’è nulla che riguardi il presente ma il passato, i primi anni del Duemila quando appunto la Confindustria di Lo Bello e Montante cominciò il bombardamento su Cosa Nostra”. Cioè, insiste Lumia, “sono molto scettico rispetto a questa inchiesta semplicemente perché Montante l’ho visto in azione”. Ma la dichiarazione più attesa è quella di Squinzi, il leader nazionale di Confindustria, che però si limita a manifestare tutto il suo stupore: “Sono sorpreso dalle anticipazioni a mezzo stampa che riguardano Antonello Montante, che ha deciso da tempo di schierarsi nella lotta contro la mafia, rischiando in prima persona”. Pro Montante, senza equilibrismi, è la Fai, la Federazione delle associazioni antiracket che ieri ha dichiarato: “Esprimiamo la nostra convinta fiducia nel lavoro dei magistrati, ma e’ doveroso richiamare la forza e il valore di una storia personale e collettiva, quella di Antonello Montante e del nuovo gruppo dirigente di Confindustria Sicilia”. La Federazione ricorda come nell’estate del 2007, proprio a Caltanissetta parti’ “una vera e propria rivoluzione copernicana che ha rappresentato un elemento di svolta nella lotta al racket rafforzando l’esperienza di quel movimento che nel 1990 era nato a Capo d’Orlando”. Confindustria Sicilia, dunque, “non puo’ essere etichettata ne’ come antimafia dell’ultimora né come soggetto segnato dalla retorica. Al contrario: dopo quella svolta niente più, sul terreno dei fatti concreti, è stato come prima per gli imprenditori siciliani”. Roberto Helg, presidente della Camera di Commercio, infine, spera in un rapido chiarimento: “Sono vicino al collega Montante e mi auguro che si possa fare chiarezza in brevissimo tempo. Chi si batte per la legalità, come lui, non può attendere a lungo che vengano chiariti i termini di una vicenda come quella che lo riguarda”. Più o meno la stessa posizione del segretario generale della Cgil Sicilia, Michele Pagliaro, che aggiunge: “Non possiamo che augurarci che la magistratura faccia presto a chiarire se in questi anni non tutto è stato limpido nell’antimafia”.
Antonello Montante, battaglie (ignorate), denunce (dimenticate) di ministri e magistrati e parole (calate) dei pentiti, scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24 ore”. Il presidente di Confindustria Sicilia e delegato di Confindustria nazionale sui temi della legalità Antonello Montante sarebbe accusato da alcuni pentiti di essere in contatto o vicino a mafiosi o ad ambienti mafiosi, dai quali avrebbe ricevuto favori ricambiati. Ora, specificato che la magistratura (di Caltanissetta e Catania che starebbero indagando) farà il suo corso (sul quale non mi permetto di fare appunti), specificato che non mi permetto neppure di giudicare il lavoro dei giornalisti che hanno scritto della vicenda, specificato che dei pentiti (in generale) mi fido da sempre quanto un piranha negli slip e quando ne ho trattato me ne sono dovuto pentire giurando a me stesso che si fottessero tutti, ricordato che nessuno come i siciliani e i calabresi è specializzato in “tragediate” (altresì chiamate “carrette”), specificato che non compete a me prendere le difese di Antonello Montante (e infatti non le prendo perché lo fa da solo e/o con i suoi avvocati), sottolineato che fino a che ci sarà democrazia e libertà di opinione, stampa, giudizio, parola e informazione, continuerò a ragionare con il mio cervello senza guardare in faccia a nessuno, vi sottopongo, o cari lettori di questo umile e umido blog, un mero contributo di riflessioni ad una vicenda nelle mani sacrosante della magistratura.
1) Complimenti vivissimi alle menti raffinatissime che, da alcuni mesi, stanno distillando le fughe di notizie sulla (o sulle) indagini e/o procedimenti penali aperti nei confronti di Montante. Gli ambienti investigativi e giudiziari, pronti, senza scrupoli e contravvenendo ai principi costituzionali e a quelli scritti sulla Carta europea dei diritti dell’Uomo, a indagare i giornalisti per concussione (avete letto bene, con pene che arrivano a 7 anni di reclusione) quando danno liberamente conto di procedimenti o indagini a loro sgradite, sono invece rapidissimi nell’allungare la manina (a chi vogliono) con informazioni a orologeria a qualcuno congeniali. Perché vedete, sia che si tratti di una bufala accusatoria montata ad arte (dai pentiti suddetti che ovviamente rappresenterebbero il braccio e non certo la mente), sia che si tratti di un filone propizio per fare luce su presunti legami impropri tra mafia e antimafia, queste fughe di notizie su indagini definite dai giornali blindatissime (come? Blindatissime? Pensa te se non lo erano…) sono state studiate a tavolino. Sono mesi, infatti, che si assiste ad un “distillato” di voci e sussurri su Montante.
2) Un risultato immediato, le menti raffinatissime che hanno cantato, l’hanno raggiunto: infliggere un colpo durissimo all’antimafia. Non mi riferisco a quella dei nomi ma a quella dei fatti e dei gesti. Ebbene, mi domando e vi domando: con quale forza e spirito in Sicilia e al Sud (ma non solo) gli imprenditori vessati dalle mafie continueranno a bussare alle porte delle forze dell’ordine e della stessa Confindustria per denunciare i propri maledetti carnefici mafiosi? Credetemi anche in questo caso: proprio questo è il momento più propizio. Denunciate la mafia, perché è “merda”. Non solo quella fatta da picciotti e capibastone ma, soprattutto, quella fatta di intelligenze al servizio del male. Chi denuncia è sempre libero e ora più che mai, sono convinto, Forze dell’Ordine e Confindustrie locali sono pronte ad accogliere e seminare legalità.
3) Ricordo che Francesco Cossiga chiamava il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Leoluca Orlando Cascio. Lo stesso Cossiga, che ovviamente era perennemente coperto da immunità parlamentare e/o presidenziale, nel corso di una trasmissione televisiva con Giuliano Ferrara, più di 20 anni or sono, spiegò che nella prima relazione di minoranza della Commissione Antimafia degli anni ’70, firmata dalla vittima della mafia, onorevole Pio La Torre, ammazzato nel 1982, il padre dell’allora onorevole Leoluca Orlando (Cascio), celebre notabile Dc, era definito il collegamento tra la politici ed ambienti salottieri palermitani del dopoguerra dove era facile che bianco e nero si mischiassero. Quando, oltre 20 anni fa, conobbi Leoluca, che non ricorreva mai al doppio cognome (Orlando Cascio), di tutto mi preoccupai tranne che di giudicarlo dalle gesta di suo padre. Ammesso e non concesso che fossero nebulose. Un uomo politico – la stessa cosa, sublimata da poche settimane da un elezione, si può dire per la famiglia Mattarella, di cui un membro è diventato Presidente della Repubblica alla luce del sole e dell’ombra, visti gli attacchi rivolti ai presunti trascorsi paterni – lo giudico dal momento e nel momento in cui fa politica, cioè si prende cura di una collettività amministrata. Il suo passato mi interessa ma solo se serve per dimostrare nel presente e per il futuro, coerenza con i principi e i valori nei quali io personalmente sono stato cresciuto e che insegno ai miei due figli. Se quei valori sono contraddetti (onestà, probità, lealtà, legalità, incorruttibilità, rispetto dei diritti e della legge e via di questo passo) me ne fotto di passato, presente e futuro. Bene. Mutatis mutandis, lo stesso discorso vale per chi si oppone alla mafia tra gli imprenditori che (è il caso di Montante) ricoprono anche fondamentali ruoli associazionistici. Da quando io l’ho conosciuto (otto anni or sono iniziò la battaglia confindustriale per l’etica d’impresa e la rivolta alla mafia prima proprio a Caltanissetta e poi su per li rami in tutta Italia) i comportamenti e il rigore di Montante mi sono apparsi conseguenziali a valori di dura opposizione all’economia criminale e alla mafia sociale, che scorre a fiumi nelle varie stanze dei bottoni di una classe dirigente sempre più corrotta. Inutile ricordare le prese di posizione (tutti dobbiamo ricordare che è proprio la parola il primo nemico della mafia, fondata non a caso sull’omertà) ma gli atti sì: le espulsioni dei mafiosi o dei presunti mafiosi dalle associazioni, i commissariamenti mai osati prima di alcune Confindustrie locali (do you remember Reggio Calabria?), i protocolli d’intesa visti e rivisti per renderli non chiacchiere (di solito lo sono) ma concreti, l’azione di rinnovamento nelle associazioni (comprese quelle camerali, o sono anche quelle frutto di comparaggio?), l’obbligo di white list negli appalti pubblici, le zone franche per attirare investimenti nelle province palermitane e nissene, la legalità al centro dell’azione degli industriali, il rating di legalità per le imprese nei confronti delle banche e degli enti appaltatori, il sostegno a quella magistratura che finalmente ha deciso di usare il lanciafiamme contro le mafie e i sistemi criminali, le costituzioni di Confindustria (proprio a Caltanissetta e poi ovunque) come parte civile nei processi per mafia e la durissima lotta in Sicilia (poi ci torno) contro quei centri di potere massonico deviato/mafioso che erano le aree di sviluppo industriale. Figuriamoci se, quando l’ho saputo, potevo e posso giudicare le azioni di Montante per il fatto che quando aveva 17 anni un suo testimone di nozze, venti anni dopo il matrimonio o giù di lì, da incensurato passerà ad essere noto alla Giustizia, come suo padre che morirà poi suicida in carcere nel 1992. Chi è senza peccato, scagli il primo testimone.
4) C’è chi, in questi giorni, si sta prodigando per srotolare “dietrologie” a giustificazione delle presunte dichiarazioni (da riscontrare o pera della magistratura alla quale ci rimettiamo) dei pentiti (1, 5, 10, 100, boh!) contro Montante. E’ perché è stato nominato dal Governo nella inutile (finora) Agenzia nazionale dei beni confiscati alle mafie! E’ perché il movimento antimafia si è sempre spaccato su tutto in Sicilia e dunque è il risultato di una guerra intestina (ma intestina a chi?)! E’ perché chi troppo vuole nulla stringe e, tranne la carica di sindaco, a Caltanissetta e a Roma ormai lui è più di un papa! E’ perché queste cose entrano in campo mentre si giocava (ma si gioca tuttora) la partita per occupare la poltrona di capo della Procura di Palermo! E’ perché è amico di potenti troppo potenti in tutti i campi: dalla politica alla magistratura! E’ così o cosà, lascio che ciascuno dica la propria (rispetto tutti a maggior ragione, e lo dico in generale, quando non sono d’accordo). Io aborro la dietrologia e faccio, umilmente, riferimento ad un fatto, che sarà senza dubbio una coincidenza. Se ho ben capito il capataz degli accusatori sarebbe tal Salvatore Dario Di Francesco, che nell’area di sviluppo industriale di Caltanissetta prestava lavoro. Bene. Leggete quel che denunciarono il 5 giugno 2014 anche (e sottolineo anche) in Commissione parlamentare antimafia Montante e Ivanhoe Lo Bello (vicepresidente nazionale di Confindustria) a proposito delle Asi siciliane e non solo: «…ci troviamo, in Sicilia, in una situazione complessa, che riguarda – voglio portarla all’attenzione della Commissione antimafia – il ruolo dei consorzi di sviluppo industriale, che hanno dimostrato nel tempo di essere un luogo di presenza capillare e diffusa di criminalità mafiosa. Oggi la regione ha riportato al centro i consorzi, ma il presidente dei consorzi Asi, oggi Irsap, è oggetto di continue intimidazioni. Peraltro, da tempo ha avuto un aumento della scorta, il secondo livello, ed è costantemente attaccato da tanti soggetti con minacce significative, su cui voglio richiamare l’attenzione della Commissione antimafia. Mi riservo anche di fare arrivare alla Commissione antimafia della documentazione sui temi dei consorzi di sviluppo industriale, tema centralissimo anche nelle dinamiche nel rapporto tra cattiva impresa e sistema mafioso» (Lo Bello). «Abbiamo divulgato una cultura di impresa nuova, sostenendo che forse era il caso di cambiare rotta, considerato che nel 2005 e nel 2007 i presidenti delle Confindustrie siciliane erano stati tutti indagati o arrestati per lo stesso problema, Palermo, Caltanissetta, Enna. Il problema del consorzio Asi si conosceva, ma non era emerso.……Ha parlato il mio collega dei consorzi Asi, che andavano oltre ogni immaginazione. Erano luoghi, come le indagini e le condanne dimostrano, in cui le organizzazioni si riunivano. È un’anomalia tutta nostra, tutta siciliana o del Mezzogiorno d’Italia. Erano cose pazzesche. Ricordiamo che e un imprenditore del nord, che doveva realizzare un opificio industriale, presidente, chiedeva l’autorizzazione al comune d’appartenenza, chiedendo la concessione Pag. 17edilizia per costruirlo. Parlo della Sicilia, ma possiamo anche parlare della Calabria e di altri luoghi. In Sicilia non era così. Bisognava andare prima al comune di appartenenza, chiedere l’autorizzazione alla costruzione dell’opificio, parlare con tutta la commissione edilizia, senza dimenticare nessuno, con l’ingegnere capo, ma non finiva lì. Serviva il nulla osta del consorzio dell’area sviluppo industriale, un ente appaltante in contrapposizione al comune d’appartenenza. All’interno del consorzio Asi c’erano un presidente, un direttore generale, un ingegnere capo e una struttura infinita. Non lo ha citato Lo Bello, che ha fatto grandi cose, ma lascia il ruolo a me e mi fa fare bella figura, quindi racconto io che in una due diligence sempre a due abbiamo verificato che all’interno dei consorzi ASI c’erano insediate anche 30 aziende e il consiglio d’ammissione dello stesso consorzio era di 70 unità. In Sicilia, ad esempio, il numero degli amministratori dei consorzi Asi era un totale di 800 persone, con circa 500 aziende insediate, quindi non è questo il problema. Oggi abbiamo copiato modello nazionale virtuoso. In realtà, lo ha fatto chi ha proposto la legge, in parte anche noi, e oggi un gruppo dirigente non è sostituito da un altro gruppo dirigente: si è sostituito quel modello e 800 persone sono sostituite da 5. Questo si è verificato. Non vi ho detto cosa fossero i consorzi Asi dentro le Asi stesse, queste aree industriali: dei condomìni. Ho aziende da decenni al nord: ci si apre un’azienda in un’area a destinazione industriale e si chiede l’autorizzazione solo al comune. Poi c’è da versare ogni mese una quota per il giardinaggio esterno. Questo è un condominio, non con 30 aziende, bensì con 500 insediate. I consorziati servivano, quindi, a controllare le aziende e poi diventavano i luoghi – parlo di inchieste e di condanne che vediamo ogni giorno – dove si incontravano i capimafia, non di nascosto, niente di segretato, bensì ufficialmente proprio lì nei consorzi. Facevano, quindi, riunioni con la mafia. Non affidavano i terreni a veri imprenditori, ma a quelli a cui serviva il terreno, lo regalavano. Sono attive inchieste anche a Palermo, a Catania, a Caltanissetta, ad Agrigento. Non ne parliamo. Parlo, naturalmente, sempre della Sicilia. L’attuale presidente Cicero è stato oggetto, e la notizia è pubblica, di inquietanti attentati. Gli stessi procuratori hanno sentito l’esigenza di esternarlo in maniera forte ricorrendo all’attività mediatica. Questo signore o questi signori vivano in uno stato di guerra vera. Parliamo di ordigni, di commandi interi, sei persone, fortunatamente tutte fotografate, che arrivano con un mezzo perché volevano caricarlo o ammazzarlo. Fortunatamente, sono stati beccati dalle telecamere e quindi è stato sventato tutto. Non stiamo parlando, quindi, di fantasie, ma di cose serie. Queste sono le cose più grosse, poi ce sono si minori. È saltato un sistema. Oggi le aree industriali danno a chi ha un progetto e anche subito. Oggi non ci sono più le consulenze, i vitalizi, non c’è spartizione politica e questo, naturalmente, ha fatto saltare i nervi. Oggi quell’organizzazione non controlla più le aziende, e quindi non sa a chi chiedere il pizzo e a chi non chiederlo. Questo è saltato. Questo è ciò che fa Confindustria. Ho iniziato a dire che non siamo un’associazione antiracket, ma che dobbiamo dire al nostro associato che non gli conviene un certo comportamento. Se si è in un sistema malato, prima o poi si finisce come in quella due diligence mia e di Lo Bello, per cui dopo venti o trent’anni si crolla o lo Stato arriva e sequestra l’azienda o la sequestra la mafia o ti ammazzano comunque per strada. Penso che in parte ci siamo riusciti. Il problema è culturale, presidente, non di azioni o di legge, ma è un problema per cui bisogna comunque un po’ ancora forse aspettare» (Montante).
5) Il 24 gennaio 2015 il presidente della Corte di appello di Caltanissetta, Salvatore Cardinale, in apertura di anno giudiziario dirà: «ci sono ancora boss che impartiscono ordini dal carcere e che continuano a mantenere e ad esercitare il loro antico potere. Il periodo preso in esame, è stato caratterizzato da intimidazioni, minacce, insinuazioni e delegittimazioni varie rivolte a magistrati, funzionari pubblici e rappresentanti di organizzazioni private, specie quelli più esposti sul campo dell’antimafia e della lotta all’illegalità. Si tratta di segnali che sembrano manifestare un parziale cambiamento della strategia fin qui perseguita del cosiddetto “inabissamento” a favore della scelta di una maggiore visibilità anche mediatica dell’insofferenza sempre più crescente verso l’azione di contrasto che tuttora è condotta dallo Stato e che trova l’adesione in alcuni protagonisti di un’imprenditoria libera e illuminata. In tal senso, da parte degli investigatori, sono stati interpretati gli attacchi contro i nuovi vertici confindustriali siciliani e nisseni, spesso aggrediti attraverso il metodo subdolo della diffamazione e del discredito mediatico, e l’accentuata campagna di delegittimazione condotta a tutto campo contro vari protagonisti dell’antimafia operativa, mirati a riprodurre una strategia della tensione che potrebbe tradursi in azioni eclatanti. Su tale linea strategica sembrano porsi i due “avvertimenti”, uno dei quali consumato a Caltanissetta, posti in essere contro il Presidente dell’Irsap». La domanda sorge spontanea: è impazzito il procuratore generale che parla di «imprenditoria libera e illuminata…di intimidazioni, minacce, insinuazioni, delegittimazioni, metodi subdoli e discrediti mediatici» in corso nei confronti anche dei vertici confindustriali nisseni e siciliani oppure i pentiti? Non dico tanto ma se avessi ricevuto io la soffiata sulle presunte indagini su Montante (a quando Lo Bello?) questa domanda me la sarei fatta e quantomeno avrei tenuto acceso il falò del dubbio.
6) Già perché, guardate voi come è corta la memoria, il 21 ottobre 2013, a Caltanissetta, ci fu una riunione straordinaria del Comitato nazionale per l’ordine pubblico per fronteggiare il rischio di nuovi attentati di cui nessuno, i questi giorni, si è ricordato. Senz’altro le menti raffinatissime hanno sperato nell’oblio. Mai come in quei mesi, le speranze di cambiamento, descritte sui media di tutto il mondo dopo la decisione – di Confindustria Sicilia prima e Confindustria nazionale poi – di mettere all’angolo gli imprenditori che non denunciavano pizzo e mafie, apparivano lontane, sotto assedio e a rischio. «A Caltanissetta è scesa in campo la squadra-Stato al massimo livello, dal Procuratore nazionale antimafia ai vertici delle Forze dell’ordine, dai prefetti alle Dda, al Governo», disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano, rispondendo a chi gli chiedeva se ci fosse il rischio che Cosa nostra alzi il tiro. «Non possiamo escludere – ha detto – che questo sia l’intendimento della mafia». Poi il ministro ribadì sostegno e vicinanza agli imprenditori, «a cominciare da Montante e Lo Bello che si sono ribellati al racket».
7) Ma attenzione ora ad un’altra data: il 17 settembre 2013, il Comune di Chianciano Terme (Siena) mise sul proprio sito istituzionale foto e cronaca di un convegno sulle stragi di mafia del ’92 che si era tenuto due giorni prima nella sala Fellini delle Terme e passato sotto drammatico silenzio a livello nazionale. Anch’esso passato nel dimenticatoio della stampa e dalla speranza di oblio delle menti raffinatissime. «È in corso una campagna di delegittimazione da parte di centri di poteri occulti – dichiarò in quell’occasione il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari – che mirano a screditare chi in Sicilia combatte con i fatti malaffare e mafia. Ci sono centri di potere, collegati sicuramente con le organizzazioni mafiose, che utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come blog, social network o fantomatici giornali online e gettano sospetti e fango su chi l’antimafia la fa davvero, ovvero con i fatti. Hanno avviato una campagna di delegittimazione, oltre a proseguire con gli avvertimenti. Continuano ad arrivare buste con proiettili, croci ed altri messaggi inquietanti».
8) Dunque eravamo a settembre 2013 e Lari, vale a dire il capo della Procura che ora con quella di Catania starebbe indagando su Montante, un anno e mezzo fa parlava di centri di potere che ordiscono campagne di delegittimazione e discriminazione utilizzando ogni mezzo possibile e immaginabile. Certo, non c’erano nomi e cognomi ma Lari, un mese dopo quelle frasi, a ottobre, sarà alla riunione del Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, con un ministro dell’Interno che invece fece i nomi di coloro che si erano ribellati al racket, a partire (i nomi li ha fatti Alfano, non io o voi) da Lo Bello e Montante. E poche settimane fa, un procuratore generale, Cardinale, metterà in fila gli avvenimenti senza peli sulla lingua. Due più due fa ancora quattro? Di questo incontro a Chianciano Terme, a parte le cronache locali toscane e siciliane, la grande stampa si disinteressò, perché un annuncio di morte non è una notizia. Quelle che sgorgano dalle menti raffinatissime – che, ripeto, siano fondate o meno – si. Le mafie hanno memoria lunga e non basta una vita per cancellarla. Tifo, come sempre, per la Giustizia e spero, nel nome dell’Italia onesta nella quale senza se e senza ma mi riconosco, di sapere prestissimo la verità. I miei principi non cambieranno. Ne usciranno rafforzati.
IL BUSINESS DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»
Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione. "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.
Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.
Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere.
L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.
L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.
L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.
Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!
L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?
Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.
I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.
I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.
Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?
"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.
Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.
Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.
«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».
Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.
Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…
La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……
Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.
Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza. Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”. Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”. Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.
Ma questi magistrati non sono coerenti.
L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola. È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.
Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero? Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone.
Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».
Caro Claudio Fava, Telejato Notizie sapeva e ha denunciato, scrive Salvo Vitale su “Telejato” il 10 ottobre 2015. CLAUDIO FAVA HA DICHIARATO: “C’È UN PUNTO DI CUI NESSUNO CI HA MAI PARLATO, OVVERO CHE IL MARITO DELLA PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, SILVANA SAGUTO, AVESSE UNA PREZIOSA CONSULENZA CON LO STUDIO DEL COMMERCIALISTA CHE SI OCCUPAVA DELLA MAGGIOR PARTE DEI BENI SEQUESTRATI”. Caro Claudio, a parte il fatto che Cappellano Seminara non è un commercialista, ma un avvocato, non è giusto né corretto che tu faccia questa affermazione. Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi, per “tutelare” l’immagine di un settore della procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c’era sotto: hai abbassato il capo, dicendoci che bisognava intervenire, ma forse eri distratto. Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura, cosa peraltro ripetuta in questi giorni dal giudice Morosini, sarebbe stato più utile, anche per la storia che ti porti appresso, chiedere di far pulizia all’interno di essa, anche perché la fiducia del cittadino non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto quando bisogna eliminare lo sporco in casa. Bastava andare a Villa Teresa, dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili, per renderti conto che la sig.ra Saguto Silvana, il sig Caramma Elio, suo figlio, e il sig Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti nella lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla sig.ra Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E invece non sì è fatto niente. È facile dire che non sapevamo… è difficile crederci!
La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.
Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.
Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.
Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.
L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.
È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.
Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni. Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare. La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”, e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.
Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?
IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”. Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva. Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:
La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale. Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.” La Italcementi con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore. Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento, sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.
L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di giudici delle misure di prevenzione Saguto, Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti, l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.
LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.
UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.
Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede. Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio. Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare. Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare. Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Chi confischerà ai confiscatori? Anche rubare il denaro di Cosa Nostra è reato! Scrive Saverio Lodato su “Antimafia duemila”. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Pio La Torre, gente che se ne intendeva, erano tutti del parere che la via più breve per arrivare alla mafia nascosta era quella di seguire le tracce del denaro, il giro dell’oca del denaro; un po’ come gli sceriffi del Far West che, seguendo le orme del fuggiasco nel deserto, molto spesso, alla fine, riuscivano ad acciuffare il fuorilegge. Quando si lavorava ancora con biro e pallottoliere, Falcone raccoglieva e indagava su migliaia di assegni, e quel gigantesco lavoro cartaceo, molto prima che venisse battezzato "Il metodo Falcone" (dal titolo di un recente ottimo lavoro televisivo del collega Salvatore Cusimano della Rai) sfociò nel primo grande processo a Cosa Nostra, il "processo Spatola-Gambino-Inzerillo". Processo - detto per inciso - per il quale gli americani mostrano ancora gratitudine verso Falcone, visto che diede inizio allo smantellamento dei clan di origine siciliana che si erano installati negli States. Di questo innovativo modo di indagare, ne sapeva qualcosa Cristoforo Fileccia, ormai scomparso, figura gloriosa e storica del Palazzo di Giustizia di Palermo che, pur difendendo mafiosi a bizzeffe, riuscì sempre a tenere la schiena diritta a differenza di tanti altri suoi colleghi ai quali, deontologicamente parlando, prima o poi scappò la mano. E con Giovanni Falcone il rispetto era vicendevole. Fu proprio Fileccia a raccontarmi di quel giorno in cui Falcone lo convocò nel suo ufficio, a pomeriggio inoltrato, per chiedergli conto di un "assegno sospetto" firmato da un suo assistito (mafioso) che poi sarebbe finito nel calderone del maxi processo. Falcone lo ricevette seduto alla sua scrivania, quasi barricato dietro una montagna di assegni che in precedenza aveva già spulciato uno per uno. La famosa "panna montata" che avrebbe finito per soffocarlo, secondo il giudizio acre dei suoi Nemici-Colleghi di allora. Non furono gli assegni a soffocarlo, ma il tritolo; ma questa è un’altra storia. Il racconto di quel giorno era esilarante, essendo Fileccia persona di irresistibile spirito, come possono testimoniare tutti quelli che ebbero modo di conoscerlo: "Falcone sorrideva. Prendeva mazzette d’assegni strette da un elastico, come fossero mazzette di banconote… Le faceva scorrere fra le sue dita… prr… prr… prr… e le rimetteva a posto passando alla successiva… prr… prr… prr… Io ero morto! E mi chiedevo: ma che vuole dire? Dove vuole arrivare? Poi u capivi… A un certo punto da una delle mazzette… zacchete… estrasse un assegno, me lo sventolò sotto il naso e mi disse sornione: avvocato Fileccia e questo cos’è? Sa dirmi perché il suo assistito ha firmato questo assegno?… Può essere così cortese da informarsi? Mi faccia sapere, mi raccomando…". Certo. Erano altri tempi. Ma il tema di fondo, quello che resiste all’usura del tempo, in tutte le vicende di mafia, è sempre quello del denaro. Sembra quasi uno scherzo del destino, e citiamo Andrea Camilleri, che il capo dei capi di Cosa Nostra oggi si chiami "Denaro": "nomen" eccetera eccetera. Ma tanto paradossale la circostanza non è, visto che ormai per trovare Matteo Messina Denaro pare sia rimasta solo la via di seguire "Il Denaro", ma quello suo, che avrebbe portato chissà dove. Ma è denaro anche quello, secondo l’accusa dei giudici di Caltanissetta, di cui si sarebbero appropriati indebitamente gli addetti ai lavori delle "misure di prevenzione" del Tribunale di Palermo. E qui arriviamo alla nota dolente. La vicenda è molto conosciuta, e stomachevole, a volerla dire sino in fondo, e ci limiteremo all’essenziale. D’altra parte Giorgio Bongiovanni ne ha scritto su questo giornale, in maniera sintetica e efficace. Noi non sappiamo se la dottoressa Silvana Saguto, presidente dimissionaria delle misure di sorveglianza, sia colpevole o accusata ingiustamente. Le auguriamo di provare tutta la sua innocenza. Noi non sappiamo se suo marito, l’ingegnere Lorenzo Caramma sia colpevole o innocente. Stesso augurio rivolgiamo anche a lui. Noi non sappiamo se l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, ha svolto bene il suo lavoro o ci ha marciato alla grande. Come sopra, anche per l’avvocato Seminara, e per tutti gli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta: Tommaso Virga, presidente della quarta sezione penale del Tribunale; Lorenzo Chiaramonte, ex componente del collegio misure di prevenzione; Dario Scaletta, pubblico ministero della DDA (indagato per fuga di notizie), tutti in via d'uscita. Né va dimenticato Antonello Montante, investito per mafia da altra inchiesta, ma, a quanto pare, sempre per lo stesso argomento: Montante era nell’Osservatorio nazionale dei beni sequestrati dal quale è stato costretto a dimettersi, ma è rimasto pur sempre nel direttivo regionale di Confindustria. Qui dovremmo aprire una lunga parentesi (ma le occasioni non mancheranno) per parlare di cosa sia in effetti questa Confindustria siciliana (solo siciliana?), anche alla luce, ad esempio, delle parole di Marco Venturi, presidente dell’associazione per la Sicilia orientale, in una sua clamorosa intervista a Attilio Bolzoni: "La svolta antimafia di Confindustria è solo un inganno". E torniamo adesso al denaro, con la "d" minuscola. Ipotizziamo, per un attimo, che le accuse dei giudici nisseni vengano provate. Come la mettiamo? O meglio, come intende metterla il Csm? Il vice presidente del Csm Giovanni Legnini ha incontrato il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, e ha commentato che: "Ci sono ampie e fondate ragioni per avviare la procedura del trasferimento d’ufficio". In altre parole, altra sede, altro incarico. La frase è indicativa di quanto appaia chiaro alle massime cariche istituzionali la inaudita gravita dell’accaduto. Ma noi, anche in questa eventualità dei trasferimenti, non saremmo per niente soddisfatti. E stessa indignazione proverebbero molti cittadini. Con quale logica, quale autorevolezza, quale requisito morale riconosciuto da tutti, questi magistrati potrebbero continuare a svolgere il loro lavoro da un’altra parte? In nome di "quale popolo italiano" sarebbero chiamati a emettere sentenza? Sarebbero perennemente costretti a indossare toghe inzaccherate di fango, e non sarebbe un bello spettacolo nelle aule di giustizia. Troppo facile, troppo comodo cavarsela così. E infatti c’è il denaro che resta il tema di fondo del nostro articolo. Saranno fatte approfondite ricerche bancarie? Si indagherà sui capitali e le proprietà personali degli indagati in questione? Si cercheranno i loro fiancheggiatori, prestanome, amici larghi e amici stretti, parenti larghi e parenti stretti, come si fa per dar la caccia a Denaro e al suo denaro? E come si fa giustamente per centinaia e centinaia di altri mafiosi? Come? Noi siamo forcaioli? Può darsi. Ma come la mettiamo se si dovesse scoprire che un manipolo di magistrati, giudici, imprenditori confindustriali, "antimafiosi da parata", diedero per anni l’assalto alla diligenza che conteneva i "capitali" mafiosi che in nome dello Stato italiano erano stati confiscati per ben altre finalità sociali? E come mai certi uomini politici, in mille occasioni così ciarlanti delle "responsabilità civile dei giudici", in questo caso stanno digerendo macigni ma non aprono bocca? Neanche un talk show, neanche un’intemerata degli Opinionisti che in questi trent’anni ai magistrati "gliele hanno cantate chiare". Strano. Davvero molto strano. Persino buffo che stiano perdendo un’occasione tanto ghiotta per dire la loro. Nelle prossime settimane capiremo meglio. Auguriamo a tutti di riuscire a provare la loro innocenza. Ma se dovessero risultare colpevoli, dovranno cacciare i soldi rubati, il maltolto, il bottino. Da qualche parte esisterà pure uno Stato capace di confiscare in casa dei confiscatori. Altro che trasferimenti in altra sede, altri incarichi direttivi… Non condannati a lavorare in campi di patate, per carità, ma quanto meno costretti a fare "opere di bene" con i soldi che speravano di avere messo al sicuro.
Ma con quelle accuse sulle spalle la Saguto può indossare la toga? Scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Troppi scandali, troppe intercettazioni, troppi favori, troppi privilegi. Con tutte le accuse formulate a suo carico dalla Procura di Caltanissetta, Silvana Saguto, ex presidente delle Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dovrebbe fare un decisivo passo indietro: dovrebbe quantomeno autosospendersi dalla magistratura in attesa di chiarire definitivamente la sua posizione. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro... io ti dico che pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8.000 magistrati ne difendono uno”. Ecco la lezione imparata da Walter Virga, nei 35 anni vissuti accanto al padre Tommaso, oggi presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. Il giovane Virga, nominato amministratore giudiziario da Silvana Saguto, affida inconsapevolmente la sua certezza alle microspie piazzate nell'ambito dell'inchiesta che li vede tutti indagati. Il sistema aveva una base solidissima, la consapevolezza dell'impunità. Cane non morde cane. Nonostante le polemiche che divampavano sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, il castello sarebbe rimasto in piedi con tutti i privilegi e le agiatezze che aveva comportato. A partire dalla nomina del giovane avvocato alla guida di due dei più grossi patrimoni - Rappa e Bagagli - sequestrati in Sicilia e in Italia. Era Virga jr a ribadire che di sistema si trattava. “Lei non è un ingenua... lei fa parte di un sistema”, diceva riferendosi all'ex presidente. Un sistema sempre e comunque al di sopra di ogni sospetto grazie al bollo della magistratura, dove l'accesso era consentito dal fatto che “abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell'incarico”. Avete letto bene: pizzo. Perché, aggiungeva il giovane amministratore giudiziario, “Avevamo risolto il problema alla nuora che era tranquilla”. Il riferimento era a Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli della Saguto, accolta a lavorare nello studio di Walter Virga che al padre Tommaso spiegava: “L'unica cosa complessa è che c'è da sistemare la stanza a Mariangela che faceva schifo e là, solo per il pavimento di Mariangela, stiamo spendendo mille euro, considera, però capisci bene, che è importante farlo”. Era “importante farlo” altrimenti non poteva entrare nel sistema costruito su ricche parcelle, assunzioni e regalie. E forse pure sulle mazzette. Il forse è d'obbligo perché il capitolo più delicato dell'inchiesta, quello sulla corruzione e sul riciclaggio di denaro, è ancora in progress. I finanzieri della Polizia tributaria stanno cercando riscontri sui passaggi di soldi accennati nei dialoghi intercettati. Le indagini faranno il loro corso. Bisogna essere garantisti. Sempre e comunque. Bisogna attendere i tre gradi di giudizio per stabilire se qualcuno sia davvero colpevole, figuriamoci ora che la vicenda giudiziaria è ancora allo stato embrionale. C'è un dato, però, già cristallizzato dai dialoghi di Silvana Saguto. Le sue parole fanno a pugni con la gestione trasparente e terza della giustizia che ci si attende da chiunque indossi la toga. L'immagine della magistratura palermitana ne esce massacrata. Lo sa bene il Csm che ha avviato le procedure per il trasferimento per incompatibilità ambientale della Saguto e degli altri magistrati indagati, compreso Tommaso Virga. Nel frattempo farà il suo corso anche il procedimento disciplinare. Il punto è che c'è una superiore ragione di opportunità. Il sistema giustizia non può attendere. La Saguto è stata trasferita in Corte d'assise, praticamente nel corridoio accanto a quello dai lei frequentato fino a un mese e mezzo fa. È in malattia. In ufficio non c'è ancora andata, tranne per una rapida apparizione che avrebbe creato non poco imbarazzo. Ha annunciato, a mezzo stampa, che chiederà di lasciare Palermo. Ma dovrebbe fare un ulteriore passo indietro, Silvana Saguto. L'autosospensione è l'unica strada. Anche nel suo interesse, per avere la possibilità di difendersi al meglio dalle ipotesi di accusa che presto diventeranno contestazioni. Con le accuse che gravano sulle sue spalle, indossare la toga oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati che ogni giorno, onestamente, amministrano la giustizia.
Scandalo dopo scandalo l'Antimafia è morta. E la società civile non si sente nemmeno tanto bene, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dalla politica al Palazzo di Giustizia, è crollata l'immagine dell'Antimafia come circolo per iniziati. E con essa il mito di una "società civile", contrapposta a una politica incivile, che all'occorrenza è servita per attingere a ideali albi dei moralizzatori. Non è solo il santo moloch dell'Antimafia con la “a” maiuscola a uscire a pezzi dallo stillicidio di puntate dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata a Palermo. Il santuario dell'antimafia di potere era già mezzo crollato negli ultimi tempi, le mura sbrecciate e le fondamenta minate dai fallimenti dell'antimafia politica e dalle vicissitudini giudiziarie dell'antimafia-lobby. Un altro mito, ancora più sfuggente, celebrato e farlocco, sembra cadere a pezzi dal desolante quadro offerto dalle notizie su tutto ciò che gira attorno alla gestione degli ingenti patrimoni mafiosi o presunti tali (quando i beni sono sequestrati e non ancora confiscati). Quel mito, cantato per anni da infaticabili aedi, si chiama società civile. E il quadro che emerge dall'indagine della procura di Caltanissetta, con accuse certo ancora tutte da provare, lo investe in pieno. Avvolgendo, o forse travolgendo, quelle categorie che hanno rappresentato in questi anni un ideale albo dei moralizzatori a cui attingere in supplenza di una politica sputtanata e in cerca di facce nuove. Nel coacervo che qualcuno tra gli stessi intercettati battezza “sistema” si sono mossi, con ruoli e responsabilità diverse, tanti pezzi di quella società civile, raccontata negli anni come contraltare virtuoso rispetto a una politica screditata. Magistrati, forze dell'ordine, professionisti e tutto l'affollato e variopinto indotto dell'eldorado dei beni confiscati, nessuno si era accorto di quel “sistema”, nessuno pare sia stato in grado di scorgere le storture che affollavano questo ricchissimo guazzabuglio. Dagli addetti alla scorta utilizzati per le commissioni ai colleghi magistrati, passando per l'esercito di addetti ai lavori, non escluso il mondo dell'associazionismo attivo in questi ambiti, nessuno, parrebbe, aveva intravisto attorno a Silvana Saguto qualcosa che non quadrava e che meritava di essere denunciato. E quando qualcuno s'è azzardato a indicare il re nudo, vedi il prefetto Caruso, il Palazzo a tutti i suoi livelli ha reagito come è noto. È in questo contesto che è maturato il passaggio di mano del bottino dell'economia mafiosa nelle mani della bella borghesia palermitana, secondo norme che meriterebbero per lo meno una riflessione critica. Nelle mani della società civile, appunto. Se ciò è avvenuto per certi aspetti contra legem dovranno essere i magistrati ad accertarlo. Di certo, la normativa, con i suoi buchi neri e le sua sfere di discrezionalità, non ha aiutato a evitare il peggio. Che non sta solo nei profili penali della vicenda, come detto, tutti da acclarare. Ma soprattutto nelle storie di figli e parenti sistemati, antica disciplina in cui la suddetta bella borghesia panormita sa eccellere come pochi. È scomoda questa storia di spese al supermarket non pagate. Scomoda perché sgretola un mito fragile, che non è solo quello dell'antimafia come “tuta mimetica” per altri interessi, ma è più in generale quello dell'esistenza di fantomatiche oasi incontaminate, dove invece si celano i vizi e le storture di altri vituperati palazzi. È scomoda ed enorme questa storia, ben più delle beghe tra conventicole che hanno animato nei mesi scorsi le cronache dei dolori dell'antimafia chiodata. È enorme e scomoda, e trova spazi forse non adeguati sulla grande stampa nazionale, dove paradossalmente è più indolore parlare di agende rosse e di passato remoto piuttosto che guardare in faccia il presente. Rassegnandosi all'idea che quello della “società civile” come concetto contrapposto a una sottintesa “incivile” politica è un mito con poche aderenze alla realtà. Quale punto di riferimento resta dunque ai siciliani? Da una parte una politica disastrosa e fallimentare. Dall'altra un'economia morente, dimenticata dalla politica e rappresentata da una classe dirigente che non è riuscita, quando ha avuto la possibilità di entrare nelle stanze dei bottoni, di invertire in modo apprezzabile la rotta. A tutto questo si aggiunge ora il disastro d'immagine della giustizia, travolta da uno scandalo di quelli che erodono anni di lavoro, credibilità e sacrifici di tanti. Non resta allora che sfuggire alla tentazione della generalizzazione. Quella stessa generalizzazione che ha santificato negli anni intere categorie, beneficiarie dello scudo dell'immagine fulgida di servitori dello Stato. Non tutto era bene allora, non tutto può essere male adesso. Metabolizzato l'inganno dell'antimafia come club per soli tesserati e della società civile come paradiso del senso civico, c'è solo d'augurarsi che il trauma di questi giorni accompagni i siciliani nell'era del discernimento, al di là delle etichette. Considerando la lotta alla mafia una priorità condivisa e non un circolo per iniziati.
Gli insulti ai figli di Borsellino del giudice dei beni confiscati "Lui squilibrato, lei cretina". Esclusiva. Ecco le frasi shock dell'ex presidente delle Misure di prevenzione dopo aver commemorato il magistrato ucciso, il 19 luglio scorso. L'intercettazione con un'amica. Sull'abbraccio con Mattarella diceva: "Manfredi si commuove, che figura è?". A una svolta l'indagine dei pm di Caltanissetta condotta dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 21 ottobre 2015. Il 19 luglio scorso, il giudice antimafia Silvana Saguto è la madrina della manifestazione "Le vele della legalità", pronuncia parole accorate per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Ma appena torna nella sua auto blindata, telefona a un'amica e sputa parole terribili contro i figli di Borsellino. Ce l'ha soprattutto con Manfredi, che il giorno prima ha abbracciato fra le lacrime il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al palazzo di giustizia di Palermo. Un abbraccio che ha commosso l'Italia. Ma non il giudice antimafia Silvana Saguto, che sbotta: "Poi, Manfredi Borsellino, che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai". E insiste: "Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo". Eccole, le parole terribili che pronunciava uno dei giudici simbolo di Palermo, che ha sequestrato beni per milioni di euro e oggi è indagata dalla procura di Caltanissetta per aver costruito un sistema di raccomandazioni e favori attorno alla gestione dei patrimoni sottratti ai boss. Il giorno dell'anniversario della strage di via d'Amelio, Silvana Saguto era infastidita perché aveva aspettato due ore sotto il sole l'arrivo delle barche della legalità al porticciolo di Ficarazzi, piccolo centro alle porte di Palermo. Ed era un fiume in piena contro la famiglia Borsellino. Tutte le sue parole sono rimaste impresse nelle intercettazioni fatte dai finanzieri del nucleo di polizia tributaria di Palermo. Alla sorella Lucia, Silvana Saguto riservava altri insulti: "È cretina precisa".
Giudice antimafia Saguto intercettata sui Borsellino: “Manfredi? Squilibrato. Lucia? Cretina precisa”. L'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo - sulla quale indaga la procura di Caltanissetta - dopo avere partecipato alla manifestazione "Le vele della legalità", sale sull'auto blindata, telefona a un'amica e insulta il magistrato ucciso nel 1992. Sul figlio dice: "Ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa?", scrive Giuseppe Pipitone il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Manfredi Borsellino? “Uno squilibrato”. La sorella Lucia? “Cretina precisa”. È il 19 luglio 2015, anniversario numero 23 della strage di via d’Amelio, il massacro del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Silvana Saguto, una delle donne che a Palermo incarna il volto dell’antimafia fatta di numeri ed euro sottratti a Cosa nostra, sta partecipando – in qualità di madrina – alla manifestazione “Le vele della legalità”. Ricorda il sacrificio del magistrato assassinato, parla dell’antimafia dei sequestri, quella che dal 2010 rappresenta guidando la sezione misure di prevenzione del tribunale. Poi sale sulla sua auto blindata, telefona ad un’amica, e – come racconta Repubblica – si lascia andare ad una serie di insulti contro i figli di Borsellino. Inveisce soprattutto con Manfredi, oggi commissario di polizia, che 24 ore prima al palazzo di giustizia ha abbracciato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, tra la commozione generale. “Ma poi, Manfredi Borsellino che si commuove, ma perché minchia ti commuovi a 43 anni per un padre che ti è morto 23 anni fa? Che figura fai”. Ma non solo. “Ma che – continua Saguto – dov’è uno… le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaffanculo”. Sono i giorni del caso Crocetta, con il settimanale Espresso che ha pubblicato il testo dell’intercettazione (poi smentita dalla procura di Palermo, che indaga per calunnia e pubblicazione di notizie false) in cui il medico del governatore dice che Lucia Borsellino “va fatta saltare come il padre”. Ed è per questo che Manfredi Borsellino era intervenuto davanti al capo dello Stato, per difendere la sorella, che due settimane prima si era dimessa da assessore regionale alla sanità. Saguto però è un fiume in piena, e bolla Manfredi come “uno squilibrato, lo è stato sempre, lo era pure quand’era piccolo”. Lucia Borsellino, invece, per il magistrato è “cretina precisa”. Parole pesantissime quelle pronunciate da Saguto, che colpiscono al cuore la credibilità di una fetta ampia del mondo della cosiddetta antimafia. “Io e mia sorella Lucia siamo senza parole, non vogliamo commentare espressioni che andrebbero catalogate alla voce cattiveria. Solo parlandone, rischiamo perciò di attribuire importanza a chi quelle parole ha proferito”, ha detto Manfredi, commentando le parole della Saguto. La donna “economicamente più importante di Palermo”, come la definì Gian Carlo Caselli, è infatti al centro di un’inchiesta della procura di Caltanissetta, che la ha iscritta nel registro degli indagati per corruzione, induzione e abuso d’ufficio: secondo l’accusa, aveva trasformato il mondo dei beni sequestrati a Cosa nostra in un suo personalissimo business, utilizzato a vantaggio della sua famiglia e di pochi fedelissimi del suo cerchio magico. Incarichi ad amministratori giudiziari amici (sempre gli stessi), nomine in cambio di lavori per il marito Lorenzo Caramma (anche lui indagato), il figlio e la fidanzata del figlio, regali chiesti e ottenuti, che spesso arrivavano proprio dalle aziende che lo Stato ha sottratto ai boss: come nel caso del supermercato Sgroi, dove Saguto aveva maturato un debito di oltre 18mila euro. È un sistema tentacolare quello che ruota attorno al magistrato, un sistema che quando finisce al centro di inchieste giornalistiche (come nel caso di Telejato, la minuscola emittente guidata da Pino Maniaci), prova a difendersi facendo quadrato. “Voglio fare qualcosa d’impatto, un incontro con i giovani che gli eroi del contrasto alla criminalità, quindi voglio fare una giornata su di te”, dice Carmelo Provenzano, professore dell’università Kore di Enna, al magistrato, attaccato due giorni prima dalla trasmissione Le Iene. Sono gli stessi giorni in cui – secondo la ricostruzione dei pm nisseni – un ufficiale della Dia avrebbe fatto circolare volontariamente una vecchissima informativa che parlava di un rischio attentato per la Saguto. L’ex zarina della sezione misure di prevenzione che, nonostante le polemiche, non accenna a diminuire di un grammo la sua pressione su amici e componenti del cerchio magico. È il 31 luglio quando Saguto chiama Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma, chiedendogli di trovare un incarico per il marito. Muntoni accetta di buon grado, e spiega alla collega che “i miei amministratori sono precettati a cercare qualcosa che vada bene per un bravo ingegnere di Palermo”. Sono solo le ultime intercettazioni raccolte dall’indagine. Mentre al Csm continua ad andare avanti la pratica per il trasferimento di sede di Saguto (che ha chiesto di essere spostata a Milano) e degli altri quattro magistrati coinvolti dall’inchiesta della procura di Caltanissetta, emerge infatti uno spaccato di come la toga messa a sentinella della “robba” sequestrata ai boss vivesse quotidianamente. L’auto blindata con la scorta, per esempio, veniva mandata in giro per le più banali commissioni domestiche, o utilizzata per andare al mare evitando il traffico. “È un inferno”, dice il prefetto Francesca Cannizzo al telefono. “Ce ne possiamo fregare dell’inferno se vieni con me, abbiamo la mia macchina, c’è la preferenziale”. Ed è proprio per la cena con il prefetto Cannizzo, che Saguto riceve in dono dall’amministratore giudiziario del complesso turistico Torre Artale sei chili di tonno. Un dono che punta ad attirarsi la benevolenza del magistrato e che riscuote alto gradimento. “Il prefetto – dice Saguto intercettata – era impazzita letteralmente una cosa così non l’ha mai mangiata”.
Poi non ci dobbiamo dimenticare, sempre a proposito della sezione Misure di Prevenzione antimafia, che l’anomalia non e solo palermitana, ma è generale. La mafia è una cosa seria, l'antimafia troppo spesso non lo è.
Il giudice Vincenzo Giglio è da oggi un pregiudicato, scrive Claudio Cordova su "Il Dispaccio" il 20 ottobre 2015. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per l'ex Presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria, Vincenzo Giuseppe Giglio, e per l'ex consigliere regionale calabrese Francesco Morelli. La Suprema Corte ha dunque confermato quanto disposto dalla corte d'Appello di Milano che alcuni mesi fa aveva inflitto 4 anni e 5 mesi al primo e 8 anni e 3 mesi a Morelli nel processo milanese sulla cosiddetta 'zona grigia' della 'ndrangheta. La Corte di Cassazione ha confermato anche la condanna a Raffaele Fermino (4 anni e 8 mesi di reclusione), al medico Vincenzo Giglio (cugino del giudice) a 7 anni di carcere, a Leonardo Valle a 8 anni e 6 mesi, a Francesco Lampada a 3 anni e 8 mesi, all'ex militare della Guardia di Finanza Luigi Mongelli a 4 anni e 5 mesi di reclusione. Annullate con rinvio a un'altra sezione della Corte d'Appello di Milano, le condanne a Maria Valle, condannata in Appello a 2 anni e 9 mesi di reclusione e Luciano Russo, Michele Noto e Michele di Dio, tre finanzieri assolti in primo grado, ma condannati in appello a 3 anni e 9 mesi di reclusione. Sentenza definitiva nel procedimento che coinvolse l'ex consigliere regionale, Franco Morelli e il giudice Enzo Giglio. Entrambi vengono puniti per i propri rapporti con la cosca Lampada, operante nel milanese con un vero e proprio impero economico. Il coinvolgimento dei due creò grande scalpore: Giglio, in particolare, era visto come un insospettabile, esponente di Magistratura Democratica e presidente della Corte d'Assise di Reggio Calabria. Giglio venne ammanettato con delle accuse gravissime: nel corso di alcuni incontri, almeno cinque, avvenuti all'interno della propria centralissima abitazione a Reggio Calabria avrebbe fornito delle soffiate agli elementi di spicco del clan Lampada circa l'esistenza o meno di indagini giudiziarie sul conto degli affiliati. Discorso analogo per la presunta corruzione con Franco Morelli, cui Giglio avrebbe rivelato l'assenza di indagini sul conto del politico, preoccupato di possibili vicende giudiziarie che ne potessero frenare l'ascesa politica. Un'amicizia, quella tra Morelli e Giglio, che sarebbe stata premiata dagli incarichi regionali ottenuti dalla moglie del magistrato, Alessandra Sarlo. Per la nomina della Sarlo, peraltro, è pendente un processo separato che si celebra a Catanzaro. Incontri, quelli tra Giglio e i Lampada nella centralissima abitazione reggina del magistrato, che gli inquirenti riusciranno a documentare "in diretta", incrociando poi con le captazioni telefoniche acquisite. Per questo, dunque, la Corte d'Appello, analizzando le intercettazioni di Giulio Lampada parla nelle motivazioni della sentenza di secondo grado di "frequentazione intensa della casa del giudice Giglio" da parte del presunto boss calabro-milanese. La sentenza parla inoltre di rapporto "assolutamente amichevole e confidenziale che intercorre tra Giulio Lampada e il giudice". Lampada si sarebbe anche rivolto al magistrato chiamandolo "Enzuccio bello". Un rapporto che si inquadrerebbe, dunque, nei vari tentativi fatti dai Lampada di ottenere informazioni riservate sullo stato delle indagini. Insomma, i Lampada sentivano il fiato della giustizia sul collo e si sarebbero attivati per capire cosa stesse accadendo: "Deve ritenersi accertato che i fratelli Lampada abbiano attivato una pluralità di canali informativi e fra questi anche il giudice Giglio. [...] Non può che apprezzarsi la qualità dell'informazione fornita dal magistrato che di fatto "anticipa" ai fratelli Lampada quello che sarà per loro l'esito dell'indagine "Meta", vale a dire l'archiviazione dell'accusa per associazione di stampo mafioso e la trasmissione a Milano della terza parte dell'informativa "Meta", quella cioè che in buona sostanza ipotizzava che i Lampada riciclassero per conto della famiglia Condello". Informazioni che, a detta dei giudici milanesi, sarebbero arrivati proprio da Enzo Giglio: "Il giudice Giglio, presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, violando il tal caso un segreto proprio, ha rivelato ai Lampada che presso il suo ufficio non erano pendenti procedimenti a loro carico per l'applicazione di misure di prevenzione, specie quelle di carattere patrimoniale (confisca) cui i germani erano particolarmente sensibili". E sarebbero stati proprio i molteplici incontri nella casa reggina del magistrato i momenti in cui Giglio avrebbe spifferato notizie coperte dal segreto ai Lampada: "Emerge che il magistrato fornì ai Lampada, in occasione dei documentati incontri, la notizia che non vi era iscrizione per 416 bis presso la Procura di Reggio Calabria (informazione che, a prescindere dalla sua veridicità, era comunque illecita), che erano in corso accertamenti su eventuali condotte di riciclaggio poste in essere con "famiglie" calabresi (corrispondente alla terza parte dell'informativa "Meta") e che non vi erano proposte di misure di prevenzione presso la Sezione da lui presieduta. E' altresì certo che il magistrato fosse pienamente consapevole di offrire aiuto informativo ad appartenenti a un sodalizio mafioso e dunque, per la natura delle informazioni fornite, al sodalizio stesso". Nella catena "informativa", un ruolo lo avrebbe rivestito anche l'allora consigliere regionale di centrodestra, Franco Morelli, anch'egli coinvolto e condannato nel procedimento. Tanto che la sentenza d'appello parla di un "turbinio di rivelazioni e di segreti attinenti le indagini reggine e milanesi". Rapporti, quelli con Morelli, che introducono anche la contestazione di corruzione, per cui Giglio è stato condannato, il conferimento di un pubblico impiego alla moglie, Alessandra Sarlo: "L'imponente attività captativa attesta: che il magistrato ed i familiari (la moglie Sarlo e i cugini Giglio) si prodigano, in occasione della campagna elettorale del 2010 per le elezioni regionali calabresi, in favore dei politici Luigi Fedele e Francesco Morelli; che il magistrato, subito dopo il successo elettorale dei due candidati, richiede con insistenza a Morelli una diversa sistemazione lavorativa pubblica per la moglie, Alessandra Sarlo (che versa in una situazione da lui definita di mobbing presso l'amministrazione di provenienza); che, allorquando emerge una problematica connessa a vicende giudiziarie che potrebbe compromettere la carriera politica (la collocazione in Giunta regionale di Scopelliti) e quindi il potere di Morelli, il magistrato, con palese deviazione dai propri doveri, gli fornisce notizie riservate in merito all'assenza di iscrizioni o comunque di indagini a suo carico per reati di mafia". E così Giglio comunicherebbe a Morelli l'assenza di indagini: un fax inviato da una cartoleria di Reggio Calabria a un tabaccheria di Catanzaro, che il politico avrebbe dovuto sventolare sotto il naso al sindaco di Roma, Gianni Alemanno, affinchè questi intervenisse per far ottenere a Morelli il tanto agognato incarico nella Giunta Scopelliti. Un "sinallagma corrutivo" che per i magistrati milanesi si perfeziona nell'incontro del 18 aprile 2010. Ancora una volta nell'assai frequentata abitazione del giudice Giglio: "In quell'incontro le rispettive esigenze di Francesco Morelli e del magistrato, entrambe già emerse e manifestatesi, si incontrano e si coniugano, quella di Giglio relativa alla sistemazione della moglie Alessandra Sarlo e quella di Morelli di avere la "carta riabilitante". Riabilitazione che, a ben vedere, era anche una delle condizioni perché Morelli potesse attivarsi efficacemente in favore del coniuge del magistrato, anche perché erano ormai divenute urgenti – con l'avvento della nuova amministrazione regionale e quindi la prevista decadenza del distacco in comando di Alessandra Sarlo a seguito dello spoil system – le pretese di sistemazione della predetta". Una sentenza che, al pari di quella di primo grado, si basa su intercettazioni e incroci investigativi: "Gli eloquenti scambi (di sms tra Giglio e Morelli, ndr) comprovano che Morelli – che ha stretto un'alleanza con Fedele per garantirsi la nomina ventilata da Scopelliti ad Alemanno – indica Fedele al magistrato come colui che potrà tornare utile per procurare la sistemazione promessa alla Sarlo". E nel dibattimento, secondo i giudici, il magistrato Giglio mentirà (possibilità prevista dalla legge) per mascherare i propri rapporti con i Lampada: "La prova della menzogna attesta che Giglio sapeva perfettamente che Giulio (Lampada, ndr) non era solamente un imprenditore calabrese al nord, che si era rivolto per un consiglio [...] la negazione mendace rivela al contrario la piena consapevolezza da parte di chi ha mentito della non ostensibilità della verità, vale a dire che i Lampada, conosciuti come ndranghetisti, si erano rivolti a lui per avere informazioni sulla situazione delle indagini certamente a loro carico. [...] E Giglio Vincenzo non si scompone dinnanzi a tale richiesta che denuncia di per sé sola l'appartenenza al sodalizio mafioso di chi la formula. E' emblematico che il magistrato – al pari di politici, medici, altri magistrati, avvocati, finanzieri – continui a rapportarsi con Giulio nonostante sia già emerso (agli inizi del 2009) sulla stampa il sospetto della sua appartenenza alla 'ndrangheta. E' il segno che per tutti l'appartenenza alla 'ndrangheta dei Lampada, essendo a loro ben nota, non rappresentava una sorpresa né un'emergenza valutata come negativa e ostativa al mantenimento e alla prosecuzione del rapporto". Politica, imprenditoria, magistratura e 'ndrangheta. C'è tutto nella rete relazionale dei Giglio, dei Morelli, dei Lampada: "Il giudice Giglio e la moglie attivano tutte le conoscenze politiche – utilmente acquisite tramite i cugini Giglio, che a loro volta vantano e sfruttano la prestigiosa frequentazione del Presidente della Sezione Misure di Prevenzione – funzionali al raggiungimento dell'obiettivo, essendo il magistrato disposto a rendere e pretendere favori". Ma i giudici della Corte d'Appello di Milano vanno oltre e, nel tratteggiare le motivazioni che starebbero alla basa del rapporto tra Giglio e i Lampada, mettono nero su bianco un piccolo trattato sulla definizione della "zona grigia": "Giulio Lampada appartiene alla 'ndrangheta "silente", quella con il volto "accettabile", non disposta a farsi riconoscere con segni eclatanti, quella frequentabile, che fa salve le apparenze, che si accompagna appunto a politici, giudici, medici appartenenti alle Forze dell'Ordine, che da tale frequentazione riceve vantaggi e li elargisce, quella 'ndrangheta caratterizzata da una "doppiezza" insidiosa che è quella stessa che a ben vedere esprime lo stesso magistrato Giglio, ineccepibile nella sua attività giudiziaria, pronto a organizzare con Morelli manifestazioni contro la 'ndrangheta, ma al contempo disponibile a favorire Giulio Lampada e il suo sodalizio". Ora la Cassazione ha messo il punto definitivo sul giudice Giglio, che, in maniera pressoché automatica, verrà radiato dalla magistratura.
Beni confiscati, le intercettazioni: "Il nostro pizzo? Il lavoro per la nuora della Saguto". Le parole di Walter Virga, amministratore giudiziario del patrimonio Rappa, e quelle della ex presidente della sezione Misure di prevenzione: così funzionava il "sistema Saguto", scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica” il 20 ottobre 2015. È una confessione in diretta quella di Walter Virga. E, al contempo, un atto d’accusa. È una delle prove più importanti di tutta l’inchiesta della procura di Caltanissetta e del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza. La mattina del 9 giugno, l’avvocato Virga lo descriveva così il "sistema Saguto", un sistema di nomine ai soliti noti, per amicizia e convenienza: "Da Acanto (uno degli ultimi sequestri fatti a Villabate, ndr) lavora l’archeologo amico di Angelo Ceraulo, è disoccupato". Il giovane Walter, figlio del giudice Tommaso Virga, ex componente del Csm, parlava anche della sua nomina ad amministratore del gruppo Rappa. "Io sono stato nominato in un periodo tale dove... è vero che non c’era il procedimento disciplinare (fa riferimento al fatto che suo padre era nella commissione disciplinare del Csm,ndr) ma secondo te io lavoro là e gli dico...?" Queste parole hanno portato sotto inchiesta anche il padre del giovane Virga. Che intanto, quel giorno di giugno, continuava nel suo sfogo contro il sistema Saguto. "Altra cosa, noi abbiamo avuto, ora ci vuole, a nutricarci la nuora qua". La Saguto aveva imposto la nuora avvocato, Mariangela Pantò, allo studio legale Virga. Il giovane Walter parlava anche di un altro componente del cerchio magico di Silvana Saguto, il professore Carmelo Provenzano. Diceva: "Perché era Provenzano a prendere gli incarichi? Era Provenzano a prendere gli incarichi per il figlio che aveva il problema delle materie che si doveva passare; noi invece avevamo risolto il problema alla nuora, che era tranquilla, abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico". Uno sfogo importantissimo per l’inchiesta. Quel 9 giugno, qualcosa si era già rotto nel cerchio magico. Virga aveva deciso di allontanare la nuora della Saguto. Per le polemiche sui giornali, e non solo. L’avvocato si lamentava addirittura del trattamento ricevuto dal suo giudice di riferimento, nonostante quel maxi incarico da 800 milioni ricevuto con l’amministrazione Rappa. "Credo che Santangelo (un altro amministratore, ndr) abbia sei incarichi; mentre noi leccavamo il culo a Mariangela (...) meglio averne sei che non sono grandi e guadagnare 3.000 euro l’uno in meno al mese che avere un solo Rappa e guadagnare 3.000 in più". Virga raccontava anche di un colloquio avuto con la nuora della Saguto. Un altro colloquio emblematico. "Lei diceva: 'Uno se fa la lotta alla mafia, allora se lo deve aspettare... se ne deve fregare, mia suocera infatti lo dice sempre che ha fede in Dio e va avanti'". In quella occasione, Virga disse alla nuora del giudice: "'Guarda — gli ho detto — te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato: i magistrati si difendono tra di loro. Quindi, come vedi, tutte queste polemiche (...) io ti dico che pure se non fossero falsità e lo sono, fino al terzo grado di giudizio, 8.000 magistrati ne difendono uno'". Parole pesanti quelle dell’avvocato Walter Virga: "Noi facciamo un altro mestiere (...) sono due mondi diversi', gli ho detto. 'Giustamente il magistrato ci ha la fede, ci ha le cose e un apparato di 8.000 persone dietro che dicono che ha ragione, che è quello che sta succedendo alla Saguto... la Cassazione le ha detto: ah qui marito, nuora e figlio... le hanno detto, intanto risolvitelo e non facciamo niente'". Che è il contrario di quello che è accaduto, con l’inchiesta della procura nissena e della finanza. La decisione di Virga, di allontanare la nuora della Saguto, aveva fatto andare il giudice su tutte le furie. "Sono distrutta, incazzata — diceva al marito — non si può dire come gliela faccio pagare, non si deve presentare". Suo figlio Francesco era invece per una strategia diversa: "Lui dice che devo essere diplomatica, l’ha invitato qui stasera". La Saguto non si dava pace, quel giorno di giugno aggiunse anche un’altra frase diventata molto importante per l’inchiesta: "No, non gliela posso passare... non si buttano a mare le persone, si rischia insieme". Il 15 giugno, Virga si presenta nell’ufficio dalla Saguto, dove la finanza ha piazzato un’altra microspia. Dice: "Speriamo che si risolva tutto velocemente". La giudice non usa mezzi termini: "Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione". Virga insiste, cerca di non perdere l’incarico. Ma è inutile. La Saguto è categorica: "No, io penso di no, è meglio di no, visto che è andata in questo modo". Il cerchio magico dei favori reciproci con Virga (padre e figlio, secondo l’accusa) si era ormai rotto. Virga chiede di potere tenere una dipendente di Bagagli fino a dopo i saldi. Il giudice risponde in modo gelido: "Faccia un’istanza, valuterò successivamente". Così, a giugno, per Silvana Saguto il problema era trovare un altro posto alla nuora. "L’ha buttata fuori dallo studio — si sfogava con un ufficiale della Dia — da un minuto all’altro in mezzo alla strada". E chiosava: "E quello che abbiamo fatto per lui". L’ufficiale la rassicurava: "Vabbè tanto poi la sistemiamo ancora meglio, non ti preoccupare". La Saguto si sfogò anche con l’avvocato Cappellano: "Virga, un ragazzino da niente, ha avuto quello che ha avuto e questo è il ringraziamento".
Giudice antimafia Saguto: laurea del figlio scritta dal prof che lei ha raccomandato al Cara di Mineo. Elio Caramma, professione chef, si è laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Che, però - secondo gli inquirenti - è stata redatta da Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, e amministratore giudiziario di fiducia dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Lui, al telefono, la ringrazia per la segnalazione del suo nome quale potenziale commissario del centro richiedenti asilo, scrive Giuseppe Pipitone il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “Beni sottoposti ad amministrazione giudiziaria: bilanciamento tra tutela del mercato e garanzia della legalità”. È solo il titolo di una tesi di laurea ma a rileggerlo adesso sembra quasi una beffa. Perché quella tesi di laurea in Economia appartiene ad Elio Caramma, di professione chef, ma soprattutto figlio di Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio dalla procura di Caltanissetta. Saguto è al centro di un’inchiesta che ha svelato un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nella gestione delle ricchezze sottratte ai boss. Ed è stata anche intercettata mentre definiva i figli di Borsellino “squilibrati e cretini”. Suo figlio, già citato nell’indagine per un incarico ottenuto in un lussuoso hotel di proprietà della famiglia dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, l’asso pigliatutto dell’amministrazione giudiziaria, si è addirittura laureato con una tesi sui beni confiscati a Cosa nostra. Un titolo che, come spiega La Stampa, a Caramma viene suggerito dal vero autore di tutto l’elaborato, e cioè Carmelo Provenzano, professore universitario alla Kore di Enna, amministratore giudiziario di fiducia della Saguto, uno dei componenti del cerchio magico della zarina dei beni confiscati. È Provenzano che scrive – secondo gli inquirenti – la tesi di laurea del figlio della Saguto, ed è sempre Provenzano che cerca di farsi raccomandare dal magistrato per un incarico al Cara di Mineo, il centro per richiedenti asilo finito al centro di Mafia Capitale e commissariato dallo scorso giugno. “Il 12 giugno Provenzano contatta la Saguto ringraziandola per la segnalazione del suo nome al prefetto di Palermo quale potenziale commissario del Cara di Mineo”, si legge nei brogliacci della guardia di finanza. Perché per l’incarico a Mineo, Saguto fa intervenire il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo, sua grande amica. “Ti volevo dire che ieri, davanti a me, ha telefonato quella da Roma per chiedere i dati al prefetto”, dice ad un certo punto a Provenzano. Il professore gongola: “Mamma mia se è così, prima di festeggiare, un bacio in bocca ti do guarda. Sei una potenza”. Ma non solo. Perché Saguto era riuscita a trovare un lavoro al Cara di Mineo anche a suo marito Lorenzo Caramma, coinvolto con lei nell’inchiesta nissena, già titolare di una serie diincarichi concessi da altri amministratori giudiziari. Caramma aveva trovato l’accordo con Davide Franco, commercialista amministratore del centro richiedenti asilo di Mineo, che aveva “avuto il numero” del marito della Saguto da Guglielmo Muntoni, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Roma. “E’ vero, ho chiesto all’ingegnere Lorenzo Caramma se fosse interessato a collaborare al Cara di Mineo. Tuttavia i primi di settembre abbiamo ritenuto opportuno interrompere questa ipotesi lavorativa con l’ingegnere dato che dai giornali apprendemmo dell’inchiesta di Caltanissetta. Lo abbiamo fatto per motivi di opportunità”, spiega il commercialista Franco. E mentre da una parte Saguto chiedeva al prefetto aiuto per trovare incarichi al Cara di Mineo, dall’altra contattava l’amministratore giudiziario Alessandro Scimeca per sollecitare assunzioni chieste dallo stesso prefetto. “Io – dice intercettata il 28 agosto – ti devo chiedere il favore per il prefetto: di quello là da assumere”. Sono invece propositi di vendetta quelli promessi dal magistrato nei confronti dell’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, magistrato ed ex componente togato del Csm. I due Virga sono finiti entrambi coinvolti dall’inchiesta nissena. Virga junior, infatti, era stato nominato amministratore giudiziario del gruppo Bagagli e delle aziende sequestrate alla famiglia Rappa: negozi, concessionarie d’auto di lusso, tv private, un tesoro da quasi un miliardo di euro. In cambio – secondo l’accusa – Virga aveva assunto Mariangela Pantò, fidanzata del figlio della Saguto, nel suo studio legale. “Abbiamo pagato il pizzo che dovevamo pagare e abbiamo avuto quell’incarico”, commenta in un’intercettazione. Appena inizia a scoppiare lo scandalo, però, Virga preferisce “licenziare” la fidanzata del figlio della Saguto. La reazione del magistrato è rovente. “Sono distrutta, incazzata non si può dire come gliela faccio pagare, non si buttano a mare le persone, si rischia insieme”. Poi riceve Virga e gelida sentenzia: “Non penso che ci sarà un seguito a questa collaborazione”.
La Magistratura impegnata (nella strenua difesa di se stessa), scrive Achille Saletti il 22 ottobre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". E dedicare qualche riga, oltre che alla politica rapace, a una Magistratura che difende se stessa con un piglio degno di cause migliori? Anche in questo caso sembra di sparare sul pianista: lo scontro ai vertici di una delle procure italiane più importanti si è ridotta ad un buffetto dato con grande delicatezza ai due protagonisti dell’affaire. Bruti Liberati, procuratore della Repubblica di Milano e Alfredo Robledo, sostituto della stessa Procura. Scontro di potere inaudito che ha fatto emergere dimenticanze, stranezze, stravaganze procedurali, insomma quell’insieme di comportamenti che nel retrobottega di un biscazziere, forse, sono normalità ma nel palazzo di vetro di una Procura, opacizzano anche quei colleghi che con serietà e dedizione si ostinano ad indossare il nobile abito di servitore dello Stato. Il Consiglio superiore della Magistratura ha sapientemente atteso la data di pensionamento di Bruti Liberati che, così facendo toglie le castagne dal fuoco. Per Robledo un bel trasferimento, nemmeno tanto lontano (Torino) e tutti giù per terra. Sempre in terra milanese, il giudice Ferdinando Esposito avrebbe abitato in un lussuoso appartamento pagato da amici. Trasferito anche lui a Torino, quasi che Torino fosse il rifugio degli scarti di Milano, o forse perché c’è l’alta velocità che permette di andare in 40 minuti e mantenere la residenza a Milano, chi lo sa? Vuoi mai che debbano dormire qualche notte fuori casa. Si chiude Milano e si apre Palermo: fatti noti e nemmeno sconosciuti tra chi aveva a che fare quotidianamente con confische e sequestri. Il magistrato che se ne occupava, la sapiente Saguto, si alimentava in un supermercato confiscato (da lei) senza pagare alcunché. Dispensava fraterni giudizi ai figli di uno dei magistrati che, tra i tanti, ha particolarmente onorato la professione pagando il prezzo della vita e chiudeva entrambi gli occhi su consulenze date al marito da curatori giudiziari da lei scelti. Sospesa in attesa di capirci qualche cosa? No, chiaramente, solamente trasferita. C’è insomma, sufficiente materiale da rendere la faccia del segretario della Associazione nazionale magistrati simile a quella di un ovale al cui interno campeggia un grande punto interrogativo. E questa, per alcuni, sarebbe la parte migliore del Paese e della Pubblica amministrazione. Parte che, se interessata a possibili riforme, si straccia le vesti prima ancora di comprendere in cosa consistano le riforme. Evidentemente a Rodolfo Sabelli, l’ipotetico punto interrogativo di cui sopra, questa Magistratura così feroce con se stessa piace assai perché si sente raramente alzare la voce affinché i suoi colleghi, quando coinvolti in situazioni poco limpide, prendano una sana aspettativa senza pretendere stipendio e incarichi in attesa degli auspicati chiarimenti. Poi, la ferocia si trova in altri settori della P.A quali quelli penitenziari che licenziano un’educatrice rea di avere un pensiero non esattamente ortodosso sulla Tav. Ma per gli educatori non c’è ordine, corporazione o altro che possa difenderli. Loro non sono considerati la parte migliore del Paese.
Franco La Torre: "C'è un'antimafia fatta da mafiosi ma non fermerà le persone oneste". Parla il figlio del segretario regionale del Pci ucciso nel 1982: "La politica ha delegato la lotta agli inquirenti, così sono nati gli intoccabili", scrive Giorgio Ruta su “la Repubblica” del 22 ottobre 2015. "In quella telefonata forse la Saguto ha mostrato il suo vero volto". Franco La Torre, figlio di Pio, il segretario regionale del Pci ucciso a Palermo nel 1982, non fa giri di parole sulle frasi del giudice contro Manfredi e Lucia Borsellino. "La politica ha delegato la lotta alla mafia a magistrati e forze dell'ordine favorendo la nascita di eroi intoccabili".
La Torre, quello che viene fuori è un'antimafia utilizzata come copertura per interessi privati.
"Penso che l'antimafia spesso sia fatta dalla mafia stessa. Faccio un ragionamento. Chi ha interesse a trasformare l'antimafia in un affare? Conviene un'antimafia fatta dai mafiosi rispetto a quella portata avanti dalle persone perbene. Perché attraverso di essa ci si ripulisce l'immagine o si getta fango su quelli che si impegnano seriamente. E si può guadagnare anche qualche quattrino. Quando uno si presenta in un'amministrazione pubblica con un bel progetto culturale spesso si sente dire che non ci sono soldi, ma con una bella iniziativa antimafia qualche finanziamento ci scappa".
Il quadro che ha dipinto è lo stesso del caso Saguto?
"Sappiamo benissimo che se andiamo alla ricerca di coppole e lupare non ne troviamo di mafiosi, invece io ricordo la relazione di mio padre del 1976 in cui diceva che la mafia è un fenomeno di classi dirigenti. Il caso della Saguto è classico, il magistrato si approfitta della sua posizione, non esita a contravvenire alla legge e, da quando si legge nelle intercettazioni, intimidisce delle persone. Questo è un atteggiamento mafioso".
Questa vicenda è un duro colpo al progetto di suo padre e alla legislazione che ha ideato per aggredire il patrimonio della criminalità organizzata?
"Si, senza dubbio. D'altronde i governi che si sono susseguiti fino ad oggi non hanno avuto la questione a cuore. Siamo in un paese bizzarro, dove da un lato c'è la più efficace legislazione antimafia, ma dall'altro la politica pensa che il problema sia della magistratura e delle forze dell'ordine. Siamo in un paese dove non ci si è accorto di quello che accadeva a Palermo. E in certi ambienti si sapeva bene quello che succedeva, anche perché in molti ci campavano con la Saguto".
Delegare responsabilità alla magistratura, crea eroi intoccabili dell'antimafia?
"Si, succede questo. È il rischio che si corre e che abbiamo corso".
Secondo lei, la Saguto è una mela marcia o è parte di un sistema?
"È una mela marcia rispetto alla sua categoria di appartenenza, ma è parte del sistema. Quel sistema che se ne frega, che pensa agli interessi personali, che pensa agli amici e ai familiari. Chi era dall'altra parte del telefono quando la Saguto insultava Manfredi e Lucia Borsellino non ha abbassato la cornetta. Anche questo è sistema".
Perché ci si accanisce contro i figli di Paolo Borsellino?
"Le mie sono ipotesi, non ho elementi per fare altro. Ma penso che in quella telefonata la Saguto abbia mostrato il suo vero volto, dopo aver fatto la parte a una manifestazione per commemorare il magistrato ucciso. Probabilmente, avrebbe parlato male anche di me, dopo aver ricordato mio padre".
Questa vicenda pone una questione sul fronte dell'antimafia. Bisogna ripartire da zero?
"Bisogna fermarsi a riflettere. Io faccio parte di Libera e da tempo diciamo che non vogliamo sapere nulla del termine antimafia. Noi abbiamo, per esempio, alzato il livello di attenzione. Quando venivo invitato a delle iniziative, io prima mi limitavo a capire che l'organizzatore non fosse un approfittatore. Oggi faccio molta più selezione".
C'è il rischio che nell'opinione pubblica passi il messaggio che l'antimafia è tutta uguale, che non si distingua tra chi si impegna in maniera seria e chi lo fa per interessi personali.
"È come la politica, come la classica frase "fanno tutti schifo". Noi spesso invertiamo l'effetto con la causa. Non è l'antimafia che fa schifo, sono i mafiosi che stanno rovinando l'antimafia. In questo modo si rischia di non essere più credibili. Ma chi pensa che così saranno fermate le persone per bene sbaglia".
Beni confiscati, favori e clientele. Quando vige la certezza dell'impunità, scrive Riccardo Lo Verso su “Live Sicilia”. Magistrati e amministratori giudiziari coinvolti nello scandalo sulle misure di prevenzione avevano creato uno schermo di complicità e connivenze. E così, senza temere di essere denunciati, gestivano le loro trame nel Palazzo di giustizia di Palermo. Ciò che sconforta è la certezza dell'impunità. I protagonisti dello scandalo sui beni confiscati non avevano alcun timore di essere denunciati. Attorno a loro avevano creato uno schermo di complicità e connivenze per cui tutto ciò che oggi viene svelato dalle intercettazioni rappresentava la normalità. Normale era organizzare un party a Villa Pajno per il compleanno di Silvana Saguto, con la preziosa collaborazione del prefetto Francesca Cannizzo che nella villa ha la residenza, privata ma istituzionale. Normale era che gli uomini di scorta del magistrato andassero in giro per la città con la blindata per ritirare vestiti in lavanderia, comprare salviette struccanti e accompagnare persone al mare. Normale era piazzare parenti negli studi degli amministratori giudiziari e segnalare amici e conoscenti per farli lavorare nelle aziende sequestrate alla mafia. Sono tutti scatti di una certezza consolidata dell'impunità. In questi anni nessuno ha ritenuto opportuno alzare la mano per dire “non si fa”, dal più importante rappresentante del governo in città al fattorino che portava le cassette della frutta a casa della Saguto, passando per gli amministratori giudiziari e gli altri giudici della sezione Misure di prevenzione finiti sotto inchiesta assieme al loro ex presidente. Fabio Licata e Lorenzo Chiaramonte spendevano frasi del tipo: “A lei non gliene frega niente di fare carriera, che la sua carriera è finita qua; “Lei pensa alle sue cose personali. Ne sta facendo una malattia, ma è convinta di sfangarsela”. Sfoghi, a volte critiche, ma sempre e solo nel chiuso dell'ufficio della Saguto. Matteo Frasca, presidente della sezione palermitana dell'Associazione nazionale magistrati, il sindacato delle toghe, si interroga sulla “esistenza, adeguatezza ed efficacia dei controlli”. Appunto, gli stessi indagati nelle conversazioni intercettate dicevano chiaramente che la situazione delle Misure di prevenzione era sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli di tanti colleghi che indossano la toga e hanno contribuito alla “normalizzazione” dell'anormalità. Nessuno in questi anni è intervenuto. Mai. E la vigilanza spettava alla stessa magistratura che oggi sventola il vessillo del rischio delegittimazione.
Figli, mogli, amici: i raccomandati vip della sezione beni confiscati. Le cimici svelano decine di segnalazioni, "sistemati" anche parenti di cancellieri, scrive Salvo Palazzolo su “la Repubblica”. I raccomandati delle Misure di prevenzione erano davvero speciali. Amici del giudice Silvana Saguto e dei suoi figli. Ma anche amici dei loro amici. E che amici. Professionisti della città bene e rappresentanti delle istituzioni (a cominciare dal prefetto di Palermo). In tanti si rivolgevano all'influente presidente di sezione per piazzare qualcuno nelle aziende sequestrate ai boss. E anche su queste assunzioni stanno indagando gli ispettori del ministro della Giustizia. "L'ispezione si chiuderà nel giro di pochi giorni", fa sapere il Guardasigilli, Andrea Orlando. La settimana prossima, la prima commissione del Csm si riunirà in sessione straordinaria per il caso Saguto. Fra dieci giorni partiranno le audizioni dei giudici indagati. "Intanto, cominciamo con tuo figlio sicuramente ", diceva Silvana Saguto alla cancelliera dell'ufficio dei gip Tea Morvillo. E proseguirono pure con il fratello Sandro. Furono assunti nella tabaccheria sequestrata in via Torretta, ma finirono per fare solo pasticci. Dopo la scomparsa di 26 mila euro, l'amministratore firmò una lettera di licenziamento. Intervenne il giudice, convocando la cancelliera: "Non è che gli posso dire all'amministratore che non li licenzi - esordì - Quindi, io mi ritroverò con persone licenziate per giusta causa, che poi come ti assumo in un altro posto? (...) Tea ho le mani legate ". Ma trovarono una brillante soluzione: "Se loro si dimettono prima, io dico che non si procede". E i parenti del cancelliere non solo furono graziati, ma vennero subito rimessi in pista per un altro incarico. Pure in fretta. La microspia sistemata dagli investigatori del gruppo tutela spesa pubblica ha intercettato la Saguto mentre annuncia soddisfatta alla cancelliera che una sistemazione si è trovata per suo figlio: "Lo mettiamo da Niceta, in un posto che si libera, contabilità (...) se dovesse andare male da Niceta, nel frattempo troviamo altri posti". Aggiunse: "Per tuo fratello, ho parlato con il professore Provenzano". Anche i due figli dell'assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della Saguto, erano stati sistemati. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l'amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo. "Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli... sono dappertutto, non è possibile". La vicenda di Gianluca Grimaldi si è poi conclusa in modo drammatico, con due colpi di pistola sparati nella cava Buttitta di Trabia, anche questa in amministrazione giudiziaria, da un dipendente in mobilità. Dall'indagine della Procura emerge che pure Giuseppe Rizzo era un raccomandato. Diceva la Saguto: "C'ho messo Rizzo perché me l'ha... praticamente è amico di Nasca ". La guardia di finanza commenta nell'informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. La Saguto gli chiedeva "se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare ". Rizzo fece il nome del geometra Greco. Le intercettazioni allegate all'inchiesta di Caltanissetta sono piene zeppe di nomi di raccomandati. Nella lista dei segnalati è finita pure la moglie dell'ex direttore generale di Banca Nuova, Francesco Maiolini. Valeria Aiello era arrivata alla Nuova Sport Car, una delle società sequestrate ai Rappa. "L'ha presa direttamente l'avvocato Virga", dicevano i suoi collaboratori. "Si deve prendere i soldi e apparentemente si può occupare proprio di qualche minchiata". Una collaboratrice di Virga protestava: "Ma lei è scecca totale". Un altro la riprendeva: "Ma ha le amicizie che contano". Persino i familiari della giudice antimafia avevano fatto le loro segnalazioni. Il figlio Francesco aveva indicato Fabio Torregrossa per un incarico di coadiutore nel sequestro Acanto. Il marito del giudice aveva invece raccomandato Roberto Tre Re per la stessa amministrazione. Non è finita. Silvana Saguto aveva piazzato il marito della sua cara amica Francesca Mesi, Giuseppe Tagliareni, con l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Che si lamentava, perché il neo assunto non era all'altezza. "Lui rimane lì, bellamente", diceva. "A volte gli manca la volontà, poi mi rendo conto che invece non è cosa sua". Raccomandati e incompetenti, a volte. La Saguto aveva puntato pure su un brillante avvocato, Antonio Ticali. "Ma tu l'amministrazione di Villa Giuditta la vuoi adesso o ti vuoi fare le ferie e aspettiamo settembre?". Lui scelse settembre. La giudice non obiettò, interessava solo che il legale l'aiutasse a trovare un posto per il figlio chef, a Milano.
Il prof. Carmelo Provenzano, l’homo novus, scrive Salvo Vitale su "Telejato". Intercettazioni dalle quali si evince che è un suo pupillo devotissimo, che ha fatto la tesi di laurea al figlio di lei Elio, scapestrato e svogliato per ammissione della madre, che si è procurato per fargli avere tutti e otto i punti dei docenti per la laurea, che ha mandato, su spinta della Saguto un mellone al prefetto di Palermo Francesca Cannizzo per ingraziarsela e chiedere la sua forte intercessione onde ottenere la nomina di amministratore del centro Cara di Mineo, dove si parcheggiano da molti mesi circa 3000 migranti, per i quali lo stato paga 38 euro al giorno e la prefettura due euro e cinquanta a testa. Il giro ha funzionato così: Saguto ha fatto la segnalazione del nome di Provenzano alla Cannizzo, la quale ha fatto qualche telefonata a Roma ed ha ottenuto una risposta positiva. Pareva fatta, al punto che, telefonando alla Saguto Provenzano arriva a dirle: “Prima di festeggiare, un bacio sulla bocca ti dò.” Un giornale scrive che ha avuto tre incarichi di amministratore giudiziario, un altro sostiene che ha avuto incarichi e richieste di consulenze, da parte di amministratori legati alla Saguto. È possibile che sia stato il trait-d’union, la longa manus, il punto di collegamento, tra gli amministratori e la Saguto. Del resto era uno di quelli che organizzava e che teneva dotte relazioni al corso di formazione per amministratori giudiziari che ogni anno si tiene presso l’Abbazia Sant’Anastasia di Castelbuono, dove era presente tutta la corte della Saguto, come ho scritto altrove. Provenzano, quarantenne ricercatore universitario dell’Università Kore di Enna, quella di Crisafulli, laureato in economia e commercio è un esperto, a quanto pare, dalle sue pubblicazioni, soprattutto in lingua inglese, di problemi commerciali, di economia aziendale e di strategie economiche, se si preferisce, di marketing. La Saguto ha una grande stima del professore, afferma che insegna in tre università, ma in realtà, a parte qualche incarico a Palermo, il suo posto è a Enna. In un articolo pubblicato pochi giorni prima che scoppiasse la bomba, su “La Repubblica”, che ormai è schierata con i lecchini del potere, si può leggere, nella pagina di Palermo, quasi nascosto e ripreso poi a pag. 15 un articolo del nostro studioso, dal titolo “La guerra sui beni sequestrati” in cui egli dimostra di essere vicino, come del resto ci è stato confermato da una delle tante vittime dell’operato degli amministratori giudiziari, all’ufficio misure di prevenzione e cerca in tutti i modi di difendere l’operato di questo settore scrivendo un mucchio di scemenze, camuffate da qualche termine inglese, tanto per dimostrare una sapienza che non c’è. Intanto non si sa di che guerra si tratti, almeno che non si voglia chiamare guerra l’operato, senza alcuna limitazione e con molto arbitrio, di chi procede con disinvoltura al sequestro dei beni ritardando con rinvii continui il momento in cui il sequestrato dovrebbe far valere le sue ragioni e dimostrare l’estraneità al sodalizio mafioso. È una guerra che ha in partenza un vincitore, ovvero chi usa i poteri dello stato. In tal modo si assicura un permanente reddito all’amministratore nominato e al suo gruppo di amici, a spese dell’azienda sequestrata, sino a produrne il fallimento. Provenzano si è inventato un termine, la psychological operation per dire che gli stakeholders, cioè i detentori di interessi leciti e illeciti, lavorano sotto sotto per causare tensioni, depressioni, difficoltà psicologiche di ogni tipo ai poveri amministratori giudiziari, che si trovano a giocare “una partita simile a quelle di calcio in terza categoria: la tensione si avverte con l’ingresso nel paese e chi sta sugli spalti è pronto a fare continue invasioni di campo”. Che cazzo vuol dire? A volere trovare un significato pare che si voglia dire che l’impresa sequestrata prima, vedi un po’ non aveva controlli, adesso sì, prima non era in regola, adesso sì, prima non pagava i dipendenti, adesso sì, anzi, questi cattivi sono loro a chiedere di essere pagati e messi in regola. Sarebbe lungo elencare tutti i casi di dipendenti ed ex dipendenti da amministrazioni giudiziarie che aspettano di essere messi in regola e di avere pagato numerose mensilità, ma figurarsi se dall’alto della sua sedia il dottor Provenzano può conoscere tanti di questi casi umani: il giudizio di questo leccatore dell’ultima ora è impietoso; sono tutti mafiosi o amici dei mafiosi. Addirittura scrive: “una serie di sanzioni e prescrizioni si abbatte contro l’amministrazione giudiziaria e contro l’azienda”. Te lo immagini? Il tribunale nomina il suo amministratore, che opera in stretta collaborazione con chi lo nomina, e invece, secondo il Provenzino diventa vittima del suo stesso ruolo. E dietro questa povera vittima inesorabile ci sta la solita mafia che invia numerosi clic dopo il sequestro agli operatori dentro e fuori l’impresa: “il sequestro è ingiusto, a brevissimo si risolverà la causa e tutto ritornerà al suo proprietario”, “il sequestro serve ad arricchire gli amministratori giudiziari e fa fallire l’azienda”, “la giustizia divina farà il suo corso”. In pratica i due amministratori giudiziari catanesi di cui qualche giorno fa abbiamo dato notizia, che incassavano 40 mila euro al mese a testa, sono dei poveracci, così come il bisogno di credere che possa esistere una giustizia che metta a posto le cose, sono tutte minchiate messe in giro da mafiosi, ma anche, guarda un po?!!! Da gente come quella di Telejato, che intralciano l’operato lineare e coraggioso della giustizia in una terra dove “fare impresa”, secondo alcuni settori deviati della magistratura e degli investigatori, significa scendere per forza a compromessi con la mafia. In realtà, caro Provenzano Carmelo, noi non abbiamo accesso alle colonne di La Repubblica, perché non lecchiamo. Ma ci permettiamo di dire, nel nostro piccolo, che non è così e che i tuoi amici amministratori giudiziari non sempre sono vittime del dovere, ma quasi sempre creano vittime a causa di una legislazione esistente solo in Italia, che andrebbe profondamente rivista. Vuoi vedere che, secondo te facciamo gli interessi non dei lavoratori, ma dei mafiosi, mentre tu che hai capito tutto fai gli interessi del miliardario Cappellano Seminara? È probabile che Provenzano si sia trovato in un gioco più grosso di lui e che abbia creduto che, in nome della legalità, dell’antimafia e della tutela dei rappresentanti della giustizia avrebbe potuto far carriera. Intanto apprendiamo che l’università di Enna ha aperto un’inchiesta sul nostro bravo prof. e sospettiamo che i suoi consigli agli amministratori non siano poi tanto qualificati, dal momento che quasi il 90% delle aziende sotto sequestro sono fallite.
“A Zà Silvana” e i suoi raccomandati. Personaggi in cerca d’autore, scrive Pino Maniaci su "Telejato". SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE. Lo fanno per ricambiare cortesie e favori attraverso l’assunzione di personale all’interno delle aziende sequestrate, dando incarichi di consulenza a propri familiari e continuando a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “a Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione. Ma tornando al dott. Rizzo risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato di Cappellano Seminara, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore dello stesso Cappellano Seminara, ed inoltre non si comprende come una persona nuova nell’ambito delle Misure di prevenzione venga nominato ad amministrare più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), quando a “Zà Silvana” ha sempre sostenuto che gli incarichi venivano affidati a professioni conosciuti e di fiducia. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione.
Quando l’antimafia diventa peggio della mafia, continua Pino Maniaci su "Telejato". LA TEMPESTA ABBATTUTASI SUL TRIBUNALE DI PALERMO, I PROCESSI INFINITI E LE VITTIME DI UN SISTEMA DI DUBBIA LEGALITÀ. SEQUESTRI PREVENTIVI FONDATI SU ERRORI, INTERPRETAZIONI DI LEGGE E APPLICAZIONE A USO E CONSUMO DELLA SAGUTO E COMPANY, PROCESSI CON TEMPI INFINITI E OMBRE SULL’AMMINISTRAZIONE GIUDIZIARIA DEI BENI SEQUESTRATI. È quello che si può definire il lato oscuro dell’antimafia, quello che fa male e colpisce al cuore di chi crede negli ideali di giustizia e legalità. Qualcosa di troppo grande per essere compreso dal comune cittadino che confida fedelmente nell’antimafia, appena percepito da chi ne vive le conseguenze, risaputo invece per chi è dentro al sistema malato e ne fa indirettamente parte. È l’antimafia che si macchia di corruzione e abusi d’ufficio, quella che ha fatto tremare Palermo e la sua struttura giudiziaria. “Tutti sapevano” è la mesta dichiarazione che più sconvolge, poiché significa “omertà”, che grandi eroi come i giudici Falcone e Borsellino hanno voluto combattere in una terra in cui “l’onore” vale più della propria dignità. C’è chi sa e non parla, difficile separare i moventi della paura e della consapevolezza di non poter far nulla contro un sistema tanto potente, e chi invece grida a gran voce. Ebbene, noi di Telejato l’abbiamo fatto, abbiamo gridato in tutte le sedi il malaffare di una certa antimafia; la nostra battaglia ci è costata aggressioni e minacce di morte. Siamo contro l’antimafia che è mafia, contro l’antimafia amministrata dalla Saguto che nelle pubbliche apparizioni professa legalità e poi, in privato, insulta la memoria e i figli di un magistrato come Borsellino che invece ha pagato con la propria vita la lotta alla mafia, un gesto che è veramente l’emblema della turpitudine etica e morale; e poi fa raccomandazioni, favoritismi e utilizza i beni dello Stato, tra i quali la scorta e le residenze prefettizie, come fossero di sua proprietà. Tra l’altro per alimentare il circuito che aveva creato, venivano segnalati per essere sequestrati beni e aziende di tanti imprenditori che, già condannati per concorso esterno in associazione mafiosa e già dopo aver subito e scontato condanne e sequestri si sono ritrovati a rispondere di nuovo delle stesse accuse senza giustificare in alcun modo se questi soggetti abbiamo in qualunque modo attualmente contatti con i veri mafiosi, che le forze dell’ordine locali conoscono perfettamente. E così si sequestrano beni e aziende a qualsiasi titolo venuti a contatto con la persona a cui sequestrare il patrimonio e con motivazioni assurde o inesistenti e prive di alcuna logica; si sequestrano aziende perché il soggetto proposto vi ha svolto attività di lavoro dipendente o perché propri familiari vi hanno prestato attività lavorativa, si sequestrano intere aziende anche se il soggetto proposto possiede una minima quota di partecipazione in quella società, si sequestrano beni, per esempio, che il soggetto proposto ha venduto anche più di vent’anni fà e si sequestrano beni a terze persone, su indicazione dell’Amministratore Giudiziario, sol perché quei beni sono stati presi in affitto dalla ditta sequestrata e così l’amministratore giudiziario non paga più l’affitto. È questa l’antimafia che amministra i beni per trarne guadagni spropositati e che si avvale di “parentelismi” e favori; è l’antimafia che sequestra in modalità preventiva, operata dalla DIA, al cui interno possiamo segnalare la presenza di funzionari al servizio non dello Stato e della giustizia ma della Saguto per accontentarla nella spartizione e assegnazione dei posti di lavoro agli amici. Tutto questo ha creato e crea un enorme disagio e dolore ad intere famiglie, un gioco senza fine composto di investigazioni mirate, di sequestri con motivazioni surreali, di proposte fatte ad un Tribunale la cui Presidente non faceva altro che avallare “sic et simpliciter” le assurde e anomale tesi della DIA, di udienze rimandate di mesi e mesi, di anni e anni. E intanto gli Amministratori Giudiziari ingrassano il sistema creato e gestito dalla Saguto e gli indagati rimangono sospesi in un limbo, e con essi i loro familiari, che a qualsiasi titolo vengono letteralmente cacciati fuori dai posti di lavoro senza stipendio e senza neppure la liquidazione spettante, perché a decidere (di solito sempre in senso negativo) era sempre lei, la regina del malaffare. Il sistema corrotto da lei creato con la complicità di funzionari della DIA, di cancellieri, di personale giudiziario, di prefetti, di giudici e di amministratori giudiziari guadagna e guadagna ancora di più se i tempi dei processi si distendono, complice la mancata urgenza di giustizia e un’organizzazione giudiziaria da Paese dittatoriale. Basti considerare che il Tribunale Misure di Prevenzione è l’organo che dispone il sequestro e allo stesso tempo l’organo giudicante. È come se chi svolge le indagini, ad esempio le Procure, allo stesso tempo possano giudicare senza necessità che la funzione di terzietà venga esercitata da un Tribunale, sul quale grava l’onere di valutare le prove offerte sia dall’accusa che dalla difesa. “Alla faccia della Giustizia”. Intanto ognuno fa i propri interessi, poco importa del prossimo. Qualcuno avrà sicuramente le sue fonti alternative, altri (la maggior parte) non potranno che tirare a campare in attesa di un verdetto che, se tutto và secondo i piani, arriverà quando tutti avranno le tasche piene. Comunque non possiamo che complimentarci per l’alto senso dello Stato dimostrato da Giudici, Prefetti, componenti del CSM, Sottosegretari, funzionari della DIA, Cancellieri…E poi quei singoli magistrati che in questi giorni, a titolo personale, esprimono il loro rammarico per il populismo che si stà creando contro la loro categoria, dovrebbero, per manifestare il disgusto di comportamenti disdicevoli di loro colleghi, intervenire presso la loro Associazione (ANM) per isolare pubblicamente tutti i soggetti coinvolti nell’inchiesta, senza se e senza ma. Per concludere noi avremmo una domanda da porre principalmente al signor Presidente del CSM Sergio Mattarella: “Ma la legge è uguale per tutti?”, perché non comprendiamo come mai tutte queste persone a vario titolo coinvolte, partendo da giudici e finendo a funzionari della DIA, si trovano ancora al loro posto e non vengono sospesi da tutte le funzioni pubbliche, perché è chiaro che indossare la toga e svolgere attività, con le accuse che gravano sulle loro spalle, oltre che inopportuno è offensivo per tutti quei magistrati e funzionari che ogni giorno, onestamente, amministrano giustizia. È urgente, quanto meno, che a chi si sia macchiato di queste gravi accuse vengano sequestrati i beni.
Il "cerchio magico" di Silvana: "Io sono come Dio onnipotente". Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" dal magistrato sotto inchiesta, scrive Alessandra Ziniti su “La Repubblica” del 27 ottobre 2015. Il prefetto e il colonnello, il professore e l'avvocato, i giudici della sua sezione e naturalmente uno stuolo di amministratori giudiziari e commercialisti. Tutti "arruolati" nel cerchio magico di Silvana Saguto, tutti pronti a calpestare il proprio ruolo istituzionale pur di compiacere quel giudice che di sé diceva: "Io sono Dio onnipotente". Dalle mazzette di banconote alle cassette di fragole e lamponi, ma soprattutto il potere di "sistemare" amici, parenti e conoscenti nelle aziende sequestrate. Quali e a carico di chi saranno le condotte penalmente rilevanti lo dirà l'inchiesta della Procura di Caltanissetta, ma quello che emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali negli uffici della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo è al contempo uno scenario di potere e di bassezze, una sconcertante "palude" dove di incrociano uomini delle istituzioni ed esponenti della buona borghesia palermitana. Tutti insieme, giudici, controllori e controllati. E persino i "prevenuti", cioè i titolari dei patrimoni sequestrati che continuavano ad avere rapporti con gli amministratori posti alla guida delle loro aziende. Perché, come diceva l'avvocato Walter Virga, il figlio del giudice Tommaso "premiato" con due amministrazioni giudiziarie miliardarie, "non è una questione di soldi nè di niente, è una questione di potere". L'investigatore che confezionava le proposte di sequestro di patrimoni, ad esempio, il pluridecorato colonnello Rosolino Nasca della Dia di Palermo, era uno dei più fidati "problem solver" della Saguto. "Silvana stai serena, ti dico io come fare. Non comparirà da nessuna parte, non emergerà nulla. Viene assunto da una terza parte, quindi lo sappiamo solo noi due e tuo marito, il quale non avrà rapporti con Rizzo, è una cosa scientifica. Devi stare tranquilla, soprattutto per telefono, sempre". Era l'8 luglio, si stava preparando il sequestro dell'impero dei boss Virga e il colonnello cercava di aggirare i problemi che, con la Saguto già nell'occhio del ciclone, impedivano di continuare ad assegnare incarichi al marito, l'ingegnere Lorenzo Caramma. Affidando quell'amministrazione giudiziaria ad una persona di fiducia del colonnello Nasca l'obiettivo sarebbe stato ugualmente raggiunto. "C'ho messo a Rizzo perché lo vuole Nasca - ammette la Saguto intercettata mentre parla con il collega romano Muntoni - ed è un sequestro sovrastimato dalla Dia. Su 30 aziende pochissime sono attive e i conti correnti sono tutti negativi". Il colonnello faceva quello che voleva. È lui che "rende attuali" vecchie minacce e informa i giornali per cercare di rimettere in piedi la credibilità della Saguto incrinata da articolo di giornali e dalla martellante campagna di Telejato. Anche di questo si occupava Nasca: neutralizzare la stampa sgradita. Per provare a "spegnere" la tv di Partinico (che per conservare le frequenze con il passaggio al digitale era entrata in un conzorzio con Telemed) si era rivolto a Walter Virga. Una preoccupazione condivisa con Francesca Cannizzo, il prefetto di Palermo, grande amica della Saguto. "Ma che tempi abbiamo per Telejato?" chiedeva la Cannizzo alla Saguto che rispondeva: "Quello dice: ha le ore contate ". Gli amici della Saguto erano ormai di casa in prefettura: dal professore Carmelo Provenzano (che carinamente mandava frutta, verdura e dolcini) all'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. A lui, che -infastidito dalla campagna di Telejato aveva presentato in procura una denuncia di stalking - la Cannizzo propone la scorta: "Se ritieni, a livello di tutela io posso intervenire". Poi si dedica all'organizzazione della festa di 60 anni dell'amica Silvana a Villa Pajno: "Servono i flute, i piattini per la torta, postine e tovagliolini. Ci penso io".
I raccomandati della “Zà Silvana”: c’era pure il dott. Giuseppe Rizzo, scrive Pino Maniaci su “Telejato” del 26 ottobre 2015. SULLA SCIA DEL COMPORTAMENTO DELLA LORO PRESIDENTE, ANCHE I VARI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI, E TRA QUESTI ANCHE QUALCUNO CHE AMMINISTRA BENI E AZIENDE CHE SI TROVANO NEL NOSTRO CIRCONDARIO, VEDI DOTT. GIUSEPPE RIZZO, UTILIZZANO LE LORO FUNZIONI DI AMMINISTRATORI DELLE SOCIETÀ SEQUESTRATE PER ASSUMERE PERSONALE ALL’INTERNO DELLE AZIENDE SEQUESTRATE. E lo fanno non per le loro competenze nell’ambito delle attività svolte dalla ditta amministrata, ma per ricambiare cortesie e favori, dando incarichi di consulenza a propri familiari e facendo ingrassare nuovi fornitori scelti tra familiari e amici, chiaramente dopo avere allontanato dalle aziende, con licenziamenti immotivati, tutti quei dipendenti che con le proprie capacità quella ditta hanno contribuito a far crescere e a dare lavoro a decine di lavoratori; mentre si preferisce continuare a far lavorare tutti i soggetti raccomandati da “A Zà Silvana”, si proprio lei che da questo momento chiameremo così visto che meglio di tanti altri ha imparato la tecnica dell’imposizione. Si è sempre detto che la mafia imponeva il pizzo e le assunzioni… proprio come il Tribunale Misure di Prevenzione da lei presieduto. Ma tornando al dott. Giuseppe Rizzo, dall’indagine della Procura di Caltanissetta emerge che pure lui era un raccomandato. Diceva a “Zà Silvana”: «C’ho messo Rizzo perché me l’ha… praticamente è amico di Nasca». La guardia di finanza commenta nell’informativa che si tratta del tenente colonnello Rosolino Nasca in servizio alla Dia. Anche Rizzo si era subito adeguato al sistema. A “Zà Silvana” gli chiedeva “se possiamo sistemare qualche persona che ha bisogno di lavorare”. Pure i due figli dell’assistente giudiziario Elio Grimaldi, in servizio alla cancelleria della “Zà Silvana”, erano stati sistemati nelle aziende amministrate dal dott. Rizzo. E si erano sollevate non poche polemiche. Tanto che il giudice aveva dovuto convocare l’amministratore giudiziario Giuseppe Rizzo: “Abbiamo gli occhi puntati per la cancelleria che fa lavorare i figli… sono dappertutto, non è possibile”. Inoltre risulta abbastanza chiaro il suo ruolo di quotino affermato, tant’è che in una intercettazione a “Zà Silvana” parla della misura patrimoniale di Virga, amministrata dal dott. Rizzo, con un collaboratore di Cappellano Seminara e Aulo Giganti. In effetti era evidente il coinvolgimento del dott. Giuseppe Rizzo nel sistema del malaffare creato, gestito e amministrato dalla “Zà Silvana” e dai suoi seguaci, perché lei stessa ha sempre dichiarato che le nomine degli amministratori giudiziari venivano conferiti a professionisti conosciuti e di fiducia, mentre il dott. Giuseppe Rizzo, commercialista e laureato anche lui all’università Kore di Enna, la stessa che ha regalato la laurea al figlio svogliato della “Zà Silvana”, era un emerito sconosciuto nell’ambito delle Misure di prevenzione, il cui presidente gli affida l’amministrazione di più di un miliardo di euro di beni (700 milioni di euro Virga, 360 milioni Parra), non certo per professionalità dimostrata ma soltanto dietro raccomandazione del funzionario della DIA ten. col. Nasca, che probabilmente svolgeva le indagini di sequestro di patrimoni non per contrastare effettivamente l’illecita acquisizione di beni da parte della mafia ma per ingraziarsi a “Zà Silvana” e per piazzare i propri amici amministratori giudiziari, anche grazie ad una legislazione e ad un orientamento del Tribunale Misure di Prevenzione per cui il sospetto vale più delle prove offerte. Sulle cifre dei patrimoni sequestrati c’è un capitolo a parte visto che le stesse vengono gonfiate dalla DIA per sostenere davanti l’opinione pubblica e le istituzioni che quell’organismo svolge una enorme mole di lavoro. Chiediamo al sig. direttore della DIA: come vengono individuati i soggetti da sottoporre ad indagine patrimoniale? Quali sono i criteri utilizzati per l’aggressione ai patrimoni sospettati di essere stati acquisiti illegalmente? Ma forse più che il direttore della DIA a queste domande dovrebbe rispondere il ten. col. Nasca. Riteniamo che su questo punto vada fatta chiarezza e l’eventuale indagine dei soggetti coinvolti debba avvenire in modo trasparente e in maniera che tutti possano conoscere i metodi utilizzati dalla DIA per il contrasto alla criminalità. Perché in caso contrario è legittimo il sospetto (o meglio la conferma, dati i fatti emersi) che finora si sono sequestrati beni e aziende anche per colpire qualcuno in particolare o per alimentare ed ingrassare il sistema illegale di favoritismi creato all’interno della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo con l’aiuto e l’accordo di funzionari della DIA, che al posto di denunciare consigliano alla “Zà Silvana” e ai suoi amici di non parlare al telefono perché non è escluso che possano essere sotto controllo. E poi vogliamo sfatare un altro luogo comune, quello da sempre sostenuto da alcuni professionisti dell’antimafia e cioè che le aziende, dopo il sequestro entrano in crisi perché da parte del proposto inizia una campagna nei confronti dei clienti per non andare più a comprare presso la società sequestrata. Niente di più falso, almeno nella maggior parte dei casi. Le aziende in cui subentra l’amministrazione giudiziaria inizialmente si trovano con una forte liquidità dovuta al fatto che è prassi consolidata che le amministrazioni giudiziarie non pagano più i fornitori, non pagano le rate di mutuo, non pagano neanche gli stipendi maturati nel mese del loro insediamento e non pagano le tasse, mentre si attivano immediatamente per il recupero di tutti i crediti maturati precedentemente dalle varie aziende al momento del sequestro. Si inizia, quindi, con l’assunzione di personale che non ha alcuna competenza specifica, con incarichi ad amici e familiari svuotando le casse delle aziende per propri interessi e portando le stesse a conseguenze inevitabili come le messe in liquidazione e il fallimento. Il tutto con l’avallo del Tribunale Misure di Prevenzione. Sembra quasi che tutti questi soggetti coinvolti abbiamo avuto una malattia degenerativa che ha colpito e si è diffusa anche per la forza simbolica che ognuno di loro (giudici, funzionari della DIA, cancellieri, Amministratori giudiziari) aveva. E così che ci domandiamo: con chi abbiamo avuto a che fare? Sicuramente non con chi credevamo un integerrimo personaggio ma sicuramente con un disinvolto giocatore pronto a bluffare pur di vincere la sua partita personale. Tutti i lavoratori e tutti i cittadini onesti che credono nella giustizia vera sono indignati e stentano a credere che ancora tutti questi personaggi siano al loro posto dopo la pubblicazione di una parte di quelle intercettazioni inequivocabili, e tra l’altro qualcuno dei soggetti coinvolti ha pure il coraggio di esternare sulla stampa improbabili frasi a difesa del suo operato. Certo i processi si celebrano nelle aule giudiziarie, ma per molto meno un funzionario pubblico o un politico sarebbe finito quanto meno ai domiciliari con i propri beni sequestrati (vedi il caso di corruzione ANAS), altro che trasferimento ad altra sede, continuando a percepire lo stipendio e ad usufruire dei servizi di scorta e accompagnamento pagati da noi cittadini! Un’ultima domanda la vogliamo rivolgere al nuovo Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo dott. Montalbano e al Direttore dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati Prefetto Postiglione: Visto che le nomine degli Amministratori Giudiziari sono fiduciarie, ritenete di avere ancora fiducia in tutti questi Amministratori Giudiziari e Coadiutori coinvolti (Cappellano Seminara, Scimeca, Giganti, Rizzo) e gli altri nominati nelle intercettazioni finora rese pubbliche? Secondo il nostro parere e quello di tutta l’opinione pubblica, andrebbero tutti immediatamente rimossi dai loro incarichi, così come i Cancellieri, il personale giudiziario e i funzionari della DIA, a meno che chi dovrebbe rimuoverli non si trovi anche lui sotto ricatto.
Gli intoccabili. Il caso Saguto e la società delle caste, scrive Pino Maniaci su "Telejato" il 26 ottobre 2015. IL CASO SAGUTO E LA SOCIETÀ DELLE CASTE: L’ANTIMAFIA, I GIUDICI, I BUROCRATI, I POLITICI. E POI LA PLEBE. Di fronte a tutto quello che abbiamo visto, letto e ascoltato in questi ultimi tempi sul caso della gestione personalizzata dei beni sequestrati da parte di un nutrito numero di magistrati, componenti del CSM, cancellieri, funzionari della DIA, personale giudiziario e amministratori giudiziari, sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Ci chiediamo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti: Se a un comune mortale cittadino italiano fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stato sottoposto agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Ci chiediamo ancora una volta, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che a “Zà Silvana” indossi ancora la toga? È opportuno che tutte le persone coinvolte in favoritismi, raccomandazioni e assunzioni ad amici e parenti restino ancora al loro posto? È opportuno che funzionari della DIA al servizio di questo sistema continuino a svolgere ancora funzioni pubbliche? Non comprendiamo quale sia la differenza tra questi soggetti e chi incassa una tangente. Entrambi utilizzano i propri ruoli istituzionali per rubare soldi pubblici. La giustizia è davvero uguale per tutti? Non ci soddisfano più le assicurazioni che tutto sarà chiarito. Sarà chiarito da chi? Quando e davanti a chi? Tutti invece devono essere immediatamente rimossi dai loro pubblici incarichi, in modo trasparente perché come cittadini abbiamo concesso credito a giudici che abbiamo ritenuto credibili, che abbiamo rispettato per la loro vita blindata, giudici che abbiamo ascoltato e dei quali abbiamo rispettato il lavoro senza alcuna delegittimazione preventiva. Vengano rimossi senza stipendio per rispetto verso tutti quei magistrati che hanno onorato e onorano i valori di autonomia e indipendenza, assicurando credibilità alla Giustizia con i comportamenti di tutti i giorni. Vengano rimossi per rispetto a tutti quei servitori dello Stato caduti nell’adempimento del dovere. Vengano rimossi e gli vengano sequestrati i beni per rispetto a tutti coloro che chiamati a collaborare con l’autorità giudiziaria con compiti delicatissimi e complessi lo fanno con coraggio. Pochi giorni fa i deputati della nostra regione hanno approvato in Commissione in tempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle società partecipate dalla Regione e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxicompensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia, Crocettino, è diventato il Santo protettore della casta. Ricordiamo che negli anni ’80, ’90, il sogno di tanti giovani era quello di una società nella quale se sei bravo e se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli antimafia, come se l’antimafia fosse una categoria dello spirito, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. E in quanto tali trattano gli altri con arroganza e sfacciataggine. Ci sentiamo come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che ha detto “Se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo a “Zà Silvana” che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. È la Rivoluzione Francese ai tempi da “Zà Silvana”. Un ultimo e accorato appello a tutte le Associazioni Antiracket e Antimafia che non sentono la necessità di proferire parola neanche davanti a delle gravissime minacce ricevute dal Direttore di Telejato, Pino Maniaci, da parte della Saguto (a “Zà Silvana”) e del Prefetto Cannizzo, che parlando tra di loro hanno affermato: “Pino Maniaci ha le ore contate”. E ai ragazzi di Addiopizzo. Forza ragazzi fate sentire la vostra variopinta presenza e alzate in coro la voce organizzando graziosi sit-in di protesta nelle pubbliche piazze e davanti al Tribunale di Palermo, datevi da fare ad appendere sui pali e le vetrine di Palermo la scritta: “Un Magistrato e un Prefetto che usano il loro potere per fini personali sono persone senza dignità”.
Il caso Saguto e la società delle caste: l'antimafia, i giudici, i burocrati, i politici. E poi la plebe. L'inchiesta che riguarda il giudice Saguto, insieme ad una serie di altri fatti di cronaca mi hanno convinta che viviamo in una società divisa in caste. Da un lato gli intoccabili, i privilegiati, dall'altro la plebe. Ai tempi di Maria Antonietta lei diceva "mangiate biscotti se non avete pane", oggi c'è un giudice che non si accorge di 18 mila euro di conto non pagato al supermercato..., scrive domenica 25 Ottobre 2015 Rosaria Brancato su “Tempo Stretto”. Il caso Saguto non mi ha fatto dormire la notte. Per 10 giorni ho avuto il panico temendo quale cosa raccapricciante avrei letto il giorno dopo a proposito dell’inchiesta su Silvana Saguto, ormai ex presidente della sezione misure preventive del Tribunale di Palermo. L’indagine su quel che accadeva nella gestione dei beni confiscati alla mafia (che in Sicilia rappresentano il 43% del totale) sta facendo emergere di tutto. La Saguto spaziava dalle nomine di amministratori giudiziari nelle società confiscate in cambio di incarichi per il marito, i parenti e gli amici, all’utilizzo dell’auto blindata come taxi per prelevare la nuora e accompagnarla nella villa al mare, o delle sue ospiti per non incappare nel traffico palermitano, oppure dal farsi recapitare a casa per le cene 6 chili tonno fresco, lamponi, (di provenienza da aziende sotto sequestro) al conto da quasi 20 mila euro non pagato al supermercato confiscato (“una dimenticanza, non sono io quella che va a fare la spesa..”). La “zarina” delle misure preventive si è data da fare per la laurea del figlio ottenuta grazie all’aiuto del docente della Kore di Enna, Carmelo Provenzano che in cambio veniva nominato consulente. Il giovane laureato, stando alle intercettazioni, la festa proprio non la voleva “questa laurea è una farsa, gli altri sgobbano per averla” ma il giudice non sentì ragioni e affidò l’organizzazione proprio al professore Provenzano che oltre a scrivere la tesi ha provveduto al menù, così come avverrà per la successiva festa di compleanno della Saguto. Gli agenti della scorta infine venivano utilizzati per andare in profumeria a fare acquisti. Ciliegina sulla torta del dichiarazioni del giudice antimafia a proposito dei figli di Paolo Borsellino, Manfredi e Anna. Il 19 luglio, anniversario dell’assassinio di Borsellino, Silvana Saguto partecipa come madrina alla manifestazione Le vele della legalità, fa il suo bel discorso antimafia, poi sale a bordo dell’auto blindata ed al telefono dice ad un’amica: “Poi Manfredi che si commuove, ma perché minc...a ti commuovi a 43 anni per un padre che è morto 23 anni fa? Che figura fai? Ma che... dov'è uno... le palle ci vogliono. Parlava di sua sorella e si commuoveva, ma vaff....o". Di fronte a tutto questo sappiamo solo che il CSM ascolterà nei prossimi giorni i giudici coinvolti (ce ne sono altri 4 che continuano ad operare a Palermo). Mi chiedo, anche a tutela dell’immagine di migliaia di magistrati onesti ma se a Donna Sarina fossero stati contestati la metà dei fatti addebitati alla Saguto non sarebbe stata agli arresti domiciliari? Se fossero stati contestati a Renzi, piuttosto che a Crocetta o a Marino non si sarebbero dimessi? Invece nel suo caso si parla di trasferimento ad altra sede. Mi chiedo, fermo restando la presunzione d’innocenza fino all’ultimo grado di giudizio, ma è opportuno che indossi ancora la toga? La giustizia è davvero uguale per tutti? Leggo anche dell’arresto per corruzione dell’ex direttrice del carcere di Caltanissetta Alfonsa Miccichè. La signora affidava progetti con somme inferiori ai 40 mila euro (quindi non soggetti ad evidenza pubblica) a società che in cambio assegnavano incarichi alla figlia ed al genero. Sempre in questi giorni scopro che al Comune di Sanremo il 75% dei dipendenti è assenteista e c’è chi è stato filmato mentre timbrava il cartellino in mutande e poi tornava a letto o lo faceva timbrare da moglie e figli. Il sindaco di Sanremo dichiara: “sto valutando i provvedimenti da prendere. Forse ANCHE il licenziamento”. A prescindere dal fatto che se licenzi questi ladri di lavoro almeno puoi assumere qualcuno onesto che ti fa funzionare il Comune e adesso è disoccupato, mi chiedo signor sindaco: che significa ANCHE il licenziamento? Che vorresti fare? Premiarli? Che differenza c’è tra questi assenteisti e l’impiegato che incassa la tangente? Entrambi rubano soldi pubblici. Torniamo in Sicilia dove pochi giorni fa i deputati hanno approvato in Commissione intempo record il ddl salva burocrati e nominati. La finanziaria del 2012 ed un parere del Cga del 2014 hanno stabilito la gratuità degli incarichi nelle partecipate e vietato le superindennità aggiuntive agli alti dirigenti. Fatto questo che avrebbe comportato anche la restituzione delle somme. Ebbene la stessa Ars che fa le pulci ai gettoni di presenza ai consiglieri comunali per cifre irrisorie ha varato un ddl in 10 minuti per salvare i maxi compensi aggiuntivi agli alti burocrati e ai blindati. Il presidente della lotta alla manciugghia è diventato il Santo protettore della casta. A Roma mentre la sottosegretaria alla cultura Francesca Barracciu viene rinviata a giudizio per peculato per rimborsi da 81 mila euro il presidente del Consiglio Renzi annuncia di voler togliere l’Ici sulla prima casa a TUTTI, sia che abbiamo un castello che un tugurio. E si definisce di sinistra….Ricordo negli anni ’80, ’90, il sogno della Milano da bere era quello di una società nella quale se sei bravo, se ti impegni, farai strada. Adesso se nasci parìa crepi parìa. Tra una casta e l’altra ci sono muraglie cinesi. Non esiste più la media borghesia e neanche la piccola. Ci sono le caste e poi la plebe, il volgo. Hanno fatto quadrato tra di loro. Le caste hanno fatto rete, si coalizzano tra loro. La casta degli “antimafia”, gli intoccabili ed unti dal Signore per antonomasia si è coalizzata con quella dei politici e spesso con quella dei burocrati. Ovunque ti giri ci sono i privilegiati che si fanno beffe di chi è dall’altra parte dello steccato. Ogni loro gesto è uno sputo in faccia a chi fatica onestamente, a chi si suda lo stipendio, a chi pur sudando non avrà mai un diritto. Le caste sono intoccabili. La Barracciu era la candidata che Renzi voleva ad ogni costo per la presidenza della Regione Sardegna. A causa dello scandalo, ha ripiegato per un posto di sottosegretario. La Barracciu, la Saguto, le leggi ad personam mentre la Sicilia muore di fame. E’ la sfacciataggine degli intoccabili. Mi sento come si sentivano i poveracci alla vigilia della Rivoluzione francese, anzi peggio, perché adesso ti prendono in giro con l’ipocrisia della democrazia e l’illusione della libertà. Nella Francia della Rivoluzione c’era Maria Antonietta che dice “ma se non c’è pane non possono mangiare grissini?”. Adesso abbiamo il giudice antimafia Silvana Saguto che dall’alto della casta dice: “18 mila euro di spesa non pagata al supermercato? Che sbadata. Mica faccio io la spesa”. E’ la Rivoluzione Francese ai tempi della Saguto. Rosaria Brancato.
Cultura antimafia con pregi e difetti, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 ore” del 26 Ottobre 2015. I fatti e le parole sconvolgenti attribuiti alla presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, Silvana Saguto, rimandano ancora una volta ai limiti con cui ciclicamente deve confrontarsi la cultura della legalità, nei diversi ambiti – istituzionali, imprenditoriali, professionali e associativi – in cui si esplica. Saguto, per anni nota e stimata esponente delle toghe antimafia, a suo tempo oggetto di minacce direttamente per bocca di Salvatore Riina, dirigeva fino a pochi giorni fa la sezione di Tribunale preposta al sequestro di beni ai mafiosi. Un incarico delicato, specie sull’isola di Cosa nostra e, per molti aspetti, pionieristico. Quantità, casistica e tipologia dei sequestri si sono ampliate e complicate giorno dopo giorno. I beni vanno gestiti e valorizzati fino alla confisca definitiva. Per questo i giudici delle misure di prevenzione di tutta Italia si consultano in continuazione, propongono modifiche alle leggi, creano una loro associazione per condividere le esperienze. Un lavoro meritorio e quasi sconosciuto. Nei mesi scorsi nascono a Palermo voci sui criteri e sull’accentramento delle deleghe su pochi nomi, seguono inchieste giornalistiche, la Procura di Caltanissetta apre un fascicolo. Emerge così una storia di favoritismi sfacciati, di gestione familistica della sezione, di ingenti debiti personali della presidente, di favori e regali scambiati o promessi, fino all’accusa di corruzione e alle dimissioni dalla funzione (non dalla magistratura). Fino alle intercettazioni ambientali che raccolgono insulti feroci alla famiglia Borsellino. Meglio non rifugiarsi nella tesi della “mela marcia”. Solo per restare in tema e agli ultimi anni, è già accaduto con Vincenzo Giglio, il presidente dell’omologa sezione di Reggio Calabria, appena condannato in via definitiva per corruzione e rapporti con i clan; e con Maria Rosaria Grosso, giudice della sezione fallimentare di Milano, indagata per tentata concussione e abuso d’ufficio. Certo, esiste un problema di qualità dei singoli cui viene conferito l’enorme potere decisionale ed economico della giurisdizione. Ma accade che i vertici palermitani debbano ammettere di non essere in grado di fornire una mappa degli incarichi agli amministratori giudiziari; accade che nessun collega della stessa sezione, o del Tribunale, abbia notato o segnalato alcuna anomalia in certe scelte, amicizie, parentele; che un magistrato ottimamente retribuito si indebiti fino alla disperazione senza che nessuno se ne accorga e anche per questo – sostiene Saguto – sfrutti il proprio ruolo per restare a galla. Al di là degli individui, tutto ciò significa che in ampie zone della magistratura, perno istituzionale dell’azione antimafia e ordine autogovernato come solo il Parlamento, non vige alcun tipo di verifica e di controllo. Solo malasorte? No. Esistono uffici giudiziari – anche molto meno esposti di Palermo – che ormai controllano i flussi di lavoro, gli incarichi, gli ammontari, popolando banche dati dalle quali estraggono informazioni in tempo reale; ci sono Tribunali, Procure e Corti d’appello che redigono il bilancio sociale per avere «una struttura organizzativa più efficiente, per migliorare la capacità di comunicazione con i cittadini, aumentando la trasparenza dell’azione svolta» (testuale dal sito del ministero) ed è certo che in questi uffici il livello di controllo è di ben altra efficacia. Non è impossibile, a volerlo fare. Ma bisognerebbe sentirsi meno casta intoccabile e un po’ più reparto pregiato dello schieramento che comprende commercianti iscritti alla Federazione antiracket, imprenditori con il rating di legalità, giovani delle associazioni, sacerdoti e sindaci coraggiosi, pubblici dipendenti che non prendono mazzette. Ognuno di questi protagonisti mostra pregi da emulare e difetti da correggere, ma premessa per avanzare è prendere onestamente atto dei propri limiti. Altrimenti si arretra a forza di indicare le responsabilità altrui, lasciando che la bufera mediatica e giudiziaria si plachi, per riprendere a sbagliare dal punto in cui si era stati interrotti.
QUESTIONI DI FAMIGLIA. I fatal mariti, scrive Sabato 19 Settembre 2015 Accursio Sabella su “Live Sicilia”. Silvana Saguto è costretta a lasciare il suo incarico a causa di una indagine che riguarda presunti favori al marito. La corsa di Anna Finocchiaro verso il Quirinale è stata frenata anche dal caso del Pta di Giarre che coinvolse il coniuge. E non sono gli unici casi, dalla consulenza del "signor Chinnici" al ritardo di "mister Monterosso". La moglie di Cesare deve apparire più onesta dell'imperatore. L'immagine è rievocata a ogni scandalicchio e parentopolina. Qualcuno, però, in questi anni ha forse dimenticato i mariti delle imperatrici. Fatal mariti, in molti casi. È il caso di Silvana Saguto, ma non solo il suo. Perché i coniugi delle donne di potere, in qualche caso, hanno finito per frenare e troncare carriere. O, in qualche caso, per trascinare nella centrifuga di polemiche più o meno sensate, le mogli. Ne sa qualcosa, come abbiamo già detto, Silvana Saguto, che ha lasciato l'incarico di presidente della Sezione misure di prevenzione. È indagata per corruzione e abuso d'ufficio. E la questione riguarda anche il marito, appunto. L'accusa al magistrato infatti è relativa ai rapporti con Gaetano Cappellano Seminara, il più noto degli amministratori giudiziari. A lui sono giunti diversi incarichi di gestione di beni confiscati alla mafia. Una fiducia ripagata – questa l'accusa, tutta da dimostrare – tramite consulenze che lo stesso Cappellano Seminara avrebbe assicurato a Lorenzo Caramma, marito della Saguto. Quanto basta, ovviamente, per fare da miccia a un'esplosione di veleni e accuse incrociate che pare ancora all'inizio. E ha già portato all'estensione dell'indagine ad altri tre magistrati. Intanto, la Saguto ha fatto le tende. Attenderà un altro incarico. Ma il “colpo” alla carriera del magistrato è stato durissimo. Marito, fatal marito. Che a pensarci bene, un'altra storia di coniuge “scomodo” potrebbe aver contribuito a chiudere le porte del Quirinale a una donna siciliana. È il caso di Anna Finocchiaro e soprattutto del fatal marito, Melchiorre Fidelbo. Quest'ultimo è infatti finito dentro una inchiesta su un maxi appalto dell'Asp di Catania destinato all'apertura del “Pta” di Giarre: una struttura sanitaria “intermedia” che avrebbero dovuto alleggerire il peso dei grossi ospedali. Fidelbo nell'ottobre del 2012 è stato anche rinviato a giudizio per abuso di ufficio e truffa: è accusato di aver fatto pressioni indebite sui dirigenti dell'Azienda sanitaria con lo scopo di ottenere l'affidamento. Una vicenda ovviamente tirata fuori dai detrattori della Finocchiaro, nei giorni caldi che hanno portato alla scelta del nuovo Capo dello Stato. Siciliano, ma uomo. Nonostante la Finocchiaro pare piacesse molto anche a Forza Italia. Ma quella storia... Chissà cosa si saranno detti, invece, Patrizia Monterosso e Claudio Alongi, suo marito. E no, non c'entrano nulla i potenziali conflitti di interesse tra un Segretario generale che contribuisce a scrivere le norme sui dipendenti regionali e il commissario dell'Aran che – visto il ruolo – con i dipendenti regionali deve discutere le norme che li riguardano. No, la storia è un'altra. Ed è, in fondo, sempre la stessa. Quella per la quale la plenipotenziaria di Palazzo d'Orleans è stata condannata dalla Corte dei conti a oltre un milione di risarcimento per la vicenda degli extrabudget nella Formazione professionale. Una condanna giunta nonostante l'appassionata difesa del marito-avvocato Claudio Alongi. Anzi, “tecnicamente” proprio a causa dell'avvocato-consorte. Perché il ricorso della Monterosso, al di là delle questioni di merito che, stando ai giudici sarebbero rimaste tutte in piedi, è stato respinto per un ritardo nella presentazione di alcuni documenti. Ritardo dei legali, appunto. Marito compreso. Paradossi delle vite coniugali che si intrecciano con le vite pubbliche. Ne sa qualcosa Caterina Chinnici. Fu lei la massima sostenitrice di una legge sulla trasparenza che finalmente poneva dei paletti (in questi anni a dire il vero, serenamente ignorati) riguardo alla pubblicazione degli atti, degli stipendi e degli incarichi pubblici. Il caso, però, ha voluto che a ignorare quelle disposizioni fosse anche un consulente dell'Asp di Siracusa, Manlio Averna. Marito di Caterina Chinnici. Un caso che creò anche tensioni all'interno della giunta di Raffaele Lombardo, con Massimo Russo, ad esempio, molto critico sulla “dimenticanza” dell'Azienda siracusana. "Non si può addebitare alla sottoscritta – replicò Caterina Chinnici - l'eventuale inadempienza di coloro che dovrebbero controllare”. Polemiche, ovviamente, poco più. Nulla a che vedere col “caso Saguto”, se non il ricorrere di questi “incroci pericolosi” tra il divano di casa e le scrivanie del sistema pubblico. Fastidi, o poco più, in cui il marito non sarà stato “fatale” per la carriera, ma che certamente ha regalato alla consorte qualche minuto o qualche giorno di tensione. Avvenne anche a Vania Contrafatto, attuale assessore all'Energia. E il casus belli fu addirittura una cena, organizzata da Sandro Leonardi, candidato dell'Idv al Consiglio comunale e marito della Contrafatto. All'appuntamento c'erano, tra gli altri, il procuratore Francesco Messineo e gli aggiunti Leonardo Agueci e Maurizio Scalia. Quest'ultimo era il magistrato che coordinava l'indagine sui brogli alle primarie del centrosinistra. Una rivelazione, quella, lanciata ironicamente nel corso di una conferenza stampa da Antonello Cracolici: “Per sapere qualcosa sui presunti brogli alle primarie - disse il capogruppo del Pd all'Ars - forse avremmo dovuto essere a una cena elettorale che si è tenuta sabato a Mondello alla quale hanno partecipato, oltre al candidato sindaco Leoluca Orlando, alcuni pm di Palermo che seguono le indagini sulla vicenda". Orlando aveva denunciato brogli a quelle consultazioni accusando il vincitore di quelle primarie, Fabrizio Ferrandelli. Tutto si sgonfiò presto, con una nota del pm Scalia con la quale il magistrato spiegò di aver preso parte “a un ricevimento in una casa privata di una collega e amica per festeggiarne l'inaugurazione”. Vania Contrafatto, appunto. Una delle cene probabilmente più indigeste per quello che sarebbe diventato il futuro assessore all'Energia. E un marito può essere fatale persino “a costo zero”. Chiedete a Valeria Grasso, nominata da Crocetta Soprintendente della Fondazione orchestra sinfonica. Tra i consulenti, ecco spuntare il marito Maurizio Orlando: “Ma è qui a titolo gratuito”, provò a spiegare l'imprenditrice antiracket. Pochi mesi dopo, Crocetta l'avrebbe rimossa dalla guida della Foss.
Dio, Satana e il colonnello, scrive Salvo Vitale su "Telejato" il 28 ottobre 2015. ORMAI NON CE LA FACCIAMO PIÙ AD ANDARE DIETRO A TUTTE LE “MINCHIATE”, LE INTERCETTAZIONI CHE GIORNALMENTE VENGONO FUORI, LE DICHIARAZIONI, E LE CONDIZIONI PSICOLOGICHE DEI PROTAGONISTI DI QUESTA SQUALLIDA STORIA CHE HA MESSO IN VETRINA TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DENUNCIATO DA DUE ANNI A QUESTA PARTE. Per fortuna da Caltanissetta, dove Pino Maniaci era già stato ascoltato un anno e mezzo fa, hanno lavorato sodo e hanno scoperto una sorta di complotto che aveva le mani su tutto il sistema produttivo delle province di Trapani e Palermo, con diramazioni anche a Catania e ad Agrigento. Ieri ci sembrava che si era toccato il fondo: “Io sono come Dio onnipotente”, diceva la Saguto al suo Cappellino, ma da altre intercettazioni “ho sentito dire di Cappellano Seminara cose poco sotto di quello che può fare Satana in persona… ma siamo in un paese in cui quando non riesci ad incastrare uno non puoi dire che sei tu incapace di incastrarlo, devi dire che ci sono i poteri oscuri, le protezioni, i poteri forti”. Il Giornale di Sicilia, con la sua furbizia redazionale, ma che in realtà è poca correttezza deontologica, riporta quest’ultima dichiarazione, senza dire chi la dice, ma solo chi la riceve, ovvero il chiarissimo prof. Provenzano Carmelo. Con ogni probabilità si tratta del golden boy avvocatino Walter Virga. Dio… Satana, siamo agli estremi. Un potere illimitato dato dalla tremenda legge sulle misure di prevenzione, con la quale puoi sequestrare tutto a chi vuoi e affidarlo a chi vuoi, e un Rasputin siciliano, se vogliamo un cardinale Richelieu, il “consigliori”, la mente che indirizzava i vari movimenti del circuito della procura di Palermo, e che gestiva e gestisce il tutto come una sorta di burattinaio… Satana o poco sotto di lui, un ruolo che a suo tempo, nel suo delirio di potenza, si era attribuito Totò Riina. Lo strumento di Riina era l’omicidio, quello di Cappellano e della Saguto era lo spolpamento delle aziende, sino al fallimento. Elemento in comune era ed è invece il parassitismo, ovvero la volontà di assorbire voracemente i frutti del lavoro degli altri, senza rendersi conto che proprio la persistenza del lavoro può consentire la sopravvivenza della propria condizione. E adesso che il giocattolino è rotto Lorenzo Caramma si sente “umiliato” per avere fatto davanti a tutta Italia il ruolo del pupo, sistemato a Roma o a Palermo per qualche incarico, dietro spinta della moglie dea. Cappellano è invece “addolorato” perché la cosa non doveva venir fuori e la sanno tutti, mentre a Zà Silvana è ancora depressa e non va a lavorare, anche perché non gli conviene, dal momento che il ministro ha chiesto di sospenderla dall’incarico e dallo stipendio: qualche giornale parla addirittura di ricchezze portate all’estero, ma senza alcuna prova. Il problema della sopravvivenza economica del giudice è serio. E speriamo che non si arrivi davvero alla disperazione, come essa stessa ha detto qualche giorno fa, perché tutti ci farebbero sentire come i responsabili morali di quello che sta succedendo dopo la “rottura” del cerchio magico. Il Consiglio Superiore della Magistratura, come abbiamo già detto, vuole il suo tempo: bisogna attentamente conoscere, considerare, valutare chi possa esserci in mezzo, che cosa si rischia se la Saguto parla, ascoltare, ingenerare nel proprio cervello una linea di giudizio e di lettura prima di arrivare, tra qualche anno, alla conclusione. E il prefetto Cannizzo? Per sua fortuna è una di quelle che parla poco. E il colonnello della Guardia di Finanza Nasca? Che cosa significava quella frase “è questione di ore” nei confronti di Telejato? Qualcosa è venuta fuori. Quando è stato introdotto il digitale terrestre sembrava che per Telejato fosse la fine: la legge prevedeva la creazione di gruppi, consorzi, nuclei di televisioni che avrebbero dovuto costituire il bouquet, cioè arrivare a un punteggio, stabilito su capitale sociale, attrezzature, personale delle varie televisioni. Telejato non aveva neanche un punto, quindi nessuno l’avrebbe richiesto. Sul tavolo dell’allora ministro Passera arrivarono 70 mila email a chiedere che Telejato fosse salvata e allora il ministro con una sua telefonata chiese a Tele-med, cioè la televisione dei fratelli Rappa, di metter dentro Telejato, che comunque rimase dentro solo con un piede, mentre l’altro era legato ad altro circuito internazionale. Nasca, dopo avere gonfiato il sequestro dei Rappa e averlo fatto affidare al giovane Virga, pensava di intervenire nei confronti di costui per chiudere Telemed e quindi Telejato. È triste constatare che un uomo al servizio dello Stato falsi i conti di quello che è stato deciso di porre sotto sequestro e si presti alle manovre sotterranee del giudice che ne ispirava le mosse. Le false attestazioni nell’esercizio delle proprie funzioni, sono cose contro cui la Finanza dovrebbe procedere, non invece atti che essa stessa porta avanti. Se Nasca rimarrà al suo posto, se qualcuno avrà il coraggio di inquisirlo, se i vertici (ma quali?) della stessa Guardia di Finanza, per tutelare l’immagine e la serietà non decideranno di adottare qualche decisione. Alla fine c’è una domanda inquietante: quanti altri ci sono dentro? Verranno tutti fuori o rimarranno a lavorare nell’ombra per rafforzare la ragnatela che hanno costruito attorno alla Sicilia?
Caramma, la revoca e l'equivoco. "Che fa, ti stanno arrestando", scrive Riccardo Lo Verso su "Live Sicilia". Le microspie svelano i retroscena della rinuncia all'incarico del marito di Silvana Saguto nella cava Buttitta, gestita da Gaetano Cappellano Seminara. Lorenzo Caramma si sentiva “umiliato”. Gaetano Cappellano Seminara, invece, era “addolorato”. Era stato caratterizzato dalle polemiche il passo indietro di Caramma, ingegnere e marito di Silvana Saguto, costretto a rinunciare all'incarico di coadiutore tecnico in una cava gestita dal principe degli amministratori giudiziari. Stando alle intercettazioni delle conversazioni della stessa Saguto si erano mossi il presidente della Corte d'appello, Gioacchino Natoli, e del Tribunale, Salvatore Di Vitale, per arrivare alla revoca dell'incarico di Caramma nella cava Buttitta di Trabia. “Diremo, per non dire che si dimette, - spiegava la Saguto - che cessa l'incarico, nel senso che non serve più la sua figura professionale”. Il fatto che Caramma non sarebbe più andato al lavoro ero stato comunicato in azienda con una email circolare. Pure questa finita agli atti dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta coordinata dall'aggiunto Lia Sava. “Lorenzo ha avuto telefonate di tutti i tipi”, diceva nel luglio scorso l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. “Cappellano - annotano i finanzieri - ribatteva che non era nei suoi pensieri e che per questo ha buttato fuori la persona che ha scritto l'email”. L'amministratore era addirittura pronto a fare un passo indietro, a lasciare le misure di prevenzione. Si era stancato “perché questa cosa è iniziata male ed è finita peggio”. Poco dopo l'avvocato chiamava Lorenzo Caramma: “... siccome ho sentito tua moglie e mi ha detto, ah, ma so che hai dato comunicazione, quindi io mi sono, dissi ma comunicazione in che senso, hai mandato la mail, io non le ho detto niente ma ti sto chiamando perché ho chiesto a questo cretino di chiedere scusa”. Caramma non l'aveva presa bene, perché “ho dovuto spegnere il telefono, perché mi sono arrivate cinquanta telefonate, ma che fa ti hanno denunciato, ti stanno arrestando, che cosa hai combinato”. Si era dovuto sorbire pure “le risatine dietro le telefonate”.
L'incarico e la paura della Saguto: "È un ragazzetto, non so come farà", scrive ancora Riccardo Lo Verso il 27 ottobre 2015. Lo scorso luglio la sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo sequestrò un patrimonio sterminato agli imprenditori Virga di Marineo. La nomina ad amministratore faceva gola a molti. La scelta preoccupava lo stesso magistrato travolto dallo scandalo. Si indaga anche sugli incarichi di Walter Virga in altri settori. "Gli daranno un incarico di quelli giganteschi", diceva un commercialista all'avvocato Walter Virga. Era il 2 luglio scorso. La voce correva nei corridoi del Tribunale di Palermo ed era arrivata alle orecchie di molti. Anche del commercialista. Un patrimonio sterminato sarebbe finito sotto la scure della sezione Misure di prevenzione e comprendeva "di tutto e di più, dalle case di cura, alle immobiliari alle cave". Il 6 luglio successivo agli imprenditori Virga di Marineo furono sequestrati beni per un miliardo e 600 milioni, tra cui 33 imprese di calcestruzzo, 700 tra case, ville e immobili, 80 rapporti bancari, 40 assicurativi e oltre 40 mezzi. Il collegio delle misure di prevenzione, presieduto da Silvana Saguto, scelse come amministratore giudiziario il commercialista Giuseppe Rizzo. Virga era rammaricato. Riteneva che un suo collaboratore, Alessio Cordova, fosse pronto per l'incarico: "... senti, ma secondo te questa qua non è andata, non tanto a me, ad Alessio, alla luce delle pressioni di quello la", oppure poteva essere una conseguenza "di quello che è successo". Lo sponsor di Rizzo, secondo i finanzieri, sarebbe stato l'ufficiale della Dia, Rosolino Nasca, mentre Virga non escludeva che la mancata scelta di Cordova fosse dovuta allo scontro aperto con la Saguto dopo che il giovane amministratore aveva allontanato dal suo studio Mariangela Pantò, fidanzata di uno dei figli del magistrato. Il 17 luglio era la stessa Saguto a mostrarsi timorosa per la nomina di Rizzo. Aveva scelto "un ragazzetto che non so come farà, adesso io devo nominare un coadiutore giusto perché sennò". La scelta sarebbe ricaduta su Carmelo Provenzano perché "è un docente e non può dire niente nessuno". Le cose sarebbero andate in maniera diversa. Oggi Provenzano, professore alla Kore di Enna, è finito sotto inchiesta. Sarebbe stato l'organizzatore di quella che gli stessi indagati definiscono la "laurea farsa" di Emanuele Caramma, altro figlio della Saguto. Il 17 luglio i rapporti fra l'allora presidente delle Misure di prevenzione e Walter Virga erano ormai ai ferri corti. Virga non si rammaricava più per l'incarico sfuggito al suo collaboratore Cordova, piuttosto voleva fare un passo indietro. Fabio Licata, altro giudice delle Misure di prevenzione indagato, riferiva le parole pronunciate da Tommaso Virga, presidente di una sezione del Tribunale e padre del giovane amministratore giudiziario: "Io ci ho pensato, dice, mi dovete liberare Walter". Il figlio si sentiva sotto pressione, voleva rinunciare alle amministrazione di Rappa e Bagagli. La stessa Saguto era incredula: "Non lo capisco cioè Walter non lavorerà più col Tribunale. Cioè non si prende più curatele, non fa più l'avvocato? Perché lui qua è, fatti suoi sono... se può campare senza lavorare al Tribunale di Palermo, fatti suoi, perché come è questa sezione, così è un'altra, non è che Tommaso (Virga, ndr) è in questa sezione". Il riferimento era ad altri incarichi ricevuti dal giovane in altri settori dell'amministrazione della giustizia. Da qui i controlli della finanza alle sezioni delle Esecuzioni immobiliari e alla Fallimentare. Alla fine Virga avrebbe davvero rinunciato agli incarichi, ma solo quando l'inchiesta della procura di Caltanissetta era già avviata e lo scandalo esploso nelle stanze del palazzo di giustizia palermitano.
"Vulnus all'immagine della giurisdizione", "condotte gravemente scorrette plurime e continuate nel tempo", "commercializzazione della qualità di magistrato": sono durissimi i giudizi che il procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo ha formulato sulle condotte dell'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto, indagata a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio, scrive "Live Sicilia" il 28 ottobre 2015. Ieri il pg e il ministro hanno chiesto alla sezione disciplinare del Csm di sospendere, in via cautelare il magistrato, da funzioni e stipendio. Una decisione che il pg motiva in una richiesta di sette pagine dai toni molto pesanti. Le condotte illecite del magistrato "emergono con grado di sufficiente certezza, particolare gravità per le modalità in cui sono state poste in essere, per gli ingenti interessi economici sottostanti e per il notevole risalto mediatico conseguente", scrive il pg che sottolinea "l'allarme tra colleghi e operatori del diritto e lo sconcerto dei cittadini dinnanzi alla commercializzazione della qualità di magistrato e alla gestione disinvolta dei patrimonio dei beni di provenienza mafiosa". Comportamenti di tale gravità "da minare la credibilità indispensabile per svolgere con necessario prestigio le funzioni giurisdizionali". "I cittadini - conclude la richiesta - non possono essere giudicati da un magistrato venuto meno ai fondamentali doveri di correttezza e imparzialità".
LE OMBRE DEL CASO SAGUTO: “CHE FINE HANNO FATTO LIBERA, ADDIOPIZZO E TUTTI QUELLI CHE PER MOLTO MENO SCENDONO IN PIAZZA?”
"Lo smarrimento dei siciliani nella lettera di un avvocato che il palazzo di giustizia lo conosce bene: fanno più clamore i 20 mila euro di spese di Marino, tutte da dimostrare, che una gestione così sfrontatamente arrogante del potere. L’allarme dimenticato dell’ex prefetto Caruso. Alcune volte i magistrati dimostrano di non avere quella dignità e quella sensibilità che a parti opposte pretendono dai politici che solo perché raggiunti da un avviso di garanzia si autosospendono ovvero si dimettono dalla carica o dall'incarico ricevuto. Evidentemente l'ambizione, la vanità, l'arroganza e l'interesse privato a mantenere uno status symbol porta qualcuno a dimenticare che prima di tutto il "Magistrato" con la M maiuscola deve essere un fedele servitore dello Stato che non esercita il potere in quanto tale, anche a proprio beneficio e proprio vantaggio, ma esercita una professione che prima di tutto deve essere intesa quale servizio reso al cittadino e alla collettività. Il vantaggio economico, l'alleanza con i poteri forti dello Stato, le cene e i pranzi fini a se stessi per rinsaldare le alleanze e incrementare il proprio potere, il peculato, l'interesse privato, l'abuso di potere, l'induzione alla concussione, sono tutte fattispecie che confondono i cittadini e le persone oneste che si ritrovano smarriti, disorientati e increduli nell'apprendere giornalmente fatti che investono chi apparentemente sembra avere svolto un ruolo pubblico da vero paladino della legalità e della lotta alla mafia, quotidianamente impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata. Scoprono, invece, che nel privato agisce da persona modesta, piena di difetti, che compie soprusi a danno di lavoratori alle proprie dipendenze che non possono opporsi alle ingiuste e insensate richieste del "capo", che chiede favori a chi ha fatto favori, raccomandazioni, trova lavoro a chi è raccomandato e dispensa incarichi a chi ne è meritevole non solo per personali capacità professionali dimostrate sul campo, ma a chi potrà essergli utile secondo fini di personali interessi utilitaristici. In questo mare di grande confusione e smarrimento, viene da chiedersi dove sono finite le associazioni come Libera, AddioPizzo, Fondazione Giuseppe Fava, Fondazione Progetto Legalità e tutte le altre che per molto meno sono prontissime a scendere in piazza per organizzare fiaccolate e cortei a sostegno di questo o quel personaggio che credono sia minacciato dal potere occulto della mafia, ma non assumono alcuna posizione rilevante dinnanzi a una così triste vicenda. Forse in Italia, curiosamente oggi, fa più clamore l'ingiusta accusa rivolta al primo cittadino di Roma capitale di avere "dilapidato" in diciassette mesi l'iperbolica somma di € 20.000 per pranzi, cene e spese personali, sempre che venga dimostrata la fondatezza dell'accusa, fino a pretenderne le dimissioni immediate, piuttosto che ribellarsi a una gestione così sfrontatamente arrogante del potere, manifestato ufficialmente dagli organi istituzionali nei confronti di quella parte delle ricchezze sottratte alla criminalità organizzata e sottoposta al controllo dello Stato. Uno Stato che ha voluto presto dimenticare il grido di dolore e di allarme sociale lanciato nelle sedi istituzionali competenti dall'ex Prefetto Caruso, circa diciassette mesi fa". Matteo Raimondi Avvocato a Palermo.
L’attacco a Cantone tra i magistrati divisi sul governo. Quegli applausi delle toghe a chi ancora critica il “collega” prestato all’Anticorruzione, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera” il 25 ottobre 2015. L’affondo del segretario dell’Associazione magistrati, Maurizio Carbone, arriva quando parla della «degenerazione del correntismo», tra favoritismi nelle carriere dei giudici e spartizione delle poltrone. Ovviamente lui è contrario, però mette in guardia dal pericolo opposto: «l’individualismo che svilisce la funzione del nostro ruolo e del Csm, aumentando i condizionamenti esterni ancora più pericolosi di quelli interni». Sarebbe come liberarsi delle correnti per mettersi nelle mani dei partiti, che immaginano strani progetti di riforma dell’autogoverno. «Non è casuale - aggiunge - che oggi le maggiori critiche verso le correnti e il Consiglio superiore provengano da ambienti politici o da parte di chi ha intrapreso altri percorsi professionali che lo portano lontano dalla giurisdizione!». In molti capiscono che il riferimento è al collega Raffaele Cantone, e in molti applaudono; la polemica di fine estate del magistrato prestato all’Anticorruzione, contro le correnti e il Csm, ha lasciato il segno. Non solo ai vertici dell’Anm. E una certa insofferenza che si registra nei corridoi del congresso verso l’uomo scelto da Renzi come simbolo della lotta governativa al malaffare, è pure un portato dell’insofferenza verso i modi considerati poco rispettosi del presidente del Consiglio; come se si manifestasse per interposta persona. Da parte di molti, non di tutti. Perché divisioni e differenze emergono anche all’interno della magistratura, del suo sindacato e dell’organo di autogoverno, sul tema del rapporto con la politica. Luca Palamara, già presidente dell’Anm e oggi rappresentante al Csm per la corrente centrista di Unicost lo dice chiaro: «Non si possono affrontare tutte le fasi allo stesso modo, non tutti i governi solo uguali; non possiamo non prendere atto, ad esempio, dei passi avanti fatti nell’ultimo anni in materia di lotta alla corruzione». Sembra una presa di distanza dal suo successore alla guida del sindacato, Rodolfo Sabelli (compagno di corrente) e alla polemica innescata dalla frase «si pensa più alle intercettazione che alla lotta alla mafia». Un’analisi che, spiega Palamara, «non mi trova d’accordo; anche perché dobbiamo fare attenzione al pericolo dell’isolamento rispetto alla politica». Come dire che, finito l’anti-berlusconismo che accomunava magistrati e Pd, ora si rischia di restare soli, e subire le iniziative della politica senza riuscire a contare. In tempi di renzismo, sembra che tra i magistrati - come in Parlamento - il premier conquisti più consensi al centro che a sinistra. E così la corrente di Unicost, al Csm, si trova spesso al fianco dei «laici» di centrosinistra; anche per contrastare l’anomala convergenza che, da ultimo, s’è registrata su alcune nomine tra la sinistra giudiziaria di Area e il blocco (sempre compatto) che lega Magistratura indipendente e i «laici» di centro-destra. Adesso però c’è la «questione morale» esplosa con il «caso Palermo» (dove la maggior parte dei giudici coinvolti nelle indagini per corruzione aderisce a Mi) che potrebbe aiutare a scompaginare le alleanze. Non a caso Palamara batte sul tasto: «Serve una risposta forte e immediata». Ma prima di lui è stato proprio Carbone, di Area, a brandire l’argomento. Anche in risposta al ministro dell’Interno Alfano, che aveva invitato l’Anm a guardare al proprio interno prima di criticare il governo: «Si impone sempre maggiore attenzione e rigore per le condotte che ledono gravemente l’etica del magistrato, con l’esigenza di combattere ogni opacità». Applausi.
Beni confiscati, scontro Alfano-magistrati sul caso Palermo, scrive “la Repubblica” il 24 ottobre 2015. Il Csm: "Strumenti inadeguati per intervenire". Il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini parla del caso Palermo al congresso Anm di Bari: "Occorrono nuove leggi e regolamenti, basta polemiche distruttive". "Credo che ci voglia coraggio e una certa faccia per attaccare questo governo. Invece dell'autocritica, per quanto successo a Palermo, arrivano gli attacchi. E' un modo ottimo per sviare l'attenzione ma nessuno si illuda che non ce ne siamo accorti". Il ministro degli Interni, Angelino Alfano risponde a muso duro alle critiche dell'Associazione nazionale magistrati e tira in ballo lo scandalo scoppiato alle Sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Per Alfano, ci vuole coraggio a rivolgere critiche al Governo "nel momento in cui questo Governo ha fatto leggi importati, in cui il contrasto a Cosa Nostra va bene e nel momento in cui - ha detto - credo che tutta l'opinione pubblica nazionale si aspetti una profonda autocritica e parole molto forti per spiegare da parte della magistratura quello che è successo a Palermo". A Palermo, ha detto Alfano a margine di una convention di Ncd a Limatola (Benevento), "è successo un qualcosa che manda un messaggio devastante all'opinione pubblica che pensa che se così vengono gestiti i beni confiscati da coloro i quali devono contrastare la criminalità organizzata c'è qualcosa di molto grave che non quadra". Anche al Csm il "caso Saguto" continua a tenere banco. "A fronte di fatti gravissimi come quelli che vanno emergendo a Palermo nell'affidamento degli incarichi di amministrazione e gestione dei beni confiscati, conosciuti i quali il Consiglio si è attivato con rapidità e decisione, si manifesta per intero l'inadeguatezza di questo strumento di intervento del governo autonomo su talune patologie che si manifestano nell'esercizio della giurisdizione". Così nella sua relazione il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini. "La portata applicativa dell'articolo 2 della legge sulle guarentigie e il relativo procedimento improntato ad un pur doveroso garantismo - ha detto - hanno vieppiù svuotato l'istituto. In talune circostanze, tale procedimento risulterebbe prezioso ed anzi essenziale proprio per garantire serenità negli uffici giudiziari ed autorevolezza della giurisdizione. Ribadisco - ha continuato - che occorre un intervento urgente sulla materia, sia per via legislativa che regolamentare; e ciò - ha concluso - ancorchè non mi sfugga la ristrettezza degli spazi riservati alla normazione secondaria". Anche il segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, Maurizio Carbone, ha parlato a Bari del caso Palermo, nel quale potrebbero essere coinvolti alcuni consiglieri del Csm: "Recenti vicende giudiziarie ripropongono drammaticamente l'attualità della questione morale e l'esigenza, mai trascurata, di combattere ogni opacità. Occorre in questi casi fermezza e rapidità - ribadisce - è l'unico modo per tutelare la dignità e la serenità di tutti i colleghi che lavorano quotidianamente negli uffici, soprattutto nelle zone di frontiera. E' l'unico modo per ricordare e onorare la memoria di chi ha pagato con la vita il proprio impegno nella lotta al crimine organizzato". "Bisogna distinguere tra la dinamica di un confronto, anche critico, e le polemiche distruttive a cui ci sottraiamo". Così il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, a margine del congresso delle toghe, replica alle dichiarazioni del ministro dell'Interno Angelino Alfano. "Spiace che si pensi che la magistratura voglia con le polemiche sottrarsi a un intervento sul caso Palermo. Non è assolutamente vero che con le polemiche ci si voglia sottrarre alla riflessione", aggiunge Sabelli. Sul "caso Palermo", sottolinea ancora il leader del sindacato delle toghe "il 23 settembre la sezione Anm Palermo ha diffuso un comunicato. Io ho affrontato il tema nella relazione di ieri, oggi lo ha fatto il segretario Carbone. Per noi chiarezza e trasparenza sono fondamentali perchè è tutta lì la costruzione della fiducia tra istituzioni e magistratura". Con Sabelli, interviene Matteo Frasca, presidente dell'Anm Palermo: "qualunque opacità - rileva - porta a ledere l'immagine della magistratura. Se è stato fatto scempio delle regole da parte di qualcuno, gli organi competenti sapranno fare chiarezza. Singoli episodi non potranno mai sporcare la professionalità della magistratura palermitana". Il presidente Sabelli, infine, ricorda gli esempi di Falcone e Borsellino, dopo che ieri, in conclusione del suo discorso di apertura al congresso, aveva ricordato il giudice Livatino e tutti i magistrati uccisi.
La giustizia a due velocità, scrive “Trentarighe”. Non saranno i tecnicismi ad aiutarci a capire perché il giudice Silvana Saguto continua a fare il giudice nonostante la mole di accuse che la sommerge. Non sarà il senso di civile prudenza a scacciare il pensiero malevolo di una corsia preferenziale, anzi di una comoda area di sosta, approntata ad hoc per l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, oggi in Corte di assise. Il problema c’è ed è disorientante per un’opinione pubblica sensibile e drammaticamente sensibilizzata dal surrogato di informazione liquida dei social network che tutto avvolge e poco contiene (c’è pure un gruppo su Facebook che vuole la Saguto fuori dalla magistratura). Come viandanti in marcia su strade diverse che viaggiano però verso la stessa metà, i cittadini-spettatori di questa inchiesta si dividono per molteplici correnti di pensiero – garantisti, manettari, arrabbiati, attendisti, agnostici del diritto – ma inevitabilmente si ritrovano tutti davanti alla stessa domanda: allo stato delle cose è proprio necessario che quel giudice rimanga dov’è? La sensazione è che il sistema di cautele che un’inchiesta giudiziaria impone all’individuo non togato, sia talvolta diverso da quello che riguarda un magistrato. Insomma, in uno scenario dove da un lato c’era la Saguto con la sua cerchia di amici, parenti, accoliti e divoratori di ventresca aggratis, e dall’altro l’umanità residua, c’è sete di uguaglianza. Niente esecuzioni né verdetti affrettati, ci mancherebbe altro. Solo una consapevolezza: l’ingiustizia è la prima minaccia alla giustizia.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona.
Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.
Ed invece.....
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.
Il disco rotto dell'Anm: "Politica ci delegittima". "Come Associazione magistrati, in questi anni ci siamo mantenuti fedeli alla missione indicata nei principi del nostro statuto: tutela dell'indipendenza, dell'autonomia, del prestigio e delle prerogative della magistratura e contributo di pensiero nella fase di elaborazione delle riforme legislative e nei progetti di innovazione. Lo abbiamo fatto con una passione pari al rispetto che proviamo per la nostra funzione anche quando essa ci ha indotto a rivolgere critiche forti ma sostenute da null'altro che dal desiderio di essere ascoltati, per sostenere una giustizia in grave affanno". Così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nella sua relazione di apertura del XXXII Congresso dell'Anm, a Bari il 23 ottobre 2015. Secondo Sabelli "un maturo sistema penale dovrebbe mirare anzitutto a realizzare il principio della durata ragionevole del processo, a recuperare l'efficacia del dibattimento, a restituire alle impugnazioni la loro funzione esclusiva di approfondimento e di verifica e a rendere pienamente alla Cassazione il suo ruolo di giudice della legittimità e la sua preziosa funzione di nomofilachia. La via intrapresa, purtroppo, va in altra direzione". Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati sottolinea come debba essere "introdotto un meccanismo di decisione anticipata sulle questioni di nullità e di competenza, accompagnato da termini più rigorosi per la loro eccezione. La rinnovazione dell'istruttoria per il caso di diversità del giudice andrebbe disciplinata in forma più aderente alle necessità realmente imposte dal principio di oralità. Va prevista la domiciliazione necessariadell'imputato presso il difensore di fiducia, per non vanificare i benefici della notifica telematica. Il ruolo della Cassazione andrebbe definito in misura più rigida, sull'esempio dell'esperienza europea. Sono solo alcuni esempi. I rapporti fra magistratura e politica, oggi sono restituiti a una dinamica meno accesa nella forma ma più complessa. Il principio di indipendenza e autonomia dei giudici che nessuno in astratto mette in discussione, costituisce uno dei cardini degli equilibri istituzionali, ma l’indipendenza non si alimenta di ossequio formale ma di una cultura fondata sul rispetto. Sono i temi sui quali oggi si sviluppano tensioni nuove o si riaccendono altre antiche e mai davvero sopite, che alimentano delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario. Sul tema della prescrizione - prosegue Sabelli - è deludente il disegno in esame al Senato, che si limita timidamente a prevedere un aumento dei termini per le fasi di Appello e Cassazione, senza affrontare l’esigenza di una riforma strutturale dell’istituto, che ponga rimedio ai guasti prodotti dalla legge del dicembre 2005 e accolga i richiami che da tempo giungono dall’Europa, fino alla recente sentenza della Corte dell’Unione sulle frodi Iva". Insomma, il solito disco rotto dell'Anm.
Anm-faccia di bronzo sul caso della Saguto, scrive Dimitri Buffa su “L’Opinione”. Per una volta uno può essere d’accordo persino con Angelino Alfano quando, rivolgendosi ai magistrati dell’Associazione nazionale magistrati, riuniti fino a domenica scorsa a Bari per il loro conclave, gli ha ricordato che ci vuole una bella faccia tosta a prendersela con la politica, che a loro dire vorrebbe spuntare le armi ai pubblici ministeri per combattere la corruzione, quando poi sul caso dei beni sequestrati alla mafia e amministrati in maniera familistica dall’apposita sezione del Tribunale di Palermo hanno tenuto un atteggiamento a dir poco morbido con i protagonisti negativi della “storiaccia”. Tutti rigorosamente magistrati progressisti. E nessuno finito neanche agli arresti domiciliari, pur con la mole di indizi e prove che è piovuta loro addosso. Ci sono intercettazioni che evidentemente producono effetti meno devastanti nelle vite delle persone, se gli intercettati hanno la toga. Ad esempio quella dello scorso 10 luglio, in cui la dottoressa Silvana Saguto (solamente ieri è arrivata dal Csm la richiesta di sospensione dalla carica e dallo stipendio) sembrava nervosissima a chi ne ascoltava le conversazioni con le microspie piazzate nel suo ufficio. Con lei un ufficiale della Dia che le consigliava di non parlare al telefono. E che per ora nessuno ha neppure identificato. E pensare che, in altre conversazioni captate e diffuse qualche giorno fa da numerosi siti di giornali palermitani, usciva fuori un ritratto di una donna che spendeva decine di migliaia di euro al mese, arrivando ad indebitarsi persino con un supermercato sequestrato ad un imprenditore in odore di mafia per una cifra vicina ai 20mila euro. Le accuse per la donna? Concorso in corruzione, induzione alla concussione, autoriciclaggio e abuso d’ufficio. I fatti? Incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori, assunzioni, consulenze. Tutto questo forse darà luogo ad un trasferimento d’ufficio se, bontà sua, il Consiglio superiore della magistratura, si darà una mossa in tal senso. Di manette facili neanche a parlarne. E neppure di arresti domiciliari. Per un cittadino qualunque sarebbe stata questa la regola? Al marito della giudice era andato, per la cronaca, una specie di subappalto da parte dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quello che fino a pochi giorni orsono gestiva la maggior parte degli incarichi conferiti dalla sezione di cui la Saguto era il presidente. Persino il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, esternò a suo tempo contro di lui davanti alla Commissione antimafia presieduta dalla Bindi rivelando che per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il Cda percepiva 150mila euro l’anno”. Ma sino a un paio di settimane fa a Palermo di questo verminaio tutti sapevano e parlavano, ma nessuno interveniva a livello giudiziario. Tantomeno con arresti spettacolo. Secondo i Pm, Cappellano Seminara, mantenuto dalla Saguto nelle cariche in cui già si trovava ad amministrare i beni di mafia, avrebbe dato all’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulenze negli anni per 750mila euro. L’avvocato avrebbe fatto anche assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, albergo a quattro stelle in pieno centro storico, controllato, per gli inquirenti, dallo stesso Cappellano Seminara tramite la società L.G. Consulting srl, riferibile alla madre e alla figlia. A Palermo, nell’allegra gestione dei beni di mafia, più della metà degli undicimila “asset” immobiliari e mobiliari sequestrati in tutta Italia per un valore stimato intorno ai 35 miliardi di euro, sono coinvolti altri due giudici: i Pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte. Il primo è accusato di rivelazione di segreto per aver fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione. Per il secondo si parla di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. Il Csm era “curato”, secondo l’accusa, da Tommaso Virga, che in passato ne fu membro. Il quale a propria volta aveva un figlio, Walter, nominato in seguito ad amministrare i beni sequestrati agli imprenditori Rappa e Bagagli. Bene, in un altro Paese uno scandalo del genere sarebbe stato ben peggiore nei propri riflessi mediatici. Ben più della consueta corruzione da mazzetta ai vigili in cui si sostanziano la maggior parte delle inchieste di Roma e Milano. Che un assessore prenda una mazzetta in una burocrazia come quella italiana è, purtroppo, “nelle cose”. Ma che dei giudici con stipendi da 100 o 150mila euro l’anno nominino familiari, amici e parenti con compensi a sei zeri per parassitare, più che amministrare, i beni sequestrati alla mafia, anziché renderli disponibili alla collettività che dalla mafia viene quotidianamente danneggiata e oppressa, a chi scrive sembra cosa infinitamente più grave.
Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".
QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.
Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.
Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.
“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.
Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell'anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un'Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l'effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l'aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l'azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l'affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell'esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell'elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è un’autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.
E poi danno lezioni di legalità!
Lo scandalo dei beni sequestrati alla mafia e il ruolo della Massoneria, scrive Riccardo Gueci su "La Voce di New York" dekl 29 ottobre 2015. Tutti sapevano come veniva gestita la Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ma nessuno parlava. E il motivo è semplice: perché dietro questo grande affare c’è la Massoneria. I grandi 'numeri' della holding di don Ciotti, Libera: chi guadagna sulle lucrose vendite dei prodotti agricoli di questa associazione antimafia? Sull’indegna questione che ha investito la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo vanno in scena le sceneggiate di tanti protagonisti. Il primo è un esponente del mondo politico. A recitarla è l'onorevole Claudio Fava, membro autorevole della Commissione parlamentare Antimafia. Salvo Vitale - come riportato nella pagina Facebook di Riccardo Compagnino - riprende una dichiarazione del deputato di Sinistra Ecologia e Libertà nella quale si legge: “C'è un punto di cui nessuno ci ha mai parlato, ovvero che il marito della presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, avesse una preziosa consulenza con lo studio del commercialista che si occupa della gran parte dei beni sequestrati”. A questa dichiarazione, Salvo Vitale, con la serenità di chi sa il fatto suo, ribatte: “A parte il fatto che Cappellano Seminara è un avvocato e non un commercialista, non è giusto, né corretto che tu faccia questa affermazione”. E, nel far trasparire che egli con quel deputato ha avuto una qualche frequentazione, continua: “Già un anno fa, quando è esploso il problema, ti sei schierato a fianco della Bindi (presidente della Commissione Antimafia, ndr) per 'tutelare' l'immagine di un settore della Procura di Palermo di cui da tempo avevamo denunciato le malefatte e lo strano modo di procedere. Le denunce del Prefetto Caruso sono state pressoché ignorate e tutto è stato lasciato al suo posto. Anche quando sei venuto a farci visita ti abbiamo informato su quello che c'era sotto, hai abbassato il capo, dicendo che bisognava intervenire, ma forse eri distratto”. Vitale prosegue nella sua replica affrontando un aspetto che, con tutta probabilità, è quello di maggiore rilevanza economica e sociale di questo andazzo affaristico-massonico: il fallimento di aziende, anche quelle sequestrate a gente che è risultata estranea agli affari di mafia. Questa serie di fallimenti ha concorso a determinare l'impoverimento dell'economia di Palermo e della sua provincia, che già di suo non è mai stata prosperosa. “Invece di lasciarsi prendere dalla paura di una destabilizzazione della magistratura - aggiunge Vitale - cosa peraltro ripetuta dal giudice Morosini - sarebbe stato più utile per la storia che ti porti appresso chiedere di far pulizia all'interno di essa, anche perché la fiducia dei cittadini non si conquista facendo credere che tutto è a posto, anche se tutto va male, ma intervenendo per far pulizia e mettere davvero tutto a posto, quando bisogna far pulizia in casa. Bastava guardare a Villa Teresa (Villa Santa Teresa, clinica privata confiscata all’ingegnere Michele Aiello ndr) - dove la scandalosa amministrazione del pupillo di Cappellano Seminara, Andrea Dara, che gli ha regalato un milione di euro per una consulenza, ha prodotto danni economici e gestionali incalcolabili - per renderti conto che la signora Saguto Silvana, il signor Caramma Elio, suo figlio, e il signor Caramma Lorenzo, suo marito, hanno effettuato radiografie, risonanze magnetiche, cervicale, dorsale, spalla, ginocchio senza che il loro nome risulti sulla lista dei pagamenti. Bastava chiedere alla signora Saguto una motivazione sul perché tanti incarichi nelle mani di poche persone e sul perché si sono emessi decreti di confisca quando la magistratura penale aveva escluso la provenienza mafiosa del bene. Bastava. E, invece, non si è fatto niente. E' facile dire che non sapevamo...è difficile crederci”. In sostanza, il deputato di Sel e vicepresidente della Commissione parlamentare Antimafia ha recitato la sua sceneggiata e Vitale con dovizia di particolari e di argomenti l'ha recensita a dovere. Fin qui l'arringa di Vitale. Ma c'è un'altra fonte di notizie che va tenuta in debita considerazione ed è quella di Pino Maniaci, direttore di TeleJato, la testata che per prima ha sollevato il caso. Maniaci è stato intervistato dal nostro Giulio Ambrosetti “per conoscere qualche dettaglio in più e le sue valutazioni sul caso” ed ha avuto modo di annotare alcune sue valutazioni assai interessanti. In particolare su quanto riportato in un articolo del Giornale di Sicilia che rende noti alcuni stralci delle intercettazioni telefoniche tra la dottoressa Silvana Saguto e l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, dove si fa riferimento all'impresa Calcestruzzi. Pino Maniaci, saggiamente, precisa: “Quando si parla di Calcestruzzi a chi si fa riferimento? Ricordo che Grimaldi, il figlio di un cancelliere (del Tribunale di Palermo ndr) amministra almeno dodici aziende di calcestruzzo”. Quindi l’affondo: “La dottoressa Saguto ha tirato in ballo Libera. Addiopizzo e il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta. A suo dire le associazioni antimafia e antiracket segnalavano i nomi degli amministratori giudiziari. Tutto questo a me sembra incredibile”. Ad una seconda domanda generica sulle associazioni antimafia, “parliamo un po' di Libera e di Addiopizzo”, Pino Maniaci puntualmente fa rilevare che “sia Libera, sia Addiopizzo sono partite da zero. Oggi sono delle holding. Ciò posto, il ruolo che hanno svolto è positivo. Su Libera mi sono posto e continuo a pormi qualche domanda. Per esempio: perché i prodotti di Libera debbono costare tanto? Un pacco di pasta 5/6 euro, un vasetto di caponata 5 euro. Sono prezzi proibitivi. Sarebbe auspicabile che tali prodotti diventino accessibili a tutte le tasche. Sull'argomento ho chiesto un parere a don Ciotti. Ma non ho avuto risposte”. Le tirate moralistiche di don Luigi Ciotti le dobbiamo considerare anch'esse sceneggiate? “Poi c'è la questione legata ai sequestri. Mi riferisco alla proposta di legge, che il Parlamento deve ancora iniziare a discutere, sulla gestione dei beni sequestrati. Questa proposta di legge - relatore il parlamentare Davide Matello, del PD, da sempre vicino a Libera - prevede di assegnare alle associazioni antimafia, in via provvisoria, i beni e le aziende sequestrate alla mafia. A me questa proposta sembra sbagliata. Ricordiamoci che un bene sequestrato può tornare al suo legittimo proprietario, là dove non dovessero emergere problemi”. E sempre a questo proposito, che risulta essere uno dei temi più delicati del sistema delle confische, Maniaci prosegue nel ricordare come in alcune vicende che hanno visto tante imprese avere avuto riconsegnate le loro aziende dopo il sequestro, svuotate di ogni attività, al limite del fallimento. Con questa procedura “è stata distrutta buona parte dell'economia di Palermo e della sua provincia”. Ed aggiunge “sarebbe interessante ascoltare le testimonianze degli imprenditori che hanno subito queste ingiustizie”. E ricorda la vicenda dell'impresa Niceta che con tutta probabilità chiuderà i battenti: “Della vicenda Niceta abbiamo le carte. Gli amministratori giudiziari hanno licenziato circa 50 dipendenti e ne hanno assunti 24. Alcuni di questi nuovi assunti sono amici del solito giro. L'ho detto e lo ribadisco: in questa vicenda tagliare le teste lasciando il corpo non serve a nulla. A che serve mandare via Virga se poi i coadiutori, nominati dallo stesso Virga, restano?”. E continua: “Dietro la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia ci sono interessi enormi. Vi siete chiesti perché la dottoressa Saguto non è stata toccata? Ve lo dico io: perché tiene in pugno personaggi importanti”. Fin qui l'intervista a Pino Maniaci. C'è poi un'altra sceneggiata, che sa di paradosso. Stavolta la limitiamo al massimo. La dottoressa Saguto, poverina, a causa del magro stipendio che le passa lo Stato per il suo lavoro di magistrato, si era ridotta a contrarre un debito con il supermercato - sequestrato alla mafia - dove faceva la spesa per sfamare la famiglia. Ed addirittura secondo un articolo apparso sul Giornale di Sicilia, la poverina non aveva i soldi per pagare la bolletta della luce. Le cronache ci consegnano questo quadro, al netto delle intercettazioni telefoniche che riguardano giudizi del tutto gratuiti sui figli di Paolo Borsellino, il magistrato fatto saltare con la sua scorta in via D'Amelio nel 1992, delle quali ci intratterremo in seguito. Queste cronache ci inducono a sottolinearne alcuni aspetti. Il primo riguarda il sistema gerarchico del Tribunale di Palermo. Se la Sezione Misure di prevenzione procede al sequestro di beni per i quali la stessa ‘macchina’ della Giustizia ha escluso la provenienza mafiosa, non c'è in quel sistema gerarchico qualcuno che faccia presente che quel sequestro è illegittimo? La ragione di questa 'assenza' è dovuta ad un potere occulto, che anche i ciechi e i sordi sanno fare capo alla Massoneria. Infatti, tutti gli uffici del Tribunale, specialmente Civile e in parte del Lavoro, sono largamente infiltrati dal potere massonico. Lo sanno tutti, ma nessuno parla. Nel giro è compresa larga parte dell'avvocatura. La cosa non è nuova, basta ricordare quello che è accaduto al dottor Alberto Di Pisa quando, sull'argomento, si 'permise' di esprimere qualche opinione. Ricordate la vicenda del “corvo”? Da allora non è cambiato nulla. Anzi! Non va trascurato il fatto che molto spesso tra la Massoneria e la mafia è esistita una intesa molto stretta. Infatti, tra sette segrete ci si intende più facilmente e si possono curare affari molto lucrosi se si opera di comune accordo. Intanto quelle aziende, affidate alle 'cure' di amministratori di fiducia vengono distrutte e, talora, riconsegnate ai legittimi proprietari semi fallite e con le maestranze licenziate. Con il bel risultato di avere provocato sia un danno all'economia, sia un contributo in più alla disoccupazione. Il secondo fa riferimento alle perplessità manifestate da Pino Maniaci a proposito di Libera, l'associazione creata dal don Luigi Ciotti per amministrare, attraverso un sistema di cooperative, i beni immobili, specialmente terreni agricoli confiscati alla mafia. Maniaci fa riferimento ai prezzi proibitivi dei prodotti agricoli di queste cooperative e di averne chiesto inutilmente le motivazioni a don Ciotti. E rileva che ormai Libera è una vera e propria holding. A proposito di tale questione va ricordato che le cooperative agricole, promosse da Libera, che gestiscono i terreni agricoli confiscati alla mafia sono finanziate con le risorse finanziarie europei dei PON, cioè dei Piani Operativi Nazionali, sezione fondi strutturali europei per la sicurezza. In definitiva quelle cooperative hanno i costi di gestione coperti dai fondi europei e, spesso, utilizzano locali di vendita dei loro prodotti anch'essi confiscati alla mafia. Non solo. Per l'uso dei terreni agricoli non pagano nulla, ancorché in affidamento. Il capitale investito dai loro soci è di entità simbolica. In sostanza, gestiscono soltanto utili. In presenza di queste condizioni irripetibili in nessuna parte del mondo, non si capisce la ragione economica del perché i loro prodotti abbiano questi prezzi proibitivi destinati al consumatore di reddito medio alto. A chi vanno questi ragguardevoli profitti? Un’indagine su costi, ricavi e investimenti delle cooperative di Libera non sarebbe del tutto fuori luogo. Il terzo riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Secondo quanto riferito dalla dottoressa Silvana Saguto, l'organo di autogoverno dei magistrati ha invitato tutti coloro che sono implicati nelle vergognose vicende ricordate in precedenza a chiedere il trasferimento. Questo è un punto delicato per la credibilità della Magistratura che rischia di farla apparire una corporazione al di sopra e al di fuori della legge che vale per tutti gli altri cittadini italiani. La questione, invece, è molto semplice: la dottoressa Saguto, nell'ambito dei suoi compiti d'istituto, ha compiuto quegli atti che le vengono addebitati? Allora: se quegli atti si configurano non conformi alla deontologia professionale o, addirittura, come reati, la dottoressa Saguto e i suoi complici vanno licenziati in tronco alla stregua di qualsiasi altro lavoratore che non svolga i compiti che gli sono assegnati con la dovuta correttezza. In questo caso nella condizione del licenziamento dovrebbe figurare pure il divieto perenne ad entrare in un'aula di qualsiasi Tribunale italiano, neanche come avvocato. Il congresso del sindacato italiano dei magistrati, ove volesse darsi un minimo di dignità, dovrebbe discutere di deontologia e di valori etici nell'esercizio della professione per dare più forza e credibilità alla funzione del magistrato. *Riccardo Gueci è un dirigente pubblico in pensione. Cresciuto nel vecchio Pci, non ha mai dimenticato la lezione di Enrico Berlinguer. Per lui la politica non può essere vista al di fuori della morale (Berlinguer, grande leader del Pci, a proposito della gestione del potere in Italia, parlava infatti di "Questione morale"). Per noi Gueci commenta i fatti legati alla politica estera e all'economia. Oggi affronta il tema delle polemiche che stanno accompagnando la gestione della Sezione per le misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Tema che affronta da una particolare angolazione: quella economica, per l'appunto. Sottolineando il ruolo che nell'economia siciliana - spesso in modo occulto - viene svolto dalla Massoneria.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO
Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?
Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.
Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.
Perché Bruxelles?
Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.
Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.
Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.
Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”
Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.
Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato, mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?”
Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni, perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.
Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.
Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.
Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato. Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.
Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.
Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome. A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».
Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ida Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque
immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato
era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione
che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di
potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando
l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali
che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che
l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le
eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e
sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo,
scrive Antonio Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale
che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno
approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al
momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema
c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni,
sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la
legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del
Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale
che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento
da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito
della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in
un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente
della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che
ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i
principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un c.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto
che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo
politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né
Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni
d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella
filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e
Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come
Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro
quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la
versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo
ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica,
come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà
vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».
Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!
«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.
Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".
La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà la tratterà bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà anche gente che le vorrà bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?
Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.
«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.
Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".
A Radio Capital dichiara (14 luglio):
"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".
Ok, e le dimissioni?
"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".
All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):
"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".
Era un "intervento politico più articolato":
"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".
E non accusatelo di razzismo:
"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".
Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.
"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:
"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.
A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":
"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".
Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":
"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".
Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?
"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?
"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".
Si sente abbandonata anche dal Pd?
"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".
A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.
L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.
Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.
Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.
LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.
E' possibile avere un po' meno corruzione? Si Chiede Bruno Manfellotto su "L'Espresso". Non bastano leggi più severe o l’Autorità di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno. È luogo comune o verità che l'Italia sia il paese più corrotto d'Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l'Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa', è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c'è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete "l'Espresso" lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po' come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al "Corriere della Sera", quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c'è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale. Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent'anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi. Tra le tante cause del decadimento c'è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l'idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un'area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L'idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile. E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l'approvazione della legge Severino, con l'istituzione di un'autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell'impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c'è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c'è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.
Ecco la mappa della corruzione disegnata dagli studenti. Il progetto coinvolge mille ragazzi: per mesi hanno raccolto dati e testimonianze sulla corruzione in Lazio, Campania e Lombardia. Produrranno un "Atlante" che la fotografa nei loro quartieri, scrive Manuel Massimo su “La Repubblica”. Da discenti a docenti: gli studenti del progetto per la legalità "Piccolo Atlante della corruzione", dopo aver indagato il fenomeno sul campo e raccolto in forma anonima le testimonianze dei soggetti a rischio, si stanno preparando alla lezione conclusiva di fine maggio che li vedrà protagonisti. Saranno proprio loro a salire in cattedra per "insegnare" quello che hanno imparato dai tutor e agli esperti che li hanno seguiti nel corso del laboratorio - ideato e promosso da Beatrice Ravaglioli del circolo "Libertà e Giustizia" di Roma, finanziato dal Miur, sostenuto attivamente dall'Autorità nazionale anticorruzione, dall'Associazione nazionale magistrati e in collaborazione con l'Università di Pisa e con Repubblica.it. I materiali prodotti dalle 15 scuole aderenti al progetto confluiranno nel "Piccolo Atlante della corruzione": una pubblicazione scaricabile gratuitamente online che potrà essere utilizzata anche dagli addetti ai lavori che ogni giorno combattono per la legalità. Questa seconda edizione del progetto (2015) - partito lo scorso anno in via sperimentale solo a Roma e nel Lazio e allargato quest'anno anche alla Campania e alla Lombardia - ha visto la partecipazione di oltre mille ragazzi, studenti delle scuole superiori, che hanno mappato la percezione del fenomeno "corruzione" nei territori accanto ai loro istituti grazie a questionari (somministrati anonimamente a una varietà di soggetti potenzialmente interessati dal problema, ndr) messi a punto seguendo le indicazioni del professor Alberto Vannucci, politologo e direttore del Master anticorruzione presso l'Università di Pisa. Non si è trattato di un modello di didattica calata dall'alto, ma piuttosto di un processo attivo di raccolta ed elaborazione dei dati, come spiega Vannucci: "Nelle fasi iniziali noi docenti ed esperti abbiamo fornito ai ragazzi gli strumenti d'indagine: poi sono stati loro a elaborare da soli il questionario mappando i settori più a rischio e diventando protagonisti". Dopo aver ascoltato dal vivo le testimonianze di giornalisti sotto scorta come Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria per Repubblica, gli studenti hanno intrapreso un percorso di studio sul campo, indagando nei meandri del sommerso e diventando giovani "sentinelle della legalità" anche in contesti difficili dove la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa sentire. Ogni scuola ha elaborato autonomamente un questionario specifico, partendo da una base comune ma modellandolo sulle peculiarità del proprio territorio. Un'operazione che fornirà una mappa diversificata e territoriale della corruzione, partendo anche da casi concreti. L'elemento della comparazione è fondamentale in questo tipo di studi, ne è convinto il professor Vannucci che auspica un ulteriore allargamento del progetto: "Dopo l'esperienza-pilota dello scorso anno e questa seconda edizione che ha coinvolto anche altre due Regioni, da studioso del fenomeno spero che il progetto possa crescere ancora. I ragazzi coinvolti hanno sviluppato gli anticorpi per la legalità e maturato una fiducia critica nelle Istituzioni, perché troppo spesso la sfiducia radicale nasce dall'ignoranza ed è lì che bisogna andare a stimolare la presa di coscienza su determinati temi". Il "Piccolo Atlante della corruzione" sarà composto da 15 parti - una per ciascuna delle scuole coinvolte nel progetto itinerante per la legalità - e scatterà un'istantanea del fenomeno che potrà essere utilizzata come base di ulteriori indagini e approfondimenti della magistratura. Uno strumento utile, soprattutto oggi che la corruzione si è "smolecolarizzata" e troppo spesso riesce a passare inosservata, come sottolinea Vannucci con tre aggettivi: "Sotterranea, invisibile, impercettibile". Portare a galla il sommerso rappresenta dunque il primo passo per guardare dritto negli occhi il problema, prenderne coscienza e impegnarsi in prima persona per cercare di risolverlo. I tre incontri finali - uno in Lombardia, uno nel Lazio e uno in Campania - si stanno avvicinando e gli studenti sono pronti a salire in cattedra: l'appuntamento di Napoli è fissato per mercoledì 20 maggio a partire dalle ore 10 presso l'Istituto di Istruzione Superiore "Sannino-Petriccione"; già calendarizzato anche l'incontro di Roma, che si terrà la mattina di venerdì 29 maggio nell'aula magna dell'Università Sapienza, alla presenza tra gli altri del presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e con la partecipazione dell'attore Elio Germano. I ragazzi, sentinelle di legalità, hanno studiato la corruzione nelle strade che percorrono tutti i giorni per andare a scuola e ora sono pronti a salire in cattedra per parlarne in pubblico: un piccolo passo individuale per ciascuno, ma un grande esempio collettivo per tutti nella lotta alla corruzione.
Corruzione? Tutto il mondo è paese, scrive Alessandro Bertirotti su “Il Giornale”. È tutta questione di… disonestà. Abbiamo letto in molte classifiche che la nostra meravigliosa nazione è fra gli ultimi posti rispetto alla capacità di combattere la corruzione, e dunque ai primi per il numero di casi in cui tale reato è presente. E questo, ovviamente, assieme a molte altre cose non positive rappresenta per noi tutti un disonore, specialmente quando i rappresentanti di questo reato sono persone che vengono definite “onorevoli”. Scritto questo, è interessante sapere che anche nel mondo islamico esiste un divieto a procurare corruzione, come ad accettare di essere corrotti, e lo si legge nella seconda Sura. I corrotti sono coloro che non rispettano le leggi che Allah ha fornito agli uomini per vivere in pace fra loro; sono coloro che al posto di conciliare spargono divisioni e male per il prossimo; coloro che rubano, non sono leali e sfruttano la fiducia degli altri per il proprio personale tornaconto. Insomma, anche per il Corano questo comportamento viene profondamente sanzionato ed è considerato un vero e proprio oltraggio ad Allah, il quale giungerà a vendicarsi con questi suoi figli fedifraghi. Ebbene, qualche giorno fa, ho incontrato una persona che mi raccontava di essersi recato a Roma in una ambasciata di un Paese arabo, imbattendosi in un funzionario che per un documento ha rilasciato una ricevuta di Euro 25,00, chiedendone però 50,00. La motivazione è stata che, avendo la richiesta le caratteristiche dell’urgenza, vi era il costo aggiuntivo di 25,00 euro, fuori ricevuta, ovviamente. Bere oppure affogare, proprio come accade da noi quando andiamo da un professionista che non ci rilascia la ricevuta con il giusto prezzo pagato. Ho l’impressione che le classifiche che vengono stilate su questo tipo di comportamento umano, non tengano conto di quanto il concetto di corruzione sia diventato pervasivo, anche all’interno di quei paesi che ci sembrano tanto diversi da noi. E sono anche convinto che tale situazione sia rinvenibile in altri paesi, ad esempio in quelli del Nord Europa, perché la questione non è legata solo alla morale religiosa, ma anche a quello che ogni individuo pensa di se stesso. In sostanza, non lamentiamoci dei nostri ladri perché i ladri abitano l’intero mondo e non dipende dalla religione professata se una persona si comporta male con il mondo intero, quanto dall’asservimento che la mente umana, di qualsiasi cultura essa appartenga, accorda al dio denaro. È il dio denaro che governa come un Principe questo mondo, e servirlo significa dedicare molti atti della propria vita a comportamenti come questi, dimenticando che il libero arbitrio lo possiamo esercitare in tutte le cose della vita quotidiana, anche nelle più piccole.
LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.
Ecco come i politici manipolano i numeri. Da Berlusconi a Renzi, 20 anni di bugie. Dal milione di posti di lavoro al bonus di 80 euro, passando per tesoretti che appaiono e scompaiono e stime (come quelle Istat) su contratti e disoccupazione: sondaggi, tabelle e statistiche hanno invaso media e tv, e sono usate dai politici come strumento di propaganda. Così anche la matematica è diventata un'opinione, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Quando dà i numeri, Matteo Renzi sembra ispirarsi alla leggendaria lezione di economia di “The Wolf of Wall Street”. «Regola numero uno: nessuno (ok, se sei Warren Buffett allora forse sì), nessuno sa se la Borsa va su, va giù, di lato o in circolo», ragiona il broker Matthew McConaughey mentre spiega strafatto di coca a Leonardo DiCaprio come fare soldi e fregare i clienti. I dati e le cifre? «Sono tutto un “fughesi”, un “fugasi”, cioè falso, volante... polvere di stelle, non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi, non è reale cazzo!». Ecco. A vedere le statistiche snocciolate dal premier e dai suoi ministri nelle ultime settimane, sembra che in Italia, come nel film di Martin Scorsese, la matematica sia diventata un’opinione, un luogo dove 2 più 2 può fare anche 5, 7 o 39, a secondo delle esigenze e degli esegeti del numero. Così, se un tesoretto da «1,6 miliardi» può apparire improvvisamente in un bel giorno di primavera e scomparire 48 ore dopo, per rinascere ancora (accresciuto o sgonfiato, a seconda dell’economista che ne scrive) in qualche dichiarazione al tg, e se le previsioni di crescita del Pil piazzate nel Documento di programmazione economica sembrano scientifiche quanto una partita a dadi, i dati sugli effetti del nuovo Jobs Act sono metafora perfetta dell’affidabilità delle tabelle che dominano il dibattito pubblico. Già: sia a fine marzo che a fine aprile il ministro Giuliano Poletti ha annunciato il miracolo, spiegando che la nuova legge aveva creato 79 e 92 mila contratti in più. Dopo una settimana l’Istat ha però certificato che il tasso di disoccupazione, proprio a marzo, ha raggiunto il suo massimo storico, toccando il 13 per cento. «I numeri non sono confrontabili», hanno spiegato fuori di sé da Palazzo Chigi. Oggi l'Istituto ha rilasciato un'altra sfilza di dati, stavolta trimestrali, che evidenzierebbero un boom (grazie al taglio delle tasse per chi assume) di contratti a tempo indeterminato. Insomma, ce più o meno lavoro di prima? Nemmeno i chiromanti e gli economisti più quotati finora ci hanno ancora capito nulla. Dal milione di posti di lavoro promessi da Silvio Berlusconi nel 1994 fino agli 80 euro del bonus Renzi, passando per l’ossessione europea del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, sono più di vent’anni che la dittatura dei numeri condiziona le elezioni, il confronto politico e, conseguentemente, l’evoluzione della società. La passione per le tabelle è diventata una moda e poi una malattia, un diluvio di cifre ci piove in testa tutti i santi giorni. «È vero. Il boom delle cifre è un fenomeno evidente, tangibile, ed è contestuale alla fine delle ideologie», spiega Ilvo Diamanti, ordinario all’università di Urbino che con dati e sondaggi ci lavora da sempre. «Durante la Prima Repubblica politica e partiti erano fondati su certezze granitiche, ma la fine della contrapposizione tra democristiani e comunisti, sommata al declino della fede religiosa, ha cambiato tutto. Le statistiche rappresentano una risposta alla crisi dei valori tradizionali, hanno riempito un vuoto, e sono diventate un totem». Scomparsi i fondamenti culturali e le visioni etico-morali su cui si disegnavano gran parte delle misure politiche e delle strategie sociali, dunque, la matematica e la statistica sono diventate il filtro più usato per rappresentare e analizzare la realtà. I politici, ovviamente, ci sguazzano dappertutto, ma sotto le Alpi lo fanno con accanimento e modalità che altrove non hanno attecchito: non è un caso che nel “Grande dizionario della lingua italiana” la locuzione «dare i numeri» vuol dire anche «apparire insincero, suscitare il sospetto di tramare un inganno, di agire con doppiezza, con fini reconditi». Di sicuro i numeri sono diventati un corredo indispensabile a ogni strategia comunicativa. Ma, oltre a dare sostegno alle chiacchiere e una parvenza di concretezza alle parole, in Italia vengono usati soprattutto per impressionare, suggestionare, muovere passioni, speranze e paure. Se nel contratto con gli italiani Berlusconi prometteva «l’innalzamento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese» e «la riduzione delle imposte al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui», nel 2013 Bersani spiegò di voler restituire alle imprese «50 miliardi in 5 anni» in modo da diminuire i debiti della pubblica amministrazione. Il cavallo di battaglia di Beppe Grillo è, da sempre, il reddito minimo di cittadinanza «da mille euro al mese», mentre Matteo Salvini afferma, da giorni, che «un milione di immigrati è pronto a salpare dalla Libia per le nostre coste». Secondo il linguista Michele Porcaro, dell’università di Zurigo, c’è anche una strategia precisa nel dare i numeri, a seconda di cosa si vuole comunicare: la cifra tonda (un milione, un miliardo) «è in funzione di aggressione verbale», scrive l’esperto, «serve non a essere credibili, ma a suggestionare. Se si vuole suonare affidabili, invece, si usa la cifra esatta». In quest’ultimo caso, però, l’eccesso di pignoleria può causare effetti comici, come quando Berlusconi annunciò che durante il suo mandato a Palazzo Chigi «gli sbarchi di clandestini si sono ridotti del 247 per cento». Fosse stato vero, sarebbe addirittura un saldo negativo, sotto zero. Già nel 1954 Darrell Huff nel best seller “Mentire con le statistiche” spiegava che i politici hanno una tendenza innata alla manipolazione della matematica. Che in sé è oggettiva e non opinabile, ma la sua interpretazione è assai discutibile. Prendiamo il tasso di disoccupazione: un dato che dovrebbe essere obiettivo e invece dipende da decine di parametri: hai risultati diversi se consideri o meno gli scolarizzati, l’ampiezza della popolazione che misuri, puoi decidere se dare il tasso annuale, mensile, tendenziale. «Alla fine il politico sceglie quello che gli conviene maggiormente. L’ambizione primaria dei partiti non è quella di riformare il Paese, ma costruire consenso», spiega ancora Diamanti. «E i numeri sono invece facili da strumentalizzare. Io per primo, quando faccio sondaggi elettorali, so che il mio lavoro può essere usato come mezzo di condizionamento delle masse. Bisogna, proprio per questo, che gli studi siano autorevoli, e che i media sappiano discernere tra fatti e fattoidi». La propaganda non è l’unico modo in cui i politici e gli opinionisti stuprano le cifre. Altra caratteristica nazionale è quella di commentare fenomeni che non si conoscono a fondo, e imbastire analisi con numeri orecchiati al volo. «Nessuno studia, nessuno sa nulla, e così gli errori non si contano più. Anche perché ministri e deputati hanno mutuato dalla Borsa, sempre affamata di previsioni, una tendenza a pubblicare dati provvisori, che dopo poco tempo possono subire enormi revisioni», ragiona Giacomo Vaciago, economista all’Università Cattolica di Milano. «Questo avviene soprattutto in Italia, dove i politici hanno ormai una veduta non corta, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, ma cortissima: se esce un dato sull’occupazione o sul Pil, un sondaggio o uno studio dell’ultima associazione dei consumatori, il politico vuole subito commentarlo, in modo da comparire sui telegiornali delle 20, sui siti, sulla stampa e nei talk show. Pazienza se il dato è solo una stima che può cambiare dopo qualche giorno: mal che vada si fa sempre in tempo a tornare in tv e ricommentarlo, dicendo il contrario di quanto affermato prima. È tutta fuffa, una bolla, numerologia irrazionale. La cosa incredibile è che tutti noi ci viviamo in mezzo, a questa panna montata, come fossero sabbie mobili». Così non deve stupire che esperti vari, economisti, e persino i cervelloni di Bankitalia abbiano prodotto decine di interventi per spiegare come spendere al meglio il tesoretto da 1,6 miliardi di euro che dopo un po’ si è ridotto della metà, e che oggi rischia di scomparire mangiato da un nuovo buco miliardario causato dalla sentenza della Consulta che ha bocciato come incostituzionale quella parte della riforma Fornero sul blocco delle pensioni (anche qui si è passati da 5 a 13 miliardi di euro in due giorni appena). Un provvedimento che angosciò anche i cosiddetti esodati, lavoratori finiti in un limbo tra lavoro e pensione. Per mesi non si capì quanti fossero davvero: se il governo Monti li quantificò in 65 mila persone, l’Inps parlò inizialmente di 130 mila casi, lievitati in una seconda relazione tecnica a 390 mila, mentre il sindacato ne contò 300 mila. Nemmeno fossimo alla tombola di Natale. Se fin dalle scuole elementari i numeri danno ai futuri contribuenti un’illusoria garanzia di precisione, oggi gli italiani non riescono a sapere con certezza nemmeno quante tasse pagano: se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che il 2014 s’è chiuso con una riduzione della pressione fiscale, l’Istat - classificando il bonus da 80 euro come spesa sociale e non come riduzione del peso fiscale - ha fotografato invece un nuovo picco, arrivato al 43,5 per cento del Pil. Anche i numeri ballerini sulla spending review hanno intasato per mesi tv e giornali: se l’ex commissario Carlo Cottarelli parlò di tagli «per 8-14 miliardi», il governo Renzi ha recentemente ipotizzato «tagli per 10 miliardi». Alla fine, visto che gran parte degli impegni è rimasta solo su carta, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Almeno così sostiene la Ragioneria dello Stato. Se le cifre hanno sostituito le ideologie, coloro che le maneggiano sono diventati i nuovi guru, i sacerdoti della modernità. «E i numeri», aggiunge Diamanti, «sono il nuovo dio: peccato che, per definizione, siano molto meno obiettivi e infallibili di quanto si creda». La voglia incontenibile di tabelle e grafici ha fatto esplodere la domanda di cifre e sondaggi già da qualche lustro, ma oggi, nell’era dei Big Data, la tendenza è ancora più evidente. La società chiede ai numeri le risposte alle domande che pone: decisioni aziendali, personali, politiche vengono prese innanzitutto su dati statistici. I numeri fanno ascolto, piacciono alla gente, e non è un caso che economisti ed esperti, veri o presunti, siano diventati star assolute della tv e del web: sondaggisti come Renato Mannheimer, Nicola Piepoli e Nando Pagnoncelli sono ospiti fissi nei talk, ascoltati e riveriti da politici e giornalisti come fossero la Sibilla Cumana (e pazienza se a ogni elezione le loro previsioni si dimostrano distanti dalla realtà); economisti come Tito Boeri hanno fondato siti di successo come lavoce.info e hanno fatto carriere importanti (Renzi l’ha nominato presidente dell’Inps, mentre cinque suoi redattori sono in aspettativa dopo aver ottenuto incarichi politici); piccole associazioni di artigiani, come la Cgia di Mestre, hanno pure creato un inedito business delle tabelle, grazie a un ufficio studi che macina centinaia di analisi e classifiche l’anno, riprese quotidianamente da agenzie di stampa e giornali. «Per fortuna non ho beccato neppure una smentita», disse il segretario Giuseppe Bortolussi in un’intervista a “Panorama”, dimenticando però le critiche arrivate da Asl, assessori comunali, Regioni ed economisti assortiti. «Questa associazione ha una buona notorietà, ma a volte dà i numeri», notò pure Marco Ponti, ordinario di Economia a Milano. «Non che i numeri che dà siano tecnicamente sbagliati, ma confonde tra di loro dati che non c’entrano affatto». Bortolussi, per la cronaca, ha ottenuto un ritorno d’immagine straordinario, e nel 2010 è stato anche candidato del Pd in Veneto alle regionali contro Luca Zaia. Il doping informativo ha travolto tutto, e non c’è fenomeno che non venga misurato e quantificato. Dal presunto boom dei suicidi degli imprenditori (bufala di cui i media si sono occupati per mesi) all’«inflazione percepita» in voga dopo il passaggio dalla lira all’euro, non c’è organismo o consorteria che non abbia un suo centro studi che macina dati e fornisce tabelle facendo concorrenza a Istat, Ocse e Eurostat: dai sindacati alla Confcommercio, da Confindustria al Codacons di Carlo Rienzi, dalle banche al Censis, il delirio di cifre su Pil, fatturati industriali, tasse, stime per la ripresa e crisi dei consumi non lascia tregua a nessuno, ventiquattro ore su ventiquattro. Vittima predestinata dell’overdose è ovviamente l’opinione pubblica, intontita da dati che alla lunga perdono di senso e di valore, in uno tsunami di matematica che, se da un lato allontana dalla verità, dall’altro distanzia le masse dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Perché in tanti, ormai, cominciano a comprendere l’aforisma dell’ex primo ministro inglese Benjamin Disraeli: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche».
Così sono aumentate le tasse sul lavoro. Ecco chi paga di più. E dove conviene emigrare. La pressione fiscale nel nostro Paese non vuole saperne di ridursi e ha raggiunto ormai una cifra record. Ma non tutte le categorie dei lavoratori sono vessate allo stesso modo. E il confronto con alcuni paesi europei è impietoso, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. La teoria è semplice - quasi banale: lo stato esiste per servire i propri cittadini. A volte invece succede il contrario, soprattutto nei momenti di difficoltà. Dall'inizio della crisi economica il conto è diventato sempre più salato, e a pagarlo sono state le tasse dei cittadini: anche quelle sul lavoro. I dati Ocse mostrano che rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi economica, tasse sul lavoro e contributi sono aumentate per quasi tutti i tipi di famiglie - per alcune molto più di altre. Prendiamo una famiglia con un solo coniuge che lavora e guadagna uno stipendio nella media - intorno ai 30mila euro lordi l'anno. Per loro, due figli e spina dorsale della classe media italiana, in sette anni il cuneo fiscale è passato dal 35,7 percento al 39 percento. Non ci vuole molto neppure per essere considerati ricchi: il secondo incremento più consistente è per i single senza figli con un reddito lordo sui 50mila euro - per un guadagno di circa 2.500 euro netti al mese -, che fra tasse e contributi passano al 53,8 percento contro il 51,4 percento del 2007. Aumentano le pretese dello stato anche verso i lavoratori single senza figli, nonché per le coppie in cui un coniuge ha reddito medio e l'altro invece molto basso, sui 10mila euro. Unica eccezione, i single con un reddito medio-basso, per i quali invece il cuneo fiscale è diminuito - anche se di poco. Eppure tassare il lavoro ha due effetti collaterali. Il primo - più evidente - è che sottrae reddito alle persone, così che ogni mese hanno meno da spendere o risparmiare. Il secondo è più sottile ma non meno importante: tanto più un datore di lavoro si trova costretto a pagare contributi elevati, tanto più sarà difficile mantenere i dipendenti che ci sono già - per non parlare di assumerne nuovi. È una cosa che può succedere a chiunque. Poniamo di aver bisogno di una persona che si occupi delle pulizie, qualcuno che badi a un anziano in famiglia. Se aumentano le tasse sul lavoro non ci sono molte alternative: o troviamo qualcuno che si accontenta di guadagnare poco - magari meno bravo -, oppure è necessario dargli uno stipendio più alto per compensare. E se salgono i contributi il risultato non cambia. Ma noi non siamo ricchi, né possiamo spendere troppo, soprattutto in tempi incerti come questi. Forse abbiamo soltanto qualcuno che dia una mano ogni tanto, senza troppe pretese. Così, invece di prendere qualcuno, lasciamo perdere e facciamo noi uno sforzo in più. Risultato: meno lavoro. L'esatto contrario di quanto sarebbe necessario mentre la disoccupazione cresce. Se invece confrontiamo l'Italia con altre nazioni europee la troviamo nel gruppo di quelle che il lavoro lo tassano di più. Allora forse non è un caso che tanti italiani decidano di trasferirsi a Londra, visto proprio in Gran Bretagna per un single senza figli e con un reddito medio-basso - una situazione comune per tanti giovani espatriati - tasse e contributi incidono per il 26 percento. Nella stessa identica situazione, per una persona nel nostro paese ammontano invece al 42 percento: un differenza che vale diverse migliaia di euro - ogni anno. Non sono l'unico gruppo: in generale nel Regno Unito il cuneo fiscale è più ridotto per tutti i tipi di famiglie e risulta generoso soprattutto verso i single con due figli a basso reddito, per i quali non arriva neppure al 6 percento. Anche in Spagna le famiglie sono meno pressate dalle tasse. Qui però la differenza maggiore con il nostro paese riguarda le coppie con figli e reddito medio basso, che sono più tutelate. Ma poiché in Europa il paese iberico è il più simile all'Italia - sotto tutti i punti di vista - sorprende trovare un sistema fiscale tanto diverso dal nostro. Francia e Germania, d'altra parte, hanno livelli di tassazione sul lavoro pressappoco equivalenti all'Italia. Non identici, però: se Londra sembra essere un rifugio per i giovani lavoratori, Parigi va in senso opposto - lì il cuneo fiscale per quel tipo di persone è persino più elevato che in Italia. La Germania è un caso a parte, e riesce ad avere allo stesso tempo tasse elevate e un livello di disoccupazione molto basso, anche per i giovani. Certo tasse e contributi sul lavoro sono una parte importante dei balzelli che cittadini e datori di lavoro devono versare allo stato, ma certo non gli unici. In realtà il loro aumento, negli ultimi anni, è andato di pari passo con una crescita generalizzata della pressione fiscale. Mentre la crisi imperversava già da tempo, Berlusconi rassicurava il paese. “I ristoranti sono pieni”, diceva ancora nel 2011, evitando di prendere misure - anche minime - per attenuare la gravità degli eventi. Così la situazione è diventata ancora più grave. Dopo di lui il governo tecnico di Monti, la cui manovra economica ha pesato di più proprio dal lato delle imposte: in questo modo l'Italia arriva ad avere una pressione fiscale pari al 43,5 percento del prodotto interno lordo. Ogni dieci euro prodotti dai 60 milioni di abitanti della penisola, quattro e 35 centesimi si trasformano in tasse dovute allo stato. È un livello mai raggiunto prima durante la Seconda Repubblica. Il governo guidato da Enrico Letta, più avanti, non modifica questo rapporto in maniera sostanziale. Né le cose cambiano con Renzi e il suo bonus di 80 euro, che secondo le convenzioni statistiche internazionali vale come ulteriore spesa pubblica - anch'essa a livelli record. Così si torna al punto di partenza mentre l'economia resta ferma, e con lei il reddito degli italiani - soprattutto di chi ha meno.
Cervelli in fuga, un problema non solo italiano. Ecco chi sono e dove vanno i nostri emigranti. Il nostro paese continua a "esportare" laureati, ma ha difficoltà ad attrarne. Scopri con le nostre infografiche interattive quali sono le mete principali e dove preferiscono andare quelli con la tua età e titolo di studio, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Di italiani in giro per il mondo ce ne sono sempre di più, e su questo non c'è dubbio. Ma chi sono, e dove vanno esattamente? Secondo le stime prodotte dall'Ocse e aggiornate al 2010, con 450mila migranti gli Stati Uniti sono risultati come prima meta degli espatriati italiani. Seguono Francia (350mila), Germania (340mila), Canada (260mila), Svizzera e Australia (entrambe 185mila). Il flusso verso il Regno Unito si ferma a 140mila persone, mentre quello diretto in Spagna a 80mila. Altri gruppi più piccoli sono andati a cercare fortuna in Polonia, Irlanda o persino in Grecia, meno ancora nell'esotico Giappone. Anche i dati Istat, aggiornati fino al 2013, mostrano che negli ultimi anni i flussi di italiani che vanno via sono in aumento. Dal 2010 le cose non sembrano essere cambiate troppo e le destinazioni preferite restano, nell'ordine, Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia e Stati Uniti. Se però andiamo a guardare più in dettaglio, emergono preferenze molto specifiche a seconda dell'età, del sesso e del proprio titolo di studio. Per esempio paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna sono le mete preferiti dei giovani laureati, soprattutto maschi. Chi ha un'istruzione inferiore tende invece a dirigersi spesso verso Germania, Spagna e Svizzera. Discorso diverso per la Francia, più in alto fra le destinazioni delle giovani donne laureate. Anche Australia e (soprattutto) Canada risaltano per ospitare un nutrito gruppo di italiani. Di questi buona parte è composta da anziani a bassa scolarizzazione: due mete molto diffuse per le migrazioni del dopoguerra, e che però ora sembrano attrarre meno chi decide di andare via. Quando si parla di emigrazione proprio i laureati sono una delle categorie cui prestare più attenzione. Una maggiore cultura è in sé un valore aggiunto, impossibile negarlo, e poi c'è un elemento in più. Tracciarne le migrazioni è un utile indizio per capire quali sono i paesi più dinamici, aperti al cambiamento e alle nuove idee: da dovunque esse vengano. Il discorso vale anche al contrario, per stabilire i luoghi più ambiti da parte di chi lascia il proprio paese natale. Qual è allora la situazione in Italia? Sono pochi, pochissimi gli arrivi di laureati. E in effetti proprio l'Ocse, in uno studio preliminare , conferma che in quanto a capacità di attirare talenti l'Italia fa peggio di tutti gli altri paesi con cui, in teoria, vorrebbe confrontarsi. Senza neppure voler citare Regno Unito e Stati Uniti, dove rispettivamente il 46 e il 30 per cento dei migranti sono laureati, anche il 24 per cento della Spagna sembra un miraggio e all'Italia tocca invece fermarsi appena sopra il 10 per cento. Da notare anche Francia (24 per cento) e Germania (20 per cento), che in questo gioco riescono meno bene di quanto ci si potrebbe aspettare. Un altro modo di guardarla è contare quanti sono i laureati che arrivano rispetto a quelli che vanno via – il loro “ricambio”, se così lo vogliamo chiamare. Qui gli Stati Uniti restano la calamita globale: nessuno vuole andare via, mentre molti altri arrivano. Anche l'Australia, seconda in classifica e che pure non se la cava male, resta comunque molto più indietro, mentre altre mete attraenti per i laureati sono Israele, il Canada e la Spagna. E l'Italia? Il bilancio è appena positivo, e comunque molto inferiore a Francia, Germania e Regno Unito. Altrove però va peggio e si verifica una perdita complessiva di laureati: in Irlanda e Giappone, per esempio, oppure in Finlandia o Islanda dove per ogni due titolati che hanno lasciato il paese ne è arrivato solo uno a sostituirli. Attirare cervelli è come cercare di riempire una piscina: conta l'acqua nuova che arriva dall'esterno, attraverso i rubinetti, ma anche quella che scappa via dalle crepe. Per l'Italia il problema non sembra essere tanto il liquido che sfugge: le analisi Ocse mostrano che il tasso di emigrazione dei laureati nel 2010 era dell'8,4 per cento, più elevato di quello spagnolo (2,5 per cento) o francese (5,7 per cento), ma molto inferiore a quello inglese (10,5 per cento) e in linea con la Germania (8,8 per cento). Pare piuttosto che qualcuno ci abbia tagliato le forniture perché venire a nuotare, alla fine, non interessava a nessuno.
Nota: i dati sono stime che fanno riferimento all'immigrazione nei paesi Ocse fino al 2010. In alcuni casi le statistiche escludono coloro di cui non è stato possibile rilevare età, paese di provenienza o titolo di studio. È del tutto probabile, dunque, che i valori reali siano leggermente più elevati.
"Schiavi" italiani in Australia? Sì, ma legali. E invece di indignarci dovremmo imitarli. Un'inchiesta tv ha denunciato casi di schiavismo nelle campagne dell'isola oceanica. Gli sfruttati sono però solo una piccola parte del totale e il sistema di Canberra offre ai migranti molte più garanzie del nostro, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. «L'odissea dei giovani schiavi italiani. Undici ore a notte, a raccogliere cipolle». L'articolo pubblicato dal “Corriere della Sera” racconta il risultato di un'inchiesta giornalistica condotta dalla popolare trasmissione televisiva australiana “Four Corners”. Un programma che ha squarciato il velo, nella terra dei canguri, sulle migliaia di giovani europei che finiscono a lavorare gratis nelle fattorie. Tutto vero. Per gli australiani meno informati è stato sicuramente uno shock scoprire che nel loro Paese ci sono persone praticamente schiavizzate, raccoglitori di quei prodotti che finiscono poi nei supermercati di Sydney, Melbourne, Brisbane, Darwin e delle altre cittadine sparse per l'immensa isola dell'Oceania. Ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono. Ovvero: per tanti che hanno denunciato condizioni di sfruttamento, ce ne sono almeno altrettanti contenti dei loro tre mesi di vita agreste. Perché, a differenza di quanto succede in Italia con gli extracomunitari, di fatto costretti all'illegalità oltre che talvolta schiavizzati, in Australia i tre mesi di lavoro in campagna danno diritto a un regolare permesso di soggiorno. L'inchiesta in questione si è concentrata sul visto vacanza-lavoro, il “working holiday visa” . Rilasciato solo a cittadini di alcune nazioni industrializzate, con età compresa tra i 18 e i 31 anni, costa poche centinaia di euro e permette di stare in Australia per un anno lavorando a tempo pieno, estendendo la permanenza di un altro anno se il migrante è disposto a svolgere per tre mesi alcune mansioni come l'agricoltore o l'allevatore. Si può decidere di farlo percependo uno stipendio (le paghe variano dai 10 ai 25 dollari australiani all'ora), oppure prestare la propria opera gratuitamente, in cambio di vitto e alloggio. Nel 2014, scrive il “Corriere” della Sera citando i dati del dipartimento per l'Immigrazione australiana, nel Paese c'erano più di 145 mila giovani con questo tipo di visto, oltre 11 mila dei quali italiani. I casi di sfruttamento sono stati ben documentati dalla tv australiana. E pure il "Corriere" ha dato conto di alcuni esempi, come quello di due ragazze che, impiegate in un'azienda agricola, raccoglievano cipolle rosse «dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo». Il fatto è che quelli evidenziati da “Four Corners” sono solo i casi sfortunati. Chi scrive ha potuto sperimentare in prima persona il working holiday visa australiano. E può assicurare che molti europei, fra cui parecchi italiani, non hanno subìto alcun tipo di sfruttamento. Certo, con questo sistema le aziende locali beneficiano della manodopera straniera a basso costo, ma c'è un altro lato della medaglia da considerare. Grazie a questa politica migratoria, gli italiani e i tanti altri cittadini stranieri che vogliono emigrare in Australia possono farlo legalmente. Fanno la richiesta di visto online, vanno a lavorare per tre mesi in campagna, pagati oppure solo compensati con il vitto e l'alloggio, e in questo modo si guadagnano la possibilità di restare nel Paese per un secondo anno (in realtà, come ricorda il “Corriere”, il governo di Canberra ha recentemente deciso di concedere l'estensione del visto solo a chi viene pagato per lavorare). La sostanza però non cambia. Invece di costringerli ad entrare illegalmente, come avviene oggi per i tanti extracomunitari che continuano ad arrivare sulle nostre coste, adottando una politica migratoria simile a quella del "working holiday visa" si permetterebbe ai migranti di avere due anni di visto per stare nel Paese, tempo utile per imparare la lingua e trovarsi un lavoro. Al contempo, le aziende italiane beneficerebbero di manodopera a basso costo, come peraltro già avviene. Ma tutto questo avverrebbe in modo legale, mentre oggi da noi le campagne sono ancora teatro di uno sfruttamento ben più pesante rispetto a quello visto nei casi raccontati dalla tv australiana.
Australia, ecco i giovani «schiavi» italiani: undici ore a notte, a raccogliere cipolle nei campi. 15 mila giovani italiani si trovano nel Paese con un visto di «Vacanza Lavoro» rinnovabile dopo un anno. Molti subiscono ricatti, abusi e perfino violenze sessuali, scrive di Roberta Giaconi su “Il Corriere della Sera”. Oltre 15.000 giovani italiani si trovano attualmente in Australia con un visto temporaneo di «Vacanza Lavoro». Hanno meno di 31 anni e, spesso, una laurea in tasca. Alla partenza, molti di loro neppure immaginano di rischiare condizioni di aperto sfruttamento, con orari di lavoro estenuanti, paghe misere, ricatti, vere e proprie truffe. Perlopiù finiscono nelle «farm», le aziende agricole dell’entroterra, a raccogliere per tre lunghi mesi patate, manghi, pomodori, uva. L’ultima denuncia arriva da un programma televisivo australiano, «Four Corners», durante il quale diversi ragazzi inglesi e asiatici hanno raccontato storie degradanti di molestie, abusi verbali e persino violenze sessuali. Gli italiani non sono esclusi da questa moderna «tratta». Ne sa qualcosa Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni fatte da giovani italiani sulle condizioni che avevano trovato nelle “farm” australiane. Alcune erano terribili», spiega. Due ragazze le hanno raccontato la loro odissea in un’azienda agricola che produceva cipolle rosse. Lavoravano dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo. «Non potevano neanche andare in bagno, dovevano arrangiarsi sul posto», dice Stagnitti. Un ragazzo, invece, era stato mandato sul tetto a pulire una grondaia piena di foglie. «È scivolato ed è caduto giù, ferendosi gravemente. L’ospedale mi ha chiamata perché il datore di lavoro sosteneva che aveva fatto tutto di sua iniziativa». Secondo i dati del dipartimento per l’Immigrazione, nel giugno dell’anno scorso in Australia c’erano più di 145.000 ragazzi con il visto «Vacanza Lavoro», oltre 11.000 dei quali italiani. E il nostro è uno dei Paesi da cui arriva anche il maggior numero di richieste per il rinnovo del visto per un secondo anno. Per ottenerlo, questi «immigrati temporanei» hanno bisogno di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali dell’Australia. E questo li rende vulnerabili ai ricatti. «Ho sentito di tutto», dice Stagnitti. «Alcuni datori di lavoro pagano meno di quanto era stato pattuito e, se qualcuno protesta, minacciano di non firmare il documento per il rinnovo del visto. Altri invece fanno bonifici regolari per sembrare in regola, ma poi obbligano i ragazzi a restituire i soldi in contanti. E poi ci sono i giovani che accettano, semplicemente, di pagare in cambio di una firma sul documento». Non sono in molti a denunciare la situazione. «Quando mi chiedono cosa fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il dipartimento per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi dicono che ormai sono abituati: anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Stagnitti alza le spalle. «La verità è che spesso questi giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori che gli australiani non vogliono più fare». Sulla scia della denuncia di «Four Corners», il governo dello stato di Victoria ha annunciato che darà il via a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle «farm», con l’obiettivo di stroncare gli abusi e trovare nuove forme di regolamentazione che mettano fine allo sfruttamento. Intanto, proprio nei giorni scorsi, il Dipartimento per l’Immigrazione ha deciso che il cosiddetto «WWOOFing», una forma di volontariato nelle azienda agricole in cambio di vitto e alloggio, non darà più la possibilità di fare domanda per il secondo anno di visto «Vacanza Lavoro». «Nonostante la maggior parte degli operatori si sia comportata correttamente - si legge in un comunicato stampa - è inaccettabile che alcuni abbiano sfruttato lavoratori stranieri giovani e vulnerabili».
NON APRITE QUELL’AZIENDA. PER ESEMPIO UNA CASA EDITRICE. LA BUROCRAZIA VI UCCIDERA’.
Non aprite quella casa (editrice). Se no la burocrazia vi ucciderà. Tasse, regole complicatissime, distribuzione bloccata e lungaggini Lanciarsi nel mercato editoriale è un'impresa titanica. Parola di esperto, scrive Gianluca Barbera su “Il Giornale”. Volete aprire una casa editrice? Vi hanno detto che oggi fare impresa è più facile? Avete prestato fede alle promesse di Renzi di ridurre la burocrazia e le tasse? Alle parole di Monti quando assicurava che i giovani avrebbero potuto costituire una società con un euro? Se avete creduto a tutto questo avete vinto il Premio Babbeo dell'Anno. La verità è che chi vuole fondare una casa editrice deve affrontare non solo un surplus di burocrazia e costi, ma anche rischiare di finire in un reparto di Neuropsichiatria. Partirò da un indovinello. Giovanni, Marco e Paola vogliono aprire una casa editrice. Su suggerimento del commercialista (figura immancabile della contemporaneità, come il prete nell'Ottocento) optano per una società a responsabilità limitata, 10mila euro di capitale sociale (il minimo consentito). Dopo aver depositato in banca i tre decimi del capitale previsti dalla legge, si recano dal notaio, firmano l'atto costitutivo e, dopo aver pagato l'onorario (non meno di 1800 euro), si sentono dire: «C'è però un piccolo problema. Per ottenere la partita Iva e l'iscrizione alla Camera di Commercio, come la legge impone, bisogna disporre di una PEC (casella di posta certificata). Ma per ottenere una PEC occorre avere già la partiva Iva». I tre si scambiano un'occhiata fra l'incredulo e il divertito. «Ci sta dicendo che per ottenere la partita Iva dobbiamo avere la PEC e per ottenere la PEC dobbiamo avere la partita Iva?». «Proprio così» risponde il notaio allargando le braccia. «E allora come si fa?» domandano allibiti. Inizia un balletto di telefonate: il notaio parla col commercialista, il commercialista coi tre aspiranti editori, questi con una società che fornisce PEC, ma non se ne viene a capo. I ragazzi perdono la pazienza: «Non saremo certo i primi! Come fanno gli altri?». Dopo un attimo di esitazione: «Purtroppo sono le nuove disposizioni di legge, e una soluzione non c'è... Ognuno trova il modo di arrangiarsi come può... Basta individuare l'anello debole della catena e trovare una scappatoia». E ora, che fare? Come sapete, con un po' di buona volontà in Italia una soluzione si trova sempre. Lascio al lettore scovare la soluzione. Ma questo, ovviamente, non è che il principio. Perché un istante dopo il notaio aggiunge che, PEC o non PEC, senza il supporto di un commercialista non può inoltrare richiesta di partita Iva. E infine ricorda loro che devono saldare con un assegno perché il pagamento deve essere tracciabile e dunque serve un conto in banca. Riassumiamo: notaio, commercialista, banca. Restano solo il geometra e l'avvocato e poi non manca nessuno. Ma il peggio deve venire. Il giorno dopo, col morale sotto i tacchi, i tre si recano dal commercialista, che presenta subito il conto: 355 euro per l'iscrizione nel registro delle imprese, 1.480 per la comunicazione d'inizio attività alla Camera di commercio, 395,17 per la vidimazione dei libri sociali, 115,80 per la famosa PEC, un importo variabile per l'iscrizione all'Inps. E naturalmente c'è l'onorario del commercialista di cui tenere conto. I ragazzi mettono mano al portafogli e a fine giornata si rendono conto che, prima ancora di aver cominciato a lavorare e a produrre qualcosa, il capitale sociale si è già quasi dimezzato. E non è finita. C'è da farsi assegnare il codice Isbn (quello che trovate sul retro di copertina dei libri), indispensabile per commercializzare le loro pubblicazioni: costo dell'operazione 292,80 euro. C'è poi da registrare il marchio: altri 245 euro, oltre alla pazienza di cui ci si deve armare per far fronte all'indolenza e ignavia dei funzionari dell'ufficio marchi e brevetti, distaccato presso la Camera di commercio. E poi c'è la banca presso la quale vi recherete per aprire il conto: vi farà cascare dall'alto ogni cosa, vi chiederà di sottoscrivere un documento chiamato «antiriciclaggio» di cui nessuno pare capire l'utilità (se riciclate denaro, non sarete così stupidi da dichiararlo). Dovrete rispondere a un fuoco di fila di domande ed esibire una quantità di documenti di cui sul momento non disporrete e per ottenere i quali dovrete rivolgervi nuovamente al notaio e al commercialista. E poi naturalmente la società andrà censita e se volete operare con l'home banking bisognerà fare richiesta di un codice operativo. Altro tempo, altri costi. Se per di più avete fatto domanda per un piccolo fido, vi aspettano decine di firme da apporre. E guardatevi bene dal cambiare la sede sociale: sarebbero altri 380 euro alla Camera di commercio. Ma ora finalmente si parte, direte voi. Certo. Ma tenete presente che il proprietario dell'ufficio che avrete affittato vi chiederà una lauta caparra più il primo mese o trimestre anticipato. E ve la dovrete vedere coi tempi della Telecom per l'allaccio delle linee telefoniche e dell'Adsl, con la società elettrica, con quella del gas, con le loro arzigogolate procedure di attivazione, con le ore di attesa quando vi rivolgerete ai loro numeri verdi. Imparerete a convivere con adempimenti burocratici pressoché quotidiani, in un quadro normativo che cambia ogni anno in peggio, con una sfilza di tasse da far accapponare la pelle: Iva, Ires, Irap, Tari, Tasi o Tares o Tirsu o Trise (o come diavolo si chiama), ritenute d'acconto, acconti su imposte future, contributi previdenziali, tasse camerali, tasse annuali sui libri sociali, costi per la frequenza obbligatoria a corsi di primo soccorso e sicurezza sul lavoro (e relativi aggiornamenti periodici). E poi il famigerato Entratel, il modello 770, il redditometro, lo spesometro, la nuova Certificazione Unica (centinaia di pagine da stampare e spedire in triplice copia, alla faccia dell'informatizzazione e delle campagne per il risparmio della carta). E ancora la tenuta del libro dei verbali, il registro delle tirature, il foglio delle presenze, il libro matricola, il Dps (documento programmatico per la sicurezza), quello della valutazione dei rischi, la redazione del bilancio annuale coi suoi rovelli interpretativi, la compilazione degli studi di settore, la fattura elettronica per chi lavora con enti pubblici (te le fa il commercialista, ovviamente non gratis), la dichiarazione dei redditi. Per non parlare dei folli interessi bancari sui fidi... E non abbiamo ancora fatto cenno al fatto che vi servirà un buon distributore, altrimenti i libri come ci arrivano in libreria? E questo è l'ostacolo degli ostacoli. Anche perché è in atto una rivoluzione. Si sta passando da una situazione di relativa concorrenza a una di quasi monopolio. Il tutto con l'avallo dell'Antitrust, che ha autorizzato la fusione tra il gruppo Messaggerie Libri e Feltrinelli (socio unico di Pde, l'altro distributore storico), assai più nefasta per il pluralismo editoriale del paventato matrimonio tra Mondadori e Rizzoli. Grazie a una sentenza dell'Antitrust del dicembre 2014, per trovarsi un distributore tutto si è fatto più complicato. Dovrete presentare una mole di documentazione prima non necessaria. Vi verrà richiesto di esibire documenti attestanti la solidità finanziaria della vostra azienda: in soldoni, si tratterà di dimostrare di non avere gli ultimi due bilanci in perdita (ma se sei nuovo come fai a esibire gli ultimi due bilanci?) e di non essere gravato da protesti. Dovrete dimostrare inoltre di possedere una solida rete di promozione. Ma fermiamoci qui, per carità, benché ci sarebbe altro da aggiungere. Anche perché a questo punto i nostri baldi giovani sono invecchiati perlomeno di cinquant'anni, se non all'anagrafe perlomeno nello spirito. Ma in fondo sono stati fortunati. A semplificargli le cose ci ha pensato Renzi. Altrimenti, sai che dolori!
LA MAFIA HA CONQUISTATO IL NORD.
Così la Mafia conquista il Nord d'Italia. Il nostro Settentrione assomiglia sempre più al profondo Sud degli Anni 80. Eppure ci sono ancora molti esponenti della politica e della società civile che negano l'esistenza della grande criminalità organizzata. Per i magistrati ormai non si deve più parlare di infiltrazione ma di interazione-occupazione. Una presenza capillare che riguarda ogni regione e provincia, fino al singolo municipio. Lo vediamo nella mappa pubblicata nella nostra inchiesta: ricostruisce, per la prima volta, dove si sono piazzati i clan e quali sono le famiglie di riferimento, scrivono Daniele Autieri, Giuseppe Baldessarro, Valerio Gualerzi, Michele di Salvo e Salvo Palazzolo con un commento di Attilio Bolzoni. Tutto su “La Repubblica”.
Il Sistema come agenzia di servizi di Salvo Palazzolo. L'ultimo capomafia siciliano che ha deciso di collaborare con la giustizia, neanche due mesi fa, ha raccontato di aver trasferito la sua residenza a Mestre per "stare un po' più tranquillo". Così ha detto Vito Galatolo, rampollo di un'antica dinastia di Cosa nostra. I suoi fidati lo andavano a trovare ogni settimana, portandogli cassette di pesce fresco e la contabilità degli affari a Palermo. Intanto, in Veneto, Galatolo tesseva nuove alleanze criminali. E nessuno se n'era accorto. Perché di questi tempi il profondo Nord sembra assomigliare tanto al profondo Sud degli anni Ottanta: ancora tanti, nella società civile e nella politica, non vedono la mafia. Mentre i magistrati continuano a denunciare, con le loro inchieste, i processi, ma anche con prese di posizione eclatanti. L'ultima, è quella del presidente della Corte d'appello di Milano, Giovanni Canzio, che sabato 24 gennaio, all'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha denunciato: "La presenza mafiosa in Lombardia deve essere ormai letta in termini non già di infiltrazione, quanto piuttosto di interazione-occupazione". A rischio, secondo i magistrati, c'è l'appuntamento simbolo dell'economia del Nord, l'Expo. Perché la presenza di 'Ndrangheta, Cosa nostra e Camorra si fa sempre più insidiosa. Ecco allora perché è urgente tornare a ripercorrere numeri e storie delle mafie. E' l'obiettivo di questo dossier, che traccia una mappa aggiornata del "sistema", come lo chiama la Direzione nazionale antimafia. Un sistema che ha ormai affinato un metodo. Non è più quello del terrore, come nella Milano degli anni Settanta, battuta da estorsioni e sequestri architettati dai clan siciliani e calabresi. Oggi, il sistema delle mafie al Nord è una grande agenzia di servizi, che offre soprattutto capitali piccoli e grandi agli imprenditori in difficoltà, magari acquistando quote societarie. Ma l'abbraccio dei boss è fatale. Prima o poi, tutta l'azienda finirà nelle mani dei padrini. È già accaduto. Eppure, tanti imprenditori continuano a ritenere più conveniente rivolgersi all'agenzia di servizi del crimine organizzato. Anche nel profondo Nord è ormai scoppiata una grande "voglia di mafia". Ma, in fondo - hanno ragione i magistrati più avveduti - neanche questa è una novità. Nel 1974, un importante imprenditore milanese che temeva un sequestro chiese a un amico palermitano di presentargli qualcuno in grado di proteggerlo. Così fu organizzato un incontro, a cui partecipò uno dei capimafia siciliani più importanti dell'epoca. Era Stefano Bontate: assicurò che un suo uomo avrebbe garantito giornate tranquille alla famiglia dell'imprenditore, fingendo di essere il fattore della loro villa. Quell'imprenditore si chiama Silvio Berlusconi. L'amico palermitano è Marcello Dell'Utri, che sta scontando una condanna a sette anni per aver mediato l'accordo di protezione. Dagli anni Settanta a oggi, i mafiosi sono diventati un po' più insospettabili, e i loro servizi sono aumentati.
Il tabù infranto di Michele Di Salvo. Sono ormai moltissimi i processi e le indagini che certificano la presenza delle organizzazioni criminali, di ogni matrice e origine, nel tessuto socio-economico settentrionale. Nonostante quelle che ormai possiamo considerare certezze consolidate sembra che ammettere che le mafie hanno messo le mani al nord, e in particolare a Milano, nella capitale economica d'Italia, sembra un tabù. L'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni si disse "Indignato dalle parole di Saviano" quando lo scrittore nel novembre 2010, ospite della trasmissione "Vieni via con me", accennò alle possibili infiltrazioni mafiose al nord, semplicemente citando articoli di giornale e inchieste. Maroni in quella circostanza chiese e ottenne un contraddittorio a "Che Tempo Che fa". "Come ministro e ancora di più come leghista mi sento offeso e indignato dalle parole infamanti di Roberto Saviano, animate da un evidente pregiudizio contro la Lega". Parole dette mentre era titolare del Viminale, e aggiunge che chi avesse sentito "Saviano parlare senza contraddittorio potrebbe essere indotto a pensare che in quelle parole c'è qualcosa di vero e siccome non è così voglio poter replicare a quelle stupidaggini". "Del resto che non ci fosse la volontà, prima di tutto politica, di mostrare con chiarezza il grado di penetrazione delle organizzazioni criminali nelle regioni settentrionali, è chiaramente mostrato dagli stessi rapporti semestrali preparati dalla DIA per la relazione del Ministro dell'Interno al Parlamento. Quello che dovrebbe essere il momento più elevato della rappresentazione della presenza del crimine organizzato all'organo legislativo, che dovrebbe appunto legiferare in materia anche e sopratutto tenendo conto di un quadro chiaro della situazione nazionale, e quello che dovrebbe essere un documento utile ai rappresentanti dei cittadini di tutte le regioni, omette incredibilmente una "rappresentazione grafica chiara" di ciò che sta avvenendo nel nostro paese, lasciando trasparire un messaggio per cui le organizzazioni criminali sono un fenomeno geograficamente circoscritto e concentrato, e non una questione grave nazionale che tocca anche il più piccolo comune." Il ministro - di lì a poco segretario della Lega Nord - ammise che le mafie non erano un fenomeno locale e soprattutto non erano un fenomeno leghista. Chissà che avrebbe detto se avesse immaginato che entro tre anni sarebbe scoppiato il caso Belsito che evidenziò diversi tentativi di avvicinamento (durati circa vent'anni che gli inquirenti ipotizzano già sotto il tesoriere Maurizio Balocchi) tra le 'ndrine e d esponenti leghisti. Già, i tempi in cui il leader fondatore incontrastato della Lega era Umberto Bossi che nel 1990 sentenziava: "Basterebbero sei mesi, al massimo un anno di governo della Lega lombarda per far sparire anche l'odore della mafia da Milano". Che Milano fosse indenne dall'infiltrazione mafiosa lo disse anche Letizia Moratti intervenendo, il 25 maggio 2009, ad Annozero. Non solo politica e giornalismo si indignano quando si parla di cosche a Milano. Accade che lo facciano anche i massimi rappresentanti dello Stato. Prima della querelle a distanza Maroni-Saviano, il 21 gennaio 2010, a negare l'esistenza della 'ndrangheta nel capoluogo lombardo era stato il prefetto della città Gian Valerio Lombardi: "A Milano ci sono mafiosi, ma la mafia non esiste". Lo disse durante la prima audizione della commissione parlamentare antimafia a Milano in vista dell'Expo. Lombardi poi specificò indirettamente che non era in discussione la presenza delle organizzazioni criminali quanto il loro modo di agire: più imprenditoriale che "esecutivo". Sul filo sottile dell'etimologia è l'ex-sindaco ed ex-ministro Letizia Moratti, che il 23 gennaio 2010 dichiarò "io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata". Sulle barricate anche gli imprenditori. Nel maggio 2007 Roberto Predolin, allora presidente della controllata Sogemi, la società che gestisce tutti i mercati agroalimentari all'ingrosso, alla domanda se ci fosse la 'ndrangheta all'Ortomercato rispose secco: "Che sappia io, no". Oggi le indagini certificano invece che l'Ortomercato di Milano è considerato uno dei centri di controllo della criminalità organizzata. Secondo Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi. "Nella nostra città una Piovra, sì una grande criminalità mafiosa, non esiste". Era il 1989 ed aggiunse, a scanso di equivoci: "Il bello della Piovra è proprio che si tratta di una favola, soltanto di una favola". Del resto sia lui che un altro sindaco sindaco Borghini sarebbero stati "rassicurati" dal giudice di Cassazione Corrado Carnevale che nell'agosto del 1991 assolvendo gli imputati scrisse testualmente nelle motivazioni della sentenza: che gli imputati "si frequentassero, concludessero affari con boss del calibro dei fratelli Bono, Salvatore Enea o con società del gruppo Inzerillo, e che questi legami non fossero né privati né occasionali o sporadici, bensì per motivi e ragioni di comuni interessi, assistenza e finanziamenti e operazioni speculative... non può di per sé essere utilizzato come prova dell'organizzazione criminale, né dell'appartenenza a essa". Secondo quanto emerge dalle numerose indagini, dagli studi e dalle audizioni della commissione antimafia, le organizzazioni criminali hanno sviluppato un forte orientamento a privilegiare l'insediamento e la penetrazione al nord nei piccoli comuni. Questa tendenza è dovuta a svariati fattori. In primo luogo l'inesistenza o la debole presenza di presidi delle forze dell'ordine, e il basso interesse riservato alle vicende dei comuni minori dalla grande stampa e dalle stesse istituzioni politiche nazionali. Non secondaria la facilità di accesso alle amministrazioni locali grazie alla disponibilità di un piccolo numero di preferenze, specie in contesti in cui il ricorso alla preferenza sia poco diffuso tra gli elettori. Non secondario è anche l'aspetto di "similitudine dimensionale" tra comune di origine e comune di insediamento. In particolare la 'ndrangheta ha radici nei piccoli comuni e le mette nei piccoli comuni; stabilisce tendenzialmente un rapporto biunivoco tra un comune calabrese e un comune del nord o tra un ristrettissimo gruppo di comuni calabresi (in genere confinanti) e un ristrettissimo gruppo di comuni settentrionali (anch'essi in genere confinanti). Modello questo che tende a replicare anche fuori dal territorio nazionale, si pensi al Canada come alla Germania e agli Stati Uniti. Le 'ndrine tendono a "replicare" un modello: il luogo della massima concentrazione conosciuta di "locali" di 'ndrangheta coincide con la provincia di Milano e della provincia di Monza-Brianza, ossia con un'area che presenta una densità demografica decupla rispetto alla media nazionale. L'elevata densità demografica corrisponde in genere a migrazioni storiche e l'alta densità demografica implica maggiore mimetizzazione sociale e più favorevoli opportunità di costruzione di relazioni sociali e professionali anonime. Infine l'alta densità demografica si associa a una elevata percentuale di cementificazione del territorio, processo che implica una esaltazione delle opportunità di inserimento delle imprese mafiose. Secondo l'Istat (2012) le provincie più cementificate di Italia risultano nel 2011, nell'ordine, Monza-Brianza (54 per cento di superfici edificate), Napoli (43), Milano (37) e Varese (29), e non è un caso che tutte e quattro le provincie si caratterizzino per una forte presenza, antica o espansiva, degli interessi di stampo mafioso. La formula ideale del successo sembra essere quindi "piccoli comuni-alta densità demografica". Sottovalutazione del fenomeno e rimozione, talvolta sfociante in un vero e proprio negazionismo, vanno di pari passo con l'inadeguatezza del grado di informazione sui fenomeni malavitosi e di contrasto all'attività del crimine organizzato. Del resto il modus operandi dei gruppi mafiosi è notevolmente flessibile. Possono avvantaggiarsi dell'alta o della bassa densità demografica, della abbondanza di risorse o della crisi (usura, gioco d'azzardo), dei servizi sociali evoluti o del degrado urbano, del servizio pubblico o dell'economia privata; e nella scelta della propria rappresentanza politica non presentano predilezioni a priori per l'uno o l'altro schieramento. Le organizzazioni mafiose, pur influenti, non sembrano tuttavia disporre di amplissimi "pacchetti" di consensi. Ciò indica che il grado di organizzazione del consenso non si è ancora sviluppato, nelle regioni a maggior presenza mafiosa, come nelle realtà più tradizionali. Sia le inchieste lombarde sia quelle piemontesi rivelano la presenza di un alto numero di esponenti dei clan nati nelle regioni di nuova residenza, perfettamente orientati a riprodurre gli schemi di condotta praticati dalle rispettive organizzazioni nei luoghi di origine.
La mappa regione per regione di Michele Di Salvo.
La Lombardia è una regione di insediamento storico delle organizzazioni criminali: tutte le più importanti vi si sono stabilite non solo per le molte possibilità di investimento nelle attività legali (grandi opere, imprese, locali notturni) e illegali, ma anche per la scarsa resistenza ambientale. La disattenzione istituzionale e sociale al fenomeno mafioso e diversi fenomeni criminali differenti quali terrorismo, tangentopoli, immigrazione che hanno "coperto" il problema, hanno permesso alla criminalità organizzata una penetrazione sociale senza forti ostacoli. Il Nord-Ovest della regione (Como, Lecco, Varese, Milano e Monza e Brianza) è caratterizzato da presenze antiche e solide. Nella fascia meridionale della regione si individua una più recente e preoccupante pressione: la provincia di Lodi sembra svolgere una funzione di nicchia protetta e di area di avvicinamento all'hinterland milanese. Le provincie di Mantova e Cremona, invece, confinano con le provincie emiliane a maggiore presenza mafiosa. Fino alla fine degli anni '80 l'organizzazione predominante è stata Cosa nostra. Oggi ne risultano attivi diversi gruppi. Attualmente, invece, è la 'ndrangheta a essere l'organizzazione più forte: seppur insediatasi nel territorio lombardo nello stesso periodo di Cosanostra, è solo dagli arresti che hanno colpito i siciliani dagli anni '90 che ha affermato una sua indiscussa egemonia sviluppando una sorta di "colonizzazione" in diverse aree della regione, con una solida rete di alleanze e di rapporti istituzionali, nelle pubbliche amministrazioni, con professionisti e imprenditori privati. Con l'indagine Infinito del luglio 2010 gli inquirenti hanno identificato sedici locali, ognuna rispondente a una propria locale madre calabrese, ma insieme coordinate dalla "Lombardia", ovvero una sovrastruttura federativa che attraversa fasi alterne di autonomia rispetto alla Calabria. Presenza più difficile da analizzare è quella della camorra, da sempre attratta dalla ricchezza e dalle possibilità offerte soprattutto dal mercato della droga lombardo. Dalle più recenti indagini sono risultati attivi nella regione diversi gruppi: la famiglia Di Lauro, il gruppo Nuvoletta, la famiglia Laezza, legata al clan Moccia di Afragola, un gruppo che fa riferimento al clan Di Biase-Savio. È emerso, inoltre, l'interesse del clan dei casalesi e del gruppo Belforte di Marcianise nel settore del gioco, e la presenza del clan Fabbrocino e del clan Gionta.
Il Piemonte, come la Lombardia, ha storicamente esercitato una forte attrattiva sulla criminalità organizzata. L'espansione urbanistica degli anni '60, compresa quella delle zone turistiche, ha contribuito allo sviluppo di un fenomeno di colonizzazione a macchia di leopardo. In Piemonte si assiste a una netta prevalenza della 'ndrangheta rispetto alle altre forme di criminalità organizzata, evidenziata dalle recenti operazioni Minotauro e Albachiara. Grazie a esse è stato messo in evidenza un radicamento forte e strutturato soprattutto nella città di Torino e nella sua provincia, che conferma quanto scritto nel 2008 dalla DDA di Torino, secondo la quale la criminalità calabrese risulta essere stabilmente insediata nel tessuto sociale mentre "i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza". Ed è stato anche messo in evidenza il progressivo inserimento della criminalità organizzata sia nel tessuto economico sia nell'area di azione della politica e delle pubbliche amministrazioni. Anzi proprio la compiacenza di alcune amministrazioni locali ha favorito la crescente presenza delle organizzazioni mafiose nel settore dell'edilizia e dei lavori pubblici. Nel 2012 l'inchiesta Minotauro ha messo infatti in luce l'esistenza di 9 cosche locali nell'area metropolitana, ma anche di una struttura territoriale non riconosciuta, chiamata "Bastarda", con influenze in provincia di Torino. Gli inquirenti, allo stato delle indagini, ipotizzano l'esistenza in Piemonte del "Crimine", organismo al vertice della struttura criminale sito a Torino e funzionale alla gestione del territorio, mentre manca la "Camera di Controllo" (apparato di coordinamento dell'organizzazione criminale presente in Lombardia e in Liguria), sebbene dalle intercettazioni si evinca la volontà della 'ndrangheta di istituire tale struttura anche in Piemonte. (Secondo il collaboratore di giustizia Rocco Varacalli questa struttura controlla anche i comuni di Rivarolo Canavese, Castellamonte, Ozegna, Favria e Front).
In Valle d'Aosta la stessa Commissione regionale speciale per l'esame del fenomeno delle infiltrazioni mafiose in regione pur sostenendo nel 2012 che non esiste una presenza strutturata di organizzazioni criminali, ha però evidenziato "l'influenza di grandi famiglie della 'ndrangheta che si è manifestata nel corso degli anni con episodi di riciclaggio di denaro, di traffico di stupefacenti e di estorsioni". La Direzione Nazionale Antimafia già nel 2010 era andata oltre, ipotizzando la presenza di una locale di 'ndrangheta. L'ipotesi troverebbe conferma in alcune intercettazioni dell'operazione torinese Minotauro. Nonostante la predominanza della 'ndrangheta, si colgono in Valle i segni di presenza di altre forme di criminalità organizzata di stampo mafioso. Nella seconda metà degli anni '90 hanno operato nella regione soggetti legati alla Stidda e vi si sono trasferite due famiglie legate al clan gelese degli Emmanuello ed è emerso l'interesse della cosca Mandalà per il casinò di Saint Vincent, a seguito di alcune dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
La Liguria rappresenta una regione storicamente interessante per le principali organizzazioni criminali di tipo mafioso: terra di confine, costituisce tuttora una base logistica per la gestione di latitanti che, passando per Ventimiglia, trovano rifugio nelle località contigue francesi; terra di mare, offre strategici snodi portuali in cui far confluire partite illecite di droga; terra di immigrazione, dalla seconda metà degli anni '40 diviene residenza di esponenti criminali all'interno dei flussi migratori, provenienti soprattutto da Sicilia e Calabria, composti da onesti corregionali in cerca di occupazione; terra di soggiornanti obbligati, e terra del gioco d'azzardo - con il casinò di Sanremo - da decenni rappresenta una tra le principali sedi del riciclaggio di denaro di illecita provenienza. Ad oggi si riscontra la presenza delle principali organizzazioni criminali di stampo mafioso, con un evidente primato della 'ndrangheta su camorra e cosa nostra, in linea con lo scenario nazionale ed internazionale in cui la mafia calabrese ricopre da anni un ruolo apicale. La 'ndrangheta si caratterizza per una presenza stabile e strutturata nella regione, con cosche locali innestate sul territorio secondo una precisa strategia di colonizzazione. Con l'inchiesta Il Crimine (2010), oltre allo scenario della 'ndrangheta in Liguria emerge l'esistenza di una camera di controllo e di "almeno nove locali", rispettivamente a Genova, Lavagna, Ventimiglia, Sarzana, Sanremo, Rapallo, Taggia, Savona e Imperia. La presenza di una camera di controllo, o camera di compensazione, esistente in Lombardia ma assente in Piemonte, sembra sottolineare l'elevato grado di strutturazione della associazione in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia. La presenza di Cosa nostra è stata riscontrata nelle diverse provincie. L'esistenza di decine di Cosa nostra nel capoluogo risale agli anni '80. Nel 1979 un importante boss mafioso, Salvatore Fiandaca, venne inviato al soggiorno obbligato nel comune di Genova diventando negli anni successivi capo decina del clan Madonia. Negli anni giunsero in Liguria diverse famiglie mafiose: Vallelunga, Di Giovanni, Lo Iacono, Aglietti, Morso, Monachella e gli Emmanuello attratti dalla presenza di numerosi cantieri, dalle opere di costruzione del tratto autostradale, nonché dalla posizione strategica della regione confinante con la Francia. La presenza della Camorra è rilevante nella città di Genova, dove è attiva nello spaccio di sostanze stupefacenti, nel levante ligure nell'ambito dell'edilizia, degli autotrasporti, dell'agricoltura in serra mentre a Sanremo è dedita prevalentemente al riciclaggio e al traffico di merce contraffatta.
In Emilia Romagna le principali organizzazioni criminali operano pacificamente sul medesimo territorio, talvolta stringendo patti per la conclusione di affari nei settori maggiormente remunerativi. La 'ndrangheta si dimostra, insieme al clan dei casalesi, la realtà criminale più incisiva. Seguono altri clan camorristici presenti nella provincia di Modena e in Romagna, più alcune presenze significative di Cosa nostra. In Romagna il riciclaggio è favorito dalla vicinanza con la Repubblica di San Marino. La 'ndrangheta risulta attiva in particolare nelle provincie di Reggio Emilia, Modena, Parma e Piacenza. Le 'ndrine maggiormente rappresentate sono quelle originarie di Platì, San Luca, della Piana di Gioia Tauro, di Isola di Capo Rizzuto ma in particolare quelle provenienti da Cutro, nel crotonese. La camorra risulta particolarmente attiva in provincia di Modena, benché recenti indagini rivelino un apprezzabile spostamento verso la sponda romagnola. La presenza dei casalesi sul territorio è in aumento e, negli ultimi anni, la magistratura ne ha più volte sottolineato la pericolosità. Si tratta di compagini criminali poco strutturate, sotto-gruppi vincolati da un legame stringente con i clan campani di provenienza. Senza alcuna ambizione di egemonia, spesso stringono affari con esponenti di altre organizzazioni criminali (calabresi o siciliane) con le quali operano soprattutto nell'ambito del gioco d'azzardo e delle estorsioni. Con l'operazione Vulcano del febbraio 2011 i carabinieri del ROS di Bologna hanno tratto in arresto soggetti appartenenti a tre clan camorristici diversi: i casalesi afferenti a Nicola Schiavone, i Vallefuoco di Brusciano e i Mariniello di Acerra. La peculiarità del sodalizio criminale che ne è emerso sta nel fatto che questi clan sono tra loro in conflitto in Campania, ma in Emilia Romagna risultano compartecipi in affari illegali. Di pochi giorni fa la maxiretata sulla 'ndrangheta con 117 richieste di custodia cautelare. Mani delle cosche sugli appalti, anche quelli della ricostruzione con gli indagati che ridono dopo il terremoto del 2012. E che parlano fra loro un linguaggio fatto di allusioni e frasi gergali. Cosa nostra appare oggi meno incisiva rispetto alle altre due principali organizzazioni criminali. L'organizzazione siciliana risulta particolarmente attiva nel modenese, nei comuni di Sassuolo, Carpi e Fiorano, residenze in passato di importanti soggiornanti obbligati o di sorvegliati speciali. Ancora nel 2005 diversi uomini legati al boss Bernardo Provenzano furono arrestati nei comuni di Castelfranco Emilia, Nonantola e Modena. Nella zona di Parma risultano presenti esponenti delle famiglie Emmanuello e Rinzivillo originarie di Gela e appartenenti a Cosa nostra nissena, e nella zona di Piacenza è stata riscontrata la presenza di esponenti del clan Galatolo, operante nel quartiere Acquasanta di Palermo.
Il tessuto economico del Veneto risulta essere particolarmente attrattivo per i gruppi criminali perché caratterizzato da piccole e medie imprese, un alto tasso di industrializzazione e da una fitta rete di sportelli bancari. Al dinamismo del sistema imprenditoriale e alla sua ricca articolazione si sovrappone la perdurante crisi economica in cui versa l'Italia, con la conseguente mancanza di liquidità. Questa situazione, associata alla reticenza delle banche ad erogare prestiti alle imprese a rischio di insolvenza, sembra avere portato molti piccoli imprenditori veneti in difficoltà a rivolgersi alla criminalità organizzata. Basti ricordare l'indagine Aspide del 2011 che ha visto coinvolti soggetti che erogavano crediti agli imprenditori per poi vincolarli al pagamento di interessi altissimi fino ad ottenere l'acquisizione delle attività. Il Veneto, inoltre, costituisce un potenziale snodo strategico per i traffici illeciti, interni e internazionali, dal narcotraffico al traffico illecito di rifiuti. Tra gli anni '70 e '90, molti boss di Cosa nostra, camorra e 'ndrangheta vi sono stati inviati al confino. Si pensi a Salvatore "Totuccio" Contorno, al boss 'ndranghetista Giuseppe Piromalli oppure ad Anna Mazza, appartenente al clan Moccia di Afragola e conosciuta come la "vedova della camorra". Oggi diverse operazioni di polizia hanno dimostrato una presenza vivace della criminalità organizzata e, in particolare, della camorra, presente soprattutto nelle provincie di Venezia e di Padova. La prevalenza di sodalizi campani rispetto ad altre forme di associazionismo mafioso, si riflette anche sulla natura e sulle modalità di infiltrazione, configurato come delocalizzazione di specifiche attività. Negli ultimi anni si è riscontrata però una sempre più consistente presenza della 'ndrangheta, specialmente nella provincia di Verona. Un esempio significativo è il caso del comune Garda, dove nel 2012 è stato richiesto il commissariamento per sospette infiltrazioni della 'ndrangheta negli appalti e negli uffici comunali. Nella regione non mancano neppure gruppi riferibili a Cosa nostra, che sembrano attivi nella marca trevigiana, nel veneziano e nel padovano.
In Friuli Venezia Giulia nel corso degli anni è stata riscontrata la presenza di soggetti riconducibili alla mafia siciliana, alla camorra, alla 'ndrangheta calabrese e a sodalizi pugliesi. La collocazione geografica della regione, il peculiare tessuto socio-economico e la piccola imprenditoria che caratterizzano l'economia locale costituiscono un'attrattiva per gruppi criminali. Il Friuli ha così assunto un ruolo strategico "di secondo grado", diventando una sorta di area di transito in prossimità del confine con la Croazia e la Slovenia, ma anche uno snodo importante per i traffici illeciti, soprattutto via mare, che ha visto particolarmente coinvolte la città di Trieste e il comune di Monfalcone. L'arresto di diversi latitanti, affiliati a gruppi criminali di diversa provenienza: cosche campane, clan calabresi o gruppi di origine pugliese, induce a ritenere che la criminalità organizzata consideri il Friuli Venezia Giulia un luogo sicuro dove cercare rifugio, una regione in cui è agevole, anche per la disabitudine locale a confrontarsi con il tema, allestire proprie "reti di assistenza". La predominanza storica è della camorra, particolarmente interessata ad operare nella zona di Trieste, nel comune di Monfalcone e sul litorale udinese. Per quanto riguarda Cosa nostra, invece, la presenza si è concentrata storicamente nella provincia di Pordenone e, in particolare, nel comune di Aviano e dintorni, e nella provincia di Udine.
In Trentino Alto Adige le diverse forme di criminalità organizzata, e in particolar modo la 'ndrangheta, hanno adottato una strategia di infiltrazione "leggera", mantenendo il classico basso profilo, che non si esprime solo nell'assenza di locali. La posizione geografica della regione gioca un ruolo strategico e di attrazione in quanto collocata in prossimità del confine con la Svizzera e proiettata verso il centro dell'Europa. Non è un caso, infatti, se l'attività più diffusa sul territorio sia proprio il narcotraffico.
"Sono ovunque, solo la cultura ci può salvare" di Valerio Gualerzi. Sarebbe il caso di cambiare espressione. Quando si racconta di vicende mafiose lontane da Sicilia, Calabria o Campania il riflesso condizionato ci porta ancora a usare la parola "infiltrazione", ma da anni si tratta ormai in realtà di un vero e proprio radicamento. Il professore Enzo Ciconte, a lungo parlamentare nelle file del Pci-Pds e coautore dell'Atlante delle mafie edito da Rubbettino, ne è convinto. "Sa qual è la prova migliore di quanto le sto dicendo? Provi a leggere un'ordinanza giudiziaria coprendo l'intestazione del tribunale che l'ha emessa. Dalle descrizioni dei fatti e del contesto faticherebbe a capire che non si riferisce a vicende avvenute al Meridione, ma a Pavia piuttosto che a Sanremo. Le mafie sono presenti ormai stabilmente in tutta Italia e in particolare nel triangolo Liguria, Lombardia, Piemonte".
Professor Ciconte, possibile che nessuno sia riuscito a rimanere immune?
"Si tratta di una diffusione non omogenea, a macchia di leopardo, con alcune aree che ancora resistono meglio di altre, come buona parte dell'Emilia Romagna, ma nel complesso la criminalità organizzata, e in particolare la 'ndrangheta, sono riuscite ovunque a conquistare l'economia locale, a stringere rapporti con l'imprenditoria e a far eleggere sindaci, amministratori e consiglieri comunali. In quest'ultimo caso il problema è stata la formulazione dell'articolo 416 ter che punisce i politici solo se aquistano voti in denaro, ma non interviene se la controparte sono favori generici. La presenza mafiosa al nord è talmente forte che ormai anche un tratto considerato tipico del sud, come l'omertà, è ormai una caratteristica del settentrione. Allo stesso modo tante inchieste dimostrano che il rapporto tra imprenditoria locale e mafie non è più subito, ma spesso cercato dagli stessi imprenditori, magari per delegare il recupero crediti".
Che cos'è che ha favorito il radicamento di questa presenza?
"I fattori decisivi sono quelli culturali ed economici, spesso intrecciati. Penso ad una società che negli ultimi decenni è stata dominata dalla parola d'ordine 'arricchitevi' e dal disprezzo delle regole, anni in cui il presidente del Consiglio sosteneva la liceità dell'evasione fiscale. La crisi poi ha fatto il resto, perché se le banche chiudono i rubinetti del credito, la disponibilità di liquido delle mafie è invece illimitata. Anzi, la mafia ha bisogno di far girare il suo denaro per ripulirlo e non stiamo parlando di usura, ma di investimenti".
Eppure gli episodi di violenza continuano ad essere concentrati al sud.
"Certo, la grande criminalità organizzata non vuole attirare l'attenzione su di sé e uccide solo se strettamente necessario. Se possibile poi preferisce aspettare l'occasione giusta, quando la vittima torna nella terra d'origine per le vacanze o per fare visita ai parenti. Lì un omicidio desta meno impressione, fa meno notizia".
Nel loro trapiantarsi al centro nord le mafie hanno assunto caratteristiche diverse in base al luogo di insediamento?
"Direi di no. A parte le scontate attività illecite come il traffico di droga, hanno puntato soprattutto sull'edilizia e sulle imprese per il movimento terra, oltre che su commercio e ristorazione".
Qual è l'antidoto per riconquistare la legalità ed evitare che il contagio si diffonda ancora?
"Innanzitutto bisogna prendere coscienza della portata del problema. Ognuno deve fare la propria parte. Se l'imprenditore fa l'imprenditore non serve l'antimafia. Sembra una banalità, ma non lo è. Come in una banda, affinché ci sia armonia occorre che ogni strumento dia il suo contributo. Senza dubbio però la battaglia si gioca soprattutto sul piano culturale. Le mafie questo lo hanno capito e hanno prima messo da parte la loro tradizionale ritrosia, venendo allo scoperto con interviste e dichiarazioni dei boss, e ora cercano di imporre loro modelli culturali, come con la musica dei neomelodici in Campania".
Il "mondo di sotto" della camorra a Roma di Daniele Autieri. Nel "mondo di sotto" ritratto da Massimo Carminati come il luogo dove si agitano i "morti" e dove regnano crimine e violenza, le leggi, gli equilibri, i regolamenti di conti sono gestiti da un'organizzazione spietata e capillare, dotata di massicci gruppi di fuoco, e protetta da un grande fratello criminale che osserva a 200 chilometri di distanza. Alcuni inquirenti già la chiamano "Camorra Capitale" perché è cresciuta negli ultimi venti anni imbastardendo le origini camorriste con embrioni della criminalità romana. Soprattutto di stampo neofascista. "È la teoria del mondo di mezzo, compà - ripeteva Carminati a Riccardo Brugia - ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo". Scovati gli intrecci e le connivenze con i "vivi" della politica, mancava un tassello per completare il quadro a tinte fosche disegnato dal boss di "mafia capitale". Mancavano i "morti". E il mondo di sotto, quello dei "morti", Massimo Carminati lo fissa negli occhi il 30 aprile del 2013, fuori dal bar "La Piazzetta" in zona Fleming, quando incontra Michele Senese. È quest'uomo nato ad Afragola che tiene in mano lo scettro criminale della città. Estorsioni, traffico internazionale di stupefacenti, ricatti, minacce: un padrone assoluto che impone la sua legge sotto l'egida del piombo. E al suo fianco i "napoletani di Cinecittà", partiti da Roma Est per conquistare la Capitale. Un obiettivo raggiunto perché il gruppo esercita ormai il controllo quasi ovunque, da Tor Bella Monaca a Ponte Milvio e, oltre alle attività più tradizionali delle organizzazioni mafiose, si è infiltrato nel ventre malato dell'imprenditoria romana. Le origini: l'omicidio Carlino. Casa di reclusione di Rebibbia, Roma. Anno 1999. Michele Senese, boss della camorra trapiantato da anni a dirigere il traffico criminale della Capitale si affaccia alla finestra della sua cella e urla in direzione di Carlino, uno dei capi della banda della Maranella. "Se non lo ammazzi tu a tuo fratello, lo ammazzo io. Vi ammazzo a tutti quanti". Due anni dopo la promessa è mantenuta. Il 10 settembre del 2001, mentre Senese è ancora in carcere, un commando di fuoco assalta la villa di Torvajanica dove vive Giuseppe Carlino e lo uccide davanti agli occhi della madre. L'omicidio lava il sangue di Gennaro Senese, fratello di Michele, assassinato dai Carlino a Centocelle il 16 settembre del 1997. Ma quello della faida familiare è solo uno spunto per mettere in chiaro un imperativo rimasto fino ad allora fumoso: Roma è della camorra. E del clan Senese. Lui, Michele, è un astro nascente nel firmamento criminale. Riconosciuto come un fiancheggiatore della banda della Magliana, si stabilisce in pianta stabile a Roma negli anni '80 dopo aver partecipato alla guerra di camorra che insanguina la provincia di Napoli. Affiliato al clan Moccia, costruisce il suo potere criminale a Roma, dove viene conosciuto da tutti come "ò pazzo" per la sua abilità nello scontare le pene all'interno degli ospedali psichiatrici piuttosto che in galera. Ma le indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri di via in Selci lo mettono all'angolo, insieme a una parte nutrita della sua organizzazione e il 26 giugno del 2013 viene nuovamente arrestato. Questa volta è diversa dalle altre perché il primo grado di giudizio lo riconosce come il mandante dell'omicidio Carlino e lo condanna all'ergastolo. Occhi di ghiaccio. Se il boss di Afragola è il mandante (quando Carlino viene ucciso Senese è ristretto in un ospedale psichiatrico in Toscana), gli esecutori materiali sono altri. E quegli uomini, negli anni di carcere del capo, hanno imposto la sua legge su Roma. Il primo e più temuto è Domenico Pagnozzi (agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso), chiamato nell'ambiente ice per via dei suoi occhi di ghiaccio. E con lui Fiore Clemente, Giovanni De Salvo, Raffaele Carlo Pisanelli, Giovanni Moriconi, Vicenzo Carotenuto e Antonio Riccardi. Tutti fedelissimi, riconosciuti colpevoli di aver partecipato al delitto Carlino. Eppure la decapitazione del vertice dei "napoletani di Cinecittà" non frena le attività dell'organizzazione. Tor Bella Monaca come Scampia. Il 24 gennaio scorso il Nucleo investigativo dei carabinieri di Frascati, insieme al Nucleo di polizia tributaria della Finanza, arresta 18 persone nella periferia est di Roma: Tor Bella Monaca. L'operazione sgomina un'organizzazione che gestisce lo stoccaggio e lo spaccio nel quartiere, divenuto per mezza Roma il supermarket degli stupefacenti. A guidare il gruppo è Manolo Monterisi, romano, 36enne, soprannominato "il pugile" e definito dai carabinieri del Nucleo "promotore e organizzatore dell'associazione". Tuttavia, fonti investigative confermano che Monterisi non lavora da solo. Anzi. Alcuni pentiti hanno infatti dichiarato che alle spalle del pugile ci sarebbe Michele Senese e il suo clan. La piazza di TorBella è roba loro. Gli imprenditori. "Camorra capitale" è ovunque. Nel traffico di stupefacenti, negli omicidi, nelle gambizzazioni, ma anche nel "business" delle estorsioni. Se è vero che a Roma il pizzo non esiste, almeno non nella sua forma tradizionale, è anche vero che un numero consistente di imprenditori è finito nelle mani della camorra. Perché? Da anni si è sviluppata una indefinita zona grigia, una vasta macchia di petrolio nero che alimenta l'economia sommersa. Sono centinaia le imprese coinvolte, che lavorano senza pagare tasse né contributi, ma soprattutto senza godere delle tutele previste dallo Stato. E quando sorgono questioni la camorra si sostituisce all'autorità pubblica, dirimendole e pretendendo in cambio denari o l'ingresso nel business. Fino a costringere l'imprenditore a diventare uno schiavo dell'organizzazione criminale. Il mistero dell'arsenale. Nonostante le ambizioni imprenditoriali del gruppo, il controllo del territorio viene ancora esercitato con il piombo. Le armi restano la chiave di questa storia, il deterrente più efficace e l'ultimo appello per risolvere questioni pendenti. Armi che i carabinieri hanno cercato negli ultimi anni in ogni anfratto della città. Oggi però una pista riporta al passato, al 17 dicembre del 2011 quando i carabinieri scoprirono in un garage nei pressi della Casilina un vero e proprio arsenale. Mitragliatori, fucili d'assalto di nazionalità cinese, pistole automatiche, fucili AK47, e oltre 1.400 cartucce. Di lì a poco l'inchiesta "Grano nero" identifica i gestori dell'arsenale: Fabio Giannotta, Claudio Nuccetelli, Manolo Pastore e Mauro Santori. Tutti vantano un pedigree da rapinatori a partire da Giannotta, appartenente tra l'altro a una nota famiglia dell'estrema destra romana. Il padre, Carlo, è stato in passato responsabile della sede Msi di Acca Larentia e il fratello, Mirco, fu nominato dall'allora sindaco Gianni Alemanno capo dell'ufficio decoro urbano del Campidoglio. Fabio invece fa rapine e ama la bella vita: i carabinieri lo seguono mentre sfreccia sulla Casilina alla guida di una Ferrari California blu in direzione di casa. Fino ad oggi gli inquirenti non hanno fatto piena luce su chi fossero gli utilizzatori finali di quell'arsenale, tuttavia proprio in questi giorni emerge una nuova pista e indizi inediti che dimostrerebbero la contiguità di alcuni uomini finiti in "Grano nero" con il clan di Michele Senese. La camorra di Ponte Milvio e il poker. "Camorra capitale" non si accontenta delle periferie.
Le Terme di Diocleziano svendute ai clan di Daniele Autieri. Una prova della pervasività delle organizzazioni criminali nella "cosa pubblica" risale al 2008 quando l'Atac, la società romana del trasporto, vende al Gruppo Ragosta per 43 milioni di euro il palazzo Montemartini di via Volturno. Il palazzo ha un enorme valore storico, essendo la sede peraltro delle terme di Diocleziano, ma questo non ferma l'affare. La transazione viene condotta da Atac Patrimonio, controllata di Atac e allora guidata da Gioacchino Gabbuti (già finito in un'inchiesta della Procura di Roma con l'accusa di riciclaggio). Dall'altra parte del tavolo siedono i Ragosta, famiglia di imprenditori particolarmente influenti nel casertano. Nel 2012 un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli porta in carcere 47 persone, tra cui proprio i tre fratelli Ragosta. Secondo gli inquirenti, le imprese del gruppo sono cresciute in modo così esponenziale negli ultimi anni grazie ad un'enorme iniezione di denaro liquido di provenienza camorrista. Il salto di qualità viene compiuto nel 2001 quando i Ragosta acquistano le fallite Acciaierie del Sud. Gli assegni circolari di 4 miliardi e 683 milioni di lire che servono per la cauzione vengono emessi da una società costituita appena tre giorni prima e coperti da una società di diritto lussemburghese, la Immobilfin SA. Le indagini della Dda dimostreranno che la Immobilfin SA è direttamente riconducibile a Raffaele Ragosta e alla moglie Annamaria Iovino e che, tra il 2001 e il 2003, la finanziaria pompa nelle società italiane del gruppo ben 10,8 milioni di euro. Così l'impero dei Ragosta cresce: arrivano le grandi acquisizioni (come quella del palazzo dell'Atac) e il patrimonio raggiunge le 477 unità immobiliari per un valore stimato di un miliardo di euro.
'Ndrangheta, la mafia dei cinque Continenti di Giuseppe Baldessarro. Vincenzo Macrì lo diceva quando era magistrato alla Direzione nazionale antimafia, una decina di anni fa: "Non vi è continente che possa considerarsi immune dalla presenza della 'ndrangheta". E' lo stesso concetto espresso più volte dal procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, che ha inseguito i broker delle cosche calabresi in tutto il mondo: "La 'ndrangheta è l'unica mafia presente in tutti e 5 i continenti". E' un dato di fatto, ormai certificato dalle indagini delle polizie internazionali che hanno fotografato gli interessi e il modus operandi delle "famiglie" che, comunque, restano legate alla terra d'origine e alle regole scritte nel cuore dell'Aspromonte. È la Calabria la "mamma" della 'ndrangheta. E questo a prescindere dal fatto che le cosche si siano poi insediate nel resto d'Italia e del Mondo. Per comprenderlo basta leggere le carte della recente operazione "Aemilia" della Dda di Bologna e la tranche catanzarese delle stessa inchiesta. A Reggio Emilia i "Grande-Aracri" avevano messo basi solide, ma è nella provincia di Crotone che i boss avevano le loro radici. In Emilia Romagna prendevano gli appalti, aprivano attività commerciali, gestivano gli affari e i traffici, tenevano relazioni con il mondo della politica e dell'economia, ma il modello esportato era sempre esattamente quello calabrese. E' questa la peculiarità dei gruppi criminali calabresi, sono in grado di riproporre ovunque un insieme di leggi non scritte e cultura della violenta. Ovunque significa in Italia, in Europa, e nel resto del mondo, dove cellule calabresi si sono trasferite inizialmente al seguito delle rotte dell'emigrazione e, più di recente, dei flussi economico-finanziari. Basta scorrere le relazioni annuali della Dna o delle polizie estere per scoprire che, solo per fare qualche esempio, in Germani da anni ci sono i Nirta, gli Strangio, i Pelle e i Vottari di San Luca. Opure che rappresentanti delle cosche sono attivi in Belgio e Olanda. Che in passato le 'ndrine facevano traffico di Armi con l'Ira in Gran Bretagna e che nella city di Londra, dice sempre Gratteri, "riciclano montagne di denaro sporco". La Francia e la Spagna sono da sempre considerati oasi di pace per boss latitanti e, ancora oggi, piattaforme per il traffico di cocaina. Persino la Svizzera, racconta il pentito Emilio Di Giovine, è terra per far sparire i soldi della droga e per chiudere affari sulle armi. Ma non c'è solo l'Europa. La 'ndrangheta si è già insediata stabilmente in tutti i continenti. In Australia ad esempio, la presenza della 'ndrangheta è radicata ormai da un secolo. Esistono mappe dettagliate che spiegano come ad Adelaide, nella parte meridionale dell'Australia, siano presenti una dozzina di 'ndrine che fanno riferimento alla provincia di Reggio Calabria. I cognomi sono quelli dei Sergi, dei Barbaro, dei Perre, dei Romeo e dei Piromalli. E ancora quelli dei Polimeni e dei Papalia. A Sidney la famiglia più potente era quella degli Alvaro, mentre nel Nuovo Galles del Sud, e precisamente a Griffith, vengono indicate come potentissime le famiglie di origine "platiota", ossia di Platì nella Locride. Stessa storia per Camberra, Melbourne o Perth, in ogni città c'è una locale di 'ndrangheta. Non meno potenti le "famiglie" calabresi in Canada. Ai primi del novecento quando non si parlava neppure di 'ndrangheta, ma di "mano nera", a incutere rispetto c'erano "uomini d'onore" come Giuseppe "Joe" Musolino e Rocco Perri. Negli anni '50 arrivarono poi i soldati, gli sgarristi e i padrini della cosca guidata da Antonio Macrì e da Michele Racco, detto Mike. Identico il destino delle città del Nord America, come New York, dove già negli anni '60 le cosche calabresi si riunivano in "circolo formato" per spartirsi il territorio di alcuni quartieri della città. Ci sono poi intere colonie di calabresi anche nell'America del Sud. Brasile, Venezuela e Argentina hanno accolto per decenni migliaia di emigranti, al seguito dei quali sono anche arrivate le famiglie di 'ndrangheta. Ci sono poi paesi come la Colombia dove la 'ndrangheta ha trasferito decine di broker mandati a trattare direttamente con i narcos della coca. Il più noto di tutti è certamente Roberto Pannunzi, detto "Bebè" che aveva rapporti stabili con Salvatore Mancuso, di origini campane e già capo indiscusso delle Auc (le forze di autodifesa colombiane). Entrambi, oggi in galera, erano trafficanti di droga capaci di muovere tonnellate di "roba" ogni settimana. Lo raccontano, ad esempio, storiche maxi inchieste della Dda di Reggio Calabria note con i nomi di "Igres" (Sergi, scritto al contrario), "Decollo", "Marcos" o "Stupor Mundi". Non manca l'appello l'Africa, il Medio Oriente e quasi tutti gli stati dell'ex blocco sovietico. In Urss i clan ci sono arrivati sono per entrare nel traffico di armi e nelle speculazioni edilizie (soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino). E' successo così in Romania e Ucraina. A questo proposito esiste un'intercettazione ambientale del 1991 in cui un boss, che non fu possibile identificare, ordinava ad un suo investitore di spostarsi all'Est: "Compra, compra tutto quello che puoi, compra tutto, non mi interessa cosa, basta che compri". In altri casi, come per il Libano, i clan vi operano nel ruolo di acquirenti di hashish ed eroina. Oggi, in molti continenti sono stabilmente insediate le seconde e terze generazioni di calabresi. Tra di esse si mimetizzano famiglie di 'ndrangheta che non hanno alcuna difficoltà a riprodurre il loro modello, ritenuto universalmente criminalmente il più longevo. Giovanotti che parlano solo dialetto e inglese. Regole vecchie e tecnologie moderne formano insomma un mix che consente ai clan di fare affari d'oro in mille settori. La droga innanzitutto, da dove arriva gran parte della ricchezza e il denaro da reinvestire giocando in borsa o entrando nei business legali. All'estero la nuova generazione di 'ndranghetisti è identica alla vecchia nella mentalità e cultura criminale, ma assolutamente nuova ed mobile nel modo di fare affari. Negli ambienti investigativi, li chiamano gli uomini delle due valigette: in una ci tengono il codice delle 'ndrine e la calibro 38. Nell'altra il denaro contante e i contratti milionari.
La "Linea del pioppo" di Attilio Bolzoni. Pensando alla mafia che ormai è dappertutto è ovvio che ci venga in mente Leonardo Sciascia e la sua "linea della palma". Come ricorderete, verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, lo scrittore siciliano parlò della "linea della palma" ("Forse tutta l'Italia va diventando Sicilia.. gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il Nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno.. ed è ormai già oltre Roma") utilizzandola come metafora della "mafiosizzazione" dell'intera Italia. Sciascia ne capiva molto di mafia, avendola respirata nella sua Racalmuto e nei feudi intorno. E ne capiva molto anche della nostra Italia, intuendo l'avvelenamento che il Paese avrebbe inesorabilmente subito. Sono passati quarant'anni e - se possiamo permetterci un paradosso - oggi non sarebbe poi tanto stravagante parlare della "linea del pioppo" o della "linea del salice", tipiche piante della Padania e dintorni. E ci piacerebbe anche - usando logore frasi come "se abbassiamo la guardia", se "non raccogliamo l'allarme", se "non interveniamo per tempo" - lanciare una provocazione: state (stiamo) tutti attenti, perché se continua così tra qualche anno ci ritroveremo boss e capi mandamento o "santisti" e Cupole di varie dimensioni e forme anche in Sicilia, Calabria e Campania. C'è questo rischio: c'è il pericolo che le mafie prima o poi invadano tutto il Sud per continuare l'opera: depredare quel poco che hanno lasciato prima di spolpare definitivamente il "loro" Nord. Due Italie lontane. Questa premessa mi è venuta quasi spontanea rileggendo le cronache degli ultimi giorni. Quelle dell'imprenditore di Corleone che ha confessato ai carabinieri della locale caserma di avere subito il pizzo e rivelando i nomi dei suoi aguzzini, quelle della grande retata in un'Emilia Romagna infestata dal malaffare mafioso. Due Italie lontane, molto lontane in questo inizio di 2015. A Corleone il muro dell'omertà si è infranto per la prima volta, in Emilia Romagna nessuno ancora se la sente di parlare. Anzi, peggio: tutti rimuovono, tutti che fanno finta di cadere dal pero. I più coraggiosi si spingono a denunciare l'"infiltrazione", parola secondo noi da abolire dal vocabolario delle mafie al Nord. Infiltrarsi significa penetrare in un luogo senza che gli abitanti stessi di quel luogo se ne siano mai accorti, come presi alla sprovvista, alle spalle. In realtà nelle regioni settentrionali sarebbe meglio parlare di "radicamento", di espansione avvenuta con complicità e favoreggiamenti soprattutto locali. E ciò sta accadendo non da ieri o da ieri l'altro ma dal lontano 1963, data in cui - in quell'anno a Palermo ci fu la strage di Ciaculli, cinque carabinieri e due artificieri dell'Esercito saltati in aria davanti a una Giulietta imbottita di tritolo mentre in città infuriava la guerra fra le cosche - il ministro dell'Interno del tempo, Mariano Rumor, ebbe la felice intuizione di far trasferire fra Veneto, Emilia e Lombardia qualche centinaio di "sospetti mafiosi" (l'istituto del soggiorno obbligato, il famoso confino di polizia) esportando mezza Commissione di Cosa Nostra lontano dall'isola e aprendo la strada alla tanto sbandierata "infiltrazione" mafiosa al Nord. Sì, è vero, si sono "infiltrati" tranquillamente da più di mezzo secolo e da mezzo secolo tutti li considerano semplicemente "infiltrati". Questo è il problema. Ogni qualvolta un'indagine giudiziaria o un'inchiesta giornalistica (vedi Giovanni Tizian in Emilia, vedi Lirio Abbate a Roma) svela la loro forza anche là sopra, tutti si meravigliano come se avessero scoperto il giorno prima - e per caso - gli uomini cattivi che si arricchiscono o minacciano qualcuno nel cortile di casa loro. Come appunto in Emilia Romagna, dove il presidente della Regione Stefano Bonaccini il 26 gennaio, prima prendeva le distanze dalle denunce di don Luigi Ciotti sulla "mafiosità" di certi metodi contro il sindaco di San Lazzaro Isabella Conti, e poi - in generale, molto in generale - sosteneva che "per un periodo, magari in buona fede, al Nord non si è voluto vedere il fenomeno mafioso.. ma qui c'è l'anticorpo per potere sconfiggere questo vero e proprio cancro, che fa male a tutti". Gli "anticorpi". Li abbiamo visti quegli "anticorpi" nella recentissima operazione dell'Arma dei carabinieri, affari sul dopo terremoto, voto di scambio, patti tra 'ndranghetisti camuffati da imprenditori e costruttori locali, il business dei rifiuti speciali, sindaci, prelati e giudici nella ragnatela del boss Nicolino detto "Manuzza", appalti pilotati e tanto altro ancora che prima o poi verrà allo scoperto. E poi, cosa intende "per un periodo", il presidente della Regione Emilia? Lo sa quando è arrivato Giacomo Riina (lo zio del capo dei capi di Cosa Nostra) a Budrio, ventitré chilometri da Bologna? Nel 1967. Sposato con una sorella di Luciano Liggio, aveva scelto un piccolo comune alle porte di Bologna come suo quartiere generale. Dal 1967, un periodo lungo, molto lungo. E' sempre una "sorpresa" ritrovarsi la mafia fra i piedi. E di certo non solo in Emilia. Basta ricordare tutti quei sindaci e quegli amministratori da Roma in su, quei prefetti (memorabile la battuta negazionista del rappresentante di governo di Milano di qualche anno fa), quei magistrati distratti o privi di una specifica competenza in materia antimafia, un paio di ministri dell'Interno di qualche governo fa, soprattutto di milioni e milioni di italiani sicuri e convinti che mafia e mafiosi - ancora oggi - siano "patrimonio" di un altro Paese. Solo verso sud, da Napoli fino a Trapani. Non c'è consapevolezza, non c'è coscienza. E c'è anche un po' di tornaconto. Prendiamo come altro esempio la vicenda di Mafia Capitale. Possibile che quasi nessuno si sia mai accorto delle scorrerie de Er Cecato e della sua banda (con amici non solo in Comune ma in tutto il sottobosco politico, non solo nelle zone tradizionalmente criminali della città ma con agganci ministeriali) prima dell'arrivo dei procuratori Pignatone e Prestipino e di un gruppo di carabinieri che venivano dalla Sicilia e dalla Calabria? Vi sembra normale che uno come Er Cecato sia andato liberamente in giro per Roma per così tanto tempo e così indisturbato? Forse qualche complice che l'ha "coperto" ci sarà pure o no? Forse sarà anche arrivata l'ora di ridiscutere tutti insieme cos'è mafia e cosa non è mafia. A meno che, da Roma (compresa) in su, non si voglia condividere il pensiero di Giuseppe Pitrè, illustre letterato e antropologo di fine '800. Quello che sosteneva che la mafia "non era una setta né un'associazione a delinquere". Ma uno stato d'animo. Dei siciliani, solo dei siciliani.
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.
“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.
La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.
Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che "Il comune bandirà una gara per l'affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l'ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L'associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.
Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.
Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014 «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».
Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.
Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.
Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l'impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l'articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell'allora Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell'associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell'Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l'Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno. L'Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l'Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all'assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.
Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.
Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.
Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.
Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi...
Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante, pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l'Italia.
Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»
Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione. "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.
Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.
Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere.
L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.
L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.
L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.
Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!
L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.
Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?
Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.
I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.
I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.
Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?
"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.
Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.
Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.
«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».
Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.
Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…
La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……
Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.
Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza. Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”. Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”. Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.
Ma questi magistrati non sono coerenti.
L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».
G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.
«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».
Ha fatto causa alle banche?
«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».
Alla fine le cause le ha vinte?
«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».
E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?
«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».
In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?
«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».
Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?
«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».
E qual è il problema?
«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».
Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.
«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».
Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?
«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».
Adesso cosa farà?
«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».
Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.
I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.
Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.
Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.
PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.
LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.
A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.
Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato. Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.
La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.
La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.
Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.
ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.
«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».
La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.
La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:
1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".
2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".
Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.
FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».
Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali … il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.
A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.
Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.
«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»
LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e, forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»
“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.
PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.
Chi è Giuseppe Masciari?
Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.
Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.
Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.
Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.
Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.
Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.
Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.
Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.
Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.
Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.
L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.
L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città. E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.
COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato. In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage. Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.
Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».
L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.
Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.
Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi” “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.
LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.
Coppola, a chi si riferisce?
“Allo Stato”.
Cosa chiede allo Stato?
“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.
Ha ricevuto altre minacce?
“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.
Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?
“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.
Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?
“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.
Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.
“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.
Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…
“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.
Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…
“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.
Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei.
“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.
E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?
“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.
Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.
“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.
Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.
“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.
Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.
“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.
Oggi come vive la famiglia Coppola?
“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.
Lei ha due figlie.
“Frequentano il liceo”.
A scuola come vengono trattate?
“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.
L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.
“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.
Esiste lo Stato nei suoi territori?
“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.
L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.
LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.”
Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.
TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».
IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento. Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito, me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.
Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.
Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza, lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero. E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali. Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari. Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.
La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.
Da un fatto ad un all'altro.
Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.
1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.
2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.
La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...
Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....
Si allarga la “tangentopoli” della Marina. Il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere i domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere a gennaio. Ma nelle prossime settimane altri potrebbero finire agli arresti, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Dopo gli arresti del 7 gennaio scorso di diversi alti ufficiali della Marina militare, per concussione, perché gli imprenditori erano stati costretti a versare una tangente del 10% (su tutti gli appalti e forniture), il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere gli arresti domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere. Ma negli atti depositati ai giudici, il pm Maurizio Carbone ha scritto che diversi imprenditori hanno chiamato in causa altri ufficiali della Marina militare di Taranto. Il pm ha glissato i nomi di questi ufficiali che sono stati anche loro iscritti sul registro degli indagati. Scrive nella sua memoria il pm Carbone: «I verbali delle sommarie informazioni degli imprenditori ascoltati contengono numerosi “omissis” nelle parti concernenti il coinvolgimento di altri ufficiali che sempre all’interno del Commissariato della Marina (Maricommi) di Taranto avrebbero preteso tangenti dagli imprenditori anche per gli altri reparti, sempre con la regia della direzione di Maricommi». Insomma, la Marina di Taranto rischia di essere affondata dalla inchiesta della Procura di Taranto, che sta svelando le tante falle di un «sistema» di corruzione che si tramandava da generazioni di ufficiali. E che non riguardava solo «il quinto reparto», ma anche gli altri. Dagli atti delle indagini risulta addirittura che dopo il primo fermo in flagranza di reato di un ufficiale della Marina che intascava le mazzette, e questo avveniva nel marzo scorso, le tangenti hanno continuato a essere pagate dagli imprenditori. «Si è rotto il muro dell’omertà», scrive il pm Carbone nella sua memoria. Ed ė facile ipotizzare che nelle prossime settimane altri ufficiali della base di Taranto finiranno agli arresti. Una falla. Enorme, continua Ruotolo. Cinque ufficiali e un sottufficiale della Marina militare in carcere per concussione. Le tangenti arrivavano anche a Roma, allo Stato Maggiore della Marina. Il 10% su tutti gli appalti. Ma il quadro potrebbe aggravarsi ancora di più. Ci sono altri indagati e gli arresti potrebbero scattare per altri ufficiali se quelli finiti in carcere stanotte dovessero decidere di collaborare, di ammettere, di confermare le ipotesi del pm Maurizio Carbone. Uno schizzo di fango, anzi peggio sulla Marina militare. Mare nostrum, il salvataggio di decine di migliaia di profughi è alle spalle. L’inchiesta della Procura di Taranto apre uno scenario inedito. Non si tratta di semplici «mele marce». È un sistema di corruzione radicato in quella che è la base aeronavale della nostra Marina. È stato un imprenditore che si è ribellato nel marzo scorso a svelare il sistema, facendo arrestare in flagranza di reato un capitano di Fregata, Roberto La Gioia, mentre intascava una busta con 2.000 euro. I carabinieri sequestrarono una pen drive e un appunto nella cassaforte dell’ufficiale che documentavano appalti, percentuali, spartizioni delle tangenti. Decine e decine di migliaia di euro finiti nelle tasche di diversi ufficiali. La Gioia ha ammesso che il suo predecessore gli fece le consegne. Insomma, ereditò il «sistema». Adesso c’è solo da aspettare, per vedere quanto esteso sia il marcio, alla Marina militare.
Appalti e mazzette, nuovo terremoto per la Marina a Taranto, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si allarga anche agli altri reparti di Maricommi l’inchiesta sul sistema di tangenti imposto agli imprenditori. È quanto emerge dalla memoria presentata ieri mattina dinanzi al tribunale del riesame dal sostituto procuratore Maurizio Carbone con la quale aveva chiesto la conferma del carcere per i quattro indagati che avevano appellato l’ordinanza emesso lo scorso 13 gennaio dal gip Pompeo Carriere e che invece il collegio di magistrati ha scarcerato. Si tratta del capitano di vascello Attilio Vecchi, assistito dall’avvocato Susanna Carraro, del capitano di fregata Riccardo Di Donna, del capitano di fregata Marco Boccadamo, difeso dai legali Raffaele Errico e Rocco Maggi, e del maresciallo Antonio Summa difeso dagli avvocati Raffaele Errico e Alessandra Semeraro. Il pubblico ministero Carbone ha depositato diverse testimonianze di imprenditori raccolte negli ultimi giorni nelle quali gli stessi avrebbero raccontato agli inquirenti che le tangenti venivano pagate anche ad altri ufficiali di altri reparti della Direzione di commissariato della Marina militare di Taranto. L’inchiesta sulla tangentopoli in divisa, quindi, non si ferma. Anzi. L’indagine ora sembra mettere sotto la lente di ingrandimento anche gli altri reparti di Maricommi. Dalle poche notizie trapelate, infatti, i verbali di interrogatorio depositati dal pm Carbone sarebbero in diverse parti coperti da «omissis» per nascondere i nomi di altri ufficiali che, secondo quanto raccontato negli ultimi giorni da una serie di imprenditori, avrebbero intascato mazzette. Tra i diversi indagati, al momento, la posizione più delicata è quella di Marco Boccadamo, l’ex vice direttore di Maricommi a cui il riesame ha concesso i domiciliari. Contro di lui, infatti, hanno testimoniato diversi imprenditori sostenendo di aver pagato mazzette all’ufficiale sia quando ricopriva l’incarico di comandante del V Reparto che di vice direttore. Inoltre dopo le prime dichiarazioni di La Gioia che avrebbe raccontato di aver suddiviso le mazzette con Boccadamo, ora si sarebbero aggiunti anche altri due imprenditori che al pubblico ministero avrebbero ammesso di aver versato tangenti all’ex vice direttore per ottenere appalti anche negli altri reparti. Conferme non da poco, quindi, che per gli inquirenti possono significare solo che gli elementi raccolti finora rappresentano solo una parte di quello che avviene all’interno del comando militare. Elementi raccolti, secondo il pm Carbone, grazie agli arresti effettuati che hanno consentito agli imprenditori di abbattere il muro di omertà che per anni ha garantito la sopravvivenza del sistema concussivo. Infine contro Boccadamo pesano anche le dichiarazioni del suo pari grado Giovanni Cusmano avrebbe ammesso di aver ereditato direttamente da lui «la prassi» del 10 percento e di aver diviso con lui almeno in una occasione una tangente da 4mila euro versata dall’imprenditore tarantino che per primo ha dato il via a questo terremoto giudiziario. Cusmano ha spiegato al pm Carbone e al gip Carriere di essere arrivato al comando del V Reparto quasi consapevole che avveniva qualcosa di sospetto: «Che Boccadamo facesse queste cose, si sapeva all’interno».
"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti. "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".
Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.
Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.
Ma non è la prima volta.
Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.
Lecce, confessano altri due poliziotti della Stradale, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri due poliziotti della Stradale confessano. E’ accaduto ieri mattina nel corso dell’udienza davanti al Tribunale del Riesame. Stef ano Simonetto, 42 anni, e Luigi De Vincenzo, di 55, entrambi di Nardò, hanno ammesso di essersi «adeguati un andazzo che era generalizzato» fra gli agenti in servizio nella sezione di Polizia stradale di Lecce. I due sono in carcere dal 12 maggio scorso sulla scorta di u n’ordinanza di custodia cautelare in cui si contestano i reati di associazione per delinquere e concussione. Gli agenti sono accusati di aver preteso mazzette e regali da commercianti ed imprenditori. In cambio furgoni e camion delle aziende «compiacenti » non sarebbero stati multati. Il sistema delle «regalie» e delle mazzette è già stato illustrato da altri due agenti: l’ispettore capo Fr ancesco Reggio di Lecce e l’assistente Anna Maria Petrelli di Lizz anello. Ieri sono arrivate le dichiarazioni degli altri due agenti che hanno ammesso di aver ricevuto i regali e di aver fatto qualche «giro» fra gli imprenditori per ottenere buoni benzina. Simonetto e Di Vincenzo sono difesi dagli avvocati Giuseppe Bonsegna e Donato Mellone. Nel corso dell’udienza il pubblico ministero Guglielmo Cataldi ha depositato anche nuovi verbali con le dichiarazioni di altri imprenditori i cui nomi compaiono nella lista di coloro che avrebbero versato «mazzette» e fatto regali agli agenti della Stradale. I titolari di alcune aziende sono già stati sentiti. Ed hanno confermato di aver consegnato denaro, regali e buoni benzina ai poliziotti per evitare il rischio di essere multati. Ieri davanti al collegio del Tribunale del Riesame sono arrivate le posizioni di altre cinque agenti raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta di Leonardo Impero Delle Donne 45 anni, di Caprarica; di Franco Carlà, 58, di Lizzanello; di Maurizio Scarofo n e , di Lecce; Giuse ppe Piccinno, 51, di Aradeo; di Giuseppe Amenini, 46, di Maglie. Fra di loro c’è stato chi ha preferito rinunciare al ricorso al Riesame. Gli agenti sono assistiti dagli avvocati Giancarlo Dei Lazzaretti, Luigi Rella, Luigi Greco, Pantaleo Cannoletta, e Laura Minosi. Intanto continuano da parte degli ufficiali della sezione di pg della Polizia di Stato gli ascolti degli imprenditori come persone informate sui fatti.
Rossana di Bello, fa fallire Taranto e si prende un vitalizio a 58 anni, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. La domanda l’ha fatta all’inizio di settembre, ed è bastata una sola seduta dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Puglia per esaudirla, perfino in modo retroattivo. Dal primo settembre scorso c’è un ex politico in più a prendere quel vitalizio che da anni ci raccontano falsamente di avere abolito: è Rossana di Bello, una delle pioniere di Forza Italia. Ci sono non poche anomalie in quel vitalizio che era stato abolito e continua a correre come un fiume. La prima anomalia è quella di uno Stato che premia per tutta la vita un politico che non ha particolarmente brillato: la Di Bello è stata sindaco di Taranto per lunghi anni e con lei la città è stata fra i pochi comuni italiani a fallire, con un dissesto finanziario per oltre 900 milioni di euro (è stata anche sotto inchiesta penale, ma in secondo grado l’hanno assolta dando la colpa ai suoi collaboratori. La Corte dei Conti però ce l’ha ancora nel mirino per danno erariale). La seconda anomalia è che la Di Bello con soli cinque anni lavorati prende da settembre e prenderà fino all’ultimo suo giorno (con possibilità di rendere reversibile ai suoi cari) un assegno mensile da 3.862,27 euro lordi. La terza anomalia riguarda l’età pensionabile della fortunata politica: ha compiuto 58 anni il 28 agosto scorso. La legge Fornero vale dunque per tutti, ma non per i politici italiani, che con soli 58 anni e per avere lavorato solo 5 anni hanno diritto a una pensione reversibile che è quasi il triplo della pensione media degli italiani che hanno lavorato 40 anni. Quarta anomalia, chi sul lavoro combina un disastro come è evidente nella storia di Taranto, alla fine ci rimedia un bel premio.
Lecce, aumentano processi a magistrati, 12 indagati, 92 parti offese. L'inaugurazione dell'anno giudiziario a Lecce con competenza su Taranto: tra i temi caldi l'ambiente, con l'Ilva, il fotovoltaico, gli abusi edilizi e i rifiuti interrati. In crescita durata media procedimenti civili, in lieve calo quella dei processi di primo grado, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica” L’Ilva, i parchi fotovoltaici, i rifiuti interrati e poi le colate di cemento sulle aree protette, vittime di “reati perpetrati oltre che da privati spesso anche dal pubblico”. È stato l’ambiente uno dei settori più impegnativi per la magistratura salentina, come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente vicario della Corte d’appello di Lecce, Mario Fiorella: “In tutto il Salento è grave la situazione del traffico di rifiuti pericolosi di varia provenienza, spesso sparsi in discariche abusive o anche interrati con danni per i terreni e le falde acquifere”. Relazione sintetica, quest’anno, perché racconta il lavoro fatto sotto la presidenza di Mario Buffa, da due settimane in pensione, al quale è stato rivolto un plauso unanime. L’anno appena trascorso - nei tribunali di Lecce, Brindisi e Taranto – è stato caratterizzato da difficoltà legate alla perdurante carenza di organico, sia dei magistrati che del personale amministrativo, a cui si è reagito con un impegno che ha consentito “di mantenere inalterato il trend relativo alla durata dei processi”, ha detto il presidente. I numeri, a quanto pare, descrivono una situazione sotto controllo: aumenta la durata media dei processi civili, ma solo in fase d’appello (891 giorni contro gli 806 dell’anno precedente), ma aumenta anche il contenzioso, che non viene alleggerito dalla mediazione civile “che non ha dato effetti positivi”, con solo 63 procedimenti iscritti nel 2013. Risulta addirittura leggermente diminuita, invece, la durata media dei processi di primo grado a Lecce e Brindisi (663 giorni a Lecce e 419 a Brindisi rispetto ai 675 e 442 dell’anno precedente) mentre è leggermente aumentata a Taranto (619 giorni a fronte dei 580 del 2012). I processi d’Appello invece sono risultati più veloci in entrambe le sedi (560 giorni a Lecce e 733 a Taranto, contro i 674 e gli 823 dell’anno precedente). E se le lungaggini della giustizia pongono il 2013 in perfetta linea con gli anni passati, risulta invece in crescita il numero di processi a carico di magistrati: ben 113 sono stati infatti quelli iscritti nel registro degli indagati, comprendendo sia quelli in servizio nel Distretto di Lecce (inchieste poi trasferite per competenza a Potenza) sia quelli in servizio a Bari, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. La relazione sull’andamento della giustizia ha preso poi in esame il lavoro effettuato dalle Procure, scavando anche nelle metodologie di indagine utilizzate ed evidenziando, per esempio in materia di intercettazioni telefoniche, come la Procura di Brindisi sia quella che ne ha fatto un maggiore utilizzo (con 647 utenze controllate a fronte delle 437 di Lecce e 641 di Taranto), mentre 1.267 sono i telefoni intercettati dalla Dda nell’ambito del controllo delle organizzazioni criminali. Proprio in tema di mafia, è stata sottolineata dal presidente Fiorella la diminuzione degli omicidi (2 a Taranto e 2 a Lecce) “dettato dall’esigenza di non richiamare l’attenzione di polizia e magistratura con azioni eclatanti”. Usura ed estorsioni, invece, continuano ad essere terreno privilegiato d’azione dei clan ma molto spesso “non vengono denunciate dalle vittime per paura di ritorsioni”, confermando l’appellativo di “reati sommersi”, che danno infatti origine a pochi procedimenti giudiziari: 40 per usura e 182 per estorsione nelle tre province.
E poi....
Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.
Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...
Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare. Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.
Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.
Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.
«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».
Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.
Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.
Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.
Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”, Lun, 26/09/2011 con Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.
Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.
“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.
Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento. L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".
“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.
Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.
Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.
Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013 produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.
La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.
Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?
«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»
Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…
«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».
Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?
«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»
Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?
«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».
L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?
«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»
Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?
«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».
De Magistris ha fatto cadere Prodi…
«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».
Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?
«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».
Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?
«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».
Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.
«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».
Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?
«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».
Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?
«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».
Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?
«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»
Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?
«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».
Beh, i risultati insegnano…
«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»
In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…
«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».
Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.
«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia. Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».
Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
Le Prove. La Prova scritta.
La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.
Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.
Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).
Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.
Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.
Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
Medicina, storia del concorso delle
polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati".
L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello
scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le
polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato
dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino
Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della
trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da
localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli
alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine
prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque
ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece,
la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso
pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello
nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un
tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia,
ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa
dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non
omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati
in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in
certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da
costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo
giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato
punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti
ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo
a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico,
punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al
termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e
alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare.
A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli
avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti
i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che
il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato.
Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio
novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di
due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da
parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero
dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle
oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere
dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a
tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore
o minore correttezza delle risposte fornite.
Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello
stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano,
archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci
si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della
gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima
questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del
12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei
ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta
nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele
Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già
ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina
di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al
collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi.
Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella
partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito
all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi
stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero
l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle
carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva
che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi
e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche
giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di
formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e
dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati
erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente
dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4
contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta
con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta
l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di
concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante
l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10
hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31
ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei
candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di
area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo
17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono
troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso
altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera
bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre
per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far
prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di
massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i
casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i
candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova,
hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai
comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano
state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a
Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari
collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece
collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo
la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei
cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor
Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16
episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai
candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando
ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila.
Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a
Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende
conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano
modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche
semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga
sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata
anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi
che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la
prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era
stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8.
Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta
del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere
ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno
fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando
del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco
d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in
alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere
liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito
candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle
postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un
candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico.
D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule
del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere
liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato
poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso
delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a
Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto
a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non
è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di
somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e
carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i
tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su
60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di
preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai
candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece
somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e
viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito
che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una
riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata
di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il
contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a
ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di
scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può
salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state
giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i
candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta
fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel
momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio
Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali
delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3
novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor
Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di
Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi
casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari
l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state
interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge
che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27
sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area
medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico
disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area
medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa
Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di
farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la
Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non
influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti
- quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei
punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto,
sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui
prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un
rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due
domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione
(una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti
abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito
provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi
- per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate
dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei
ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere
il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur
sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici
fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno
in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto
che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove
già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già
pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito
era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e
interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a
graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della
selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso.
Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura
dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi
relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur
e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero
comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo
Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di
ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo
medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di
reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti
legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa
legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio -
decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità
denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal
Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri,
meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.
Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?
A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.
La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.
La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.
La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.
La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.
Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.
A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.
Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.
Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:
prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;
prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;
prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;
prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;
prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;
prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;
prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;
prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;
prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;
prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero più c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;
prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;
prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;
prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;
prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;
prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;
prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);
prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;
prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;
prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;
prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica, ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:
a) la titolarità di una partita Iva;
b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);
c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;
d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;
e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;
f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;
g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;
h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.
Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.
Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.
Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?
Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.
Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.
QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.
Quote latte, Italia deferita a Corte Ue. Multe non pagate per 1,3 miliardi. «Ora Salvini chieda scusa», dice il ministro Martina. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, scrive “Il Corriere della Sera”. La Commissione europea ha annunciato la decisione di deferire l’Italia alla Corte di giustizia Ue per il mancato recupero dei prelievi dovuti dai produttori italiani per la sovrapproduzione di latte. Secondo una nota della Commissione di Bruxelles, l’Italia deve recuperare ancora sanzioni per 1,343 miliardi di euro. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, che ha dato origine a una serie di multe e poi a una procedura d’infrazione contro Roma. Bruxelles aveva già inviato una lettera di messa in mora sulla vicenda del recupero dei prelievi nel giugno del 2013, poi un parere motivato nel luglio dello scorso anno. Ora il terzo passo, quello del deferimento ai giudici Ue, visto che per la Commissione l’Italia non ha mostrato «alcun progresso significativo nel recupero». Secondo i dati della Commissione, su un importo complessivo di multe per 2,305 miliardi, circa 1,752 non sono stati ancore recuperati dalle autorità italiane. Ma «parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni», dunque la somma finale è pari a 1,343 miliardi di euro. Ma secondo la stima della Corte dei conti non tutti i soldi potranno essere incassati: ce ne sono 832 esigibili, sui quali il governo sta lavorando per la riscossione, mentre 507 milioni sono al momento non esigibili a causa dei processi in corso. Il sistema delle quote è stato istituito nel 1984 per evitare distorsioni del mercato dovute alla cronica sovrapproduzione di latte, ed è basato su quote di produzione nazionale. Quando uno stato membro eccede la propria quota, i produttori responsabili devono pagare una multa. Secondo la Commissione europea a rimetterci sono anche i contribuenti italiani, perché le somme da recuperare vanno iscritte nel bilancio italiano. «La notizia di oggi conferma che tutti quelli che hanno spiegato agli allevatori che non si doveva pagare le multe e che qualcuno sarebbe arrivato al posto loro, hanno fatto un grosso danno al Paese. Salvini si dovrebbe mettere una felpa con scritto "scusa"», commenta il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, annunciando che da marzo partiranno le cartelle per quei mille che non hanno pagato. Piccata la risposta della Lega, con i senatori Stefano Candiani e Paolo Arrigoni: «Invece di impartire lezioni, il ministro Martina si faccia un esame di coscienza e pensi alla realtà, visto che l’Imu agricola, vera e propria patrimoniale, preleverà 270 milioni di euro in tasse dal comparto agricolo». «La vicenda assume i contorni della beffa. Una coda pesante che chiama a responsabilità gli urlatori leghisti», incalza il presidente della commissione Agricoltura Luca Sani, deputato Pd. «Un nuovo e grave colpo al primario e alla morale del nostro paese», sottolinea il presidente di Confeuro, Rocco Tiso. «Paghi chi deve a questo punto, tutto e subito», chiede Confagri a cui fa eco la Cia, secondo cui «gli agricoltori e i cittadini onesti non devono pagare il conto pregresso dei `furbetti´, e il Governo deve trovare soluzioni per l’anno 2014». Per la Coldiretti si tratta infatti di una «pesante eredità delle troppe incertezze e disattenzioni del passato», mentre c’è ancora «il rischio di nuove multe quest’anno».
Quote latte, l’Italia dovrà risponderne alla Corte di Giustizia europea, per decisione della Commissione Europea, e rischia quindi un’altra pesante multa in materia, scrive “Blitz Quotidiano”. “Per colpa della Lega”, dice il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina. Giovedì la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia per il mancato recupero di 1,75 miliardi di prelievi dai produttori per l’eccesso di produzione rispetto alle quote latte tra il 1995 ed il 2009. Gli allevatori dei Paesi europei possono produrre e vendere latte entro certe quote, per l’eccedenza è previsto un prelievo finanziario: questa regola vale fino all’1 aprile 2015. Ma per anni la Lega ha fatto una campagna perchè gli allevatori non pagassero. E infatti molti non hanno pagato e ora l’Italia rischia di pagare 1,7 miliardi di multa, oltre ai 4,5 già pagati. Una nota della Commissione europea dice: Ogni anno, dal 1995 al 2009, l’Italia ha superato la quota nazionale e lo Stato italiano ha versato alla Commissione gli importi del prelievo supplementare dovuti per il periodo in questione (2,305 miliardi di euro). Tuttavia – prosegue la nota – nonostante le ripetute richieste della Commissione, risulta evidente che le autorità italiane non hanno preso le misure opportune per recuperare il prelievo dovuto dai singoli produttori e caseifici. Ciò compromette il regime delle quote e crea distorsioni della concorrenza nei confronti dei produttori che hanno rispettato le quote e di quelli che hanno preso provvedimenti per pagare gli importi individuali del prelievo supplementare. Come sottolineato dalla Corte dei conti italiana, questa situazione è iniqua anche nei confronti dei contribuenti italiani. La Commissione Ue stima che, sull’importo complessivo di 2,305 miliardi di euro, circa 1,752 miliardi non siano ancora stati recuperati. Parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni, ma la Commissione stima che siano tuttora dovute sanzioni per un importo pari a 1,343 miliardi di euro. Nell’ambito delle procedure di infrazione dell’UE, il deferimento alla Corte di giustizia costituisce la terza e ultima fase della procedura. La Commissione ha inviato all’Italia una lettera di costituzione in mora su questo caso nel giugno 2013 e un parere motivato nel luglio 2014. Dato che l’Italia non ha mostrato alcun progresso significativo nel recupero, il caso è ora deferito. Come dire, fino a oggi non vi siete mossi: ora pagate. Il ministro Martina, nel governo da un anno, punta il dito contro la Legge a Giuliano Balestreri di Repubblica dice: “Salvini dovrebbe mettersi una bella felpa con scritto ‘scusate’. Scusate a tutti gli italiani per le prese in giro della Lega Nord: hanno pontificato per anni e questo è il risultato. Un settore in sofferenze dove i furbi spalleggiati dalla Lega hanno messo i difficoltà gli onesti. Ci risiamo, ci tocca gestire questa nuova grana, mentre il segretario della Lega pontifica sull’agricoltura che lui, a differenza di altri proteggerebbe. Farebbe meglio a chiedere scusa, e in fretta”. “Loro sulla storia delle quote latte hanno sempre speculato, hanno costruito anni di campagne elettorale sulle bugie che sono già costate agli italiani 4,5 miliardi di euro, 75 euro per ogni cittadino. E ora rischiamo di pagare ancora solo perché nessuno, prima di noi ha voluto gestire e risolvere il problema preferendo marciarci sopra. Dovrebbero chiedere scusa perché questa è la tassa padana, la tasse leghista”.
Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori multati. Deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori, che avrebbero sforato le quote latte imposte dall’Europa, multe per 1,3 miliardi, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Non serviva certo la palla di vetro per sapere come andava a finire. Era scontato il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori che avrebbero sforato le quote della produzione di latte imposte dall’Europa multe per 1,3 miliardi già pagate dallo Stato. La melina era andata avanti per anni, confidando che la patata bollente sarebbe toccata al prossimo governo, o al successivo ancora. Nonostante richiami sempre più severi: due lettere di messa in mora avevano preceduto il deferimento annunciato ieri da Bruxelles dopo aver riscontrato la mancanza di «alcun progresso significativo nel recupero». La ragione, fin troppo facile da comprendere: pretendere quelle multe era impopolare. Tanto più pretenderle da coloro ritenuti i più fedeli fra i propri elettori. Fedeli al punto che il leader dei Cobas del latte Giovanni Robusti, inguaiato pure con i giudici ordinari e contabili, era stato senatore della Lega Nord nel 1994 ed europarlamentare nel 2008. E se il Carroccio si metteva di traverso, non è che gli altri partiti si stracciassero le vesti perché non si chiedevano i soldi agli allevatori. Poco importa se l’inerzia dettata dal tornaconto politico caricava sulla collettività un peso finanziario immane e il rischio di una sanzione europea salatissima. Pagheranno i contribuenti, come sempre. Anche perché per questo genere di faccende, a differenza di quanto spesso accade qui, la prescrizione non opera. Solo che questa volta il destino ha giocato uno scherzo beffardo, facendo scattare il deferimento quando è in carica un governo che quelle multe si è mostrato deciso a farle pagare. Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui il segretario leghista Matteo Salvini ora dovrebbe mettersi una felpa con su scritto «scusa», dice che in questi giorni sono partite le cartelle indirizzate a 1.300 allevatori che dovrebbero all’erario 832 milioni. Altri 507 milioni sono invece incagliati nella solita giungla di ricorsi: e lì allarga le braccia. Ma temiamo che non basti per impietosire Bruxelles. Meglio prepararsi al peggio.
ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.
I pregiudizi che si alimentano a sinistra.
Cosa sono i radical chic? Si chiede Luca Sofri su “Il Post”. In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.
E una carrellata di alcune espressioni di Radical-chic li troviamo nella puntata del 26 febbraio 2015-02-27 di Virus condotto da Nicola Porro. Dal minuto 51:
“Ma vi rendete conto che siete impresentabili?” Lucia Annunziata 17 marzo 2013 intervistando Angelino Alfano;
“Se Berlusconi vince vivremo nell’Italia dell’abuso. Un giorno ho definito Forza Italia il partito di quelli che vogliono parcheggiare in seconda fila.” Romano Prodi 7 aprile 2006;
“Berlusconi ottiene ancora 10 milioni di voti . E di chi sono questi voti? O di gente che aspetta ancora di vedere volare gli asino, cioè gonzi. O che si aspetta di ottenere qualcosa da chi può offrirgli molto, cioè i furbi”. Eugenio Scalfari maggio 2013;
“Che senso ha parlare a questi elettori di offshore? Che senso ha parlare a questi elettori quando ignorano anche il titolo di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano. E salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purche’ ci sia un sedere in copertina”. Umberto Eco 2001;
“La maggior parte dei votanti del PDL sono persone con scarso livello di istruzione. Persone con titolo di studio medio o medio-basso. Persone disinteressate o disinformate, che attingono le loro informazioni dalla televisione e soprattutto dalle tre reti Mediaset”. Piero Ignazi 7 maggio 2008;
“Il voto di scambio è, a mio parere, la forza più grande di quella parte politica”. Roberto Saviano 10 dicembre 2012;
“Il pubblico ideale di Porro è il ceto medio non riflessivo”. Aldo Grasso 20 settembre 2014.
Evadere sarà roba di destra ma gli evasori sono di sinistra. Visco spara sui moderati, ma dovrebbe guardare in casa propria. In quanti hanno avuto guai con le tasse, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. «Le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». L'ex ministro dell'economia, Vincenzo Visco, in un'intervista concessa a Virus giovedì scorso, ha riproposto la propria personale teoria sociologica (che poi è la stessa di tutti coloro che hanno il cuore a sinistra e il portafogli dall'altra parte): «l'evasione è di destra». Senza se e senza ma, per Bacco. A sentir queste parole parrebbe di capire che la propensione a evadere sia un correlato genetico dell'uomo di destra. Esempio fulgido ne sarebbero i veneti. «Un popolo per natura antistatalista», ebbe a dire nel 2007 l'inventore del Grande Fratello fiscale che ficca il naso nel nostro conto in banca e in tutte i meandri della nostra vita. Ma il social-moralismo di Visco e dei suoi fans è una brutta bestia: l'etica e l'estetica (come la fisica) si fondano su schemi e tesi soggettive che l'esperienza spesso si incarica di smentire. E questo è il caso del nostro ex ministro che ha parlato proprio nel giorno nel quale a Gino Paoli è stata contestata una presunta evasione fiscale di 800mila euro per aver trasferito 2 milioni di euro in Svizzera senza dichiararlo. Le ironie sul web si sono sprecate (tipo «Il cielo in una banca, quattro amici al bar e due milioni in Svizzera») nei confronti dell'attuale presidente della Siae nonché ex deputato Pci che poi s'è giustificato pure affermando «alle feste dell'Unità ero costretto a prendere i soldi in nero» e, dunque, voleva rimpatriare i capitali non scudati in maniera regolare. Ecco, basterebbe già questo forse per dimostrare che un'icona della musica italiana e santino della sinistra (come tutta la scuola cantautorale genovese) non sia poi moralmente e geneticamente diverso da tutti gli altri. Però, se si analizzano alcuni fatti di cronaca più o meno recenti, non è che nelle citazioni si ritrovino solo personaggi con la tessera di Forza Italia o della Lega Nord negli elenchi, come Visco vorrebbe darci a intendere. Tornando indietro di qualche giorno, nelle dichiarazioni dell'inventore del Premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, emerge uno spaccato non proprio edificante del rapporto tra sinistra politico-intellettuale e il vil danaro. «Ho sostenuto l'allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha dichiarato ai giudici della Corte d'Appello aggiungendo che la ex presidente della Regione Mercedes Bresso «lo usava per le sue attività». Soldi per tutti giornalisti, attori e artisti. «Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace», ha aggiunto specificando che «partivo per Stresa con 100mila euro per gli attori», tra i quali viene citata Stefania Sandrelli, oltre che ex compagna di Gino Paoli nonché attiva partecipante ad alcune iniziative di Ds e Margherita. Tutti coloro che sono stati citati da Soria hanno respinto al mittente le accuse definendole calunnie. Sarà il magistrato a stabilire e ad accertare. Ma non si può non rilevare come il governatore piemontese, Sergio Chiamparino, abbia una storia tutta interna alla sinistra. E così pure per Corrado Augias che ogni giorno su Repubblica offre ai lettori la sua Weltanschauung. A proposito di Repubblica . Al gruppo Espresso, del quale è presidente la tessera numero uno del Pd Carlo de Benedetti, è stata contestata una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Un po' troppo per un editore che in tutti questi anni ha imputato a Silvio Berlusconi di aver corrotto la morale degli italiani. Ma, si sa, in Italia c'è chi è «inagibile» e chi invece ha la fortuna di battere strade meno impervie. Eppure per lanciare una fatwa bisognerebbe essere sopraffini esegeti, ma probabilmente nei testi sacri dell'Ingegnere manca qualche pagina. Idem per il direttore del quotidiano di Largo Fochetti, Ezio Mauro, «pizzicato» qualche anno fa a pagare parzialmente in nero (circostanza mai smentita) un immobile a Roma. Anche il noto giornalista utilizza spesso toni moraleggianti. Più che di etica della sinistra si potrebbe parlare di etica luterana. Pecca fortiter sed crede fortius , diceva l'eretico tedesco, ossia «Pecca fortemente, ma credi con ancora maggior vigore». Basta strologare sulla destra e si è perdonati. Qualche atto di contrizione in più dovrà recitarlo l'ex governatore sardo ed europarlamentare piddino, Renato Soru, alias Mister Tiscali. All'imprenditore, in quanto presidente del gruppo tlc, è stata attribuita una presunta evasione su un'operazione di prestito con una controllata britannica. Il dibattimento inizia il 6 marzo, ma intanto sul buon Soru pende una cartella Equitalia da 9 milioni dopo aver disatteso un accordo con il fisco. Lo dicevamo all'inizio, essere di «sinistra» in Italia è come avere uno speciale passaporto per l'oblio di tutto ciò che non è bellezza, rigore, solidarietà, misura, amore per il prossimo, impegno. Vale per Lorenzo «Jovanotti» Cherubini, referente ideologico del veltronismo che nel 1999 patteggiò una condanna per il reato di frode fiscale con un'ammenda di 1,2 milioni di vecchie lire: meno di 600 euro per chiuderla con un'omessa dichiarazione di circa ventimila euro. «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Chissà se l'avrà cantata anche Pierino Tulli, imprenditore romano a capo di un gruppo di cooperative al quale è stata contestata 7una maxievasione da 1,7 miliardi. E dire che Veltroni lo voleva presidente della Lazio al posto di Claudio Lotito.
Da Bandiera rossa ai fondi neri, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. La Guardia di finanza ha appurato, dicono, che Gino Paoli ha portato in Svizzera due milioni di euro: evasione fiscale della più bella specie. In parte queste entrate occultate a Lugano, ripetono, si riferiscono a pagamenti in nero per esibizioni alle Feste dell'Unità. La nostra solidarietà va a Gino Paoli e alle Feste dell'Unità. Perché? Lo ha spiegato giovedì sera a Virus , intervistato da Nicola Porro, Vincenzo Visco, il famoso ministro delle Finanze di Romano Prodi. Ha detto Visco: «L'evasione fiscale è chiaramente di destra, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici, e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». Chiaramente, il ragionamento non fa una grinza, anzi un Grinzane. Per questo solidarizziamo: Gino Paoli e il giornale fondato da Antonio Gramsci, con relativa festa, sono dei nostri, quinte colonne in territorio nemico, pronti a sacrificarsi agli ideali dell'evasione fiscale, che com'è notorio sono la nostra bandiera, espressione della nostra civiltà. Avevo a dire il vero già vissuto un'esperienza personalmente molto istruttiva un paio di decenni fa, andando per una sera a bere birra al Leonkavallo, il centro sociale guidato allora dal mio quasi omonimo Daniele Farina, attuale deputato anti-evasione di Sel. La bionda era buona, la scura meno, ma con il cavolo che vidi l'ombra di uno scontrino fiscale. Sono cose borghesi. Imparai allora una legge molto semplice e che è confermata dalle testimonianze di questi giorni: l'evasione fiscale è di destra, per dirla come Visco, «chiaramente di destra», ma gli evasori sono chiaramente di sinistra. Sono arrivato a maturare l'idea che sia una perfida astuzia dei (...)(...) compagni. Si noti: l'evasione di Gino Paoli e della Festa dell'Unità è del 2008. Chi andò allora al governo? Berlusconi. Dunque una forma di lotta politica antiberlusconiana poteva benissimo essere quella di incrementare l'evasione fiscale per darne la colpa a Silvio. Questa è pura dialettica marxista. O forse, andando alle purissime origini del marxismo-leninismo, bisogna risalire alla fase svizzera del bolscevismo. Quando Parvus e Stalin, al tempo in cui Lenin risiedeva lì, accumularono fondi neri per la rivoluzione nei forzieri delle banche di Zurigo, grazie a rapine, grassazioni finanziarie e matrimoni con ricche ereditiere. Così forse Gino Paoli, di cui si ricorda l'esperienza di deputato comunista, naturalmente indipendente. Esperienza che lo ha accomunato a Corrado Augias, ora anche lui - sia chiaro, da presunto innocente - accusato di essere golosissimo di prebende in nero dall'organizzatore del premio Grinzane-Cavour. Il rosso ama molto il nero, specie se è un artista, ed è una buona premessa per la riconciliazione nazionale. Ci resta una domanda. Chi sono stati, dagli anni dei Ds a quelli del Pd e fino al 2008 (anno del presunto transito di talleri da Genova alla Svizzera), i direttori dell' Unità la quale dava il suo bel nome alle sobrie feste dove girava allegro il nero tra le bandiere rosse? Ce ne sono tre: Furio Colombo fino al 2004, poi Antonio Padellaro fino ad agosto del 2008, quindi Concita De Gregorio. Idea: siete giornalisti ancora più famosi di allora. Mettete su una bella inchiesta su come si è costruito e occultato il falso in bilancio, sfruttando come testimonial le vostre facce di certo pulitissime? Domandatevi come mai quello che secondo Gino Paoli era un sistema a cui era impossibile sottrarsi è invece sfuggito persino al fiuto sgamatissimo dei vostri reporter così abili a prendersela con gli idraulici, i commercianti e i piccoli imprenditori. Un mito intoccabile, le Feste dell'Unità. Quando dopo la fine dei Ds e la nascita del Pd qualcuno minacciò di sopprimerle, cambiandone il nome, intervenne proprio Antonio Padellaro. Scrisse un memorabile panegirico in difesa della loro purezza, condita proletariamente di grasso e sudore colanti da salsicce e da militanti. Dopo aver ovviamente citato come minimo un premio Nobel, nel nostro caso per la precisione Elias Canetti, sentenziò: «Le Feste dell'Unità sono le Feste dell'Unità». Una delle poche verità, si suppone, apparse su quelle pagine dalla fondazione gramsciana. Aggiunse che non si può «cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone». Qualcosa resta nel cuore di milioni di persone; qualche milione resta nel conto svizzero di alcuni più persone degli altri. Ecco, Visco parla anche di falso in bilancio a Virus . Sostiene che «era preoccupatissimo fino all'altro ieri», ma poi con «l'allentamento del Patto del Nazareno» è più tranquillo. In che senso, scusi? Qualcuno lo informi: evasione è ideale di destra, ma falso ed evasione sono pratiche di sinistra. La morale? Come scrisse Montanelli: «Ho conosciuto molti mascalzoni che non erano moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un mascalzone».
Lello Liguori a Virus: "Vi dico come Grillo guadagnava in nero". Imbarazzo in casa 5 Stelle. Liguori racconta tutto a Virus: "Per uno spettacolo da 70 milioni ne prendeva 10 con un assegno e 60 in nero. I soldi li ho consegnati a lui personalmente", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "Ho pagato Grillo per i suoi spettacoli, voleva i soldi in nero". A puntare il dito contro il comico e leader del Movimento Cinque Stelle è Lello Liguori, un impresario, che intervistato da Virus, il talk di Nicola Porro su Rai Due, ha deciso di raccontare la sua verità. "Io ho dato 300 milioni di lire a Beppe Grillo in nero, me l'ha chiesto lui, cinque spettacoli se li è fatti pagare in nero". E ancora: "Io con Grillo ho trattato direttamente quando non lo conosceva nessuno e l'ho fatto conoscere come cabarettista. Con lui all'inizio si facevano 10-20 milioni. Poi crescendo anche 70 milioni di lire a serata". A questo punto Liguori parla dei metodi di pagamento: "Gli davo dieci milioni in assegno e 60 milioni in nero. Io i soldi li ho dati a lui. 54 milioni a Milano li ho consegnati nelle sue mani e disse pure voglio 10 milioni in più altrimenti non faccio lo spettacolo. Lo abbiamo strattonato un pò perché era nervoso. Poi si è convinto e ha fatto lo spettacolo. Lo fanno tutti, ma molte persone sono oneste come Aldo, Giovanni e Giacomo, o magari Crozza e tanti altri. Dieci chiedevano e dieci avevano con tanto di fattura. Grillo era invece tra quelli che preferiva il pagamento in nero". Le dichiarazioni di Liguori di certo faranno discutere e hanno suscitato qualche imbarazzo in casa 5 Stelle. Chissà se qualcuno avrà voglia di indagare su quanto dichiarato da Liguori e accertare se Grillo ha davvero preso dei compensi in nero...
La doppia morale (sinistra) sul fisco. Da una parte sbandiera la purezza, dall’altra inciampa nei guai con l’erario Ecco l’album dei «perfetti»: da De Benedetti a Sabina Guzzanti a Riondino, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. A leggerlo quasi cinquant’anni dopo, appare come un piccolo inno etico il testo di una canzonetta, che Umberto Eco compose negli anni sessanta per l’amico cabarettista Franco Nebbia. Faceva così: «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me (…) hai dichiarato il reddito come pareva a te (…) hai finanziato anche le destre storiche». In poche strofe, si condensavano gli autoincensamenti morali di cui la sinistra si è cosparsa il capo per anni. Da sempre, infatti, c’è stata una legge prevalente a quella dei codici ed è quella dei luoghi comuni e dei tabù culturali. L’estetica del Quarto Stato, infatti, non si può sposare con chi «chi trasferisce i capitali in Svizzera» o anche chi è in odore di evasore fiscale. E poco importa se poi, magari, le montagne partoriscono topolini o, ancor peggio, flatulenze. La legge morale è legge morale. Solo che spesso la purezza è un boomerang, ti arriva addosso e può far molto male. Lo vediamo in questi giorni, scorrendo la cosiddetta Lista Falciani, composta dagli intestatari dei conti della banca Hsbc. In quella lista sono finiti due volti noti della sinistra italiana. Il primo è Pippo Civati, che appartiene all’opposizione interna al Pd, noto per le sue posizioni intransigenti in termini di giustizia. L’altro è Davide Serra, che non è un politico, ma un finanziere, ma appartiene lo stesso all’argenteria del Pd renziano, essendo amico e finanziatore del leader. Oltre che nel cast delle kermesse della Leopolda. Ora, se il semplice fatto di finire in una lista come quella, di per sé non vuol dire nulla, che ne è del tribunale morale della sinistra? Un tribunale che, è bene ricordarlo, quanto a indulgenza domestica non fa invidia nemmeno alle monarchie assolute. Implacabile con i nemici, chiude gli occhi quando si tratta dell’album di famiglia. Dove troviamo molti altri casi. A partire da Carlo De Benedetti, finito nei guai per una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Il 25 maggio 2012, quando fu condannato in appello dal tribunale tributario del Lazio, il portavoce ne diffuse la posizione sulla sentenza, definita «irricevibile, manifestamente infondata e palesemente illegittima». Parola di editore di Repubblica, la Bibbia del giustizialismo antiberlusconiano e del dogma delle sentenze che non si possono commentare (quelle degli altri). E ancora, Daniele Luttazzi. Tra i protagonisti di quella stagione luminosa del girotondismo, dove primeggiava il trio dei martiri perseguitati dal feroce dittatore di Arcore: Biagi, Santoro e appunto lui, Luttazzi. Eroi civili senza macchia e senza paura. Però qualche mese fa su Luttazzi si sono accesi i fari della procura di Civitavecchia in merito ad una presunta evasione di 140 mila euro di Irpef. Sempre nel mondo dello spettacolo, va ricordato il caso di Sabina Guzzanti e David Riondino. Anche loro colonne di quella comicità «de sinistra» che rimanda agli anni d’oro dell’Ambra Jovinelli. Entrambi, finirono nelle grinfie di Gianfranco Lande, meglio noto come il Madoff dei Parioli condannato di recente a 7 anni in Cassazione. Secondo le ricostruzioni della Procura, Lande e i suoi accoliti avevano truffato investitori in buona fede creando un «articolato e sofisticato meccanismo truffaldino che ha consentito di gestire un portafoglio stimabile in un ammontare non inferiore a 300 milioni di euro, investito in parte in obbligazioni, fondi di investimento creati ad hoc, strumenti derivati e liquidità negli stati delle Bahamas, del Lussemburgo, della Gran Bretagna e del Belgio, fuori dal circuito dei controlli legali». Tra i clienti vip, c’erano appunto anche Riondino e la Guzzanti. Parti lese, certo. Ma che avevano affidato i loro risparmi ad un «mago della finanza» nella speranza di plusvalenze a seguito di investimento all’estero. Tra l’altro, parlando della vicenda a Radio 24, proprio Riondino ammise: «sono un evasore pentito, me ne dispiaccio. Questo denaro, scudato nel 2009, per una decina d’anni ha prodotto un presunto guadagno sul quale sarebbe stato doveroso pagare allo Stato il 12% di tasse». E il tribunale morale robespierriano? Chiuso per ferie. Come lo è anche nel caso di Renato Soru, ora europarlamentare del Pd, sotto processo per una presunta evasione fiscale di svariati milioni di euro. E come lo è, infine, nel caso di Alessandro Profumo, Presidente della Monte dei Paschi di Siena, anche lui caro al Pd. Lo scorso 22 gennaio la Procura di Roma ha rinnovato nei confronti suoi, in quanto ex ad Unicredit, di altri 16 manager dello stesso istituto e di tre di Barclays, la richiesta di un processo in relazione ad una presunta frode fiscale di 245 milioni di euro. «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me. Non potrò dimenticarlo mai», faceva quella canzone. Non è esatto. In qualche caso, si può far anche finta di non vedere.
PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?
Perché l’evasore la fa franca. Processi affidati a dilettanti. Che impiegano anni per decidere su cause che potrebbero portare all’erario 52 miliardi di euro, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La lotta alla grande evasione fiscale rischia di fermarsi in tribunale. Un tribunale molto speciale, formato in maggioranza da privati. Pagati pochissimo: 26 euro lordi a sentenza. Ed esposti a gravi tentazioni. Perché le loro decisioni valgono una fortuna: più di 52 miliardi di euro, in teoria. In pratica, l’erario incasserà molto meno. Perché nei processi fiscali, in sei casi su dieci, lo Stato perde. Mentre la nostra Costituzione stabilisce che «tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge», per cui le persone nella stessa situazione dovrebbero essere giudicate allo stesso modo, la giustizia tributaria è un ramo del diritto dove regna l’incertezza. Al caos fiscale non sfugge la lista Falciani, l’ormai famoso archivio della banca Hsbc di Ginevra, con i nomi di 7.499 italiani con il conto in Svizzera. La lista, consegnata dal tecnico Hervé Falciani ai magistrati spagnoli e francesi, è stata trasmessa alle autorità italiane nel 2009. Da allora la Guardia di Finanza ha concluso oltre 3.200 ispezioni. Ma lo Stato finora ha riscosso solo 30 milioni. In Spagna, per fare un confronto, l’evasore più ricco ha dovuto sborsare da solo oltre 200 milioni. In Italia invece ben 1.246 clienti della Hsbc hanno annientato ogni accusa grazie allo scudo fiscale varato nel 2009-2010 dal governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti: hanno sanato 1,7 miliardi di nero versando appena 83 milioni. E per tutti gli altri, quelli che non hanno pagato neppure quel condono, finora il fisco ha potuto soltanto minacciare super-multe, che verranno applicate solo se e quando lo Stato avrà vinto i processi tributari. Il primo problema è la durata di queste cause: in media passano 1.558 giorni tra primo e secondo grado, che diventano otto anni con il verdetto finale della Cassazione. Solo nell’aprile 2015, ad esempio, la nostra Corte Suprema pronuncerà la prima sentenza definitiva nel processo numero uno (il più veloce) sulla lista Falciani, avviato nel 2009 contro un giocatore professionista di poker con 41 mila dollari in Svizzera. Il verdetto della Cassazione è destinato a fare scuola per tutti gli altri clienti della Hsbc, che avevano depositi complessivi per 7,5 miliardi: la lista Falciani è utilizzabile dal fisco come prova? A questa domanda, che si ripete identica in tutti i processi, i giudici di primo e secondo grado hanno finora dato risposte contraddittorie. Tutto dipende dalla posizione geografica. Gli evasori di Genova, Pisa, Treviso o Verbania sono stati stangati. Chi abita a Pinerolo, Como o Avellino, invece, ha stravinto: lista inutilizzabile, fisco sconfitto. L’incertezza e quindi l’imprevedibilità delle sentenze sulle tasse, secondo alcuni economisti, è uno dei problemi strutturali che tengono lontani gli investimenti stranieri. «In Italia i processi fiscali vengono decisi da giudici part-time, non professionisti», lamentano gli studiosi Giuseppe e Nicola Persico in un recente articolo su “lavoce.info”, «e solo in Cassazione da giudici specializzati, ma oberati da cause di modesto valore». I ricorsi contro il fisco, infatti, non vengono decisi dai normali tribunali, ma da organi particolari. Si chiamano commissioni tributarie, provinciali (in primo grado) e regionali (in secondo), e sono formate da volontari, in maggioranza privati: avvocati, commercialisti, professori, funzionari in pensione, geometri, ragionieri, agronomi. Su un totale di 3.419 componenti, i magistrati professionisti sono 1.543. Gli altri 1.876 sono privati che fanno i giudici come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, con paghe bassissime: in media tra 200 e 400 euro al mese. Eppure davanti alle commissioni pendono 570 mila processi, per un valore totale di 52,6 miliardi di euro. Affidare a privati sottopagati il potere di arbitrare cause milionarie è un sistema all’origine di infiniti scandali. L’ultima retata di giudici fiscali corrotti, a Bari, è partita da un’assurdità statistica: lo Stato perdeva il 98 per cento dei processi. Dagli affari privati di un giudice-geometra è nata, tra le tante, l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che pilotava procedimenti a tutti i livelli. Nei fascicoli disciplinari del Consiglio di giustizia tributaria (una specie di Csm creato nel 1992), “l’Espresso” ha trovato casi di giudici tributari che erano contemporaneamente imputati di corruzione, bancarotta, prostituzione e, ironia della sorte, evasione fiscale. Per frenare il malcostume, negli ultimi anni il Consiglio ha radiato decine di avvocati e commercialisti che, mentre vestivano i panni di giudici imparziali, intascavano ricche parcelle dagli evasori, spesso attraverso mogli, amanti o soci di studio. Piercamillo Davigo Consapevoli di queste anomalie, autorevoli giudici propongono di cambiare sistema. «La mia opinione è che le commissioni andrebbero soppresse», spiega il magistrato Piercamillo Davigo, che fa anche il giudice tributario dal 1979: «Affidare i processi fiscali ai magistrati ordinari o amministrativi offrirebbe più garanzie sia allo Stato sia ai contribuenti onesti. Naturalmente c’è il solito problema: per non paralizzare i tribunali già oberati di cause, bisognerebbe fare i concorsi e assumere nuovi magistrati». L’attuale sistema delle commissioni aggrava anche le disuguaglianze economiche: gli evasori più ricchi possono pagarsi avvocati e consulenti in grado di schiacciare i funzionari che rappresentano lo Stato; mentre i contribuenti tartassati da un fisco forte con i deboli rischiano di non potersi permettere una difesa decente. Uno squilibrio aggravato dal «contributo unificato», imposto dall’ex ministro Tremonti per ridurre il numero di cause minori o inutili: nel 2014 sono stati presentati “solo” 181 mila ricorsi, 21 mila in meno del 2013. Secondo Davigo e altri giuristi, però, «invece di tassare chi chiede giustizia, forse sarebbe più sensato colpire con sentenze rapide e severe chi fa ricorsi pretestuosi». Altri giudici, pur confermando i limiti delle commissioni, difendono «un sistema che sta migliorando». Il magistrato milanese Gaetano Santamaria, già presidente del Consiglio di giustizia tributaria, spiega che «gli abusi vanno stroncati, ma sarebbe sbagliato buttare via i collegi misti: anche nei processi ordinari, se c’è un minimo di complessità tecnica, i giudici si affidano alle perizie, cioè a privati lautamente remunerati. La commissione tributaria invece ha già al suo interno il revisore dei conti che sa leggere i bilanci, il ragioniere che fa gli estimi, il geometra che conosce i dati catastali...». Fatto sta che, con tutti questi giudici privati, lo Stato perde. Secondo uno studio del “Sole24Ore” sulle sentenze emesse dalle commissioni provinciali tra il 1996 e il 2010, il fisco ha vinto solo quattro processi su dieci: l’accusa di evasione è stata cancellata totalmente in quasi due milioni di cause (45 per cento del totale), parzialmente in altre 642 mila (15 per cento). «Ma il vero problema è se le sentenze sono giuste o sbagliate», replica Santamaria: «Il calcolo va fatto sulle decisioni annullate in Cassazione: nei processi civili sono il 33,5 per cento, in quelli tributari il 33. Quindi le commissioni sbagliano come i giudici ordinari, anzi un po’ meno». Ma perché in 60 casi su cento ha torto lo Stato? Con queste percentuali, nei processi in corso il fisco rischia di perdere più di 31 miliardi. «Alcuni uffici fiscali reclamano tasse esagerate o non dovute, costringendoci ad annullamenti sistematici», risponde Santamaria. «E spesso lo Stato non sa difendersi neppure quando avrebbe ragione». Su questo concorda anche Davigo: «Succede che il funzionario non si presenta, o porta il fascicolo sbagliato, o non parla perché era un caso seguito da un collega. Per fortuna, nei centri più importanti, ora l’amministrazione sta creando veri uffici legali, dove lavorano molti giovani preparati, anche se spesso precari». In attesa delle riforme annunciate dal governo Renzi, che prevedono ad esempio un solo giudice per le cause di minor valore, il sistema resta caratterizzato da sentenze discutibili e contrastanti. Per tornare alla lista Falciani, alcuni verdetti l’hanno dichiarata «inutilizzabile» in quanto «sottratta illegalmente violando il segreto bancario svizzero». Per altri invece vale, perché è autentica e fu trasmessa ai magistrati di Torino con tutti i crismi delle rogatorie. A risolvere l’incertezza sarà la Cassazione con la sentenzaspartiacque di metà aprile. Come anticipato da “l’Espresso”, il fisco ha grandi probabilità di vittoria: il giudice incaricato di proporre la sentenza-pilota ai colleghi, infatti, ha spiegato nella relazione ufficiale che pagare le tasse è un «inderogabile dovere costituzionale», che vale più della privacy dei presunti evasori. Mentre il segreto bancario svizzero in Italia non esiste. Per cui il fisco può usare la lista Falciani «anche come unica prova». Una tesi in linea con la giustizia europea: la Corte Costituzionale tedesca, il 9 novembre 2010, aveva convalidato la «lista di Vaduz», cioè un altro elenco di evasori che fu comprato nel 2007 dai servizi segreti tedeschi. E poi usato perfino dalla Svizzera, ovviamente contro i propri evasori. In Italia invece pochissimi dei 394 clienti della banca di Vaduz hanno avuto problemi con la giustizia. E alcuni fortunati hanno già dribblato anche la lista Falciani: il 4 ottobre 2011 un giudice di Pinerolo, poi imitato da altri, non si è limitato ad assolvere un accusato di evasione, ma ha ordinato addirittura la «distruzione» della sua fetta di lista. Comunque decida la Cassazione, dunque, per il plotone dei miracolati sulla scia di Pinerolo la prova non c’è più. «In Italia c’è un’evasione che non ha paragoni nel mondo civile e non è vero che sia impossibile ridurla», conclude Davigo: «Basterebbe applicare a tutti le leggi antimafia, che permettono di confiscare le ricchezze sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati». Un esempio pratico? «Se un tizio che si dichiara nullatenente viene fermato su una Ferrari, lo si fa scendere gentilmente. E la Ferrari se la tiene la Guardia di Finanza».
SPECULAZIONI: LA LISTA FALCIANI.
SwissLeaks, come è nata l'inchiesta globale che ha portato alla luce la lista Falciani. Centinaia di migliaia di file. Miliardi di dollari. E più di 150 giornalisti in tutto il mondo. Ecco cosa c'è dietro la pubblicazione dell'elenco dei conti svizzeri che l'Espresso rivelerà in esclusiva per l'Italia nel numero in edicola venerdì 13 febbraio 2015, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. «È stato un lavoro micidiale. Ma bellissimo». Sessantamila file. 100mila nomi da verificare in 200 paesi per raccontare i retroscena di un tesoro che vale oltre 102 miliardi di dollari, soldi transitati su conti svizzeri fra il 2005 e il 2007. I numeri dell'inchiesta “ Swissleaks ” sono ciclopici, quanto i segreti che nascondono dietro codici e schermi nei riservatissimi uffici elvetici della banca Hsbc. E straordinario è anche lo sforzo giornalistico a cui hanno dato avvio: Le Monde, il quotidiano francese primo depositario dell'elenco che l'informatico Hervé Falciani ha consegnato ai finanzieri di Parigi nel 2008, ha deciso di non affrontare la scalata da solo. Ma ha coinvolto quel Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) che solo pochi mesi fa aveva fatto tremare i palazzi di Bruxelles e del Lussemburgo con un' inchiesta globale sui paradisi fiscali. In quel consorzio c'è anche l'Espresso. Solo, l'Espresso, in esclusiva, per l'Italia. Per questo venerdì in edicola sarà pubblicato il frutto di due mesi di lavoro sui 7.499 nomi italiani dell'elenco Falciani, titolari di risparmi per 7,5 miliardi di dollari in totale. «Molti ci chiedono: mettere tutto online? La lista? Ogni nome? La risposta è no», spiega Gianluca Di Feo, capo della redazione di Milano: «Seguiamo la filosofia del Consorzio, che è anche la nostra: ovvero fare un lavoro giornalistico. Cioè cercare, selezionare, verificare ogni conto, ogni cifra, e quindi trasformare i dati in una storia». «Spiattellare l'elenco sarebbe stata forse la scelta più facile, ma anche quella più ingiusta», aggiunge l'inviato Paolo Biondani: «Perché avrebbe significato pubblicare di fianco al profilo di un evasore quello di un muratore transfrontaliero, che non avrebbe avuto motivo di essere sbattuto in prima pagina». Censura? «No, giornalismo», ribadisce Biondani: «Ci sono due teorie: quella del reporter jukebox – tu metti la monetina e lui ti racconta una storia – e quella del giornalista che fa un servizio pubblico: che valuta sempre l'interesse, i perché, che verifica le notizie. Noi siamo di quella seconda schiera». Eccolo, allora, il lavoro d'informazione: una squadra di cinque persone – Paolo Biondani, Vittorio Malagutti (caporedattore di Economia), Leo Sisti (membro dell'ICIJ da 15 anni) e due giovani colleghi, Alfredo Faieta e Gloria Riva –; un coordinatore, Gianluca Di Feo; decine di riunioni, centinaia di telefonate, di mail, di contatti, ore di discussioni, giornate intere a scrutinare “la lista” e interrogare il database. L'accuratezza è necessaria non solo per dovere di verità, ma anche per tutelarsi di fronte a eventuali cause. L'inizio di tutto è un lunedì di settembre. Le Monde convoca una quarantina di colleghi del Consorzio alla sua sede. Arrivano da tutto il mondo; per l'Italia c'è il reporter investigativo Leo Sisti. Il motivo dell'invito è segreto, l'attenzione alla riservatezza delle informazioni maniacale. Nasce in quel momento l'operazione “Voyager”, nome in codice per raccontare l'avvio delle ricerche di 154 giornalisti di 47 paesi diversi sui 100mila conti bancari riferiti a un periodo che va dal 1998 al 2007 registrati nella lista Falciani. «Abbiamo condiviso da subito una serie di strumenti: un forum criptato, online, sul quale ad ogni ora del giorno potevamo esporre dubbi e proporre soluzioni», racconta Sisti: «Due colleghi eccezionali, Mar Cabra e Rigoberto Carvajal, ci hanno aiutato a interpretare i codici, a collegare a ogni titolare i conti relativi e i rispettivi valori, anche quelli schermati nei paradisi fiscali». Ai giornalisti vengono consegnati documenti, spiegazioni, analisi e due database, «La “master list”, con i nomi, e una seconda sezione più complessa, a cui si accede con due password, per le verifiche sui conti», continua il giornalista: «A questo secondo livello di informazioni avevo accesso solo io, per la nostra squadra». Dalle Filippine al Sud Africa, dalla Svezia al Giappone, le testate si mettono al lavoro. Al The Guardian , quattro giornalisti coprono di Post-it i muri di un'intera sala dividendo i nomi per categoria: politici, celebrità, trafficanti, mercanti d'armi. Al Süddeutsche Zeitung sono in 7. A Le Monde hanno uno spazio dedicato. La scadenza è già fissata: domenica otto febbraio alle 22 (ora italiana) la notizia sarà online in tutto il mondo. «Abbiamo iniziato a dicembre», racconta Vittorio Malagutti: «Ci siamo suddivisi i nomi, poco più di mille a testa. Bisognava selezionare i più conosciuti e scoprire attraverso le banche dati qualcosa di più su quelli che non ci dicevano nulla: rilevare potenziali legami con personaggi più noti, cercare attività, proprietà, storia. È stata la parte più complessa». Da quella prima scrematura, sono rimaste 400 voci. Quindi 100 che nella discussione vengono ritenute degni di approfondimento perché di rilevante interesse pubblico. Poi è iniziata la verifica vera e propria. «Nessun organismo né autorità fiscale ha voluto collaborare», sottolinea Di Feo: «Tutti gli investigatori ci hanno opposto la privacy dei titolari, protetta in modo assoluto, anche se evasori». «Ci siamo divisi ancora una volta i compiti», spiega allora Malagutti: «20 cognomi a testa. Per molti solo trovare una mail o un contatto personale è stato un'impresa. Solo una decina, alla fine, sono risultati irrintracciabili». Gli altri, avvocati, imprenditori, sportivi, stilisti, manager, politici e star hanno risposto, chi fornendo dettagli, chi solo chiedendo: «Mi mandi una mail» per poi scomparire. «Un signore, quando l'ho chiamato spiegando: “Guardi, il suo nome compare nella lista Falciani”, mi ha urlato: “È assolutamente impossibile! Non ho mai sentito parlare della banca Hsbc nella mia vita! Come osa accostarmi agli evasori? Andrò immediatamente a depositare denuncia per calunnia!”», racconta il caporedattore di economia Malagutti: «La mattina dopo mi ha telefonato. “Ho controllato bene”, ha ammesso: “Effettivamente avevo un conto. E ho scudato”». Le reazioni sono state le più varie. C'è chi ha mandato una diffida immediata, chi ha ammesso la presenza del conto, spiegando di aver approfittato degli scudi fiscali, chi era in regola, chi è caduto veramente dalle nuvole: «Uno dei titolari, quando l'abbiamo avvisato, non ci credeva. Ripeteva “Non l'ho mai saputo, giuro”. Ed era vero: il padre l'aveva registrato come procuratore di un conto, senza avvisarlo. Un regalo non troppo desiderato», racconta Biondani. Tangentisti, trafficanti, criminali, ma anche stilisti e casalinghe. Approfittavano del segreto promesso dalla sede elvetica della banca globale Hsbc. Ma ora parte del silenzio è stato strappato grazie al lavoro del Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) sulla lista di Hervé Falciani. Il nostro giornalista spiega come è stato portato avanti il lavoro che l'Espresso pubblica in esclusiva per l'Italia. Alla fine, la scrittura. L'articolo uscirà venerdì. Ma sia la squadra de l'Espresso che quelle degli altri giornali nel mondo continuano a lavorare sul dossier, a esplorare nuovi collegamenti, verificare nuovi nomi. «Ieri sera, nel forum criptato, il giornalista di Le Monde Fabrice l'Homme, ha scritto: “Sono stanchissimo, ma davvero felice», racconta Sisti: «“Perché non ci chiamiamo dream team?”». E lo è stato per davvero, un team straordinario: «L'impatto della notizia, questa volta, è stato fortissimo», ammette Di Feo: «Ho firmato la mia prima inchiesta internazionale nel 1990, al Corriere della Sera, insieme al programma “Panorama” di BBC News. Ho coordinato i cablo di Wikileaks per l'Espresso. Ma questa volta è stato diverso. Per la grande collaborazione che c'è stata, fra colleghi di tutto il mondo. E per quell'incredibile momento di domenica sera, ore 22, in cui migliaia di siti web da ogni parte del globo sono usciti nello stesso istante con lo stesso grido». Togliendo un altro pezzo di silenzio alla segretezza dei capitali svizzeri. E portando la questione al centro del dibattito. In ogni paese.
Lista Falciani, quanti ostacoli nelle indagini. Tra prescrizione e "silenzio" degli svizzeri. Sono passati cinque anni da quando l'informatico ha consegnato alla procura di Torino l'elenco degli italiani con un conto nella sede elvetica della Hsbc. Ma le indagini si sono arenate di fronte a problemi legali e burocratici, scrive Andrea Giambartolomei su “L’Espresso”. La caccia agli evasori della lista Falciani è lo specchio dei problemi della Giustizia italiana. Troppi condoni fiscali, che hanno offerto una via di fuga a basso costo per i furbetti. E una prescrizione capace di spazzare via rapidamente indagini complesse come quelle sulla finanza offshore. Tutto questo sommato a un'interpretazione delle leggi che spesso in nome del garantismo contribuisce a creare un forte senso di iniquità. Tutto è cominciato nel settembre 2009, più di cinque anni fa. Un pomeriggio l’informatico italo-francese Hervé Falciani entra nella Procura di Torino accompagnato dal suo avvocato Patrick Rizzo. Ha qualcosa da dire sui clienti italiani con un conto alla Hsbc Private Bank di Ginevra. Nell’ufficio del sostituto procuratore Giancarlo Avenati Bassi, con il capo della Dda Sandro Ausiello e con un ufficiale delle Fiamme Gialle, Falciani inizia a parlare. Così iniziano le indagini italiane. Ma dopo cinque anni, nonostante l’impegno degli investigatori, le condanne penali ottenute sono state poche: poche le informazioni e il tempo a disposizione, troppi gli ostacoli. Nel 2009 Falciani si dice disposto a collaborare per senso di giustizia e di trasparenza. Racconta degli hard disk coi dati dei clienti della Hsbc, banca che aiuta a occultare patrimoni illeciti. Per sicurezza la Procura di Torino non chiede una copia direttamente all’informatico, ma alle autorità francesi con due rogatorie: lì hanno messo le mani su quel “tesoro” il 20 gennaio 2009 quando, su richiesta della procura di Ginevra, il procuratore capo di Nizza Eric De Montgolfier manda la gendarmerie a casa di Falciani per sequestrare il materiale informatico sottratto in Svizzera. De Montgolfier però si accorge che quei dati potrebbero essere utili, motivo per cui ne tiene una copia e comincia a indagare. Dopo mesi, nel 2010, la Francia trasmette le informazioni all’Italia. Emergono nomi e cognomi dei titolari del conto, il luogo di nascita e il saldo disponibile. Un po’ poco, ma è già un inizio. La lista viene utilizzata in due modi: una copia al Comando generale della Guardia di finanza, che porta avanti le verifiche fiscali nell’ “operazione Ginevra”, mentre i nomi dei correntisti vengono distribuiti alle 120 procure italiane col compito di portare avanti le indagini penali. Alcuni magistrati, nonostante le linee guida decise in un supervertice a Torino, preferiscono non usarla. È il caso della Procura di Pinerolo, che chiede l’archiviazione di un’indagine perché ritiene illegittimo l’uso di quei dati. Il 4 ottobre 2011 il giudice le dà ragione: il dato era «processualmente inutilizzabile» in quanto la lista Falciani era il provento di una «appropriazione indebita aggravata di documenti». Il procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli si impunta, reputa che quei dati debbano essere sfruttati. Però poche settimane dopo è la Commissione tributaria di Como a ritenere inutilizzabili quelle informazioni negli accertamenti fiscali. Queste non sono state le uniche difficoltà sorte. Le indagini penali hanno dovuto muoversi tra vari ostacoli. Nella maggior parte dei casi le autorità giudiziarie elvetiche non hanno mai collaborato con gli investigatori italiani che operavano sulla “lista Falciani”. Inutile anche il viaggio di Caselli e del procuratore aggiunto Alberto Perduca nella Confederazione: per gli svizzeri la lista Falciani era frutto di un furto e per loro era impossibile fornire dettagli sui movimenti bancari operati dai titolari o informazioni aggiornate sui clienti italiani. In alcuni casi, poi, sul fronte delle verifiche fiscali ci si è dovuti fermare di fronte ai condoni e gli scudi fiscali voluti dai governi. Poi c’era la prescrizione, sempre in agguato: i dati dell’informatico risalgono a conti del 2005, 2006 e 2007 e per i reati fiscali la prescrizione è di circa sette anni: difficile ottenere condanne definitive in tempo. Per scoprire altri reati, come il riciclaggio, il gioco è più duro nonostante i termini di prescrizione siano più lunghi: nome, cognome e saldo disponibile non bastano a capire se quei soldi sono stati accumulati illecitamente, occultando le proprie ricchezze al fisco, accumulando tangenti o nascondendo i proventi di traffici illegali. Gli stessi problemi si ripercorrono anche ora che la procura di Torino e il Nucleo tributario della Guardia di finanza stanno lavorando sulla lista “Falciani” ricevuta un anno fa dalla Fiscalia Anticorrupcion di Madrid, con cui Falciani collabora dal periodo del suo arresto a Barcellona nel 2012: molti dei nominati emersi sono già noti, pochi quelli su cui lavorare ancora, cercando di non inciampare negli ostacoli. Tutto inutile, o quasi.
Hervé Falciani: "L’Italia disse no alla mia lista". L’uomo dell'elenco che include anche settemila italiani con conti in Svizzera si racconta. E rivela: ero pronto a dare tutti i file ai vostri servizi segreti, ma il governo Berlusconi li fermò, scrive Hervé Falciani su “L’Espresso”. Mancavano pochi minuti alle otto di sera ed ero quasi arrivato a casa. Era il 22 dicembre 2008, le feste di Natale si avvicinavano e percorrevo le vie di Ginevra convincendomi che tutto andava bene. Il piano stava funzionando, ora dovevo solo portare a compimento il lavoro avviato. Erano mesi che mi preparavo a quel momento. Appena rientrato cercai il telefono, un apparecchio speciale che mi era stato consegnato dagli uomini dei servizi segreti. Era un dispositivo di emergenza bianco, delle dimensioni di una carta di credito, tanto sottile da poter essere nascosto in un libro e privo di tastiera. Mi avevano spiegato che era un cellulare «pulito»: non lasciava tracce e sfuggiva alle intercettazioni. Schiacciai il tasto: volevo sapere se era arrivato il momento di abbandonare Ginevra. Nel mio caso era iniziato tutto nel 2006. Gli uomini dell’intelligence mi avevano messo a disposizione un software per verificare che i dati prelevati dalla Hsbc Private Bank fossero completi e utili ai magistrati che si sarebbero occupati del caso. E visto che in banca non avevo accesso a dati sensibili, dovevo identificare le persone che disponevano di quelle informazioni e indicarle agli agenti dei servizi. Toccava a loro poi agganciarle e convincerle a collaborare. E questo è ciò che è successo a partire dal 2007: non ero io a prelevare i dati dall’archivio della banca e a inserirli in un cloud, dove erano memorizzati, ma altri dipendenti della Hsbc. A me spettava la responsabilità di verificare ogni giorno ciò che era stato immagazzinato, cosa mancava e quali elementi in più si potevano ottenere. L’archivio era stato alimentato con nuovi dati fino al febbraio del 2008, quando era stato bloccato per ragioni di sicurezza. Da allora erano passati dieci mesi. Alle quattro del mattino, quando arrivò la chiamata, la voce confermò che c’erano due macchine pronte in un archeggio poco lontano da casa. Avrei incontrato il mio contatto nel luogo prestabilito, mentre la mia famiglia avrebbe raggiunto con un’altra auto la Francia. Stavo lasciando Ginevra per sfidare una delle banche più grandi e potenti del mondo. Stavo mettendo a rischio la mia vita e quella della mia famiglia anche per ragioni legate alla mia storia personale. Non mi era mai piaciuta l’arroganza dei forti, non avevo mai sopportato il principio secondo il quale tutto si misura sui soldi. Non volevo rassegnarmi ma reagire, anche perché desideravo un mondo diverso per mia figlia. Non volevo che crescesse in una realtà nella quale il valore del denaro, della sopraffazione del più forte sul debole, del costante aggiramento delle regole erano la normalità. Mia figlia ha bisogno di attenzioni e di cure costanti a causa di un deficit genetico. Guardandola pensavo con tenerezza al suo futuro e a volte con mia moglie progettavamo di lasciare la Francia e di trasferirci nella Polinesia, in un ambiente dove nostra figlia non sarebbe stata oppressa dalla competizione esasperata e dalla discriminazione. E dove, soprattutto, sarebbe stata circondata da valori come la solidarietà e il senso di comunità. Sentivo di dover fare qualcosa per lei e per le persone come lei. Avrei dato il mio contributo combattendo contro un sistema bancario che favoriva la corruzione e l’evasione fiscale e forniva ai ricchi gli strumenti per eludere le tasse, prosciugando le risorse che gli Stati destinavano ai più deboli e ai più poveri. Non sono un pazzo e sapevo perfettamente che non avrei certo cambiato il mondo. Credevo però di poter avviare una trasformazione che, allargandosi pian piano, avrebbe potuto sortire effetti positivi. Volevo raccontare all’opinione pubblica e ai magistrati come funziona il sistema, portando le prove. Il materiale della Hsbc fu prelevato nel giro di pochi mesi nel corso del 2007. La rete era in contatto anche con magistrati francesi e italiani, sebbene io non parlassi direttamente con loro. Avevo rapporti con poche persone, ma sapevo che alle nostre spalle c’era una corposa organizzazione. La regola di base per garantire la nostra sicurezza era che ciascuno di noi conoscesse poche persone della rete, pur disponendo delle informazioni necessarie e sapendo precisamente che cosa fare. La collaborazione con l’Italia cominciò a metà del 2009, dopo il mio colloquio con il direttore della Dnef (gli ispettori fiscali francesi, ndr), quando era ormai chiaro che le investigazioni in Francia erano state insabbiate. In quel periodo la vicenda dei documenti della Hsbc sequestrati nel mio computer non era ancora di dominio pubblico e il mio caso, almeno ufficialmente, non esisteva per gli italiani. Lavoravo nel segreto più assoluto con la Guardia di finanza, prendendo precauzioni per evitare che qualcuno venisse a conoscenza della mia collaborazione. Ci trovavamo nelle caserme dove, per ragioni di sicurezza, spesso la notte mi fermavo a dormire. Quando gli incontri avvenivano in un hotel indossavo un cappello per non farmi riconoscere dalle videocamere. I miei spostamenti in Italia erano organizzati dagli uomini con cui collaboravo. A loro spiegavo come lavorava la banca, mentre aspettavamo di ottenere per via ufficiale, attraverso la richiesta di aiuto giudiziario, le informazioni complete sui conti della Hsbc, ma la Francia ha sempre rifiutato di consegnare all’Italia tutta la documentazione in suo possesso, limitandosi a trasmettere solo i dati relativi ai clienti classificati come italiani. Andavo spesso in Italia, soprattutto a Torino, e lavoravo in prevalenza per spiegare agli investigatori i sistemi della banca, fino a quando, dall’inizio del 2010, la Guardia di finanza ricevette le prime liste grazie agli accordi di cooperazione amministrativa internazionale, e allora cominciai a occuparmi anche di quelle informazioni. Poco tempo dopo, la Procura di Torino ebbe i file da Nizza. Fu in quel periodo che in Italia si parlò per la prima volta della Lista Falciani (…). La Guardia di finanza ha lavorato intensamente sui dati della lista. Tutto si è mosso a un livello informale e segreto ed è stato realizzato un lavoro con i servizi di investigazione su una parte ben precisa dei file della Hsbc. Gli investigatori cercavano soprattutto informazioni sui mafiosi e le hanno trovate. A metà del 2011 alcuni funzionari dei servizi segreti italiani mi chiesero se i dati contenuti nel cloud, che non erano mai stati diffusi prima di allora, potevano essere utilizzati almeno a livello di intelligence. Mi fecero diverse proposte di lavoro, perché, una volta acquisiti i dati, bisognava sapere come analizzarli, e solo io ero in grado di farlo. Spiegai che avrei potuto continuare ad aiutarli come avevo sempre fatto, senza ricevere uno stipendio. Non avevo molti soldi, ma lavoravo già all’Inria di Sophia-Antipolis e volevo essere libero di prendere le mie decisioni senza condizionamenti. Soprattutto non mi andava di essere alle dipendenze di un governo. Nonostante la mia disponibilità, l’ipotesi fu abbandonata perché da Roma era arrivato uno stop: quei dati non si potevano né acquisire né analizzare. Era la fine dell’estate del 2011. In Italia il premier era Silvio Berlusconi e il ministro dell’Economia Giulio Tremonti.
I conti neri della Svizzera. Ecco chi c'è nella lista Falciani. Rivelati i documenti di Hervé Falciani con i titolari di depositi nella banca Hsbc per 100 miliardi. Ci sono politici, imprenditori, star dello sport e dello spettacolo di tutto il mondo, da Phil Collins a Fernando Alonso. Ma anche trafficanti, cassieri delle dittature ed evasori. Tra gli italiani lo stilista Valentino, Briatore e Valentino Rossi. Che replicano: nessun problema di tasse, scrivono Gianluca Di Feo e Leo Sisti su “L’Espresso”. È il più grande atto d'accusa contro i metodi delle banche svizzere, che hanno permesso di riciclare i tesori di politici, sovrani, evasori, mediatori di tangenti, trafficanti di armi e di diamanti di tutto il mondo. Dopo anni di voci confuse, superficiali, frammentarie, mai accertate, ecco la “lista Falciani”, l'elenco completo dei centomila clienti che hanno depositato cento miliardi di dollari nei forzieri della Hsbc, uno degli istituti più grandi del pianeta. Tra una marea di imprenditori e uomini d'affari spuntano nomi notissimi: dalla top model australiana Elle MacPherson agli attori Christian Slater e Joan Collins; dal re di Giordania Abdullah II al monarca del Marocco Mohammed VI; dal nobile arabo Bandar Bin Sultan al principe del Bahrain Salman bin Hamad al Khalifa; dai piloti di Formula Uno Fernando Alonso e Heikki Kovalainen al calciatore Diego Forlan, attaccante dell’Inter nel 2011-12; dalla designer Diane Halfin von Furstenberg al cantante Phil Collins. I file comprendono anche più di 7 mila cittadini italiani, che nel 2007 custodivano circa sei miliardi e mezzo di euro nelle casse della Hsbc Private Bank: fondi in parte leciti, in parte sottratti al Fisco. Spiccano tra loro lo stilista-imprenditore Valentino Garavani, il finanziere Flavio Briatore e l'asso delle moto Valentino Rossi. L'operazione “Swissleaks” porta la firma del network di Washington International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ). È lo stesso team di giornalismo investigativo che due mesi fa ha diffuso i dati sulle multinazionali di stanza in Lussemburgo per ottenere un fisco leggero, uno scoop che ha aperto il dibattito sulle leggi tributarie europee e messo alla berlina il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker, ex premier del principato. Questa volta si tratta invece dei documenti raccolti da Hervé Falciani, un funzionario italo-francese di Hsbc. Nel 2008 la banca svizzera lo ha denunciato per avere sottratto le informazioni, ma il suo arresto in Costa Azzurra su richiesta delle autorità svizzere si è trasformato in un clamoroso autogol: Falciani ha collaborato con i magistrati francesi e consegnato gli elenchi dei correntisti. Che adesso Le Monde ha fornito al network investigativo. Materiale esplosivo, analizzato a fondo per otto mesi dai reporter di ICIJ, guidati dal direttore Gerald Ryle e dalla sua vice Marina Walker Guevara, con l'aiuto di una squadra di esperti in “data journalism”, Mar Cabra e Rigoberto Carvajal. Il risultato è un dossier su oltre 100 mila clienti di più di 200 paesi con 81mila conti censiti dall'Iban tra il 1998 e il 2007. Per portare avanti le verifiche sui nomi, la rete americana ha coinvolto più di 140 giornalisti di 45 paesi, in totale 45 testate: tra queste, oltre a Le Monde, anche Guardian, Bbc, Suddeutsche Zeitung e, per l'Italia, “l’Espresso”. L'esame dei conti mostra come all'ombra dell'anonimato garantito per decenni da Hsbc, politici inglesi, russi, ucraini, indiani, tunisini o egiziani hanno curato affari d'ogni genere. Ci sono numerosi conti di Rami Makhlouf, cugino del presidente siriano Bashar al Assad considerato la mente finanziaria del regime di Damasco: un uomo accusato di gestire più della metà dell'economia del paese e ora incriminato dagli Stati Uniti. Rachid Mohamed Rachid, ministro egiziano del Commercio con l'estero, scappato dal Cairo durante la rivolta contro Mubarak, aveva una procura su un conto del valore 31 milioni di dollari: non a caso è stato condannato in contumacia per aver dilapidato fondi pubblici. Ad Haiti operava Frantz Merceron, ora deceduto, ritenuto l'uomo delle tangenti per conto dell'ex presidente Jean Claude “Baby Doc” Duvalier: Merceron fino alla morte poteva accedere a un conto intestato alla moglie con un milione e 300 mila dollari. Frequentavano quella filiale di Ginevra anche personaggi colpiti dalle sanzioni americane per i rapporti con le dittature. Come ad esempio, Selim Alguadis, uomo d'affari turco, sospettato di aver fornito alla Libia di Gheddafi componenti dual use suscettibili di essere impiegate per un progetto di armi nucleari. O come Gennady Timchenko, miliardario e amico intimo dal presidente russo Vladimir Putin, finito nel mirino degli Stati Uniti dopo la crisi ucraina. E c'è un deposito perfino riconducibile a Li Xiaolin, figlia dell'ex primo ministro cinese Li Peng, protagonista della repressione di piazza Tienammen. Ma ci sono anche i conti di numerosi imprenditori che hanno finanziato la fondazione di Bill Clinton, l'ex candidato repubblicano alla presidenza statunitense Mitt Romney e le conferenze dell'ex sindaco di New York Rudolf Giuliani. Nel 2010 il governo francese ha distribuito la lista Falciani ad altri paesi, perché verificassero le posizioni dei loro cittadini. Le autorità inglesi hanno scoperto che 3.600 nomi, su 5 mila, non erano in regola, riuscendo così a recuperare 135 milioni di euro di imposte arretrate. In Spagna si è raccolto ben di più, 220 milioni, un record rispetto anche ai 188 milioni recuperati da Parigi. In Italia molti personaggi sono stati indagati per frode fiscale da diverse procure ma sulla possibilità di usare i dati nelle dispute fiscali sono stati aperti numerosi ricorsi. In Grecia invece si è arrivati al paradosso: la documentazione è rimasta nei cassetti fino a quando nel 2012, nel pieno della crisi, la rivista Hot.Doc ha pubblicato i nomi di duemila evasori fiscali. Ma in carcere, invece dei fuorilegge, c’è andato il suo direttore Kostas Vaxevanis. Valentino Garavani In sé non è un crimine detenere denaro o holding in Svizzera: bisogna però rendere tutto noto alle autorità fiscali nazionali. Molti dei vip inclusi negli elenchi sostengono di essere a posto con i regolamenti. Come la rockstar Tina Turner, l'attore John Malkovich o il campione di Formula Uno Michael Schumacher. Lo stilista e imprenditore Valentino Garavani nel 2000 diventa cliente della HSBC Private Bank. Stando ai dati messi insieme dai reporter di Icij nel 2006/2007 dispone di ben 108,3 milioni di dollari, nascosti nel conto numerato “3326 CR”. Ma chi ne è il proprietario? Ufficialmente Valentino risulterebbe solo “attorney A”, cioè procuratore, insieme a un altro “attorney B”, Marc Bonnant, di Ginevra, famoso legale, tra i tanti, di Licio Gelli e del finanziere Florio Fiorini. Invece, come emerge da un'altra scheda, è proprio il fashion designer il “beneficial owner” di quel “3326 CR”, intestatario di nove conti IBAN. Il deposito, collegato alla “Piles Finance Ltd”, con sede a Tortola nelle British Virgin Islands, ha un “supervisore”, Ronald Feijen, avvocato olandese conosciuto da Valentino durante il negoziato con la Hdp, e da allora diventato suo professionista di fiducia a Londra. Sempre dai file della HSBC si apprende che esistono altre due società, sorte nel 2001 e chiuse nel 2004: Dibag Fashion Development NV-Rub GG e Dibag Fashion Development NV-Rub VG. Di tutte due sono titolari sia Valentino sia Giancarlo Giammetti, amico e socio di una vita. Ma nel 2006/2007 tutto quello che c'è dentro è stato distribuito a loro due. Proprio nello stesso periodo, la posizione fiscale dello stilista è stata al centro di una disputa con l'Agenzia delle Entrate. Oggetto della contesa la residenza e quindi il regime di tassazione. Valentino ha sostenuto di essere residente a Londra dal 1998 anno in cui vende le sue società alla Hdp di Maurizio Romiti (che nel 2002 cederà tutto alla Marzotto). Gli ispettori fiscali invece sulla base delle indagini ribattono che si trovava a Roma. Infatti, in Gran Bretagna il grande sarto avrebbe solo lo status di “resident not domiciled”, la formula di chi, pur avendo acquisito la residenza sul Tamigi, non manifesta la volontà di restare lì per sempre. Conseguenza: gli sono state contestate, ai fini dell’imposizione fiscale, le annualità dal 2000 al 2006. Ne è nata una trattativa, poi risolta con un atto di pacificazione. Valentino ha versato una somma, mai dichiarata ufficialmente ma nell'ordine di qualche milione di euro, per il periodo 2000-2004. E così ha chiuso ogni pendenza con le nostre autorità tributarie. Anche Valentino Rossi ha avuto i suoi guai con l'erario, che si intrecciano con le vicende della banca elvetica. I sospetti sulla sua residenza londinese hanno provocato un procedimento per evasione, aperto nel 2008 e concluso con un accordo. Alla Hsbc il “Dottore” ha accantonato le sue risorse nel 2003 dietro il conto numerato “Kikiki 62”: 23,9 milioni di dollari. Intervistato da ICIJ, l'avvocato Claudio Sanchioni ha precisato che, sborsando 30 milioni di euro il suo assistito ha definito ogni controversia su conti esteri. Nelle note compilate dai funzionari di Ginevra su Valentino si viene a conoscenza delle sue tendenze finanziarie. Graziano Rossi, il padre, che è anche procuratore di “Kikiki 62”, attesta che il figlio ha una “preferenza per investimenti conservativi”. Tanto spericolato in pista, quanto prudente sulla gestione dei propri soldi. Per la Hsbc Flavio Briatore, da anni residente all'estero, è un cliente dominato da un grande attivismo. A lui fanno capo nove conti ed è “beneficial owner” di sei di questi, dove nel 2006/2007 "alloggiano" 73 milioni di dollari: Benton Investments Inc., Pinehurst Properties, “27361” (liquidato nel 2005), Adderley Trading Ltd (chiuso nel 2004), Formula FB Business Ltd e GP2 Ltd. Anche l'avvocato di Briatore, Pilippe Ouakra, è stato sentito da ICIJ e commenta: «Il signor Briatore è in grado di confermare che lui e alcune compagnie del suo gruppo - alcune di queste erano operative dalla Svizzera - hanno avuto conti bancari in Svizzera, in un modo perfettamente legale, in conformità con qualunque legge fiscale applicabile». I documenti della HSBC raccontano anche altre vicende. Tra i clienti dell'istituto di Ginevra ci sono almeno duemila commercianti di diamanti. A volte li chiamano diamanti insanguinati perché vengono usati per finanziare delle guerre, come è accaduto in Angola, Costa d'Avorio, Sierra Leone. Michael Gibb, che si occupa di diritti internazionali dell'uomo per Global Witness, ne è certo: «I diamanti sono legati a conflitti e violenze. La facilità con cui possono essere convertiti in strumenti di guerra è sorprendente». I funzionari della banca svizzera, ad esempio, sapevano che un certo Emmanuel Shallop, successivamente condannato per questi traffici, era sotto indagine in Belgio. Nel file del deposito infatti annotano: «Abbiamo aperto un conto per lui basato a Dubai… Il cliente è molto cauto attualmente perché sente la pressione delle autorità belghe, che lo tengono d'occhio per le sue attività nelle frodi fiscali sui diamanti». Contattato per chiarire l'avvocato di Shallop è stato tranchant: «Noi non intendiamo spiegare nulla. Il mio assistito non vuole vedere il suo nome citato in qualunque articolo per una ragione di privacy». Ma tra i clienti ci sono pure personaggi che hanno maneggiato tangenti per favorire vendite di armi in Africa, rifornendo gli arsenali dei massacri in Liberia, e altri che si sono prodigati per piazzare ordigni sofisticati in diverse nazioni, dalla Tanzania a Taiwan. Ci sono addirittura i nomi degli esponenti di una ong saudita che è stata accusata di finanziare Al Qaeda. I vertici di Hsbc hanno inizialmente intimato al network giornalistico di distruggere tutti i dati. Poi, di fronte agli elementi scoperti dai cronisti, hanno assunto una posizione diversa. Con una dichiarazione scritta l'istituto ha riconosciuto che «la cultura e gli standard dei controlli erano molto più bassi di quanto avviene oggi. La banca ha intrapreso passi significativi per aumentare le verifiche e respingere i clienti che non rispettano i nuovi parametri, inclusi coloro che davano elementi di preoccupazione sul fronte fiscale. Come risultato di questa linea, la base dei clienti dal 2007 si è ridotta di quasi il 70 per cento». Resta però il problema della finanza oscura. «L'industria offshore è la maggiore minaccia per le nostre istituzioni democratiche e per le basi del nostro contratto sociale», ha dichiarato a Icij l'economista Thomas Piketty: «L'opacità finanziaria è uno degli elementi chiave delle diseguaglianze. Permette a una larga parte di quelli che guadagnano di più di pagare tasse insignificanti, mentre il resto di noi deve versare tributi pesanti per sostenere i servizi pubblici indispensabili per lo sviluppo».
Perché ci rifiutiamo di mettere tutti alla gogna e non pubblichiamo la lista Falciani completa. La nostra risposta ai tanti lettori che ci chiedono perché non diffondiamo tutti i nomi presenti nell'elenco dei conti svizzeri. L'Espresso ha deciso di contattare tutti gli interessati e di rendere noti soltanto i nomi di persone che hanno avuto la possibilità di chiarire la propria posizione, scrive “L’Espresso”. Quando il consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) , di cui fa parte l'Espresso per l'Italia, è entrato in possesso della lista completa dei clienti della banca svizzera Hsbc, si è posto prima di tutto un problema di regole e doveri professionali: sarebbe giusto, sarebbe corretto pubblicare tutti i nomi indiscriminatamente, senza fare alcuna verifica? L'archivio informatico che il tecnico Hervè Falciani ha copiato nel 2008 dai computer della banca per cui lavorava, contiene 7.499 nomi di cittadini italiani, che hanno posizioni molto diverse tra loro. C'è chi lavora onestamente in Svizzera, chi ha dichiarato tutto al fisco italiano, chi vive all'estero e paga le tasse in altri Paesi. C'è chi figura come rappresentante di società o fondazioni con bilanci regolari e trasparenti. C'è l'erede che ha scoperto l'esistenza del conto solo dopo la morte del padre che l'aveva aperto. E poi ci sono gli evasori, quelli che hanno nascosto soldi in Svizzera senza dire niente al fisco italiano. E in quest'ultima categoria, c'è chi nel frattempo si è messo in regola con la legge e chi invece non l'ha mai fatto e continua ad evadere. Dunque, un lavoro di inchiesta e approfondimento giornalistico è non solo utile, ma indispensabile per chiarire il significato stesso dei dati contenuti in una lista del genere. Sia nei confronti di comportamenti illeciti, sia riguardo a chi ha potuto spiegare la regolarità dei propri conti. D'accordo con i responsabili del consorzio Icij, quindi, l'Espresso ha deciso di contattare tutti gli interessati, per offrire a ciascuno la possibilità di fornire spiegazioni, e di pubblicare soltanto i nomi di persone che hanno avuto la possibilità di chiarire la propria posizione. Ai lettori il giudizio finale.
Lista Falciani, ci sono anche dei politici italiani. Da Pippo Civati al renziano Davide Serra. Nell'elenco di beneficiari di conti nella banca Svizzera, che l'Espresso pubblica nel numero in edicola oggi e online su E+, anche personaggi della scena politica. Come il già candidato alla segreteria Pd e il finanziere vicino al premier Matteo Renzi, scrivono Paolo Biondani e Leo Sisti su “L’Espresso”. Davide Serra, Pippo Civati e Giorgio Stracquadanio Nella lista Falciani spuntano due parlamentari italiani, con posizioni bancarie molto diverse. E qualche uomo d'affari vicino alla politica. I loro nomi compaiono nell’elenco segreto dei clienti della banca Hsbc di Ginevra, che da almeno cinque anni rimbalza tra varie Procure italiane, Guardia di finanza e servizi segreti. Un’inchiesta dell’International consortium of investigative journalists (Icij), a cui “l’Espresso” ha collaborato in esclusiva per l’Italia, è ora in grado di rivelare nel dettagli i contenuti di questo colossale database. I cittadini italiani associati a quei conti svizzeri (come beneficiari, cointestatari o procuratori dei conti) sono 7.499 e avevano depositi per un totale di 7 miliardi e 452 milioni di dollari. Oltre ai vip già emersi domenica scorsa , come il pilota Valentino Rossi, lo stilista Valentino Garavani e il manager Flavio Briatore (che ha la residenza fiscale all’estero), la lista comprende centinaia di imprenditori, dirigenti d'azienda, stelle dello spettacolo e professionisti di rango, ma anche commercianti, casalinghe e piccoli artigiani sconosciuti alle cronache. La lista fotografa la situazione del 2006-2007. L’anno successivo, il tecnico informatico Hervé Falciani riuscì a copiare i dati della banca per cui lavorava, per poi metterli a disposizione della magistratura spagnola e francese, che li ha trasmessi alle autorità italiane. Il primo parlamentare citato nella lista Falciani è Giorgio Stracquadanio, ex radicale passato a Forza Italia, legato a Marcello Dell’Utri. Stracquadanio è morto nel gennaio 2014, ma dai documenti bancari risulta che nel 2007 il suo conto alla Hsbc di Ginevra aveva una disponibilità notevole: dieci milioni e 700 mila dollari. L'Espresso ha contattato i suoi familiari, indicati come contitolari del conto, offrendo la possibilità di fornire chiarimenti. «Non ho alcun commento da fare», ha però dichiarato la sorella di Giorgio, Tiziana Stracquadanio, cointestataria del deposito svizzero insieme al padre Raffaele. Schierato su posizioni di acceso garantismo, il parlamentare aveva più volte contestato la magistratura: memorabili gli scontri tra Stracquadanio e la Procura di Palermo, negli anni Novanta, dopo la scoperta delle sue visite in carcere, non autorizzate dai giudici, al boss mafioso Vittorio Mangano, figura centrale del processo che ha poi portato alla condanna definitiva dell'ex senatore Del'Utri. Il parlamentare del Pd Giuseppe Civati, già candidato alla segreteria del partito, viene invece collegato a un deposito con soli 6.589 dollari di cui è titolare suo padre Roberto, classe 1943, in passato amministratore di aziende importanti come la Redaelli Tecna di Milano. «Non ho mai avuto accesso a quel conto, di cui non sapevo proprio niente», ha dichiarato Civati a “l’Espresso”. «Solo ora mio padre mi ha spiegato – ha aggiunto – di averlo aperto quando era amministratore e azionista della Redaelli, che aveva fabbriche anche all’estero: c’erano soldi regolarmente dichiarati nei bilanci». Tangentisti, trafficanti, criminali, ma anche stilisti e casalinghe. Approfittavano del segreto promesso dalla sede elvetica della banca globale Hsbc. Ma ora parte del silenzio è stato strappato grazie al lavoro del Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) sulla lista di Hervé Falciani. Il nostro giornalista spiega come è stato portato avanti il lavoro che l'Espresso pubblica in esclusiva per l'Italia. Gli atti di Falciani documentano che Civati, insieme alla madre, è stato inserito nelle carte della banca nel novembre 2000, quando aveva 25 anni: l’unica operazione registrata a suo nome coincide con la procura rilasciatagli dal padre. «Nel 2011 la Finanza ha sottoposto mio padre a una verifica a cui non è seguita alcuna contestazione», precisa Civati: «Il conto si è estinto nel 2011 per effetto delle spese bancarie, senza che dal 1998 sia mai stato effettuato alcun versamento o prelievo». I nomi della lista sono ordinati per data di nascita, professione e residenza. Molti beneficiari sono protetti dallo schermo di società offshore. Questo non basta, ovviamente, per qualificarli come evasori. Trasferire denaro in Svizzera di per sé non è reato, se le somme vengono segnalate nella dichiarazione dei redditi. O se l'interessato vive all'estero. Da 18 anni ha la residenza fiscale all'estero, ad esempio, Davide Serra, il finanziere con base a Londra salito alla ribalta come sponsor e sostenitore del premier Matteo Renzi. Tramite un portavoce, Serra ha confermato di essere titolare di un conto all’Hsbc «in totale trasparenza e in accordo con il sistema fiscale inglese». La Guardia di Finanza finora ha controllato 3.276 cittadini italiani citati nella lista Falciani, ma ha potuto contestare soltanto 741 milioni di redditi non dichiarati. All'appello mancano soprattutto i tesori «regolarizzati» con il maxi-condono del 2009-2010, varato dal governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Di quei 3.276 italiani già controllati, infatti, ben 1.264 hanno potuto opporre alla Guardia di Finanza lo scudo fiscale, che ha permesso loro di legalizzare fondi neri per ben un miliardo e 669 milioni. Nel numero in edicola, l'Espresso pubblica nomi e posizioni di decine di personaggi italiani con i conti in Svizzera, molti dei quali hanno approfittato dello scudo. D'intesa con il consorzio Icij, “l'Espresso” ha deciso di contattare tutti gli interessati, offrendo la possibilità di fornire chiarimenti, e di pubblicare soltanto i nomi di persone già interpellate.
Che figura i moralisti di sinistra: ora nella "lista nera" ci sono loro. Tra i personaggi citati dall'Espresso ci sono il papà di Civati, il sondaggista Mannheimer e Serra, il finanziere amico di Renzi. Molti smentiscono l'evasione, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Swissleaks, il catalogo è questo. L' Espresso nel numero oggi in edicola pubblica i nomi degli italiani più o meno famosi inseriti nella cosiddetta lista Falciani, dal nome dell'impiegato della filiale svizzera della banca Hsbc che anni fa copiò e rese disponibile l'elenco degli intestatari dei conti. Sono 7.499. Nomi stranoti, noti e sconosciuti. Tutti potenziali - e ripetiamo: potenziali - evasori fiscali. Già, perché trasferire denaro in Svizzera non è di per sé un reato: purché le somme vengano indicate nella dichiarazione dei redditi oppure si viva all'estero. E, a proposito, la cifra totale dei depositi degli italiani di casa nella filiale di Ginevra della Hsbc era, nel fermo immagine di Falciani del 2007, di 6,5 miliardi di euro. Ripetiamo: l'elenco non è una messa all'indice, una gogna mediatica. Però un pochino imporpora le guance della sinistra con la morale sempre in saccoccia. Perché spuntano anche due nomi, anzi due cognomi di politici legati al Pd. L'uno è Civati, come Pippo anzi Giuseppe, parlamentare democratico che ha anche corso per la segreteria del partito contro Matteo Renzi e che di questi è tra gli oppositori interni (pur se ora ammansito). E l'altro è Davide Serra, che politico non è, ma di Renzi è tra i grandi finanziatori. Partiamo da Pippo Civati , uno che della lotta all'evasione fiscale ha fatto un cavallo di battaglia. Uno che ha cercato di crocifiggere Matteo Renzi per quel sospetto ridicolo di aver voluto favorire Berlusconi nel decreto sulla delega fiscale della vigilia di Natale. Peccato che papà Roberto, 72 anni, già amministratore delegato di importanti aziende, aveva nel 2007 un conto con 6.589 dollari nella patria del segreto bancario. «Il motivo per cui compare anche il mio nome - spiega Civati - dipende unicamente dal fatto che mio padre ha aperto quel conto nel 1.994 indicandomi come procuratore, insieme a mia madre, in quanto eredi». Civati aggiunge di «non aver mai avuto alcuna informazione», di questo conto, regolarmente dichiarato nel bilancio di una società del padre e peraltro estinto nel 2011. Quanto a Davide Serra , imprenditore, finanziere, ad del fondo Algebris, finanziatore di Renzi nelle primarie 2012 (perse) e in quelle 2013 (vinte), è residente all'estero, quindi legittimatissimo al conto nella spregiudicata Hsbc, e garantisce la totale trasparenza e il rispetto delle leggi fiscali inglesi. Della morale politica italiana poco gli importa. Ma l'elenco della edizione italiana di Swissleaks è lungo e il dovere di cronaca ci impone di fare i nomi più noti. Ci sono vip già usciti, come lo stilista Valentino Garavani e il campione di motociclismo Valentino Rossi . E poi tanti altri, quasi tutti contattati dal settimanale, al quale hanno fornito la loro spiegazione. C'è il presidente di Telecom Italia Giuseppe Recchi, che parla di un investimento personale regolarmente denunciato. C'è l'ad di Benetton Eugenio Marco Airoldi , che spiega i soldi su quel conto allo stesso modo. C'è l'immobiliarista Manfredi Catella , che giustifica i 922mila dollari che nel 2007 giacevano alla Hsbc goevrina con un'eredità sulla quale ha pagato le tasse in Italia. C'è lo scomparso costruttore Bruno De Mico , a cui si riferisce la somma più ingente (606 milioni di dollari). C'è l'ex rettore della Bocconi Luigi Guatri . C'è il politico scomparso Giorgio Stracquadanio . C'è il sondaggista Renato Mannheimer , che dice di non ricordare nulla di quel conto. C'è il presidente del gruppo «I Grandi Viaggi» Luigi Maria Clementi . Ci sono lo stilista Roberto Cavalli, che fa sapere che è tutto in regola, e l'ex direttore dell'autodromo di Monza Enrico Ferrari. C'è l'ex colonnello dei Ros dei Carabinieri Giuseppe De Donno, titolare di un conto con poche migliaia di euro che, spiega all' Espresso , era legato a un «piccolo investimento di circa 5mila euro fatto da mio padre a mio nome». C'è poi una vecchia conoscenza di Tangentopoli, l'architetto Silvano Larini , a cui si riferisce un conto con quasi due milioni di euro ma che, contrariamente a molti soggetti interessati, non può più spiegare la sua posizione vivendo in Polinesia. C'è la giornalista Ludina Barzini , a cui si riferisce un conto che nel 2007 conteneva oltre 7 milioni di dollari ma che non ha nulla da dichiarare. C'è l'attrice Stefania Sandrelli , che recita un copione da cinema muto richiesta dai giornalisti dell'Espresso di spiegare quel conto Hsbc da 425mila dollari. Così come non canta Ornella Vanoni, pure lei nella Falciani's list. E tace anche Eleonora Gardini , figlia di Raul (722mila dollari nel suo conto svizzero). Ancora una donna, ancora silenzi: Marina Nissan , vicepresidente del Bolton Group, a cui appartengono marchi stranoti come il tonno Riomare e Borotalco, non vuole spiegare quei 3 milioni di dollari e passa lasciati a riposare in terra elvetica.
Lista Falciani, la replica di Pippo Civati. "Ecco perché c'è anche il mio nome". Il deputato del Pd spiega: "Il conto che adesso è estinto è stato aperto da mio padre, che mi ha nominato procuratore, e non ha mai superato i 10mila euro. Fino alla settimana scorsa non sapevo neppure esistesse: non ho soldi in Svizzera e non ne ho mai portati, né prelevati", scrive Pippo Civati su “L’Espresso”. Ripubblichiamo sul nostro sito la replica che il deputato del Pd ha scritto sul suo blog in merito all'inchiesta SwissLeaks condotta dalla nostra testata. Come sempre, voglio darvi tutte le notizie che mi riguardano non appena sono nelle condizioni di farlo. l'Espresso, nel corso del lavoro giornalistico che riguarda Swissleaks, mi comunica che nella lista Falciani compare il nome di mio padre in relazione a un conto corrente presso la banca Hsbc. Il motivo per cui compare anche il mio nome dipende unicamente dal fatto che mio padre ha aperto quel conto nel 1994 (quando avevo diciannove anni) indicandomi come procuratore, insieme a mia madre (in quanto eredi, per il caso in cui fosse mancato). Di tutta questa storia non avevo alcuna informazione e quanto ho ricostruito dopo la telefonata del giornalista Paolo Biondani de l'Espresso è che: il conto non ha mai superato i 10.000 euro, si è estinto nel 2011 (essendosi azzerato a causa delle spese di tenuta) e non risulta su di esso alcuna movimentazione. Preciso che non ho mai fruito di quei capitali e non ho mai avuto concretamente accesso al conto. Prima notizia, quindi: non ho soldi in Svizzera e non ne ho mai portati, né prelevati. Quanto al conto e al deposito di quei capitali, non c’è stato alcun elemento di illegalità: tutta la situazione è stata, peraltro, verificata in occasione del verbale della Guardia di Finanza redatto in contraddittorio con mio padre, sulla base delle stesse informazioni qui riportate (ho mostrato tale verbale, che risale al 2011, al giornalista de l'Espresso). Nulla di contestato, nulla di scudato, insomma. La domanda che compare nel titolo ("Perché il mio nome nella lista" ndr) sono stato il primo a farmela: da anni impegnato nelle battaglie contro l'evasione, il riciclaggio e i paradisi fiscali, è per me insopportabile vedere il mio nome accostato a persone e comportamenti con cui né io né la mia famiglia abbiamo avuto a che fare. La domanda, invece, «perché in quella banca?», trova presto risposta: mio padre, amministratore delegato di un gruppo multinazionale che intratteneva rapporti con istituti bancari di vari paesi, ne aveva, tra gli altri operatori finanziari, anche con Hsbc, presso la quale fu aperto un conto regolarmente dichiarato nel bilancio della società (tutto trasparente, quindi). Presso la stessa banca aprì anche il suo, con la cifra indicata qui sopra.
Civati evasore in Svizzera? Questa davvero è ridicola, scrive Franco Bechis su “L’Imbeccata”. Non condividendo di solito molto di quel che dice Pippo Civati, il signor No del Pd, posso spezzare una lancia in suo favore? Nel dibattito alla Camera in questi giorni ho sentito più di un suo avversario deriderlo perchè avrebbe il cuore a sinistra e il portafoglio a destra. Un grillo parlante che direbbe in un modo e razzolerebbe in ben altro. Tutta colpa della lista Falciani, quella che elenca molti evasori italiani (e molti che non lo sono) che avevano i loro risparmi in Svizzera nei forzieri di Hsbc.Quella lista prende il nome di Hervè Falciani, il dipendente della banca che se la portò via terremotando mezzo mondo. Oggi Falciani è una specie di eroe alla caccia dei grandi evasori, più prosaicamente si tratta di un funzionario infedele scappato via con un elenco che fa gola a molti paesi del mondo. Nella lista italiana di quell’elenco risulta anche il nome di Roberto Civati, papà di Pippo. Aveva- udite, udite- un conto con ben 6.589 dollari, più o meno 5 mila euro. Non ha mai superato i 10 mila dollari, e il conto si è estinto nel 2011. E’ davvero ridicolo che questo possa essere uno scandalo puntato alla tempia di Pippo. Ridicolo che una somma così possa essere qualificata come evasione fiscale, e ancora di più che la Guardia di Finanza abbia perso del tempo per avviare una istruttoria e chiedere spiegazioni. E’ una idiozia, non certo un’ombra sulla attività politica del Signor No del Pd. Il caso non avrebbe dovuto nemmeno nascere, ma visto che in qualche modo è esploso e c’è chi specula sopra, sono con Pippo per una volta. E spero che la vicenda insegni anche lui che non sempre procedere con l’accetta nei giudizi politici è la scelta più intelligente e giusta…
Fango su Civati: suo padre lavorava a Lugano, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista. Chissà se troveranno anche uno zio di Cofferati o un cugino della Camusso. Per ora è toccato a Pippo Civati inchiodato da un clamoroso scoop dell’Espresso, il quale è entrato in possesso di carte che dimostrano che almeno due leader politici italiani sono coinvolti fino al collo nell’affare dei soldi in Svizzera. O quasi. Uno dei due in verità è morto qualche anno fa, l’on Straquadanio, e per questa ragione non può neanche difendersi e si prende una secchiata di fango in faccia alla memoria. L’altro non è proprio un leader politico, ma è il papà di un leader politico e che comunque porta esattamente lo stesso cognome del figlio: Civati. Ed è un cognome molto pesante perché Civati-figlio è uno dei capi del dissenso da sinistra del Pd, è un puro, un moralizzatore, e dunque ’sto fatto della lista Falciani per lui è un colpo micidiale alla propria credibilità. Certo, resti un po’ stupito a scoprire che Civati nascondeva i soldi in Svizzera. Se poi però ti informi un po’ meglio scopri che il padre di Civati, che era manager in una società straniera con capitale a Lugano (e conto in banca a Lugano) nel 1994, quando il piccolo Pippo stava preparando l’esame di maturità, aveva aperto un conto corrente nella stessa banca nella quale si occupava del conto corrente della sua società. Ci aveva messo 20 milioni di lire, più o meno. E questo conto lo aveva intestato anche alla moglie e al figlioletto, in modo che, in caso di morte sua, i soldi non si perdessero. Non si sa se se il ragazzo fu avvertito o no che il conto era intestato anche a lui. Probabilmente sì, perché avrà dovuto firmare una carta. Però in genere a 19 anni non si fa molta attenzione alle cose della burocrazia e della famiglia. Comunque il conto del signor Civati era del tutto regolare: denunciato, tasse pagate, bonifici in regola eccetera eccetera. In questi 21 anni i soldi sono stati mano a mano prelevati e non ne sono stati messi di nuovi. Sempre in forma legale e trasparente. Un paio d’anni fa il conto si è asciugato del tutto ed è stato chiuso. C’è qualcosa di male in tutto questo? Vogliamo fare un processo proletario al signor Civati senior e scoprire come mai nel 1994 avesse messo da parte 20 milioni? Possiamo anche farlo, ma 20 milioni ( che allora era il prezzo di una Ford Fiesta o di un box per auto) non sono granché, e finisce che anche il tribunale proletario lo assolve, o al massimo gli affibbia una nota di demerito per ”comportamenti piccolo-borghesi”, niente di più. E invece sul conto di Civati è successo un putiferio. Persino la Rai ha ripreso il grande scoop, e sul web è iniziato il linciaggio di Civati e della sua insopportabile doppiezza. Ieri Reporter senza frontiere ha pubblicato un dossier dal quale risulta che la libertà di stampa in Italia quasi non esiste più, abbiamo perso 24 posti in classifica, siamo dopo la Moldavia, siamo settantesimi e quasi ottantesimi. Perché? Perchè i giornalisti – dice Reporter – sono minacciati dalla mafia e querelati dai politici. Naturalmente è una boiata pazzesca. I giornalisti in Italia sono liberissimi (anche se la questione delle querele effettivamente è un problema: io ne ho una trentina e non so dove sbattere la testa… però se è vero che tanti giornalisti vengono rinviati a giudizio, non c’entra né la mafia né la politica: c’entrano le Procure…). Il problema è che i giornalisti usano malissimo la loro libertà. La usano per scegliersi la ”squadretta” per la quale lavorare ( Pd, Forza Italia, de Benedetti, Rizzoli, Berlusconi…) e poi si rannicchiano lì e obbediscono, anche se niente e nessuno li costringe a farlo. Questa è il vero dramma. Esiste eccome la libertà, non esiste più il giornalismo. E la cosa è ancora più grave, perché è più facile abbattere una dittatura che ricostruire un ceto giornalistico scomparso (per limiti culturali, intellettuali, morali, di pensiero, di capacità professionali). P.S. Comunque solidarietà a Civati, che pagherà caramente per questa minchionata sparatagli contro dai media.
Quello scudo fiscale in regalo agli evasori. E' stato varato dopo la scoperta della lista Falciani dal governo di Berlusconi e Tremonti. E 1264 di quei nomi l'hanno sfruttato. Risparmiando 700 milioni di tasse, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Lo scudo fiscale, varato nel 2009-2010 dal governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, ha fatto perdere allo Stato italiano almeno 700 milioni di euro: un tesoro costituito dalle tasse risparmiate dai soli clienti della banca Hsbc ora smascherati dalla lista Falciani. Il calcolo, effettuato da esperti indipendenti consultati da “l’Espresso”, si basa sui dati ufficiali diffusi dalla Guardia di Finanza. Nella lista Falciani compaiono 7.499 italiani che avevano depositato nelle filiali svizzere della Hsbc un totale di 7 miliardi e 452 milioni di euro. Il comando generale delle Fiamme Gialle ha concluso 3.276 interventi ispettivi, ma ha potuto contestare soltanto 741 milioni di “redditi non dichiarati”. E finora lo Stato ha effettivamente riscosso appena 30 milioni. All’appello mancano soprattutto i tesori «regolarizzati» con il maxi-condono del 2009-2010. Dei 3.276 italiani già controllati, infatti, ben 1.264 hanno potuto opporre alla Finanza lo scudo fiscale, che ha permesso a quei fortunati di legalizzare fondi neri per ben un miliardo e 669 milioni di euro. Senza lo scudo, quei 1.264 evasori avrebbero dovuto pagare, prima di tutto, le imposte dovute. Tenendo conto delle diverse aliquote, gli esperti stimano una tassazione media di circa il 30 per cento. Che, applicata a quel patrimonio scudato (1.669 milioni), avrebbe portato nelle casse dello Stato oltre mezzo miliardo. Alle tasse non pagate, poi, vanno aggiunte le sanzioni. Che in totale arrivano a circa 400 milioni, che gli evasori avrebbe potuto ridurre fino a un terzo solo pagando subito con l’adesione alle contestazioni. A conti fatti, tra tasse arretrate e multe, gli esperti considerano «prudenziale» la stima di un gettito fiscale compreso tra 700 e 800 milioni. Mentre i 1.264 miracolati hanno potuto sanare l’evasione versando soltanto una quota fissa del 5 per cento: 83 milioni in tutto. Lo scudo Tremonti, inoltre, ha garantito agli evasori l’anonimato. Solo grazie alla lista Falciani, quindi, la Finanza ha potuto controllare come quei 1.264 italiani avevano creato quei fondi neri. La nuova procedura di “ voluntary disclosure ”, varata in dicembre dal governo Renzi, equivale invece un’autodenuncia: chi aderisce, perde l’anonimato, deve pagare tutte le imposte e ha uno sconto solo sulle sanzioni. Applicando queste nuove regole ai 1.264 scudati della Falciani, secondo gli esperti, lo Stato avrebbe potuto incassare circa 600 milioni. Sette volte di più del gettito dello scudo. Certamente il condono di Tremonti non ha favorito solo i clienti della Hsbc. In totale hanno beneficiato dello scudo ben 179.577 italiani, che hanno così legalizzato conti esteri con 104 miliardi e 560 milioni di euro. Le coincidenze di tempi con il caso Falciani, però, sono impressionanti. Il tecnico informatico ha rivelato di aver cominciato a collaborato con le autorità italiane all’inizio dell’estate 2009. Lo scudo è stato varato d’urgenza dal governo Berlusconi con un decreto del primo luglio 2009, convertito in legge il 30 agosto. Svelato il suo ruolo, nel 2011 Falciani si è sentito dire che la Guardia di Finanza non poteva più indagare, perché era arrivato uno stop politico: al governo c’erano ancora Tremonti e Berlusconi. Che era già sotto processo per la sua frode fiscale da 368 milioni di dollari, organizzata con una rete di conti esteri mai dichiarati. E non totalmente cancellata dalla prescrizione facile, per una volta.
Vincenzo Visco: "Ecco chi difende i furbi". L’ex ministro Pd critica Renzi e il suo governo. Che, come i precedenti, non contrasta a fondo l’evasione. Come dimostra il decreto fiscale libera-tutti, scrive Stefano Livadiotti su “L’Espresso”. La lista Falciani sta facendo grande clamore, ma dal punto di vista del gettito fiscale ha avuto effetti modesti. Al di là della norma cosiddetta salva-Berlusconi, il decreto di attuazione della delega fiscale ha rappresentato un deprecabile infortunio. Il messaggio agli evasori era: liberi tutti. Credo che il governo sia sia reso conto dell’errore e spero che vi ponga rimedio nel nuovo testo. Vedremo. L’evasione fiscale italiana potrebbe essere dimezzata nell’arco di pochi anni: ma, se l’amministrazione finanziaria è in ottime mani, l’esecutivo è carente sotto il profilo della competenza fiscale... Parla Vincenzo “Dracula” Visco, ministro delle Finanze con i governi Ciampi, Prodi e D’Alema, titolare del Tesoro e del Bilancio con l’Amato II e dell’Economia (con delega alle Finanze) con il Prodi II. E, come suo costume, non usa troppi giri di parole.
Visco, le fa impressione scoprire che nella lista Falciani l’Italia è al quinto posto come numero di clienti e al settimo per l’importo dei conti?
«Nessuna. C’è stato un momento, a metà anni Ottanta, in cui gli evasori portavano in Svizzera valigie zeppe di soldi. Non usavano neanche più gli spalloni. Tanto non c’erano controlli».
Chi compare nella lista Falciani non è necessariamente un evasore...
«Vero. In teoria può aver portato regolarmente i suoi soldi in Svizzera, dichiarandolo. Ma i capitali depositati nei paradisi fiscali possono avere solo tre origini: il riciclaggio, la corruzione e l’evasione. E quest’ultima rappresenta la fetta più consistente. Vale in tutto il mondo. In Italia di più. Ragion per cui...».
Sulla base della prima parte della lista Falciani, quella del 2010, il fisco inglese ha recuperato 135 milioni, quello francese 188, quello spagnolo tra i 220 e i 300. In Italia siamo fermi intorno a quota 30. Dipende solo dal fatto che da noi qualcuno nega il valore di documenti, come appunto la lista, che sono stati trafugati?
«Ci sono certamente problemi giuridici. E anche altri, di indirizzo più politico. Quando, da ministro, mi è arrivato l’elenco dei contribuenti che avevano portato i soldi in Lussemburgo l’ho girato immediatamente all’Agenzia delle Entrate. Poi il governo è caduto e quello successivo ha bloccato tutto».
Che effetto avrà la lista Falciani sulla cosiddetta voluntary disclosure, il provvedimento che consente di regolarizzare capitali detenuti, all’estero o anche in Italia, in violazione delle norme fiscali?
«Quando qualcuno viola il segreto gli evasori si dicono: non c’è più religione. E lesti riportano i soldi a casa. Grazie anche alla lista Falciani, la voluntary disclosure avrà dunque un buon successo. Ma questo non risolverà il problema italiano sul fronte dell’evasione».
Perché?
«Il denaro percorre sempre lo stesso circuito. Il punto di partenza è il falso in bilancio, che genera evasione e che serve a produrre i fondi neri. Poi ci sono il riciclaggio o l’autoriciclaggio. Ecco: una normativa efficace dovrebbe essere progettata con preciso riferimento a questo percorso. E fondata sulla cooperazione internazionale: finora siamo fermi allo scambio di informazioni, che rappresenta un primo passo e però non basta. Ciò che manca in Italia è una visione organica, come si è visto proprio in questi giorni.»
Si riferisce al decreto legislativo di attuazione della delega fiscale, attualmente sospeso per via della norma cosiddetta salva-Berlusconi, che secondo l’Associazione per la legalità e l’equità fiscale è un condono mascherato del valore di 15 miliardi?
«Ritengo che per il governo si sia trattato di un infortunio. Volevano varare una norma popolare, che lasciasse intendere una sorta di tregua per le piccole frodi. Il che sarebbe stato anche giusto. Il problema è che poi in Consiglio dei ministri, aggiungi qua inserisci là, è venuto fuori un provvedimento stravagante, che depenalizzava le grandi frodi e dimezzava i tempi di prescrizione, andando contro la tendenza che si va affermando in Europa e rischiando una forte perdita di gettito. Ora: non mi iscrivo certo al partito dei forcaioli, ma sui comportamenti più gravi il penale ci vuole. Comunque, sembra che il governo sia pronto a presentare un nuovo testo. Vedremo se riparerà errori e incoerenze. Io me lo auguro, perché ce n’è davvero bisogno».
Tangentisti, trafficanti, criminali, ma anche stilisti e casalinghe. Approfittavano del segreto promesso dalla sede elvetica della banca globale Hsbc. Ma ora parte del silenzio è stato strappato grazie al lavoro del Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) sulla lista di Hervé Falciani. Il nostro giornalista spiega come è stato portato avanti il lavoro che l'Espresso pubblica in esclusiva per l'Italia I dati dell’Institut de criminologie ed de droit pénal dicono che in Italia i detenuti per reati economici e fiscali sono appena lo 0,4 per cento del totale, meno di un decimo della media europea...
«Altrove c’è maggior rigore. In questo senso, sarebbe molto utile fare un confronto approfondito con i meccanismi adottati in altri Paesi».
Al di là delle norme future, gli strumenti di cui già oggi il fisco dispone sono usati al meglio?
«Assolutamente no. Io nel 1998 varai, tra le altre cose, il fisco telematico, forse all’epoca il più all’avanguardia nel mondo. L’insieme delle misure ci consentì di ridurre l’evasione di massa dell’equivalente di 4 punti di prodotto interno lordo. Poi, i governi successivi hanno fermato il processo di ammodernamento del sistema fiscale. Un vero peccato, perché in pochi anni si potrebbe dimezzare l’evasione italiana, portandola dall’8 per cento del Pil ai livelli medi europei. Il fatto è che bisognerebbe saper e voler utilizzare le banche dati disponibili».
Sta puntando il dito contro l’amministrazione?
«Servono controlli, buona e consapevole gestione amministrativa e coordinamento internazionale. Ma la strada scelta dalla Orlandi, quella di convincere i contribuenti che è meglio adempiere ai loro doveri fiscali, è senz’altro quella giusta. Continuare ad abbaiare alla luna, con i blitz in stile Cortina, sarebbe tempo perso. In questo senso, con Rossella Orlandi l’amministrazione è in ottime mani. Dove, semmai, c’è un difetto di competenza in materia fiscale è all’interno del governo».
Difetto di competenza o mancanza di volontà politica?
«Sul terreno fiscale questo governo poteva certamente fare di più, anche se alcune cose sono state realizzate. Ma bisogna tenere conto di un fatto. Ci sono forze politiche che difendono di fatto gli evasori per averne in cambio i voti. E altre che sono comunque condizionate dalla necessità di non perdere il consenso elettorale dei furbetti del fisco. In un Paese dove l’evasione è di massa chi la combatte con determinazione rischia di pagare un prezzo politico. Vedremo cosa succederà ora che l’equivoco del patto del Nazareno è venuto un po’ meno. Certo, la maggioranza resta composita. Comunque, un buon banco di prova sarà la norma sulla fatturazione elettronica, che ho proposto nei mesi scorsi e che sarebbe in grado di assestare una bella botta all’evasione».
Quando è nato questo governo si è detto che Renzi si affida molto a lei in materia fiscale. E la nomina di una persona come la Orlandi al vertice dell’Agenzia delle entrate sembrava confermarlo. Di recente, invece, lei ha preso posizioni abbastanza critiche nei confronti dell’esecutivo. L’asse Renzi-Visco si è rotto?
«Renzi sente tanta gente, ma tende a un rinnovamento radicale. Io offro, da esterno, la mia collaborazione al governo del Pd, sotto forma di consigli, a volte accolti e altre no. E se lo vedo assumere iniziative che ritengo vadano nella direzione sbagliata lo dico. Per il suo bene».
Gogna fiscale sui famosi per i conti in Svizzera. Ripubblicata la lista Falciani con i nomi di centomila clienti della banca Hsbc anche se non c'è prova che siano evasori. E il bancario-delatore diventa una star, scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Dai sovrani dei Paesi arabi alle star di Hollywood fino ai semplici cittadini, centomila nomi da mettere alla gogna. Questa, in sintesi, la mega inchiesta denominata Swissleaks e pubblicata da circa 50 organi di stampa internazionali, coordinati dal consorzio giornalistico americano Icij. Il piatto forte sono i conti correnti aperti nella filiale di Ginevra della banca britannica Hsbc. I numeri sono da capogiro, si parla di circa 180 miliardi di euro transitati nella filiale svizzera e tutti riconducibili a una lunga lista di vip, dal re del Marocco a quello della Giordania, dal pilota Fernando Alonso all'attore americano John Malkovich. Ma ci sarebbero anche trafficanti d'armi e i cartelli della droga che avrebbero sfruttato l'occasione offerta dalla Hsbc per celare i proventi dei loro affari illeciti. Insomma, uno scandalo con i fiocchi che, se da un lato smaschera molte attività illegali, dall'altro però mette sullo stesso piano chi ha depositato i propri risparmi senza violare le leggi. D'altronde, il piatto da servire è più che ghiotto e stuzzica gli appetiti dei lettori di tutto il mondo. Il gossip su star e potenti e sulle loro ricchezze è e sarà sempre oggetto di accese discussioni al tavolo del bar. E non solo. Sapere quanti milioni nascondono in Svizzera i cantanti Tina Turner e Phil Collins o la top model Elle Macpherson soddisfa molte e morbose curiosità. Ma che c'è di nuovo dunque in questa inchiesta? All'apparenza non molto: si tratta della solita «lista Falciani», cioè l'elenco rubato dall'informatico ed ex dipendente della Hsbc Hervé Falciani e poi rivenduto agli uffici del Fisco di alcuni Paesi. La sola Germania, secondo indiscrezioni, avrebbe offerto per la lista dei correntisti tedeschi 2,5 milioni di euro. Falciani, che collabora con le autorità francesi e spagnole e alle quali ha fornito i file di oltre 100mila clienti della Hsbc, aveva copiato le liste dei correntisti tra il 2006 e il 2008. Molti dei nomi apparsi sui giornali erano già saliti alla ribalta tra il 2009 e il 2010, quando per la prima volta si sentì parlare dell'informatico. L'ultimo elenco, che vede la luce in questi giorni, è un solo aggiornamento con l'inserimento di nuovi nominativi. Nella lunga lista ci sarebbero anche settemila italiani, tra cui lo stilista Valentino, l'imprenditore Flavio Briatore e il pilota Valentino Rossi. Naturalmente la loro attività è stata ripassata al setaccio e, con malcelata soddisfazione, i giornali non hanno risparmiato loro pesanti allusioni, mettendoli nel listone dei grandi evasori. Valentino Garavani aveva in Svizzera un conto di 108 milioni, Valentino Rossi di 23 e Briatore di circa 73 milioni. Peccato che sia lo stilista sia il campione di motociclismo abbiano sanato la loro posizione con il fisco. Briatore, invece, conferma di avere depositi in Svizzera, ma «in modo perfettamente legale e in conformità con qualunque legge fiscale». Le Procure di Roma e Torino esamineranno comunque la lista e decideranno se aprire una nuova indagine. Non siamo qui a fare i difensori d'ufficio di vip o imprenditori: se qualcuno ha commesso delle irregolarità, va perseguito. Ma rendere pubblici anche i nomi di chi, come tanti illustri sconosciuti, fa quel che gli pare dei propri risparmi senza violare alcuna norma, ci sembra la solita gogna mediatica. E ci fa sorridere soprattutto chi dipinge Falciani come un eroe che fa tremare i disonesti. Lui stesso ha finito per crederci, tanto che in questi giorni ha dato alle stampe il libro La cassaforte degli evasori , in cui racconta la sua storia come una missione per «raccogliere le prove» contro chi evade le tasse. Sarebbe opportuno ricordare che l'ex informatico ha rubato i dati alla Hsbc (la Svizzera cerca ancora di arrestarlo) e li ha rivenduti facendosi pagare profumatamente. Ma soprattutto ci sembra pericoloso, come affermavano le autorità svizzere, «che uno Stato di diritto possa utilizzare dati ricevuti in modo illegale». Hervè Falciani, ingegnere informatico italofrancese, è un ex dipendente della Hsbc di Ginevra, dove ha lavorato dal 2001. Nel 2009 ha iniziato a collaborare con la polizia di vari paesi, facendola accedere al sistema informatico della banca. Lo racconta in un libro, «La cassaforte degli evasori», che uscirà a fine mese. Ora inizierà anche a collaborare con «Podemos», il partito degli «indignados» di Spagna.
L'inchiesta sui presunti evasori fiscali è: tanto fango, poche entrate. Falciani, una minestra riscaldata. Molti i nomi messi nel ventilatore della diffamazione, scrive Tino Oldani su “Italia Oggi”. Grande inchiesta giornalistica, o minestra riscaldata? Il dubbio, tutt'altro che infondato, non depone certo a favore della cosiddetta SwissLeaks, l'indagine condotta da Le Monde insieme al settimanale Espresso e altre 43 testate. Da giorni, nel darne conto, tg e giornali vanno ripetendo che sono stati scoperti i nomi di 7 mila italiani, subito indicati come grandi evasori fiscali per il solo fatto che, tra il 2006 e il 2007, avevano un conto corrente presso la filiale svizzera della banca inglese Hsbc. In realtà, l'elenco completo dei clienti di quella filiale (100 mila nomi, provenienti da una ventina di Paesi), con i relativi depositi (180 miliardi in totale) era stato rivelato nel 2010 da un funzionario della banca, Hervé Falciani, che per questo è latitante, inseguito da un mandato di cattura delle autorità svizzere, che lo accusano di vari reati: spionaggio economico, sottrazione di dati, rivelazione di segreto bancario. Agli occhi di Le Monde e dell'Espresso, tuttavia, Falciani è un eroe del nostro tempo. Lui stesso, intervistato ieri mattina da Radio24, che l'ha raggiunto al telefono nel suo nascondiglio segreto, ha detto di avere violato le leggi svizzere di proposito, con lo scopo di denunciare lo strapotere delle banche e dei governi al loro servizio, mettendo così a nudo i miliardi nascosti in Svizzera da grandi evasori fiscali, mafiosi, trafficanti d'armi e finanziatori del terrorismo. Musica per le orecchie dei giustizialisti. C'è però un rovescio della medaglia. L'ex pm del Canton Ticino, Paolo Bernasconi, padre della legge svizzera contro il riciclaggio in vigore dal 1990, oggi avvocato, ha bocciato in modo clamoroso l'inchiesta SwissLeaks, definendola «una minestra riscaldata». Tutti i documenti sottratti alla banca da Falciani a partire dal 2008, ha spiegato Bernasconi a Repubblica, «sono stati esaminati dal Pubblico Ministero della Confederazione svizzera, ovvero dall'autorità competente per procedere contro il finanziamento del terrorismo, il traffico d'armi illecito e la corruzione internazionale. E non è stato avviato alcun procedimento penale». Quanto alle accuse di evasione fiscale, SwissLeaks non ha certo fatto un buon lavoro, sparando nel mucchio e confondendo evasori e non. Anzi, personalmente ho trovato osceno che i tg e i giornaloni ripetessero per giorni che tra i clienti italiani della Hsbc vi era anche Giorgio Stracquadanio, ex senatore del Pdl, cointestatario di un deposito di oltre 10 milioni di dollari, indicato perciò come un grande evasore. Ho conosciuto di persona Stracquadanio, di cui ero amico, e non riuscivo a credere ai miei occhi quando i tg ne rilanciavano la foto, pur sapendo che un tumore se l'è portato via un anno fa. Alla violenza verso la sua memoria, si è aggiunta quella sulla verità dei fatti: Giorgio non aveva mai avuto un lavoro stabile, e aveva fatto sempre politica, prima con i radicali e poi con Silvio Berlusconi, di cui scriveva i discorsi. I dieci milioni sul conto svizzero li aveva ereditati dal padre, ex dirigente della Montedison. E da uomo rispettoso delle leggi tributarie, come sanno esserlo i radicali, aveva provveduto a sanare quel conto sul piano fiscale, aderendo allo scudo varato dall'ex ministro Giulio Tremonti nel 2009, cioè un anno prima che uscisse la lista Falciani. Fatto confermato ieri al Corriere della sera dalla sorella Tiziana, cointestataria del conto, commercialista di professione. Purtroppo, oltre a Stracquadanio, tra i presunti evasori messi alla berlina ci sono altri nomi illustri, che da tempo si erano messi in regola con il fisco. Tra questi, l'ex presidente dell'Eni e oggi presidente di Telecom Giuseppe Recchi, l'ad di Benetton Eugenio Mario Airoldi, l'immobiliarista di Hines Italia Manfredi Catella, il finanziere Davide Serra, amico del premier Matteo Renzi, residente a Londra, che ha spiegato che il suo conto è «in totale trasparenza e in accordo con il fisco inglese». Quanto a Pippo Civati del Pd, non ne sapeva proprio nulla: il conto svizzero (6 mila euro) era del padre, ex manager di un'azienda milanese. Ma pure lui è finito nel tritacarne. Tanto rumore per nulla? I numeri parlano da soli. A distanza di cinque anni dal ricevimento della lista Falciani , su 7.463 nomi con 7,4 miliardi di depositi , le indagini della Guardia di finanza e della magistratura hanno portato ad accertare redditi non dichiarati per appena 741 milioni, più 4,5 milioni di Iva dovuta e non versata, e a riscuotere 30 milioni di euro in tutto. Quanto alle indagini penali aperte in 120 procure, la prescrizione di 6 anni per i reati tributari ha imposto l'archiviazione quasi totale dei procedimenti: a Torino, su 250 nomi segnalati, si è avuta una sola richiesta di rinvio a giudizio; a Roma su 800 nomi segnalati, appena tre rinvii. Ma è probabile che la durata dei processi calerà come una mannaia anche su questi. In fin dei conti, l'unico a guadagnarci sembra Falciani: latitante in Spagna, lo scorso anno si era candidato al Parlamento europeo con un piccolo movimento spagnolo, Partito X, ma non è stato eletto (quindi niente immunità); ora però il partito spagnolo di estrema sinistra Podemos lo ha ingaggiato come consulente e lo vuole candidare alle prossime elezioni politiche. Il fango che avanza.
Se il Grande fratello è scemo e pasticcione. La lista Falciani lo dimostra: tanta gente messa alla gogna ma quasi nessuno è un evasore. Ecco perché il terrorismo fiscale non serve. Gli esperti: "Meglio accertamenti mirati", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. È la lista dei dannati. Quelli che Giotto avrebbe relegato fra i ghiacci degli inferi e Dante in uno degli ultimi gironi. I traditori. I vigliacchi. Gli evasori. Il Grande fratello fa le cose in grande e consegna al fisco italiano una lista chilometrica, comprendente la bellezza di 7499 nominativi. Tutti additati a furor di popolo come nemici della patria. Peccato che il Grande fratello sia un po' approssimativo, un po' confuso, un po' pasticcione. Anzi, molto pasticcione. Per dirla tutta ha fatto solo un gran polverone. Herve Falciani, l'impiegato che ha trafugato gli elenchi della filiale ginevrina della banca Hsbc, ci regala emozioni, indignazione e rabbia in dosi industriali, ma quel che invece ha ceduto agli investigatori è una guida inservibile. Un ferrovecchio buono solo per le suggestioni. «Questa storia della lista Falciani - racconta al Giornale un ufficiale della Guardia di finanza - è una bufala bella e buona. Tanto per cominciare l'elenco è vecchio, datato e risale al 2007, poi siamo riusciti a identificare solo un terzo circa dei nominativi, molti hanno negato ed è difficile trovare riscontri se alcuni paesi, da Lussemburgo alle Isole del Canale, non collaborano. E poi ci sono quelli che avevano un motivo più valido per tenere i capitali in Svizzera e ancora quelli che hanno utilizzato a suo tempo lo scudo per riportare i soldi in Italia». Risultato: smaltito il voyeurismo collettivo ci si ritrova con un pugno di mosche in mano. Il Grande fratello non ne ha azzeccata una e si becca smentite a raffica. Protesta Pippo Civati, il deputato della minoranza Pd, risucchiato nello scandalo dalle rivelazioni dell' Espresso : «Quel conto non ha mai superato i 10 mila euro e si è estinto nel 2011». Si giustifica anche Tiziana Stracquadanio, sorella dello scomparso deputato del Pdl Giorgio Stracquadanio: «La cifra», a quanto pare vicina ai 10 milioni di dollari, «è il frutto di un'eredità legata a mia madre - spiega al Corriere della Sera - e non c'entra niente con l'attività politica di mio fratello». E invece tutti hanno pensato a chissà quali maneggi, affari obliqui o pagamenti sottobanco per accordi indicibili. Il Grande fratello non distingue e fotografa invece un Paese popolato da evasori ben mimetizzati che l'abilissimo Falciani, nostro angelo vendicatore, ha smascherato e buttato alla gogna. Fosse così e invece ci tocca collezionare precisazioni, rettifiche, annunci di denunce. Eleonora Gardini, figlia di Raul, ci fa sapere che lo scoop è la scoperta dell'acqua calda: «La mia posizione è già stata vagliata dalla Guardia di finanza fra il settembre e il dicembre del 2010 e nessun rilievo mi è stato mosso, come si ricava dal verbale del 10 dicembre 2010». Caso chiuso, dunque, e riaperto a scoppio ritardato solo per il compiacimento onanistico di un popolo di lettori-guardoni. Idem per Davide Serra, il finanziere amico di Renzi con quartier generale nella City di Londra e per Flavio Briatore che però è meno diplomatico nei toni e anzi lancia una dichiarazione di guerra: «Mi sento sputtanato perché sono all'estero da vent'anni con la mia famiglia, vivo all'estero, ho i conti all'estero. Io non sono un evasore e allora querelo tutti dalla A alla Z: giornali, giornalisti, imitatori». Si, il listone è un flop, una fregatura, una truffa alla Totò. Forse ad inseguire lenzuolate di presunti furbastri con il portafoglio nei caveau esotici si finisce per favorire i veri ladri di imposte, i grandi fuggiaschi, gli sconosciuti dai conti milionari. «Non è con le liste - conclude l'ufficiale delle Fiamme gialle - tantomeno con le liste rubate come quella di Falciani che si fa la lotta agli evasori». Ci vorrebbero controlli selettivi, accertamenti mirati, più investigazione ad alto tasso di specializzazione e meno fumo. Meno chiacchiere e meno blitz, in stile Cortina a Capodanno. Ma i moralisti non demordono, chiedono provvedimenti esemplari e pugno di ferro per combattere contro quelli che sottraggono ricchezza all'Italia. E poi pene più alte, carcere e manette a raffica. Uno spot triste che avvelena l'Italia e non porterà un euro nelle casse dello Stato.
SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.
Papa Francesco contro le banche e la speculazione: "Questa economia uccide", scrive “Libero Quotidiano”. Una lunga intervista rilasciata da Papa Francesco a ottobre 2014, pubblicata oggi su La Stampa, che anticipa così parte del libro Papa Francesco. Questa economia uccide, il volume sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Un libro che fin dal titolo esprime il pensiero del Pontefice, che punta il dito contro il sistema economico occidentale, contro le banche, contro la speculazione. Bergoglio muove la sua accusa contro un intero sistema senza troppi giri di parole, come nel passaggio in cui afferma: "Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria - spiega il Papa - non possono godere di un'autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo". La povertà resta il primo dei pensieri di Bergoglio, che aggiunge: "Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all'altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo estendere questa richiesta anche all'essere in pace con i nostri fratelli poveri". Nella lunga intervista, Francesco risponde anche a chi lo accusa di marxismo, e spiega: "Questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un'invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia".
Intervista a Papa Francesco: “Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”. Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”. Jorge Mario Bergoglio, 78 anni, è diventato Papa con il nome di Francesco il 13 marzo del 2013, Scrivono Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi su “La Stampa”.
Anticipiamo uno stralcio di «Papa Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale, salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia, finanza e dottrina sociale della Chiesa - tra questi il professor Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi - raccontando anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014. «Marxista», «comunista» e «pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel suo magistero?
Santità, il capitalismo come lo stiamo vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche modo irreversibile?
«Non saprei come rispondere a questa domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte. C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si “scarta” quello che non serve a questa logica: è quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25 anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”, perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro».
Un cambiamento, una maggiore attenzione alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti strutturali al sistema?
«Innanzitutto è bene ricordare che c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso».
Perché le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici – esagerate e radicali?
«Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI...».
Restano ancora valide le pagine della “Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai?
«Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza».
Hanno colpito molti le sue parole sui poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?
«Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri. Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri».
Lei ha sottolineato la continuità con la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare qualche esempio in questo senso?
«Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (...) Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro».
SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.
La Salva Silvio salva anche i banchieri. E Renzi perde consenso. Si allunga la lista dei beneficiari inconsapevoli del decreto fiscale. Oltre Berlusconi, la manina aiuterebbe anche i grandi banchieri, partendo da Passera e Profumo. Il governo dovrà riscrivere gran parte del decreto. E rimediare ai danni di reputazione, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. La prima settimana dell’anno per Matteo Renzi è stata un disastro. La polemica sul volo di Stato per la settimana bianca, per una sciata senza casco (come immortalato prontamente da Chi), ma soprattutto il codicillo Salva Silvio, con il mistero della manina che l’ha fatto comparire, con una dinamica ancora tutta da chiarire, nel decreto sul fisco approvato prima di Natale. Respinta al mittente la richiesta delle opposizioni, di Giuseppe Civati e del senatore Massimo Mucchetti di riferire alle camere («Gli atti del consiglio dei ministri non sono oggetto di informativa» ha sentenziato Maria Elena Boschi), l’episodio avrà ancora i suoi strascichi. In parte sulla reputazione del governo, in parte sul destino stesso del decreto, che è stato congelato ma che dovrà esser riscritto, secondo il premier dopo il voto per la successione al Quirinale. Una settimana pessima, insomma, fatta finire in anticipo solo dalle tragedie francesi, dagli attenti e dalle sparatorie e dal terrorismo che hanno giustamente cambiato l’agenda dei giornali. I danni però ci sono, o almeno così sostengono i sondaggisti. Danni al governo, e non al Pd, che tiene e anzi sale in alcune rilevazioni. Renato Mannheimer dice che «con gli scivoloni dell’ultima settimana il premier e il governo perdono tra i quattro e i cinque punti». Roberto Weber di Swg conferma: «Più che il volo di Stato è la non chiarezza sulla episodio di Berlusconi a determinare l’erosione. Come fatti in sé, e in relazione ai dati dell’economia. Nel senso che mentre il dibattito è monopolizzato dalla questioni tipo salva Berlusconi, il cittadino vede i dati della disoccupazione, quelli dell’Istat, gli indicatori economici e la sfiducia aumenta». Matteo Renzi cerca chi ha scritto il salva-Silvio, la minoranza dem riprende vigoreDel Salva Silvio però bisognerà parlare ancora. Il governo potrà anche non chiarire la genesi dell’articolo 19 bis, che introduce la soglia di non punibilità per l’evasione, senza escludere neanche la frode, e che quindi avrebbe “graziato” Silvio Berlusconi, ma del merito bisognerà comunque discutere. Come bisognerà discutere di un’altra aggiunta fatta last minute al decreto e che riguarda il comma 4 dell’articolo 4 che depenalizza le dichiarazioni fraudolente. Per alcuni critici sarebbe un regalo ai grandi banchieri, che quindi non lasciano solo Silvio Berlusconi nell’elenco dei beneficiari inconsapevoli della riforma. Tra i nomi, i classici Alessandro Profumo e Corrado Passera, coinvolti nelle partite di titoli derivati. La lista che si allunga di possibili beneficiari, poi, fa crescere in parlamento l’idea che sul decreto sul fisco il governo abbia per così dire accettato molti suggerimenti esterni, consigli estranei al ministero dell’economia, i cui tecnici non riconoscono la paternità, ma estranei anche all’ufficio legislativo di palazzo Chigi diretto dall'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione, almeno per quanto riguarda il processo creativo, perché la fedelissima di Renzi non è certo nota per le competenze in materia fiscale.
Salva Silvio, Pier Luigi Bersani attacca Renzi: "Più sincerità e chiarezza". «Matteo dà da bere agli ubriachi» è la metafora di Bersani sugli evasori e la soglia di non punibilità del 3 per cento introdotta dal governo. E Mucchetti (Pd) chiede che il premier riferisca in aula sul mistero della “manina”, continua Luca Sappino su “L’Espresso”. Non servono molte parole a Pier Luigi Bersani per fulminare Matteo Renzi sulla vicenda del decreto sul fisco, quello del pasticcio dell’articolo 19 bis, che alza la soglia di tolleranza per la frode fiscale, ed è ormai noto come il codicillo “Salva Berlusconi”. «Renzi parla tanto di proporzionalità per l'evasione fiscale, ma mi pare che il senso sia che chi ha di più può evadere di più», aveva detto già ieri l’ex segretario, a margine della riunione dei deputati del Pd, alludendo al fatto che l’articolo non interessa solo a Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto i grandi gruppi industriali che quel 3 per cento lo potrebbero applicare a bilanci molto ricchi. Per Eni, ad esempio la soglia di non punibilità penale si tradurrebbe, secondo i calcoli fatti dal Sole 24 ore e da Libero, in 419 milioni di euro, per Enel in 216, Unicredit 130, Telecom 16 milioni, e così via. A "L’aria che tira", su La7, Bersani ha però detto di più: «Ci vogliono più sincerità e chiarezza. Il modo per uscire da questa situazione non è aspettare il 20 febbraio, ma affrontare subito il decreto nel prossimo consiglio dei ministri e togliere quella parte del 3 per cento». Così la voce più forte della minoranza del Pd critica la scelta del premier che vorrebbe invece congelare il testo fino a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, compiendo una forzatura delle procedure che vorrebbero l’atto approvato dal governo nelle disponibilità del Parlamento che è sovrano, entro i trenta giorni, nel determinare il calendario per arrivare alla valutazione e al suggerimento di eventuali correzioni. Questa è infatti la strada che propone la minoranza dem: Renzi lasci fare al Parlamento, raccolga le note e poi modifichi questo stesso testo. Il tutto molto prima del 20 febbraio. Il premier però preferisce fare a modo suo anche perché così, evidentemente, riesce a tenere sotto pressione Silvio Berlusconi e a tenere più ordinati i voti di Forza Italia, fondamentali nella delicata partita del Quirinale. Bersani continua il suo attacco: «Renzi ha dato un messaggio a un pezzo di Italia con quel 3 per cento: essere leggeri sul tema fiscale è come dare da bere agli ubriachi. Il punto è che concetto abbiamo di fedeltà fiscale in questo benedetto Paese. Renzi si è preso la responsabilità del decreto, la manina è la mia ha detto e ha risolto, ma io non riesco a fargli i complimenti». Ancora: «A Renzi voglio chiedere: abbiamo inventato l'evasione in proporzione? Non esiste in nessun posto al mondo una cosa così. La frode fiscale è un reato in tutto il mondo...». Bersani poi invita a non gridare al complotto degli antiberlusconiani: «Tiriamo via il riconoscimento della frode come hanno chiesto anche le associazioni degli imprenditori», nota l’ex segretario, «e non dimentichiamoci che la cosa l'ha tirata fuori il Sole 24 ore», e non qualche ex girotondino. Bersani, che evidentemente ha letto bene il giornale economico, dice anche un’altra cosa: «C'è da ripulire altro nel decreto...» aggiunge riferendosi agli altri punti controversi del testo prodotto dal governo. Oltre alla soglia percentuale di non punibilità sul reddito aziendale, infatti, c’è da rivedere, ad esempio, la depenalizzazione dell’emissione di false fatture sotto i mille euro, e l’aumento del limite da 50 mila a 150 mila per la dichiarazione infedele. Anche per questo, per Bersani, potrebbe non esser un cattiva idea che Renzi sia chiamato dalle Camera a riferire sulla vicenda della manina e di come sia stato scritto il decreto votato nel consiglio dei ministri del 24 dicembre. «Certo non guasterebbe» dice l’ex segretario. La richiesta è stata avanzata da Massimo Mucchetti, senatore dem, intervenuto in aula a titolo personale, come ha subito precisato il renziano Tonini. Per Mucchetti, Renzi dovrebbe spiegare «quale testo è stato licenziato dal Ministero; quale testo è arrivato in Consiglio dei ministri e, se ci sono state modifiche, chi le ha apportate; se in Consiglio dei ministri c'è stato dibattito, e chi è intervenuto nel dibattito; quale testo, infine è stato varato e come, in base a quali procedure, è stato poi ritirato». Il dubbio è che si sia potuta essere sì «una centralizzazione delle decisioni politiche in capo al Consiglio dei ministri, ma che poi le decisioni collegiali siano state modificate in modo monocratico, il che pone un problema di governance democratico». E sì, sarebbe forse coerente con il carattere del premier, ma non proprio gradito dalla Costituzione. La proposta è stata salutata con favore dal Movimento 5 stelle, dalla Lega e da Sinistra Ecologia Libertà. «Mi associo a Mucchetti» ha detto poi Pippo Civati, ormai lontanissimo dal governo, che oggi ha presentato con Sel una proposta per inserire il conflitto di interessi nella Costituzione: «Secondo me parla a nome di tutti gli elettori del Pd e del centrosinistra che si chiedono come siano andate le cose. Altro che manina, è una manona ed è un fatto di estrema gravità».
Visco e il club delle manette. Le colpe di Visco e della Orlandi in un impasto velenoso fatto di antiberlusconismo e voglia di colpire Renzi e le imprese, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questa storia delle depenalizzazioni fiscali che rischia di affondare proprio non ci va giù. La delega votata dal Consiglio dei ministri è inciampata nella franchigia del tre per cento. Si è attivato un impasto velenoso fatto di tre ingredienti principali: lo sperimentato antiberlusconismo mediatico, la chance per la sinistra Pd di dare una bottarella al proprio segretario e cioè Renzi, e l'ideologia antimpresa per la quale le tasse sono belle e i privati evasori. Si rischia così di buttare a mare un passo avanti in materia fiscale e penale. Il circuito dei soliti ha funzionato alla grande. La vera manina da cui è partito tutto è quella dell'ex ministro Visco: in questo caso molto visibile e pubblicata sul blog laVoce.info. Intorno a lui la cortina politica della sinistra Pd e dei suoi vecchi assistenti, a partire da Fassina. In fila i burocrati che con il Pci di un tempo e con Visco poi si sono formati. E poi l'Agenzia delle entrate: ha giocato la sua moral suasion (e qualcosa di più), con la tosta Rossella Orlandi, che dalla scuola dura e pura di Visco arriva. In un primo tempo la vicenda non è stata ben capita anche da Confindustria: in fondo fu proprio il giornale della Confindustria, in un editoriale, a celebrare l'arrivo della Orlandi. Ma la buona stampa per questo nobile circoletto di manettari (burocrati che ben vedono le manette anche per errori od omissioni fiscali) non si ferma qua. Corriere e Repubblica (quest'ultima per riflesso condizionato) fanno il resto. I maligni insinuano che non c'è praticamente azionista del Corsera immune da un problemuccio fiscale e che il direttore, in uscita, abbia voluto dare l'ennesimo segno della sua indipendenza. Molto più probabile che a contare siano stati piuttosto gli storici rapporti con la Procura di Bruti Liberati. Non è un mistero che il grande esperto di reati finanziari (risalito dopo le vicissitudini kafkiane di Robledo) e anima del nuovo costoso scudo fiscale e cioè Francesco Greco non veda di buon occhio le depenalizzazioni. Purtroppo questo club continua ad alimentare un'ideologia antimpresa che deprime investimenti e sviluppo. Si è ormai formata una giurisprudenza, un corpo di norme e consuetudini, e una classe burocratica che (spesso in buona fede e ciò è anche peggio) picchia su chi fa impresa e ha una partita Iva come su un tamburo. Come negli anni '70 i pretori del lavoro hanno contribuito a distruggere un sano rapporto di relazioni industriali e attraverso le loro interpretazioni giurisprudenziali hanno reso lo Statuto dei lavoratori una camicia di forza, così oggi la magistratura sembra essersi assunta la responsabilità storica (e forse ideologica) di combattere con ogni mezzo e ultra petita l'evasione fiscale. Per chi pensa che la nostra sia una deformazione basta sottoporsi quotidianamente alla lettura del pregevole (è detto senza ironia) bollettino dell'Agenzia delle entrate (fate però uno sforzo, voi di Fisco oggi , di scrivere anche per noi umani). Vi citiamo solo due numeri recenti. Solo pochi giorni fa l'austera pubblicazione riportava una sentenza della Cassazione di dicembre. Sentite cosa scrivono: «La sentenza 52038/2014 ha confermato che, per l'omesso versamento delle ritenute certificate, la crisi dell'impresa non scrimina il reato. A tal fine, né l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti né l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori e neppure la mancata riscossione di crediti vantati e documentati sono situazioni - anche se provate - idonee a integrare lo stato di necessità e, dunque, a escludere il dolo». Ve la facciamo semplice: se un imprenditore dimostra di essere senza una lira perché non lo hanno pagato o perché ha preferito corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti e non versa i contributi entro 60 giorni per una cifra annuale superiore a 50mila euro, rischia la galera. Il bollettino è ancora più chiaro: «Rafforzando la linea interpretativa più severa, la Corte di cassazione, con la sentenza 52038/2014, ha spiegato come siano rari i casi in cui la crisi di liquidità scrimina il reato e quindi che è punibile per evasione fiscale l'imprenditore nonostante il mancato versamento dipenda da uno choc finanziario dell'azienda». Senza pietà. Prima si paga lo Stato e poi i dipendenti e fornitori. Sia chiaro, qua nessuno chiede di girarsi dall'altra parte e fischiettare se un imprenditore non versa i contributi. Sono infatti previste sanzioni e interessi. Si dice solo che forse la galera in questi casi non ha senso. La sentenza della Cassazione è stata pubblicata proprio mentre tutto il circoletto dei manettari si lamentava dell'indulgenza governativa in merito ai reati fiscali. Di esempi ne potremmo fare altri centomila. Ci preme ricordare un'altra decisione di queste settimane. Una leggina (benedetta) aveva previsto che quando la Guardia di finanza si presentava in azienda non potesse bloccarvi per più di trenta giorni (Articolo 12 del disatteso Statuto dei contribuenti). Una verifica che fosse durata più di un mese avrebbe reso nullo l'accertamento. Una tagliola niente male. Con un'ordinanza di novembre la Corte suprema ha deciso che il termine è ordinatorio e non perentorio. Sapete cosa vuol dire? Che siete fottuti. Dovrebbero rimanere in azienda o nei vostri uffici non più di trenta giorni (peraltro non è necessario che siano consecutivi, altra assurdità), ma se invece ci mettono le tende non succede nulla. Niente di niente. Lo Stato vi prende per i fondelli. In termini perentori, mica ordinatori.
SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.
Falce e minareto: la predilezione della sinistra per gli islamici porta al suicidio della nostra civiltà, scrive il polemista polemologo di Giancarlo Matta. Falce e minareto: è un dato di fatto che la gente di sinistra (qui alludo principalmente ai politici dei vari ranghi) mostri una esagerata predilezione per gli islamici, contraddicendo pertanto i propri ideali, guadagnandosi il giustificato disprezzo di coloro che ragionano (anche tra i suoi elettori), e non di rado anche coprendosi di ridicolo. E probabilmente anche scavandosi la fossa (se non in senso immediatamente letterale - almeno per ora -, quanto meno in senso politico) con le proprie mani. Voglio segnalare in proposito, alcuni esempi e comportamenti persistenti:
-le Amministrazioni Locali prevalentemente di sinistra (le quali dovrebbero essere atee…), che concedono agli islamici per lo più gratuitamente o quasi, immobili per la realizzazione di moschee;
-gli Istituti Scolastici Pubblici prevalentemente diretti da persone ideologicamente di sinistra, che inibiscono le tradizioni e le celebrazioni tipiche della nostra cultura per “non offendere” gli islamici;
-le Asl prevalentemente dirette dalla sinistra, che tollerano le illecite pretese degli islamici di essere visitati da medici del sesso a loro gradito;
-gli impedimenti capziosi dei parlamentari di sinistra, alla emanazione di norme più severe di quelle peraltro esistenti (ma spesso disapplicate) in materia di abbigliamento “religioso” in luogo pubblico, nonostante le evidenti accresciute esigenze della pubblica sicurezza;
-le grottesche “reverenze” di politicanti di sinistra, porte agli islamici in occasione delle loro festività, con la concessione di spazi pubblici dove essi esigono illegittimamente la separazione fisica tra i due sessi, e addirittura vestendosi come loro;
-il perdurante silenzio delle “femministe” (ovviamente di sinistra) sulle violenze che gli islamici commettono verso le donne;
-la simpatia scomposta “a senso unico” manifestata da politicanti di sinistra verso le organizzazioni armate medio-orientali che combattono gli israeliani;
-la pelosa indifferenza dei politicanti di sinistra in materia di tutela dei minori, notoriamente spesso costretti a indossare determinati abbigliamenti e/o a rispettare determinati riti dannosi alla salute;
-l’omertà inammissibile dei politicanti di sinistra sulle alleanze dei nazisti con gli islamici, storicamente accertate;
-l’indegno riconoscimento della qualifica di “combattenti” conferito da politicanti di sinistra agli islamici terroristi che si suicidano per assassinare a tradimento civili indifesi, definendoli assurdamente “kamikaze” (mentre è storicamente noto come questi ultimi fossero dei veri militari che si sacrificavano combattendo solo contro altri militari);
-l’abdicazione tragicomica alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori da parte dei sindacati di sinistra, in materia di igiene e sicurezza del lavoro quando a “lavorare” sono gli islamici;
-lo scriteriato incoraggiamento da parte di Amministratori Locali progressisti, delle iniziative di “nuoto islamico” = pratica che crea “disintegrazione” non certo “integrazione” nella nostra società.
-eccetera… .
Il fallimento epocale tanto del comunismo che dell’islamismo dovrebbero essere sufficientemente evidenti ovunque. Di fronte al fallimento di un “ideale” gabellato come nobile (il comunismo, la legge islamica), i rispettivi sostenitori puntano il dito contro l’elemento umano e non contro i loro ideali = “ci si deve impegnare di più, fare meglio… .” Tuttavia, a un certo punto, quando l’obiettivo mai è conseguito, e i disastri sono dinnanzi agli occhi di tutti, sarebbe logico e necessario incolpare quegli stessi ideali, e abbandonarli alla discarica della Storia. I “rossi” - comunque si chiamino - soffrono probabilmente della sindrome “cupio dissolvi”: ne consegue l’atteggiamento del “tanto peggio tanto meglio”. Gli islamici si rendono conto di essere in ritardo rispetto al resto del mondo in quasi tutti i settori dell’attività umana: una consapevolezza che è causa di disperazione e aggressività. Ambedue le forze rappresentano una minaccia per la Libertà in Italia, e in Occidente. Propongo sinteticamente un paragone storico (azzardato?): come la civiltà romana cadde -anche poiché indebolita al suo interno dal “cristianesimo”- per le aggressioni dei barbari dal nord, così la civiltà italiana rischia oggi di cadere -anche poiché indebolita al suo interno dal “comunismo”- per le aggressioni degli islamici dal Sud. L’ “amore” che molte persone ideologicamente di sinistra manifestano -con azioni e omissioni- per gli islamici (al di là dei comunque meschini interessi di “bassa corte” elettorale), “amore” al quale gli islamici replicano con odio malcelato, oltre che essere un importante punto debole da sfruttare a talento di chi combatte ambedue, è anche interessante materia di studio per psichiatri.
Nel blog Lux/ilcannocchiale ho trovato due pezzi molto interessanti che vi sottopongo e vi consiglio, se avete tempo, di visitarlo e leggere altre pubblicazioni, che sono certa troverete molto interessanti, scrive “Lisistrata”. Dal mio punto di vista sono riflessioni completamente condivisibili, ben articolate, approfondite e mai preconcette, ma analitiche e trattate con estrema intelligenza e lucidità: Perché la maggior parte della sinistra è affascinata e sta dalla parte dell'Islam. C’è una domanda che spesso mi tormenta e a cui fatico a dare una risposta: perché larga parte della sinistra sembra affascinata e spesso sta dalla parte dell’Islam? L’Islam (il termine significa “sottomissione”) è esattamente il contrario dei valori ai quali storicamente la sinistra fa riferimento; la sinistra si è sempre vantata di aver difeso gli ideali di progresso peccando semmai per eccesso e non per difetto; l’Islam è la negazione del progresso, di ogni progresso, sociale, politico, economico, scientifico. Diventa allora per me indispensabile porre alcune domande al “popolo” della sinistra.
Alle femministe (ma ce ne sono ancora? Me le ricordo bene in piazza a gridare: “è mia e me la gestisco io”) a tutti quelli, uomini e donne, che credono e si battono per la parità tra i sessi e per le pari opportunità, a chi ha condotto battaglie per il divorzio e per l’aborto dico: leggete un attimo:
Corano, IV Sura: Versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami , portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d'uscita.”
Versetto 34: ”Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande”.
Sura II: Versetto 228: ”Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.” Tale iman Mohammed Kamal Mustafa ha scritto pure un Vademecum sul modo di picchiare le mogli. E sapete di dov’è? Non si trova in Iran o in Iraq o in Pakistan, ma è consigliere della Federaciòn Espanola de Entidades Religiosas Islàmicas e l’esimio iman di Valencia, Abdul Majad Rejab, gli ha dato ragione sentenziando:”L’iman Mustafa è islamicamente corretto. Picchiare la moglie è una risorsa”, mentre l’iman di Barcellona, Abdelaziz Hazan, ha aggiunto:”L’iman Mustafa si limita a riferire ciò che è scritto nel Corano. Se non lo facesse, sarebbe un eretico”. E non stiamo parlando di terroristi, questo è l’Islam istituzionale delle moschee, è la parola di alcuni tra i più prestigiosi iman europei. Alle femministe, alle donne in genere quindi chiedo: tutto ciò non contrasta con la nostra Costituzione? La Costituzione Italiana non stabilisce l’uguaglianza tra i sessi? Non difende la libertà delle donne? Non vieta atti discriminatori? Non sostiene che i coniugi godono di uguali diritti e doveri? Avete mai fatto una manifestazione per i diritti delle donne islamiche? Non per quelle di Kabul, ma per quelle che abitano a Milano, Genova, Roma, Napoli. Oppure, perché non ne organizzate una a Rabat, o a Teheran, o a La Mecca, o a Medina, o a Damasco? Oppure i valori in cui credete non sono universali (neppure quelli della nostra Costituzione) e valgono sono per la nostra cultura? Parità tra i sessi, uguaglianza e dignità, divorzio e aborto non sono valori di “sinistra”? Allora chi li nega, chi li calpesta continuamente è di destra? Quindi l’Islam è di destra?
Ai comunisti atei di una volta (ma ce n’è rimasto qualcuno?) quelli che si sarebbero mangiati i preti a colazione, quelli che il Papa non deve intromettersi, a questi mi permetto di ricordare quanto diceva Feuerbach:”La religione è l’infanzia dell’umanità. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana”. E Marx rincarava la dose: “La religione è il gemito della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra.” A loro dunque chiedo: non è forse l’Islam un potentissimo narcotico delle masse? Il sintomo di una condizione umana e sociale alienata? Il frutto di una società malata? (sempre citando Marx) Oppure questi paradigmi sono valsi solo per la religione cristiana dell’800? Cosa ne pensate di una religione totalizzante che, di fatto, riconosce come unica legge suprema ciò che insegna il Corano, che aspira a teocratizzare ogni Stato? Ve li mangiate anche loro a colazione? Non insorgete? Perché domani potrebbero aspirare ad uno stato islamico italiano fondato sulla Sharia. Se abitaste in uno dei vari paesi islamici, come potreste far valere il vostro sacrosanto diritto a pretendere una legge fatta dagli uomini e per gli uomini? Vi siete mai chiesti che fine fareste? Non sentite ribollire il sangue nelle vene? E’ giusto che in molti paesi islamici le altre religioni siano discriminate? Fa parte della loro cultura e quindi va bene così? Dal Corano:
Versetto 85: “Chi vuole una religione diversa dall'Islàm, il suo culto non sarà accettato , e nell'altra vita sarà tra i perdenti.”
II Sura: Versetto 191: ”Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.”
Sura IV: Versetto 84: ”Combatti dunque per la causa di Allah - sei responsabile solo di te stesso e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l'acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo.”
Versetto 89: “Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate.” Beh certo, se applicassimo a questi versetti un’analisi testuale e una critica ermeneutica anziché prenderli alla lettera, forse non sarebbero così devastanti. Peccato però che questo non avviene o qualcuno è al corrente di un Islam moderato che interpreta il Corano con un taglio laico e ammette la critica testuale? La libertà di professare la religione che si vuole e quindi anche di professarsi apertamente ateo è un valore di sinistra? Quindi chi lo calpesta è di destra? Quindi l’Islam è di destra?
E ancora: nei matrimoni misti, sapete
darmi dei dati statistici su quale sia la percentuale relativa alla conversione
alla fede cristiana del coniuge musulmano? E quale sia
invece la percentuale opposta? Può un musulmano, liberamente, cambiare la sua
religione e diventare cristiano? No, non può! E può una donna musulmana sposare
un uomo di un’altra fede religiosa? NO, non può! Questo non è forse un atto
discriminatorio? Considerare un’altra religione inferiore o addirittura da
eliminare non è razzismo?
Ai ragazzi e alle ragazze dei centri sociali chiedo: ma se foste in un paese
islamico, i vostri centri esisterebbero? Potreste andarci a bere una birra,
farvi una canna, ascoltare un po’ di rock e, perché no, farvi una scopata?
Perché non aprite un centro sociale in un qualsiasi paese islamico? E’ troppo
“occidentale” aprire un centro sociale alternativo al modello “occidentale”? Se
poi vi fanno storie, un po’ di sana disobbedienza civile. E che ci vuole, lo
fate in tutta Europa non avrete certo timore a farlo là, o sì? La
liberalizzazione delle droghe leggere non è forse un tema di sinistra? Ma come
la pensano gli islamici in proposito? Essere contro le droghe leggere vuol dire
essere di destra? Quindi l’Islam è di destra?
A tutti gli omosessuali, uomini e donne, di destra e di sinistra, chiedo: non vi pare un po’ troppo facile fare le manifestazioni a New York, a Londra, a Roma (sì, proprio dove c’è il Papa), a Parigi? Perché non farne una dove chi si dichiara omosessuale è veramente discriminato e rischia la vita o il carcere? Che so, a La Mecca (l’equivalente di Roma per i cristiani), al Cairo, a Teheran, nei territori palestinesi, perché non lottare per gli omosessuali arabi? E dei matrimoni tra omosessuali cosa ne pensano gli islamici? Avete mai provato a chiederglielo? Noi gli omosessuali dichiarati ce li abbiamo in parlamento e mi sembra giusto: avete conoscenza di qualche omosessuale che sieda in qualche parlamento di un qualsiasi stato islamico? (ma ci sono i parlamenti, lì?) Maometto, secondo la tradizione islamica, condannò l'omosessualità maschile: "Dio maledirà due volte chi commetterà il peccato di Lot". I giuristi più legati alle norme coraniche considerano che la sodomia debba essere trattata come la fornicazione e punita allo stesso modo. In molti paesi arabi è ancora prevista la pena di morte o il carcere per chi è sorpreso in atti omosessuali; in Palestina gli imam spesso emettono sentenze che scagionano un omicida che abbia ucciso un omosessuale. Secondo le antiche interpretazioni giuridiche della legge sacra, gli sposati non schiavi saranno messi a morte per lapidazione, mentre uno scapolo libero riceverà 100 frustate e sarà esiliato per un anno. Nelle sentenze che seguono i processi per sodomia appare tuttavia spesso l'accusa di "matrimonio tra uomini": questo, in riferimento alle antiche norme coraniche pare permetta ai giudici di condannare a morte anche degli omosessuali non sposati.
Quanto al lesbismo, pare che non sia esplicitamente considerato dalla legge islamica: secondo Maarten Schild, autore di "Sessualità ed erotismo maschile nelle società musulmane", il sesso tra donne è considerato in quanto "sesso fuori del matrimonio e quindi paragonabile all'adulterio", la pena tradizionale è sempre quindi la morte o le cento frustate. Abd al-Azim al Mitaani, sceicco e professore all'università religiosa di Al Azhar (Il Cairo), dice in un intervista riportata dal Manifesto del 25 ottobre 2001: "Per quanto riguarda la sodomia, la maggior parte dei dottori dell'Islam considera che sia l'attivo che il passivo devono essere messi a morte”. E precisano anche che se una bestia viene sodomizzata, l'uomo deve essere giustiziato e l'animale abbattuto. L'omosessualità è attualmente illegale in 26 paesi islamici: Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bosnia, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Siria, Tajikistan, Tunisia, Turkmenistan, Emirati Arabi uniti e Yemen. Tra questi, l'Iran, la Mauritania, l'Arabia Saudita, il Sudan e lo Yemen prevedono la pena di morte; il Pakistan prevede la fustigazione ed almeno due anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. L'Iran è comunque il paese più zelante nel reprimere l'omosessualità: dal 1980, quando i fondamentalisti hanno preso il potere sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, oltre 4000 gay e lesbiche sono stati giustiziati, stando a quanto riferisce il gruppo in esilio per i diritti dei gay, Homan.
Se questi temi sono di “sinistra”, allora chi nega tutto questo e non solo a parole, ma con la violenza, è di destra? O no? Allora l’Islam è di destra? E di quella peggiore?
A tutti i laici (e io sono tale), a quelli che sostengono che lo Stato e la religione devono restare separati, cosa ne pensate delle teocrazie? La teocrazia è la negazione della democrazia, o no? E’ vero o no che nessun paese islamico ha sottoscritto presso l’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? E’ vero o no che nei paesi islamici la Sharia è l’unico riferimento per ciò che riguarda i diritti umani? Avete mai provato a chiedere a un islamico cosa ne pensa, ad esempio, di Dante Alighieri che ha messo Maometto all’inferno, o di Voltaire, o di Darwin e dell’evoluzionismo, o di Freud, o della psicanalisi, ecc.ecc.? Qual è il riferimento massimo, per un laico, che consente una convivenza democratica? Forse la Costituzione? E per un islamico? Forse il Corano e, di conseguenza, la Sharia? Avete mai provato a chiedere ad un islamico:”Ma se dovessi scegliere tra obbedire alla Costituzione del paese che ti ospita o a quello che ti comanda il Corano, come ti comporteresti? In caso di contrasto, a cosa dai la precedenza?” Beh, fatelo, chiedeteglielo!
Ai pacifisti senza ma e senza se, ai sostenitori di una società multiculturale, ai sostenitori dell’integrazione ad ogni costo, chiedo: ma siete sicuri che loro, gli islamici, vogliano integrarsi? Leggete per favore, il Corano punisce l’integrazione: Corano, III Sura: Versetto 12: “Di' ai miscredenti: " Presto sarete sconfitti. Sarete radunati nell'Inferno. Che infame giaciglio!".
Versetto 216: ”Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.”
Sura IV: Versetto 74: ”Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l'altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso ,daremo presto ricompensa immensa.”
Sura V: Versetto 33: ”La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso”.
Visto che noi italiani abbiamo una crescita demografica pari a zero o poco più, mentre i musulmani che stanno qui si raddoppiano ad ogni generazione (un buon musulmano deve avere almeno 5 figli per moglie) cosa accadrà tra 50-80 anni? Cosa accadrà quando loro saranno il 50% della popolazione o forse di più? A questo, ci avete mai pensato? Cosa accadrà allora? Perché questa non è un’opinione, accadrà perché è una pura e semplice questione matematica. Se la democrazia rappresenta per loro più un mezzo piuttosto che un fine, cosa potrà accadere nel momento in cui saranno (o potranno essere) la maggioranza relativa della popolazione? Volete qualche dato: eccolo! .Considerando i regolari e gli irregolari, il numero di musulmani che vivono in Italia risulta essere stimato oltre il milione. In Europa il loro numero si attesta sui dieci milioni, ed è costantemente in aumento. Infatti, il numero dei neonati musulmani nella Comunità Europea ogni anno è pari al 10%; a Bruxelles arriva al 30% e a Marsiglia tocca il 60%. Sto esagerando? Sono paranoico? L’anno era il 1974, la sede l’Assemblea delle Nazioni Unite, il personaggio l’algerino Boumedienne: cosa disse? Ecco:”Un giorno milioni di uomini abbandoneranno l’emisfero sud per irrompere nell’emisfero nord. E non certo da amici. Perché vi irromperanno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo coi loro figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria”. Recentemente in parlamento è stata votata una legge sacrosanta che tutela gli animali in quanto esseri “senzienti”, cioè capaci di provare dolore; a prendere a calci un cane si rischia il codice penale. Agli animalisti chiedo: ma la macellazione halal praticata dagli islamici che consiste nello sgozzare l’animale ancora vivo e lasciare che muoia dissanguato in una lenta agonia, vi sembra rispettosa di un essere “senziente”? Non avete nulla da dire? Nulla da obiettare? Cosa dicono i verdi animalisti? Se da un punto di vista antropologico il relativismo culturale è una teoria che ha solide radici teoriche (in pratica dice che ogni cultura elabora modalità diverse per rispondere agli stessi fondamentale bisogni, quindi ogni cultura ha la sua dignità e ogni azione, anche la più orrenda, se inserita nella cultura d’origine assume un suo significato) cosa accade quando una cultura “trasmigra” in un altro territorio dove c’è una cultura diversa? Insomma, semplificando, se ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare, cosa accade quando c’è chi lo vorrebbe fare a casa degli altri? Fin dove arriva il confine tra ciò che può concedere l’ospite al suo ospitato? Perché anche per i cannibali mangiare l’uomo è un fatto “culturalmente normale”, ma non per questo permetteremmo ad un cannibale di mangiarsi qualcuno a casa nostra. Il principio di reciprocità (io ti permetto di fare a casa mia ciò che tu mi permetti di fare a casa tua) può essere considerato una forma di valido compromesso? Alla fine ritorno alla domanda iniziale: cosa accomuna un militane della sinistra, un comunista, un ex-comunista, un laico all’Islam? Ad un iman? Ad un ayatollah? Agli ulema? Nulla…sembrerebbe…eppure…Tu l'hai capito perché la sinistra sta dalla parte dell'Islam? “Tu lo hai capito, Lei lo ha capito perché la Sinistra sta dalla parte dell’islam?” E tutti rispondevano:”Chiaro. La Sinistra è terzomondista, antiamericana, antisionista. L’Islam pure. Quindi nell’Islam vede ciò che i brigatisti chiamano il loro naturale alleato”. Oppure:”Semplice. Col crollo dell’URSS e il sorgere del capitalismo in Cina, la Sinistra ha perduto i suoi punti di riferimento. Ergo, si aggrappa all’Islam come a una ciambella di salvataggio”. Oppure:”Ovvio. In Europa il vero proletariato non esiste più, ed una Sinistra senza proletariato è come un bottegaio senza merce. Nel proletariato islamico la Sinistra trova la merce che non ha più, ossia un futuro serbatoio di voti da intascare”. Ma sebbene ogni risposta contenesse un’indiscutibile verità, nessuna teneva conto dei ragionamenti sui quali le mie domande si basavano. Così continuai a tormentarmi, a disperarmi, e ciò durò finché m’accorsi che le mie domande erano sbagliate. Erano sbagliate, anzitutto, perché nascevano da un residuo rispetto per la Sinistra che avevo conosciuto o creduto di conoscere da bambina. la Sinistra dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei compagni morti, delle mie utopie infantili. La Sinistra che da mezzo secolo non esiste più. Erano sbagliate, inoltre perché nascevano dalla solitudine politica nella quale avevo sempre vissuto e che invano avevo sperato d’alleggerire cercando d’annaffiare il deserto proprio con chi lo aveva creato. Ma soprattutto erano domande sbagliate perché sbagliati erano i ragionamenti o meglio i presupposti su cui esse si basavano. Primo presupposto, che la Sinistra fosse laica. No: pur essendo figlia del laicismo partorito dal liberalismo e quindi a lei non consono, la Sinistra non è laica. Sia che si vesta di nero sia che si vesta di rosso o di rosa o di verde o di bianco o d’arcobaleno, la Sinistra è confessionale. Ecclesiastica. Lo è in quanto deriva da un’ideologia che s’appella a Verità Assolute. a una parte il Bene e dall’altra il Male. Da una parte il Sol dell’Avvenir e dall’altra il buio pesto. Da una parte i suoi fedeli e dall’altra gli infedeli anzi i cani-infedeli.
La Sinistra è una Chiesa. E non una Chiesa simile alle Chiese uscite dal cristianesimo quindi in qualche modo aperte al libero arbitrio, bensì una Chiesa simile all’Islam.
Come l’Islam, infatti, si ritiene baciata da un Dio custode del Bene e della Verità.
Come l’Islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori. Si ritiene infallibile non chiede mai scusa.
Come l‘Islam pretende un mondo a sua immagine e somiglianza, una società costruita sui versetti del suo profeta Karl Marx.
Come l’Islam schiavizza i suoi stessi fedeli, li intimidisce, li rincretinisce anche se sono intelligenti.
Come l’Islam non accetta che tu la pensi in modo diverso e se la pensi in modo diverso ti disprezza. Ti denigra, ti processa, ti punisce, e se il Corano ossia il Partito le ordina di fucilarti ti fucila.
Come l’Islam è illiberale, insomma. Autocratica, totalitaria, anche quando accetta il gioco della democrazia. Non a caso il 95% degli italiani convertiti all’Islam vengono dalla Sinistra o dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il 95% dei musulmani naturalizzati cittadini italiani, idem. (Il mascalzone che non vuole il crocefisso nelle scuole o negli ospedali e che ai suoi confratelli scrive Andate a morire con la Fallaci viene dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il suo compagno è stato addirittura in carcere per sospetta connivenza con le Brigate Rosse).
Come l’Islam, infine, la Sinistra è anti-occidentale. E il motivo per cui è anti-occidentale te lo dico con un brano del saggio che negli Anni Trenta il liberale austriaco Friedrich Hayek scrisse a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazionalsocialista.
Ecco qua. “Qui non si abbandonano soltanto i principi di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montagne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato. L’individualismo, il concetto di individualismo, che attraverso gli insegnamenti fornitici dai filosofi dell’antichità classica poi dal Cristianesimo poi dal Rinascimento poi dall’Illuminismo ci ha reso ciò che siamo. Il socialismo si basa sul collettivismo. Il collettivismo nega l’individualismo. E chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale” Oriana Fallaci, “La forza della ragione” pp.221-225.
Sinistra e musulmani in piazza contro terrorismo e l'islamofobia. Migliaia in piazza Duomo a Milano contro il terrorismo. Ma anche per ribadire opposizione totale a una destra definita "razzista e portatrice di odio". Quasi che la responsabilità degli attentati fosse sua, scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Bandiere della pace, "Bella Ciao", falci e martelli. E poi Emergency, le Acli, No Tav e No Muos, curdi e attivisti pro Palestina. Tra i partecipanti alla manifestazione indetta oggi a Milano per condannare gli attentati contro Charlie Hebdo sfila il classico repertorio di sigle e movimenti della sinistra radical chic. Tra loro, un discreto numero di musulmani, molti giovani, qualche famiglia con bambini. Gli slogan sono quelli di sempre, a favore del multiculturalismo e dell'integrazione, contro la destra italiana definita "xenofoba" e "razzista". Cose già viste e riviste, oggi riproposte per l'ennesima volta in occasione della celebrazione delle vittime di Charlie Hebdo. Due le parole d'ordine: no al terrorismo e no al razzismo. Dei fondamentalisti il primo, della destra il secondo. Due parole d'ordine messe naturalmente in correlazione: il terrorismo che alimenta il razzismo è a sua volta, in parte, il prodotto di una politica intollerante e discriminatoria. Questa è la tesi soprattutto della sinistra, presente al gran completo a partire dagli alti gradi della giunta Pisapia (il sindaco non c'è, ma manda i suoi saluti): "nous sommes Charlie", prima di tutto. E poi passiamo a contrastare il pericolo verde-nero. Più diritti, più integrazione, più moschee: è questa la ricetta proposta per rispondere agli attentati di Parigi. Una ricetta che, per la verità, è la stessa degli ultimi quindici anni. A sinistra, i fatti degli ultimi giorni hanno cambiato poco, in termini di proposte. Più lineare la posizione dei musulmani (non moltissimi tra le migliaia di persone radunatisi all'ombra della Madonnina): i giovani di "Partecipazione e spiritualità musulmana" esibiscono cartelli con l'hashtag "non in mio nome". Rivendicano la differenza tra Islam e terrorismo, ma c'è anche chi non rinuncia all'idea di porre un limite alla satira, "quando offende la libertà e la sensibilità, soprattutto in campo religioso". Per il rappresentante legale del Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche Milanesi) Reas Syed l'espressione "terrorismo islamico" è un ossimoro. Syed rivendica il messaggio di pace dell'Islam e ribadisce che le azioni di chi compie attentati in nome di Allah non siano attribuibili all'Islam tout-court. Tra la sinistra radicale, però, c'è anche chi identifica il problema con la destra e l'Islamofobia. "Salvini è la barbarie e questa piazza è la risposta alla barbarie - attacca il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero - La condanna del terrorismo è nettissima e bisogna sapere che chi semina odio lavora ad alimentare queste dinamiche". Parole dure, pronunciate in una piazza dove appena tre mesi fa il leader della Lega radunava centomila persone per dire no all'immigrazione clandestina, in quella che è stata la maggiore manifestazione della destra italiana degli ultimi anni. Ora sotto le guglie del Duomo la sinistra rosso-arancio torna contarsi con gli slogan di sempre. All'indomani delle stragi parigine, le parole più emblematiche sono quelle di Cecilia Strada, presidente di Emergency e figlia di Gino: "No alla violenza e no al terrorismo". Ma anche "No a chi odia e specula sui fatti di sangue per calcolo elettorale". Porte chiuse agli "islamofobi" quindi, anche se i partiti nel mirino rappresentano milioni di italiani. D'altronde in Francia il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione nazionale di domani. Anche qui, in gran parte, la piazza sembra approvare. In corteo c'è posto solo per chi condanna il terrorismo. E l'islamofobia.
Così la sinistra con la kefiah ha creato l'Italia saudita. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica. Per noi è più dura che per gli altri, visto che veniamo da decenni di andreottismo islamico, un barile di petrolio a me e una licenza d'uccidere a te, che ha sminuzzato e invertito la storia, la geografia, i valori, allevando due generazioni di arraffatori politicamente corretti e ipocriti. Di quell'andreottismo furbo e affarista, sminuzzatore e insabbiatore si è nutrita una sinistra felice di mettersi la kefiah e, quando possibile, passeggiare su e giù a braccetto con Hezbollah. L'Italia è stata la patria degli intrugli più disgustosi fra servizi segreti che hanno coperto stragi senza senso apparente (Ustica? Bologna?) perché loro il senso lo conoscevano benissimo. L'Italia dei killer a caccia di dissidenti, come quelli libici con diritto di uccidere nel 1980, l'Italia di Daniele Pifano con il lanciamissili sul balcone per abbattere un aereo israeliano, l'Italia che lascia ammazzare italiani ebrei alla sinagoga e che subisce senza fiatare l'attacco a Fiumicino; l'Italia con la kefiah arafattiana, in intrallazzo libanese, in affari sottosabbia con emirati e con tiranni di ogni dimensione e sorta, perché gli affari sono affari e con la speranza che così agendo alla fine qualcuno ti è grato e l'immunità si può comperare. Errore. Nella crociata appena scatenata e di cui la Francia vede le prime ferite non si fanno prigionieri, non si scontano cambiali, non esistono club di benemerenza. L'Italia fronteggia la nuova crisi in condizioni molto peggiori della Francia che, con i suoi sei milioni di musulmani registrati e perfino autoctoni, ha almeno consapevolezza del problema. Da noi no. Da noi la crociata che ci viene scagliata contro attraverso la paura (per ora, e tocchiamo ferro) con gli insulti, con le bugie e con un sostanziale antisemitismo strisciante che fa da miccia ai fuochi fatui delle discariche sembra apparentemente lontana: come guardare un cinghiale che ti carica con un binocolo rovesciato. Le carte si sono ormai rovesciate e da crociati che fummo noi europei - noi? e che c'entriamo noi? - ora siamo la Gerusalemme assediata da truppe militari e mediatiche, tagliagole e gente pronta a farsi saltare in aria senza batter ciglio. Ce la può fare l'Italia in mezzo alla tempesta di lava, colma com'è di pregiudizi e di oblio? Abbiamo visto ieri di che cosa si tratta. La crociata che la parte più aggressiva e sincera dell'Islam ha lanciato contro l'Occidente non potrà essere respinta soltanto con i corpi speciali chiamati a recuperare ostaggi e vendicare la libertà di espressione, prima ancora che la libertà di stampa. Che si tratti di una crociata contro di noi è ormai evidente. I nuovi crociati islamici si radunano per vie visibili sentieri militari carsici elettronici, tornano addestrati nelle patrie matrigne in cui sono nati ma che odiano, e assediano la nostra Gerusalemme al cui interno si commettono delitti impronunciabili come la parità dei diritti delle donne, la loro istruzione, la graduale garanzia di una vita sessuale gioiosa nel rispetto dell'età e del libero arbitrio. E poi il più satanico dei nostri peccati: la Storia. Abbiamo incoraggiato la Storia a svolgersi separando idee e secoli, costumi e mode, abbiamo festeggiato le nostre contraddizioni. I crociati islamici chiedono con le armi in pugno che il tempo resti inchiodato su un orologio di legno in cui tutti, sempre, ovunque, vestano, parlino, agiscano, in modo tale da non rendere possibile la distinzione fra un'era e un'altra, un prima e un dopo. I nuovi crociati che ci assediano con le catapulte per rovesciarci fuochi di angoscia e fiumi di sangue nelle nostre redazioni satiriche, nelle nostre scuole, nei luoghi simbolici come le torri di Babele di Manhattan, perché non vogliono che il mondo conosca le rughe del progresso, ma soltanto la levigatezza viscida dell'immobilità. Si legge che i nuovi combattenti giovanissimi dell'Isis, o del Jihad, o di al Quaida sono «entusiasti». Ebbri di entusiasmo, febbricitanti per il desiderio di infliggere la morte, la punizione, la vista orrenda delle decapitazioni, l'immagine dei bambini uccisi uno a uno in ginocchio nelle scuole. La loro adrenalina, quella dei nuovi crociati, scorre felice e divampante nelle loro arterie pulsanti e quell'adrenalina accende la furia della distruzione. Quel che i nuovi crociati islamici vogliono, anelano, sognano, è soltanto la distruzione. Chiamano Califfato la liberazione dalla libertà, la liberazione dalla ricerca scientifica, la liberazione da Mozart, da Michelangelo, da Picasso. La liberazione dalla scienza che produce ricerca e medicine, mentre l'estro dei liberi detta letteratura, musica popolare e poesia. E - i nuovi crociati - odiano più di tutti gli ebrei che originati da Giudea e Samaria, sicché per loro un supermercato kosher è un giusto obiettivo e un bambino ebreo di sei mesi un nemico da catturare. Finora la nostra Gerusalemme assediata ha traccheggiato, finto di non capire, agito con una colpevole lentezza zavorrata dai sensi di colpa che sono il più complicato frutto della civiltà occidentale. I due fratelli Kouachi, carnefici miserabili dei giornalisti armati di sola matita, sono stati uccisi nella tipografia di Dammartin - evidentemente non si poteva far altro - malgrado la raccomandazione di prenderli vivi. Ha prevalso il criterio di salvare le altre vite umane. Ma quanti sono disposti ad ammettere che sarebbe stato etico, giusto, buono e opportuno che i due Kouachi fossero stati interrogati, se presi vivi, con tutta la crudele energia necessaria per far loro dare tutte le informazioni utili per questa guerra? Ma l'Occidente assediato è ipocrita, prova orrore per le sue stesse armi e finge di credere che i nuovi crociati siano vittime, sue vittime, e li assolve in anticipo per ogni mostruoso show in cui si spengono vite. L'Occidente si flagella per le antiche crociate di mille anni fa, ma ignora che l'urbanistica e la paesistica italiana, i paesi arroccati sulle colline difesi da un maniero sono state stravolte dai predatori islamici che per secoli hanno stuprato, schiavizzato, deportato le nostre coste. Può farcela a resistere questo nostro Paese slogato dalla furbizia? Capirà che in modo pacato e sereno, senza furie inutili o grida di guerra, si deve preparare a una guerra, deve combattere e non farsi sopraffare? I nuovi crociati contano sulla nostra storica vocazione a fare il pesce in barile, meno interessato al pesce, molto al barile.
Non siamo tutti Charlie. Siamo politicamente corretti, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Non siamo tutti Charlie. È inutile ripeterlo ossessivamente e prenderci in giro. Purtroppo, o semplicemente perché siamo diversi. Facciamocene una ragione. Siamo con Charlie Hebdo, ma non siamo Charlie Hebdo. Perché viviamo in un Paese che le vignette le cancella con la gomma dell’insofferenza e dell’arroganza, che incarcera i giornalisti e che detesta la critica. Viviamo in un Paese bigotto che vezzeggia gli islamici e minaccia di incarcerare chi sbeffeggia il capo dello Stato. Figuriamoci quanto sarebbe durato Charlie a queste latitudini; un settimanale che prende di mira Dio, Maometto e il Papa. Giovannino Guareschi è finito in galera per una risata di troppo. Difatti in Italia riviste di satira feroce e corrosiva non ce ne sono. E se ci sono, come il Vernacoliere, si dilettano a punzecchiare gli slombati politici italiani o gli innocui cattolici. Guai a toccare l’Islam. Più che per paura della vendetta dei maomettani (almeno fino a questa settimana) per il timore di finire sotto il tiro dei potenti gendarmi del politicamente corretto. La strage in redazione – in quella redazione – è un simbolo. Una sventagliata di mitra lanciata al sorriso dell’Occidente. Ci hanno buttato giù tutti i denti, ma noi dobbiamo sorridere anche sdentati. Perché quella è la nostra forza, deve essere la forza della nostra cultura. Il sorriso e l’irriverenza. Dobbiamo cercare di essere un po’ Charlie, di avere quello spirito, applicato alle nostre idee. La solidarietà va bene. Ma togliamoci dalla testa di essere tutti Charlie. Perché dopo che ci hanno bruciato la redazione non so in quanti continueremmo a disegnare con costanza e a testa alta la nostra condanna. Mi viene in mente una frase di Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.
Le Pen e Salvini i grandi esclusi. La sinistra non li vuole in piazza. Alla faccia dell'unità nazionale: Front National e Lega restano emarginati. Sono persone non gradite. Li temono più del terrorismo? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Alla faccia dell'unità nazionale. La minaccia terroristica dovrebbe ricompattare un Paese, senza distinguo. Ma la sinistra, anzi, le sinistre di Francia e Italia fanno comunella e stabiliscono chi possa partecipare o meno alle manifestazioni di solidarietà per le vittime delle stragi jihadiste. Questi prefetti del «buonismo» hanno perciò deciso che le patenti di presentabilità non vanno rilasciate alla Lega e al Front National. Sembra che abbiano più paura di Matteo Salvini e di Marine Le Pen che dei terroristi islamici. Così alla manifestazione di ieri, organizzata dal Pd, Sel, Anpi e compagnia cantante in piazza Duomo a Milano, la Lega non è stata invitata. Stessa musica a Parigi, dove la gauche caviar ha escluso il Front National dalla grande kermesse che si terrà oggi e dove sfileranno, oltre agli esponenti della sinistra francese anche quelli nostrani, con il premier Matteo Renzi in testa. «Mi fa pena pensare che Renzi sfilerà per le strade di Parigi, quando con le sue politiche a favore dell'immigrazione di massa è complice di quello che rischia di accadere in futuro - ha detto il segretario della Lega Salvini - L'islam è pericoloso, nel nome dell'islam ci sono migliaia di persone in giro per il mondo, e anche sui pianerottoli di casa nostra, pronte a sgozzare e a uccidere». Salvini, assieme ai militanti milanesi, ha distribuito ieri le vignette satiriche di Charlie Hebdo nei pressi del Palasharp, area nella quale la giunta rossa di Milano vuole autorizzare la costruzione di una moschea. «Sono preoccupato - ha aggiunto il leader leghista - perché sia il governo Renzi sia la giunta Pisapia non hanno capito cosa stanno facendo. La Lega farà tutto il possibile affinché le moschee non siano aperte, anche con referendum». Che si tratti di temi sensibili, lo ammettono tutti. Ma la sinistra, nonostante l'acclarata emergenza, appare miope, se non cieca. E il minimizzare il pericolo attentati e negare l'evidenza sulla minaccia jihadista, come hanno scelto di fare il presidente socialista François Hollande e la sua corte salottiera, ha fatto abbassare la guardia a un intero Paese, permettendo una strage senza precedenti a Parigi. Il nostro governo vuole copiare gli errori francesi? Ci auguriamo di no. Hollande e il suo esecutivo, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, erano più preoccupati dell'ascesa del Front National che del pericolo islamico incombente. Così hanno messo la sordina a tutti gli episodi premonitori per non portare ulteriori consensi al partito in ascesa della Le Pen. «In Francia, da tempo i presidenti di sinistra hanno paura di essere accusati di razzismo quando attaccano il terrorismo - ha affermato in un'intervista a La Repubblica il tesoriere del Front National, Walleran de Saint Just - E così anche noi veniamo tacciati di xenofobia, in modo vergognoso, solo perché siamo contro i terroristi. Questo atteggiamento deprime i francesi, che si sentono poco protetti. La sinistra ha una grande responsabilità morale e politica». Quindi, in Francia come in Italia, chi denuncia apertamente le minacce del fondamentalismo viene discriminato, isolato, delegittimato. Strategia molto cara ai post comunisti. Ma sono sicuri di essere al riparo facendo gli ignavi? Credono forse che il loro «politicamente corretto» impedisca al jihadista di turno di tagliargli la gola? Poveri illusi, gli integralisti islamici hanno un'unica parola d'ordine: gli infedeli devono essere cancellati. Per questo fanno ridere quando parlano di valori, di Occidente, di unità nazionale e allo stesso tempo discriminano una parte consistente del Paese. «È squallido che con i cadaveri ancora da seppellire ci sia qualcuno che isola altri, come la Lega e la Le Pen - ha spiegato Salvini - Poi saremmo noi a strumentalizzare? Noi rappresentiamo la maggioranza degli italiani». Sì, è davvero squallido attaccare le opinioni di una partito piuttosto che condannare i terroristi islamici.
Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo".
Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.
Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.
Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.
Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?
«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».
Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.
«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».
Torniamo a voi musulmani.
«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».
Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?
«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».
Basta manifestarlo, urlare se serve.
«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».
Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?
«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».
La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?
«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».
I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?
«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».
Cosa rimprovera al mondo musulmano?
«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».
C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?
«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».
Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?
«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».
Non ha paura?
«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».
Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?
«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».
Un divario destinato a diventare voragine. Il divario con la cultura occidentale è destinato a diventare una voragine. Gli ospiti devono osservare le nostre regole, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I fatti tragici di Francia sono l'ennesima conferma che esiste un abisso tra la cultura occidentale e quella di stampo islamico, che è sostanzialmente rimasta al Medioevo e non accenna a evolversi, anzi sta assumendo sempre di più i caratteri del fondamentalismo. Anche gli islamici immigrati da decenni si sono guardati dall'integrarsi nella nostra società e hanno conservato gelosamente abitudini e costumi atavici della loro terra, trasmettendo ai figli e ai nipoti tradizioni che collidono con le nostre. Altrimenti non si giustificherebbe che molti giovani della seconda e terza generazione, allevati e cresciuti in Europa, siano reclutati da gruppi terroristici animati dal desiderio di combattere contro le nazioni che li accolgono e che hanno concesso loro la cittadinanza con ogni diritto connesso. Non è il caso di dire che la nostra civiltà è superiore, ma non vi è dubbio che sia assai diversa e non si concili con quella improntata agli insegnamenti coranici, spesso interpretati arbitrariamente e/o pedestremente allo scopo di piegarli a scopi politici o bellici. La Bibbia contiene numerosi versi che incitano alla violenza simili a quelli del Corano, ma è indubbio che i cristiani ne abbiano offuscato il significato letterale: ora si attengono al Vangelo, considerando l'antico Testamento una sorta di libro mitologico. È altresì vero che nel secolo scorso, quindi abbastanza recentemente, la cultura occidentale ha espresso mostruosità attraverso regimi totalitari e sanguinari, il nazifascismo e il comunismo, ma è un dato che essi sono stati abbattuti o sono implosi sotto la spinta di movimenti democratici maggioritari. Non si può infine negare che dalle nostre parti abbia avuto il sopravvento l'Illuminismo, cui si deve la prevalenza dell'intelligenza personale sui dogmi religiosi, e ciò ha favorito una distinzione netta fra etica sacra e etica civile, la cui convivenza è realizzabile a condizione che non si sovrappongano, a rischio che una di esse sia annullata. Per noi occidentali sono inconcepibili sia lo Stato etico sia la teocrazia, che, invece, dominano nei Paesi dove gli islamici hanno trasformato in leggi i propri principi. Va da sé che teocrazia e democrazia sono antitetiche e, pertanto, incompatibili. I musulmani del resto, quelli immigrati nelle nazioni politicamente evolute, difficilmente riconoscono il primato dei codici democratici e obbediscono piuttosto ai precetti coranici, tramandati di padre in figlio, che stridono con il laicismo, accettato di buon grado perfino dagli italiani, per secoli succubi di un cattolicesimo oscurantista. I contrasti fra le due civiltà sono insanabili, e sembrano addirittura destinati ad accentuarsi: mentre l'Occidente progredisce anche sul piano dei diritti umani e civili, il Medio Oriente rimane fermo, ingessato nei pregiudizi. Tutto questo non significa che i cristiani europei e americani abbiano tutte le ragioni e nessun torto. Il terrorismo è un fenomeno relativamente nuovo e cominciato per ritorsione contro di noi, autori di autentiche invasioni militari in Irak, Kuwait e Afghanistan (per citarne alcune) che hanno inasprito i rapporti, esasperato gli animi e provocato centinaia di migliaia di vittime che hanno acceso lo spirito di vendetta nelle popolazioni aggredite. Sappiamo che certe iniziative belliche sono state assunte dagli Stati Uniti e alleati non con finalità umanitarie, bensì economiche: per vari lustri l'obiettivo non era liberare popoli oppressi da satrapie ed esportare la democrazia tra gente che non sa nemmeno cosa essa sia, bensì per succhiare petrolio e controllare (male) il mondo. Anche di questo bisogna tenere conto se intendiamo capire: ciò che accade oggi è la conseguenza anche di quanto accaduto in passato. Dopo di che è buona cosa persuadersi che andare d'accordo si può, ma con metodi diversi da quelli adottati sino ad ora. Il terrorismo si vince concedendo a tutti piena libertà, ma ciascuno a casa propria e non in quella di altri. E gli ospiti si comportino da ospiti e non da contestatori: si adattino allo stile di chi li ha invitati o tornino in patria. La base del rispetto è non intromettersi nelle vicende che non ci riguardano. A ogni Paese va data la facoltà di trovare al proprio interno il modo di risolvere i propri problemi, anche mediante la guerra civile. E gli Stati Uniti si mobilitino soltanto su gentile richiesta e non per ristabilire l'ordine a essi caro, ma sgradito a chi lo subisce. Viceversa saremo sempre in guerra.
Perugia, gruppo di stranieri profana una statua della Madonna. Un gruppetto di immigrati ha distrutto una statua della Vergine e ci ha urinato sopra. Ma il vescovo ammonisce: "Non è un atto di odio religioso", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Una profanazione rivoltante, che ha offeso la sensibilità di tutta Perugia. Una statua della Madonna distrutta e presa a calci da un gruppo di vandali stranieri, che sopra l'immagine sacra avrebbe anche orinato. Un uomo stava pregando davanti alla Madonnina di via Tilli, inginocchiato con la fotografia di una persona cara in mano, quando è stato aggredito da un gruppo di stranieri che lo hanno insultato e gli hanno strappato la foto dalle mani. Quindi si sono accaniti contro la statua della Vergine, scaraventandola giù dall'edicola e spezzandola in due. Quindi, racconta la Nazione, hanno aggravato l'oltraggio spingendosi fino ad orinarci sopra. Venerdì, fortunatamente, la statua è stata ricollocata nella sua collocazione originaria e sul luogo della profanazione è stato recitato un Santo Rosario di riparazione. Dalla Diocesi è arrivata una ferma condanna dell'atto sacrilego, ma anche un invito a "non attribuire questo episodio a un gesto di odio religioso". "Per l'Islam la figura di Maria è molto importante: è la Madre del profeta Gesù concepito nella verginità e la Beata Vergine è la donna più santa - ha commentato il vescovo ausiliare di Perugia-Città della Pieve, mons. Paolo Giulietti - Molti musulmani vengono in preghiera nei santuari mariani del Medio Oriente. Non si può attribuire questo gesto di vandalismo, che come ho detto va condannato in ogni senso, ad un episodio di odio religioso. E' importante non alimentare la diffidenza reciproca soprattutto in questo momento."
Complotti e teoremi: imbecilli scatenati sul web. I dietrologi sono scatenati, negano persino l'esecuzione del poliziotto: "Poco sangue", scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Un partito dell'imbecillità politicamente connotato a sinistra. È quello che sta emergendo, soprattutto sui social network, in questi giorni successivi agli attentati terroristici di Parigi. Un partito transnazionale che ha le sue propaggini nel nostro Paese e che ha una sua precisa carta d'identità «ideologica»: cercare di difendere l'Islam in quanto alternativo all'Occidente e agli Stati Uniti. Parlare di America non è un caso. Come dopo l'11 settembre anche in questi giorni su Facebook e Twitter spuntano strane manifestazioni che mettono in dubbio la veridicità dei fatti. In particolar modo, ha suscitato molti dubbi l'uccisione del poliziotto Ahmed Merabet: «Non si vede il bossolo» e «c'è poco sangue» sono i capisaldi dei complottisti. Che sono sicuri della volontà della Cia o del Mossad di creare un nemico in realtà inesistente. Certo, vista la commozione suscitata dai massacri molti tendono a frenarsi, ma alcuni non ci riescono proprio. Il caso più eclatante in Italia è stato quello del Movimento 5 Stelle: il blog di Grillo ha lasciato spazio a una considerazione del professor Aldo Giannuli che non ha messo in dubbi che la strage sia stata di matrice islamica, ma che gli attentatori siano stati «lasciati fare» da qualcuno. E fin qui siamo nella classica dietrologia all'italiana. Poi, che deputati grillini come Bernini o Sibilia (quello dei microchip) abbiano dato corda a queste tesi, enfatizzando l'omicidio dell'economista antieuro Bernard Maris nella sede di Charlie Hebdo , è un altro paio di maniche. Anche il rigoroso Fatto Quotidiano tra i blog del proprio sito internet ha ospitato l'intervento di una giornalista, Ludovica Amici, che ha scritto: «Chi paga questi jihadisti, chi li addestra e chi li arma, considerato che giravano con dei kalashnikov? I due fratelli potrebbero aver combattuto in Siria con armi fornite loro dal governo francese». Insomma, la verità sembra sempre accertata, ma potrebbe anche essere differente da quella che tutti sembrano osservare. Un po' come Piazza Fontana: dietro c'è sempre un «grande capo» che ha orchestrato tutto. Oppure, ci sono Paesi che in qualche modo si sentono discriminati, a torto o a ragione, che ne approfittano per fare propaganda. Ad esempio, una televisione russa ha sostenuto che gli attentati siano stati organizzati ad hoc per aumentare la pressione contro Mosca. Stesso discorso in Turchia dove la laicità dello Stato viene da più parti messa in discussione. Dietro la strage ci sarebbero servizi segreti deviati con lo scopo di «far crescere l'islamofobia», ha scritto il quotidiano Yeni Safak . Sempre in Turchia c'è chi vede il dittatore siriano Bashar al-Assad, nemico dichiarato dell'Isis, come ispiratore del clima da guerra fredda. E anche in Paesi moderati come la Georgia è stato hackerato il sito della catena francese di supermercati Carrefour con un messaggio eloquente: «Siamo musulmani, il Corano è il nostro libro, crediamo e lavoriamo per Dio, maledetto sia Charlie Hebdo !». Non è un caso: dappertutto l'Islam è l'ultima ancora di salvezza contro il capitalismo americano dopo il crollo dell'Urss. E torniamo così al grillino Bernini. «Non a caso tutte le guerre moderne dell'America nascono da una menzogna!», ha scritto. Come volevasi dimostrare.
La nostra lotta al terrorismo? I giudici condannano Allam. Il verdetto contro il giornalista a Milano, nei giorni degli attentati in Francia. Per le toghe ha offeso i musulmani, ma nel 2007 aveva solo predetto: "Tentano di imporci lo stato islamico", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Siamo tutti Charlie Hebdo. Però l'asticella della libertà di parola non è fissata una volta per tutte. Oscilla, può salire ma può anche scendere ed essere compressa quando le parole sono un atto d'accusa. Capita, è capitato in questi giorni drammatici innescando un cortocircuito inquietante fra la tragedia di Parigi e il palazzo di giustizia di Milano. Dove Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, è stato bacchettato per il suo j'accuse contro l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche italiane. Nessun legame diretto, ci mancherebbe, fra l'Italia e la Francia, però una vicenda su cui riflettere. Dunque, Allam, oggi editorialista del Giornale e in passato vicedirettore del Corriere della sera , viene condannato per un articolo in cui attacca il volto più importante dell'Islam italiano. In primo grado Allam era stato assolto: i giudici del tribunale civile di Milano gli avevano fatto scudo dietro il principio della libertà di critica. Oggi quella protezione viene tolta dalla corte d'appello che capovolge il verdetto e condanna Allam a risarcire l'Ucoii. Un dietrofront clamoroso, proprio nelle ore in cui la Francia e l'Occidente vivono una delle pagine più buie della loro storia e il mondo intero si interroga sulle ambiguità dell'Islam e si chiede dove passi il confine fra l'Islam cosiddetto moderato e quello più radicale. Nel pezzo pubblicato il 4 settembre 2007 Allam racconta la storia di Dounia Ettaib, allora vicepresidente dell'Associazione donne marocchine, aggredita da alcuni connazionali vicino alla moschea di viale Jenner a Milano. Un grave episodio di intimidazione, ancora più grave perché accaduto nelle nostre strade. Allam definisce «tutti noi italiani vittime, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia la realtà, che temiamo al punto di essere sottomessi all'arbitrio o alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano». Parole, come si vede, attuali che paiono scritte dopo la tragedia del giornale satirico francese. Parole che in primo grado i giudici avevano ritenuto non censurabili perché frutto delle legittime opinioni di Allam. Ora il giudizio cambia e arriva la condanna. Nel pezzo Allam faceva anche i nomi e i cognomi di chi sosteneva le tesi dell'Islam più radicale e aveva chiamato in causa l'Ucoii: non c'è «alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi islamici radicali si legittimi la condanna a morte degli apostati e dei nemici dell'Islam». Sarebbe questo il punto controverso che avrebbe portato alla condanna di Allam: per i magistrati non si tratterebbe di libertà di critica ma di diffamazione. «La verità - spiega al Giornale l'avvocato Luca Bauccio, legale dell'Ucoii- è che Allam ha scritto il falso. Non è vero che l'Ucoii dia una qualche forma di copertura alle tesi dell'Islam più violento. Anzi, l'Ucoii è l'unica associazione di matrice islamica che abbia firmato la Carta dei valori e ammessa alla Consulta dell'Islam». Il tema è difficile e scivoloso, ma certo Allam è uno degli opinionisti più acuti e duri nei confronti dell'Islam. E della minaccia che oggi le schegge militarizzate del jihidaismo rappresentano per l'Italia. L'articolo incriminato si concludeva con una domanda angosciante che otto anni dopo è ancora lì, pesante come un macigno: «Continueremo a imitare lo struzzo votato al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?» Un quesito che Allam rilancia oggi: «Io racconto la realtà dell'Islam che i tanti commentatori politically correct non vogliono sentire: l'Islam è incompatibile con la nostra democrazia e la nostra civiltà. In gioco non c'è solo la mia libertà di parola, ma quella di tutti noi».
L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no». La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì. Scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979. Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini. Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.
Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla. Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.» Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.
No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia. Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».
No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente? Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».
E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare? «Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».
Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato. «No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».
Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei. «No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà». Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.
Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»
Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla? «Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».
In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà. «Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».
Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà? «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.
Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”. Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».
Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica. «Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.
Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?. «Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».
Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello. «Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».
Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo? «Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce». Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.
«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...» «Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».
Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio. «Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».
Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena. «Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.
Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare». Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.
Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno? «No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».
Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute? «Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».
Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia? «Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».
«Io dico che non viene». «Se non vuol venire, non venga».
E Farah Diba? «Per lei deciderà il tribunale».
E Ashraf? «Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».
E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà. «Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».
A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico? «Che cosa, che cosa?»
Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto? «Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.
La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador? E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»
Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro? Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera). La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro). Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta. Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.
Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce), scrive “Libero Quotidiano”. Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Libero ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il maestrino Marco Travaglio trafitto dai suoi stessi forconi. Marco Travaglio ha fatto bene a lasciare lo studio di Servizio Pubblico giovedì sera: anche se l’ha fatto senza calcoli e solo per un’alterigia da lesa maestà, per cedimento. In questo modo l’attenzione è finita sul suo delimitato scazzo con Michele Santoro e non su come ci si era arrivati: non su un’intera puntata, cioè, che aveva logorato Travaglio minuto dopo minuto e aveva alluvionato un modo di fare giornalismo e opposizione, se c’è differenza. Tutt’altro discorso meriterà un giorno Michele Santoro, che per anni si è portato la bestia in casa - accudito e viziato come un gatto siamese cui tutto è concesso - salvo accorgersi, in un momento di resipiscenza dettata dai tempi, che una bestia restava: anche quando non serve, anche quando la ragionevolezza sta palesemente da un’altra parte, anche quando, soprattutto, non è chiaro se esista ancora un pubblico (una piazza) a cui rivolgersi senza sfasciare veramente tutto. Hai voglia a dire a Travaglio - come ha fatto Santoro - che anche lui deve rispettare le regole: quali? Le regole erano che Travaglio poteva miagolare a piacimento, poteva graffiare anche le tende e il divano, tanto il padroncino alla fine lo coccolava. Se poi i tempi ora esigono un’altra sensibilità, intesa come variante dell’intelligenza, beh, giovedì sera era inutile chiederla a Travaglio: lui ha un format solo, ed è la sua egolatria. Nel rivedere l’episodio solo via internet, come avrà fatto la maggioranza, si potrebbe anche pensare a una trascurabile scossa umorale e magari funzionale agli ascolti, anche se giunta fuori tempo massimo. Non è così. L’onnipotenza del monologante è andata in crisi progressivamente, man mano che la pacatezza imbolsita del governatore Claudio Burlando distillava graniti argomentativi poggiati via via su interventi di altri, e applausini, puntualizzazioni di Santoro, battute sulla figuraccia genovese di Grillo, soprattutto il candore dei ragazzi seduti in trasmissione, quegli «angeli del fango» che hanno trafitto Travaglio coi suoi stessi forconi. Travaglio ha avuto più spazio di chiunque, non escluso il suo monologo di quasi undici minuti che al solito ha spazzolato in superficie l’universo mondo: da Renzi ai giudici in ferie, da Burlando al Mose, da Scajola alla Protezione Civile, pretesti per battutoni che Maurizio Crozza, in confronto, pare Oscar Wilde. Ma, blocco dopo blocco, tirava un’aria che lo lasciava lì come un coglione. Intanto Burlando, accusato genericamente di essere un cementificatore, convinceva con la sua aria dimessa e con un’immagine di politica intesa come arte del possibile: «Noi possiamo aggiustare quello che in passato si è fatto male, dobbiamo fare cose realistiche... La differenza tra chi fa un discorso e prende applausi, e chi governa a lungo perché ha preso voti, è questa qui: noi dobbiamo fare cose realistiche, e voi - rivolto a Travaglio - potete anche dire cose che realistiche non sono». E fin qui ci poteva anche stare. Infatti a indebolire i nervi di Travaglio è stato il successivo intervento di Stefano, un cosiddetto angelo del fango che in pratica ha difeso tecnicamente gli argomenti di Burlando. E la critica di un ragazzino pesa a Travaglio più di qualsiasi altra, perché sale dalla stessa Piazza Tahrir in cui pescano lui e Grillo. «Travaglio ha fatto un discorso che forse non vede completamente la realtà», ha detto il ragazzo, che peraltro abita dove il fiume è esondato e conosce bene il quartiere. Travaglio intanto restava lì coi suoi appuntini, il quadernino, la lezioncina imparata per l’occasione. Poi Santoro è intervenuto a difesa del ragazzo ed è pure partito l’applauso, come è meglio spiegato nel dialogo riportato in questa pagina. Burlando a un certo punto ha pure detto: «Lei, Travaglio, non è informato». E Travaglio: «Sono informatissimo». Ma era sempre più chiaro che non era vero. Travaglio era lì per fare le veci di Ferruccio Sansa, campioncino di contraddizioni diciamo così, ineleganti: difende in tv l’ex sindaco Adriano Sansa anche perché è suo figlio, ne scrive sul Fatto Quotidiano, attacca Burlando che ha attaccato suo padre, inoltre scrive anche di Grillo dopo aver arringato le genti a un V-day e dopo aver collaborato con Grillo e, peraltro, abitando affianco a Grillo, sulle colline di Sant’Ilario. Ma una parte della realtà, giovedì sera, è venuta fuori lo stesso. L’ex sindaco Adriano Sansa, negli anni Novanta, si limitò a un’opera di pulizia dei corsi d’acqua ma non proseguì i lavori anti-alluvione cominciati in precedenza da Burlando. È solo una parte della realtà, ma questo è venuto fuori durante la puntata di Servizio Pubblico. E quindi è vero.
SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.
Lettera di Buzzi al Garantista: «Sono innocente». Caro Sansonetti, sono il famigerato Salvatore Buzzi, arrestato il 2 dicembre nell’inchiesta Mafia Capitale, che ti scrive la notte di Natale per chiederti di darmi un attimo del tuo tempo. Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi. E la gloriosa cooperativa 29 giugno, ove lavoravano 1254 persone, è stata commissariata e nessuno ha ricevuto né stipendio né tredicesima, causando gravi disagi a tutti i lavoratori, in gran parte svantaggiati. Sono stato condannato a mezzo stampa e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me? Io mi reputo una persona seria e onesta, che ha lavorato tanto per creare un gruppo cooperativo ove lavorano migliaia di persone e che non ha mai rubato nulla alle aziende che amministra. Conosco Carminati da oltre 30 anni e l’ho frequentato dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze; non ho mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne! I miei rapporti con lui sono sempre stati alla luce del sole e non ho mai nascosto la sua frequentazione, era lui il maniaco della sicurezza, ma constato che è servita a poco. Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici; casomai sono io che ho subìto qualche “delicata estorsione” da qualche solerte funzionario e/o dirigente. Sto provando a far uscire le mie ragioni e ho scritto una lunga lettera al mio avvocato, articolata sui punti più controversi, per farla avere a Rosi Bindi nella sua funzione di presidente della Commissione Antimafia della Camera. La lettera spiega analiticamente molti episodi che mi sono contestati. Non ti chiedo di credermi a priori, ma ti chiedo di chiamare il mio avvocato e documentarti anche sulle fonti della difesa, e se ti convinco anche un po’, aiutami nella mia solitaria battaglia per far valere le mie ragioni e riconquistare l’onore perduto. Certo ho detto tante parole in libertà, ma sfido chiunque nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso: e io ho avuto le microspie in ufficio e in auto per due anni. La Procura, inoltre, censura con aggettivi dispregiativi la semplice attività di lobbing, del tutto legittima. Siamo in uno Stato di diritto e non in uno Stato etico. Non voglio rubarti ancora tempo, ti chiedo solo di documentarti sulle ragioni della difesa con la serietà che ti contraddistingue. Augurandoti buone feste ti porgo i miei più cordiali saluti.
«Buzzi in galera sulla base di chiacchiere», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. All’indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell’accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo.
«Buzzi resta in galera – ci spiega il suo legale Alessandro Diddi – sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere».
«Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi», scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri «Sono stato condannato a mezzo stampa – spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti – e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?».
Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da ”Mafia capitale”, porsi semplici domande come ”E se fosse tutta una montatura?”, oppure, “Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?”. Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta.
Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l’istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella?
«Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c’è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere».
Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere?
«Ogni volta che Buzzi diceva al telefono ”Abbiamo vinto!”, il carabiniere all’ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d’asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità».
In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose.
«Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito».
A che cosa si riferisce?
«Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d’appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l’unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un’altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche?»
Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto “tante parole in libertà”. “Ma sfido chiunque – ha scritto nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso”. Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente?
«Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una “romanitas” del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l’aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l’interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno».
E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva?
«In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n’è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po’ complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l’opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato».
E in qualità di avvocato?
«In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L’idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei “gravi indizi di colpevolezza” è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta».
A un certo punto Buzzi ci scrive: «Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici». Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica?
«Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n’è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni».
Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività?
«Buzzi non è l’inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell’aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell’altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti».
Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui ”a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente”. Ne parliamo?
«Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell’appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l’assegnazione dell’appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro».
Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l’idea di larghe intese delinquenziali in questo caso?
«Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l’ha fatta in carcere trent’anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze».
Il suo cliente tiene a precisare che non ha «mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne».
«Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest’uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua ”marcatura a uomo”. Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell’incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato».
Caro Buzzi, assurdo accusarti di essere un mafioso, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Se Salvatore Buzzi fosse milanese, probabilmente lo conoscerei. Sarebbe uno dei tanti ex detenuti con cui avrei avuto contatti e collaborazione in qualche mia veste istituzionale. E la Cooperativa 29 giugno sarebbe stata una di quelle con cui avrei organizzato il lavoro, interno e esterno alle carceri milanesi di S. Vittore, Opera e Bollate, come la Cooperativa Alice e le altre. L’avrei frequentato, sarei andata a qualche pranzo come quello della famosa fotografia cui partecipò anche l’attuale ministro Poletti, magari sarei diventata sua amica, sapendo benissimo che non stavo frequentando l’oratorio della mia parrocchia. Perché i casi sono due: o si crede nella Costituzione e in tutte le leggi che predicano il reinserimento dei detenuti o non ci si crede. Nel primo caso, bisogna sapere quanto sia fondamentale il lavoro per dare speranza non solo a chi esce dal carcere di poter fare una vita normale, ma anche a tutti noi, perché sappiamo che quell’ex detenuto difficilmente commetterà ancora reati. Ben vengano quindi quelli come Buzzi cha hanno la capacità di mettere in piedi una cooperativa che dà lavoro a 1254 persone. E male, anzi malissimo fa il governo se cerca, come sta facendo, di intralciare in qualche modo questo tipo di attività. La lettera di Buzzi mi colpisce prima di tutto per questo aspetto della vicenda, perché conosco tanti “Buzzi”, ogni tanto “sfrutto” le loro capacità professionali e manuali dando loro qualche lavoretto in più, qualche aiuto a muover le mani nella direzione giusta. Ma la lettera di Salvatore Buzzi pone anche ben altri problemi: mostro, mafioso, corruttore. Questa è oggi la sua fotografia, questo sono le sue impronte digitali, il suo dna. Mostro per il solito circo mediatico-giudiziario messo in piedi da magistrati esibizionisti e giornalisti in toga. Su questo punto, caro Salvatore, non c’è speranza. Tu stesso ti sei domandato, quando eri ancora libero e rispettato, come mai sia stato arrestato Claudio Scajola per quella vicenda assurda che ha riguardato un altro mio ex collega parlamentare, Amadeo Matacena. Neanche io ho capito perché, e posso dare una sola spiegazione: se arresti, conquisti qualche titolo e qualche foto sui giornali. Altrimenti, poche righe in cronaca. Ma neanche mi convince l’incriminazione di Matacena, visto che anch’io, insieme a Vittorio Sgarbi, fui indagata per otto mesi per lo stesso reato, “concorso esterno in associazione mafiosa”. E so che è un reato inesistente. Come lo so io, lo sanno e lo dicono in tanti, così come in tanti, quelli che lo conoscono, sanno bene che Buzzi non è un mafioso. Dove sono i tartarughini, con la testa nascosta, i garantisti del Pd? Se la loro identità politica non è più quella del giustizialismo, come vent’anni fa, si facciano sentire. Se devono “far pulizia” nel Pd romano, la facciano, problema loro. Ma alzino la voce per dire che non si deve più confondere la giustizia con la morale e che vogliono uno Stato di diritto laico e rispettoso nei confronti del “signor chiunque”. Le mie esperienze, sia giudiziarie che politiche, mi hanno reso non solo sensibile, ma anche molto diffidente nei confronti delle Grandi Inchieste, soprattutto se basate sulla contestazione del reato associativo, come contenitore che tutto comprende e tutto giustifica. E mi sta molto sulle scatole un Procuratore (che non conosco ) che fa conferenze stampa e che crea un nuovo reato, l’associazione mafiosa in salsa romana, solo per poter usare tutti gli strumenti, anche persecutori, consentiti per i reati più gravi, come il 416-bis. E altrettanto non apprezzo un ministro che applica l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (che andrebbe abolito subito) a indagati che non sono neppure accusati di omicidi e stragi. Si vogliono forse creare nuovi “pentiti” come Scarantino? Purtroppo la storia giudiziaria di questo paese, se e quando fa giustizia, la fa molti anni dopo, quando la reputazione e la vita di tanti sono ormai rovinate. Ma so per esperienza che far uscire qualche voce dal silenzio e dal vocio urlante del consueto circo a volte a qualcosa serve ed è giusto farlo. Io so che Salvatore Buzzi non è un mostro e non è un mafioso. Non so se sia solo un lobbista, come lui dice, o anche un corruttore o un concusso. Questo, ma solo questo, lasciamolo alla magistratura. Ma, si spera, a una magistratura requirente normale, senza elmetto e senza selfie.
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
Umberto Bossi: "Processatemi a Roma", scrive “Libero Quotidiano”. Un tempo "Roma ladrona". Oggi "processatemi a Roma". Protagonista della peculiare parabola è il Senatùr per eccellenza, Umberto Bossi, che attende di essere giudicato nel caso legato a Francesco Belisto, il tesoriere truffaldino della Lega Nord, la vicenda in cui è invischiato anche il Trota, il figlio Renzo Bossi. E' successo, infatti, che gli avvocati di Bossi (padre) abbiano presentato un'istanza per spostare nella capitale le cause pendenti tra Milano e Genova (il 29 ottobre scorso è stato deciso che per il reato di appropriazione indebita ipotizzato sia competente il tribunale di Genova). Insomma, oggi, il Senatùr chiede che a restituirgli l'onore sia il tribunale di Roma.
La Lega Nord accusata di "banda armata": 18 anni dopo, le Camicie verdi a processo, scrive “Libero Quotidiano”. A processo, diciotto anni dopo. Si tratta della paradossale vicenda che riguarda le 34 "camicie verdi" della Lega Nord per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio per banda armata dalla procura di Bergamo per aver "promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militari". Per inciso, le Camicie verdi erano quelle che si definivano "un servizio d'ordine organizzato nell'ambito dei territori della Padania". Ora, se il gip accoglierà la richiesta, partirà il processo. L'inchiesta - Nel frattempo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha detto che chiederà il risarcimento dei danni per "un processo senza senso", anche perché per la stessa imputazione stato già assolto un gran numero di leghisti, da Umberto Bossi e fino a Maroni e Calderoli. Per altri leghisti il procedimento era stato sospeso parecchie volte in attesa di responsi della Consulta. L'inchiesta era stata avviata nel 1996 dal procuratore di Verona Guido Papalia perché la maggior parte degli indagati proveniva da quella provincia. Successivamente la maggior parte dei magistrati avevano accolto l'eccezione di competenza territoriale, infatti le Camicie verdi furono fondate il 2 giugno 1996 a Pontida, in provincia di Bergamo. E dunque è là che ora il processo, dopo quasi due decenni, dovrebbe ripartire.
Lega, il processo da rifare dopo 18 anni, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Procuratore di Verona Guido Papalia aveva diritto di indagare sulle Camicie Verdi più o meno quanto il sottoscritto ha diritto di presiedere l’assemblea dell’Onu. Cioè, nulla. Per fortuna ce ne siamo accorti in fretta: ci abbiamo messo solo 18 anni. L’inchiesta sui leghisti responsabili di «associazione militare con scopi politici»,infatti, era nata il 1996. Al Quirinale, tanto per dire, c'era Scalfaro. Nel 1996 si disputavano le Olimpiadi di Atlanta, l’inventore di Facebook Mark Zuckenberg era appena uscito dall’asilo, gli sms erano scambiati solo da pochi adepti e i telefoni cellulari erano così poco diffusi che le intercettazioni di quell’inchiesta vennero fatte tutte su telefoni fissi. Uno degli indagati, Matteo Bragantini, a quel tempo era un giovane studentello con i capelli lunghi. Oggi è un parlamentare di lungo corso con i primi segni dell’incanutimento e un po’ di pancetta. Però gli è andata meglio che a un altro dei 36 indagati, classe 1925, che nel frattempo è morto, senza nemmeno aver potuto scoprire che Papalia non aveva alcun diritto di perseguitarlo. Però adesso non prendetevela con la giustizia: per capire se un procuratore può indagare o no su un fatto ci vorrà il suo tempo, no? Bisogna esaminare le carte con attenzione, magari serve anche un sussidiario di geografia per capire i confini delle province di Verona e Bergamo. Non è che si possa far tutto semplice. E poi che volete? Diciotto anni e ci arrivano anche loro. Non lo fanno apposta a tirarla per le lunghe: lo dimostra il fatto che, appena si sono accorti che le Camicie Verdi erano state costituite a Pontida e accertato che Pontida non è provincia di Verona (promossi!), hanno predisposto il trasferimento «immediato» del fascicolo a Bergamo. Immediato, proprio così. 18 anni dopo, ma immediato. Nei tribunali mica si perde tempo. Peccato solo che in questi 18 anni, nel frattempo, sia successo di tutto. Ricorderete: udienze, ispezioni della Digos in via Bellerio, scontri con la polizia, Maroni in barella, dibattiti in Parlamento, giornali scatenati. Sull’inchiesta di Papalia (che non doveva nemmeno cominciare) è stata scritta la qualunque, compresi gli indimenticabili titoli sui «Terroristi in Camicia Verde», «Secessione a Padania armata», «Organizzazioni militari leghiste», «Verde scuro tendente al nero» intere trasmissioni di Santoro, paginate indignate dei commentatori intelligenti. Ecco: scusate, ma ci siamo sbagliati. È nato tutto da un equivoco. Anzi, da un errore. Non se n’è accorta nemmeno la Corte Costituzionale: coinvolta per cinque volte nella vicenda, per cinque volte ha rimandato il fascicolo a Verona. Cioè nel posto sbagliato. Anche alla Consulta, evidentemente, ci sono problemi con la geografia. Adesso ricomincia tutto da Bergamo. E ricomincia da zero. Dispiace un po’ per Papalia, che tutte le inchieste si porta via: nel frattempo è andato in pensione, ma il suo lavoro è stato inutile. O meglio: è stato utile solo a lui. Gli è servito a farsi un po’ di pubblicità, che fa sempre bene, e forse un po’ di carriera, arrivando a farsi nominare Procuratore Capo a Brescia. «Terun de la madonna, vuol arrestare il Va’ Pensiero», lo apostrofò Bossi. Del resto la giustizia italiana è fatta così: il procuratore di Trani mette sotto inchiesta Moody’s e Standard's&Poor, Henry John Woodcock fa sfilare a Potenza Savoia e showgirl, Raffaele Guariniello convocherebbe a Torino pure San Gennaro se solo potesse. Basta che un magistrato intravveda la possibilità di avere l’attenzione dell’opinione pubblica e zac, l’inchiesta è aperta. Tanto che problema c’è? Al massimo finisce tutto in nulla. O peggio: 18 anni dopo si scopre che l’indagine non doveva nemmeno cominciare perché Bergamo non è Verona. Che importa? Le telecamere ormai sono lontane. E gli errori della giustizia, si sa, non li paga nessuno.
Papalia e le camicie verdi: «Così non è giustizia diciotto anni sono troppi», scrive Cremonesi Marco su “Il Corriere della Sera”. «Non c'è il minimo dubbio. Una giustizia così lenta non è più giustizia». Guido Papalia è in pensione da circa un anno. Ma nel 1996, diciotto anni fa, fu lui ad avviare, da procuratore di Verona, il procedimento contro la «Guardia nazionale padana», le cosiddette Camicie verdi. Secondo i leghisti, un servizio d'ordine. Secondo varie procure, un'associazione militare. Il processo, però, non è partito: la procura di Bergamo (oggi competente sulla vecchia indagine) ha chiesto sabato al gip il rinvio a giudizio di 34 militanti di allora. Procuratore, lo avvierebbe ancora quel procedimento? «Ah, non c?è dubbio. Tra l'altro, l'ho avviato io a Verona dopo una riunione con diverse procure che si svolse a Mantova. Fu lì che si decise che il procedimento si sarebbe dovuto svolgere a Verona. Ma sul fatto che fosse motivato, dubbi non ce n'erano da parte di nessuna delle procure. E io, di dubbi, continuo a non averne: la costituzione di associazione militare, sulla base della legge del 1948, c'è in pieno».Per quei fatti, buona parte dei capi leghisti non sono stati processati in quanto parlamentari. Non è stridente?«Certo, ma fu una decisione del Parlamento italiano, che considerò quei fatti come opinioni degli eletti, libera espressione di pensiero. Ma badi che, invece, il Parlamento europeo a suo tempo sancì che i responsabili andassero processati».Molti di quei militanti oggi sono magari tranquilli padri di famiglia.«Credo anch'io. Certamente non esistono più le camicie verdi di allora. Però, le persone sono coinvolte per quei fatti di allora, sulla base di una legge vigente. Per dire: noi a suo tempo avevamo contestato anche l?attentato alla Costituzione e all'integrità dello Stato. Poi, però, la legge fu modificata e quei capi di imputazione sarebbero stati insussistenti. Ma la legge che c'è, va rispettata». La lunghezza del procedimento era inevitabile? «I processi non possono durare tanto, ce lo diciamo tutti. E non dovrebbero esistere meccanismi tanto dilatori. Però, qui non parliamo di cavilli, ma di momenti processuali che hanno determinato una stasi inevitabile, come le eccezioni di costituzionalità. Che dovrebbero essere decise immediatamente, e non dopo tre o quattro anni». E dunque, si può essere processati per fatti di quasi vent'anni fa che peraltro non hanno portato ad altri reati specifici.«Sì. Ma io credo che quando si tratterà di decidere, si terrà conto della situazione attuale. Anche psicologicamente, credo se ne terrà conto».
Lega Nord, Rosi Mauro assolta: non prese i soldi del partito. Lei attacca: "Maroni e Salvini, la pulizia non c'è stata", scrive “Libero Quotidiano”. "Altro che scope, nella Lega la pulizia non c'è stata". Sono i giorni della rivincita per Rosi Mauro: l'ex vicepresidente del Senato della Lega Nord, fedelissima di Umberto Bossi, è stata assolta dall'accusa di essersi intascata 100mila euro del partito. Peccato che prima del processo sia stata la Lega stessa a "epurarla", sull'onda dello scandalo della gestione dei soldi del partito. Prima di lei, sul patibolo, erano già saliti l'ex tesoriere Francesco Belsito e, di fatto, il fondatore e leader storico dei padani, Umberto Bossi. "La verità deve ancora venire fuori - si sfoga la Mauro sul Giornale -, ma è chiaro che un un complotto, colpirono me per affossare Bossi, per farlo fuori". Era l'aprile del 2012, la Lega stava cercando di uscire faticosamente dagli scandali giudiziari e finanziari. Bobo Maroni aveva preso in mano il partito e la prima operazione fu soprattutto mediatica: cacciare la vecchia guardia, il cerchio magico di Bossi e sostituirla con volti nuovi e puliti, tra cui quello di Matteo Salvini. Nella famosa serata delle ramazze, a Bergamo, c'erano tanti leghisti arrabbiatissimi con i "traditori" e con lei, la Mauro, salutata con cori tipo "terrona" e "Rosi p... l'hai fatto per la grana". Quella classe dirigente fu spazzata via a suon di insulti. "Mettiamola così - spiega la Mauro -, mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passio indietro e io rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?. Lui mi rispose che era una questione di opportunità politica". Da due anni con la nuova nomenklatura leghista l'ex "badante" del Senatùr non ha più rapporti: "E nessuno si è fatto vivo" per complimentarsi per l'assoluzione. E Salvini? "Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me".
Rosi Mauro: "Io assolta. E la pulizia nella Lega non c'è stata". La serata delle scope non è servita. Sono stata giustiziata per far fuori Bossi, ma molti restano al loro posto, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”.
«Me la ricordo la serata delle scope, eccome. Ecco, a Roberto Maroni direi che quello spettacolo non è servito a nulla. Io non ci sono più, ma molti di quelli che dovevano essere spazzati via sono ancora al loro posto».
Per una che è stata dipinta come la «strega nera» del Carroccio, la reazione è assai misurata. Ma lei, Rosi Mauro, ora è semplicemente «contenta».
«Contenta di una cosa che in cuor mio già sapevo».
Ovvero, che con l'uso spregiudicato dei fondi della Lega non aveva nulla a che fare. Per questo, ieri, l'ex vicepresidente del Senato è stata prosciolta dal gip di Milano. E dopo essere stata silurata dal partito senza processo e prima del processo, dopo essersi presa gli insulti dai colleghi lumbard e da una parte della platea leghista - «terrona» era il meno, qualcuno gridava «Rosi p..., l'hai fatto per la grana» - ora può voltare pagina.
Rosi Mauro, due anni fa venne «giustiziata» dal triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago.
«Mettiamola così: mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passo indietro e io mi rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?».
E cosa le venne risposto?
«Che era una questione di opportunità politica».
Ne fu convinta?
«Ma figuriamoci!».
E allora qual è la verità?
«La verità deve ancora venire fuori, ma è chiaro che fu un complotto. Colpirono me per affossare qualcun altro».
La butto lì: Umberto Bossi.
«Certo! È stato un complotto per fare fuori Bossi».
Ordito da chi?
«I responsabili sono sotto gli occhi di tutti. Quello che mi consola è che la nostra gente l'ha capito».
Ne è sicura?
«Tutte le persone del movimento che ho incontrato in quel periodo me lo dicevano: Rosi, non mollare e vai avanti».
A due anni di distanza, pensa a qualche rivalsa nei confronti del partito o delle persone che l'hanno affondata?
«Qualche querela è già partita, vedremo come andrà a finire. Altre potrebbero partire. Ma non c'è fretta, di pazienza ne ho molta».
Facile immaginare che ce ne sia voluta parecchia in questi due anni.
«Da quando è scoppiato il caso ne ho viste di cotte e di crude. Quello che mi ha fatto più male sono le cose che sono state scritte su di me. Sono finita in prima pagina, leggevo notizie incredibili che sapevo essere false. La verità è che io sono entrata nella Lega nel 1987, e non ho mai tentato di fare le scarpe a nessuno».
Oggi il giudice di Milano l'ha assolta dall'accusa di essersi intascata quasi 100mila euro del partito. Qualcuno da via Bellerio l'ha chiamata?
«Nessuno della nomenklatura si è fatto vivo. Ma non mi aspettavo diversamente, anche perché è da due anni che con queste persone ho interrotto i rapporti. Invece, con molte delle seconde linee continuiamo a sentirci. E ovviamente oggi mi hanno chiamata».
A distanza di due anni, cosa direbbe a Roberto Maroni?
«Che la famosa serata delle scope non è servita a nulla. Che quelle scope hanno funzionato male, perché la pulizia vera non c'è stata».
E al segretario Matteo Salvini? Anche lui, con toni più morbidi, chiese la sua testa.
«Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me».
Ora che questa vicenda si è chiusa, cosa farà?
«Ancora non lo so. Ma di sicuro, questo sarà un bel Natale».
CORRUZIONE E TANGENTI. LA GERMANIA PEGGIO DI NOI.
Corruzione e tangenti: la Germania peggio dell'Italia. La Germania passa per essere un Paese onesto, corretto, inflessibile. Ma i numeri dicono il contrario: l'economia sommersa vale 351 miliardi di euro e le tangenti 250, scrive Marco Cobianchi su “Panorama”. Essere tedeschi ha un vantaggio: si è sempre dalla parte della ragione. È una certezza che Manfred Weber, capogruppo del Ppe al Parlamento europeo, aveva stampata in volto quando, replicando al discorso di inaugurazione del semestre di presidenza italiana dell’Europa di Matteo Renzi, gli ha rinfacciato di “chiedere soldi in cambi di riforme. E poi come facciamo ad essere sicuri che le facciate?” Dubbio legittimo, ma non sempre la Germania è quel monolite di etica che si vuol far credere. Ha un’immagine impeccabile e un volto sempre ben rasato, ma la Germania è molto più simile all’Italia di quanto Weber non creda. E lo è in un campo nel quale noi passiamo per specialisti, con un know-how consolidato: la corruzione. Forse Weber non ricorda un episodio interessante capitato il 15 aprile di quest’anno proprio al Parlamento europeo. Nikolaos Chountis, europarlamentare greco di Syriza (lista Tsipras), riceve dal tedesco Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e candidato del Pse alla presidenza della Commissione, una risposta che non s’aspettava. Un anno prima la Commissione europea aveva messo nero su bianco che tra i Paesi europei solo la Germania e l’Austria non avevano ancora recepito nel proprio ordinamento né la convenzione anti-corruzione europea né quella dell’Onu. Chountis prende carta e penna per chiedere a Schulz di sapere se l’Europa avesse fatto, o avesse intenzione di fare, pressioni su Berlino perché le adottasse. Voleva anche sapere quali fossero le giustificazioni della Germania per non averlo ancora fatto e se era vero quanto scritto dal settimanale tedesco Der Spiegel e, cioè, che il presidente della Confindustria tedesca, Ulrich Grillo, era coinvolto in una serie di pagamenti di tangenti in Grecia quando era a capo delle società Rheinmetall e Stn Atlas. Dopo un anno la risposta di Schulz è stata lapidaria: l’interrogazione “eccede le competenze della Commissione” quindi è “inaccettabile”. Se avesse voluto rispondere, Schulz avrebbe dovuto mettere sul banco degli imputati il suo Paese e approfondire verità imbarazzanti. Molto imbarazzanti. Gli scandali Mose e Expo sembrano confermare la teoria “italiani popolo di mazzettari”. Una teoria che porta dritto dritto verso una specie di autorazzismo che vuole gli italiani “antropologicamente inferiori dal punto di vista etico” rispetto, ad esempio, alla Germania che passa per essere il Paradiso dell’etica pubblica. È così? Partiamo dai numeri. Uno dei più importanti studi che comparano l’economia sommersa dei Paesi europei viene pubblicato periodicamente a cura della Visa Europe, realizzato dalla società di consulenza internazionale At Kearney, con la supervisione scientifica di Friedrich Schneider, professore all’Università austriaca di Linz e massimo esperto continentale della cosiddetta “shadow economy”. I suoi studi e i suoi saggi sono alla base dei documenti dell’Eurostat e dell’Ocse che si occupano della materia. I risultati dello studio sono qui e il dato più importante è che, in valori assoluti l’economia sommersa tedesca è la più consistente di tutti i Paesi europei: 351 miliardi di euro pari al “nero” di Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Irlanda e Austria messe insieme e superiore di circa 20 miliardi al “nero” italiano che è stimato in 333 miliardi. Strano che la Germania passi per essere come l’Eden degli onesti, perché i dati non dicono questo: dicono che l'economia “non osservata” tedesca è la più grande d'Europa. Per “economia non osservata”, familiarmente chiamata in italiano “nero”, si intende sia l'economia criminale vera e propria sia, soprattutto, l'economia non criminale che sfugge ai controlli (in particolare del fisco) come, ad esempio, il lavoro non regolare, la mancata fatturazione o la sottofatturazione. Ma prendere i valori assoluti non basta: vanno messi anche in relazione al Prodotto Interno Lordo di un Paese perché è evidente che il 13% di economia sommersa della Finlandia non equivale allo stesso 13% di economia sommersa della Germania: infatti nel primo caso si tratta di appena 26 miliardi di euro e nel secondo di 351. L’Italia, avendo un’economia più piccola di quella tedesca, ha un rapporto sommerso/Pil più alto, cioè il 21% rispetto, appunto, al 13% tedesco. Il rapporto tra economia sommersa e Pil dell'Italia è uno dei più alti e, d’altra parte, gli scandali grandi e piccoli che emergono quotidianamente sono lì a dimostrare che siamo il Paese più corrotto d'Europa mentre la Germania passa per essere popolata da manager e dipendenti pubblici puri come gigli di campo. Friedrich Schneider (unica fonte presa come riferimento in modo da non fare confusione con altre metodologie di indagine su un tema così difficile da maneggiare) ha valutato anche il peso della corruzione nei vari Paesi europei e il risultato è che, nel 2012, le mazzette tedesche hanno pesato 250 miliardi di euro rispetto ai 280 miliardi dell’Italia. La Corte dei Conti, però, valuta il valore della corruzione italiana in 60 miliardi, non in 280. Peccato, però che il dato dei 60 miliardi sia praticamente inventato perché sono il risultato di una proporzione tra il valore stimato della corruzione mondiale con il Pil italiano. Un esercizio di pura matematica senza nessuna base scientifica, ma che continua ad avere libera circolazione nel dibattito pubblico. Ma oltre alle statistiche economiche anche quelle giudiziarie, sono interessanti. Secondo un recente rapporto della Commissione europea le denunce per corruzione in Germania nel 2011 sono state 46.795: il triplo rispetto alle 15.746 dell'anno precedente. In Nord-Westafalia i casi sono passati da 6089 del 2010 a 40.894 del 2011. Ovviamente c'è una spiegazione. Se si va a vedere il testo originale del rapporto si scopre che decine di migliaia di denunce riguardano un caso di tangenti che ha coinvolto tutti i dipendenti, civili e militari, di una base militare britannica e che vede coinvolti i dipendenti di una concessionaria automobilistica in due distinti processi. Anche il dato del 2010 (15.746 casi) è influenzato da singoli casi specifici. Bisogna andare al 2009 (quando non ci sono stati casi anomali di corruzione che falsano il dato) per avere un numero affidabile ed è 6.354 denunce e va confrontato con quello del 2012: 8.175. Un bel numero, tantopiù se si considera che mentre le denunce di crimini aumentano, le indagini diminuiscono: dalle 1.813 del 2010 si è passati alle 1.528 del 2011 fino alle 1.373 del 2012. Passiamo alle condanne: secondo l'Ocse tra marzo 2011 e il marzo 2013 di tutti i procedimenti anti corruzione, 33 sono stati archiviati per mancanza di prove mentre in 21 processi si è arrivati alla condanna nei confronti, complessivamente, di 141 persone. Di queste 141 persone, 43 sono state ritenute colpevoli di corruzione verso funzionari pubblici stranieri e questo significa che, secondo la giustizia tedesca, appena 138 persone in due anni sono state ritenute colpevoli di aver pagato tangenti all'interno della Germania. Un numero ridicolo se si pensa alla stima di Schneider secondo la quale le tangenti in Germania pesano per 250 miliardi ed è ancora più ridicolo se si pensa che in un solo anno, il 2012, le denunce per corruzione sono state, come detto, più di 8mila. Il confronto con i dati italiani è, a questo punto, d’obbligo. Nel 2011 le denunce per corruzione e concussione e abuso d’ufficio sono state 1820 (1.587 nel 2012, ultimi dati disponibili) mentre le persone condannate per peculato, malversazione, concussione, e corruzione sono state 800. In Italia si denuncia meno, ma si condanna molto di più. Come mai? Il rapporto della Commissione Europea sulla corruzione sembra mettere in relazione abbastanza diretta questa differenza tra denunce (molte) e indagini (poche) in Germania con il fatto che la magistratura tedesca, a differenza di quella italiana, è soggetta al potere politico. In alcuni specifici casi, infatti, il ministero della Giustizia di Berlino ha il diritto di “istruire” il magistrato titolare di un’inchiesta su come condurre le indagini e su quale particolare concentrare le sue attenzioni. E’, quindi, possibile che i magistrati tedeschi siano indirizzati dal governo a trascurare i casi di corruzione per concentrarsi su altri reati. E non sembra che questo stato di cose scandalizzi più di tanto i magistrati stessi: solo il 50% di essi, infatti, vorrebbe l’abolizione del potere di indirizzo delle indagini da parte del governo. Certo, quasi tutti gli indici di corruzione, stando al rapporto della Ue, sono migliori rispetto alla media europea, ma il rapporto fa notare che l'Ocse ha più volte chiesto alla Germania di rendere esecutive le sentenze (poche) che ricadono sotto il reato di corruzione visto che “la maggior parte delle sentenze vengono sospese”. Strano, è la stessa accusa che si rivolge all'Italia. Per di più il Greco, Group of States Against Corruption, nel suo rapporto sulla Germania del novembre del 2012, ha criticato il paese di Frau Merkel per le sue regole di finanziamento ai partiti poco rigorose (rafforzate nel 2013), per la corruzione dei parlamentari e per gli scarsi progressi nell'adozione delle raccomandazioni dell'organizzazione.
Corruzione e tangenti: il caso Germania. La seconda parte dell'inchiesta sul sommerso e le mazzette in salsa tedesca, scritta da Marco Cobianchi Su “Panorama”. Quello tedesco non sembra un popolo “antropologicamente” onesto. Se l’Italia ha avuto Calciopoli, i tedeschi hanno avuto il “caso Bochum”, dal nome della piccola procura tedesca che, nel 2007, iniziò a indagare sulla Bundesliga. Ben presto l’inchiesta si allargò a tutta Europa portando alla luce tre partite della Champion’s League truccate e 323 incontri manipolati in diversi campionati europei 69 dei quali in Germania per un giro di mazzette di 12 milioni di euro a arbitri e dirigenti sportivi, oltre a 175 milioni di “premio partita”. Sono state arrestate complessivamente 347 persone quasi la metà delle quali residenti in Germania. Il processo tenutosi in Germania nel 2009 ha portato alla condanna di 3 sole persone (due a 5 anni e 6 mesi e una a 1 anno e 6 mesi), a 17 sanzioni disciplinari comminate dalle autorità sportive mentre 12 persone, a 5 anni dall’inizio delle indagini, erano ancora in attesa di una sentenza definitiva. Sempre a proposito della “società civile”: nel 2013 l’associazione dei medici tedeschi ha accusato mille propri iscritti di aver ricevuto regali (soldi, viaggi, beni di consumo) da case farmaceutiche per prescrivere ai loro pazienti farmaci dei quali, spesso, non avevano bisogno. Secondo il presidente dell’associazione Frank Ulrich Montgomery, intervistato dal settimanale tedesco Der Spiegel più della metà dei casi riguarda regali fatti dalla società israeliana Ratiopharm. Nel frattempo a Leipzig due primari sono stati sospesi perché scoperti a manipolare i file dei pazienti in attesa di trapianto in cambio di favori e casi simili sono stati scoperti anche a Gottingen, Monaco e Regensburg. Ma l’anno nel quale i tedeschi sono scesi con i piedi per terra e si sono resi conto di non essere affatto immuni dal virus della tangente è stato il 2007 quando ben 6 grandi società sono state accusate di corruzione. Il caso più clamoroso riguarda la Siemens, multata per 600 milioni di euro per essere stata scoperta a pagare sistematicamente mazzette in tutto il mondo per accaparrarsi contratti pubblici usando un fondo nero alimentato da centinaia di milioni di euro ogni anno. Oltre ai 600 milioni alle autorità tedesche, la Siemens ha pagato altri 800 milioni alle autorità americane e ha versato altri 100 milioni a organizzazioni internazionali noprofit che combattono la corruzione negli affari. Nel 2009 scoppia anche il caso del colosso Man che paga 150 milioni di euro per risolvere un processo nel quale veniva accusata di aver pagato tangenti per vincere contratti, anche all'estero. Altri 500mila euro (andati in beneficenza) sono stati versati anche dall'allora amministratore delegato, lo svedese Hakan Samuelsson, che si è sempre dichiarato innocente. In seguito Samuelsson è diventato capo della Volvo, carica dalla quale si è poi dimesso. Ma, per dare un'idea di come si alimenta un luogo comune, il profilo di Samuelsson su Wikipedia non fa cenno né allo scandalo tangenti, né alla multa né ai veri motivi delle sue dimissioni da capo della Man, società che, sotto la sua guida, ha realizzato profitti record assicurandogli una remunerazione di 7,2 milioni di euro nel solo 2009. Poi ci sono le tangenti greche, quelle sulle quali Nikolaos Chountis ha chiesto, inutilmente, lumi a Martin Schulz. A guardare gli archivi dei giornali sembra che nessun affare concluso da aziende tedesche in Grecia sia esente dalla mazzetta. Il caso più importante riguarda l'affare dei sottomarini, una storia da 1,14 miliardi di euro che inizia una decina d'anni fa le cui indagini vennero subito interrotte a causa, secondo i giornali tedeschi, “della scarsa collaborazione da parte delle autorità greche”. All'inizio del 2014 lo scandalo è riemerso in seguito all'arresto di due dipendenti pubblici greci accusati di avere intascato mazzette per 23,5 milioni di euro. A pagare sarebbero state la Hdv e la Ferrostaal. Non solo: per un altro affare di armi, a dicembre del 2013 è finito in carcere un ex alto dirigente del ministero della Difesa, Antonis Kantas, con l'accusa di aver ricevuto 1,7 milioni di tangenti dal rappresentante greco della società tedesca Krauss-Maffei Wegmann per la vendita di 170 carri armati Leopard. Una volta in carcere ha ammesso non solo questa tangente, ma anche altri 500-600mila euro provenienti sempre dall'affare dei sottomarini. Ma nel passato accusate di aver pagato tangenti a dipendenti pubblici greci sono state anche, oltre alla solita Siemens, anche la Deutsche Bahn e la Daimler. Quella stessa Daimler che, citata in un rapporto del 2010 del dipartimento della Giustizia Usa, viene definita come società con una “lunga tradizione in quanto al pagamento di tangenti” a dirigenti pubblici stranieri. I dirigenti della Daimler sono stati accusati di aver versato tangenti per decine di milioni di euro a dipendenti pubblici di 22 Paesi del mondo compresi quelli di tutto il Medio Oriente oltre a Cina e Russia. In Iraq avrebbe addirittura violato i vincoli del programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E nonostante le indagini avessero fatto emergere violazioni anche di leggi tedesche, Daimler non è mai stata messa sotto inchiesta in Germania e se l’è cavata pagando 185 milioni di euro alle autorità americane. E si potrebbe continuare per ore: il presidente del Bayern Monaco finito in carcere per essere stato scoperto a pagare mazzette; la società Bilfinger accusata dagli Usa di aver pagato tangenti in Nigeria (multa di 32 milioni di euro); i dipendenti della Basf accusati di avere accettato soldi in nero da dei fornitori per beni e servizi poi non forniti, ma la differenza tra Italia e Germania è ormai chiara. Mentre da noi il problema è vissuto come un difetto “morale” che attiene al “carattere” nazionale, in Germania la corruzione è vista come un problema “amministrativo” per le aziende (che pagano per chiudere ogni pendenza) e penale per i suoi manager che (raramente) finiscono in carcere. Sui giornale tedeschi nessuno si sogna di accusare uno scadimento morale ma, piuttosto, si preoccupano che le mazzette, una volta scoperte, non interrompano la “normale” attività economica di una società. La stampa tedesca, nel dare il giusto risalto a questi episodi, ha comunque un atteggiamento assolutorio verso i manager tedeschi. La tesi, in genere, è: non siamo noi corruttori che paghiamo le tangenti, sono i politici stranieri che sono corrotti perché le accettano, o le pretendono. Può essere. Ma secondo Markus Funk, copresidente della Aba's Global Anti Corruption Task Force, “negli anni recenti la Germania è stata seconda solo agli Stati Uniti in quanto a numero di casi di corruzione all'estero”. E, d’altra parte, anche i politici tedeschi, in quanto a scarsa trasparenza, non scherzano. A gennaio l’amministratore delegato delle ferrovie tedesche, Rudiger Grube, ha offerto al braccio destro di Angela Merkel, Ronald Pofalla, un posto in consiglio d’amministrazione (pagato 1 milione di euro l’anno) con il compito di occuparsi di relazioni istituzionali. Nulla di illegale, per carità, tranne che passare da capo di gabinetto del primo ministro a lobbista di una società pubblica non è quello che ci si aspetterebbe da un popolo “antropologicamente” etico. Anche le dimissioni del presidente federale Christian Wulff sono state raccontate come la decisione di un uomo integerrimo che, sopraffatto dal senso dell’etica, decide di abbandonare la poltrona per una piccole, umana, debolezza: essersi fatto offrire un soggiorno di pochi giorni all’Oktoberfest. In realtà Wulff è stato costretto a dimettersi nel 2012 perché ha tentato di depistare le inchieste giornalistiche che indagavano su una donazione di 500mila euro proveniente da un ricco amico della moglie quando era governatore della Bassa Sassonia. Wulff fu costretto a dimettersi non per un peccato veniale, ma perché in una corrispondenza, diventata pubblica, da presidente della Repubblica, ha praticamente minacciato l'editore della Bild che stava per pubblicare la notizia. Riguardo al caso Oktoberfest: quel soggiorno è stato pagato dal produttore cinematografico David Groenewold a favore del quale, successivamente, Wulff scrisse una lettera al Ceo della Siemens chiedendogli di finanziare un lungometraggio che l'amico stava producendo. Due anni dopo la sentenza del processo originato dall’ospitata fu di assoluzione: non è stata ravvisata alcuna relazione tra l'invito all'Oktoberfest e la lettera di raccomandazione e Wulff, assolto da tutte le accuse, ha scritto perfino un libro per raccontare la sua versione dei fatti. Un risultato, quello dell’assoluzione, non dissimile dai molti processi che hanno coinvolto politici italiani. Che, però in troppi hanno interesse a dipingere, loro e tutti gli italiani, come persone corrotte “dentro”.
AUTOVELOX, LA SUPERTASSA COMUNALE.....COL TRUCCO.
Autovelox, la nuova supertassa comunale.
Spuntano come funghi: a Milano, Roma, Bologna, ma anche nelle piccole città.
Altro che Tasi e Tari: sono i radar stradali a garantire alle esauste casse
municipali i più facili incassi. Ma monta la protesta, scrive Edmondo Rho su
“Panorama”. Sono tra noi.
Come killer freddi e spietati, privi di scrupoli e senza alcuna remora, sparano
a raffica giorno e notte: pam, pam, pam. Colpiscono senza distinguere tra le
vittime, con un automatismo da robot senza cuore. Sì, i primi 5 mesi del 2014
saranno ricordati nelle cronache cittadine di mezza Italia per il clamoroso
ritorno degli autovelox. E soprattutto per gli incassi da record dei comuni:
oltre alla Tasi, alla Tari e alle altre tasse locali che da metà giugno si
abbatteranno sugli italiani, la multa da autovelox diventa la vera imposta
municipale del 2014. Facile da riscuotere, come andare al bancomat. A Milano,
dove dal 10 marzo sono stati attivati 7 nuovi radar in altrettante "vie
cittadine a scorrimento veloce" (in realtà strade periferiche a 4 corsie, che
di "cittadino" hanno solo l’ubicazione, e che le auto inevitabilmente percorrono
a velocità più elevata di quella consentita), in una sola settimana sono state
accertate 64.205 infrazioni, cioè 9.172 al giorno: 4 automobilisti ogni 10
beccati dai nuovi autovelox superavano di oltre 10 chilometri orari il limite
cittadino dei 50, e dovranno pertanto pagare una multa tra 168 e 674 euro (per
intenderci, da 2 a 8 volte i mitici 80 euro di cui fa vanto il governo Renzi),
oltre alla decurtazione dei punti sulla patente. L’assessore milanese al
Traffico, Marco Granelli, richiama gli automobilisti a una "maggiore attenzione
alla sicurezza della strada", ma intanto si frega le mani: perché soprattutto
grazie agli autovelox il comune prevede che nel 2014 gli incassi da multe
aumenteranno del 10 per cento. A Roma, dal 14 maggio, 7 macchinette sono state
attivate a rotazione nelle vie più strategiche e anche qui hanno fatto un
massacro: in un’ora sulla via Trionfale, arteria a ovest della Capitale, sono
passate 602 vetture e 270 (il 45 per cento) erano in contravvenzione. Al 27
maggio le multe erano già 4.095, cioè 273 al giorno, per una media potenziale
d’incasso di svariate decine di migliaia di euro al dì. Ma così va un po’
dovunque. A Bologna, in aprile, il comune ha impiantato autovelox fissi sui
viali attorno al centro e in via Stalingrado, a nord della città; accoppiati
allo "Scout", un diabolico sistema di fotografia automatizzata delle targhe in
sosta vietata, lasciano prevedere che tra 2013 e 2014 le entrate da multe
passeranno da 45,9 a 46,5 milioni di euro. A Firenze le 8 postazioni automatiche
ormai rendono più delle slot machine di MonteCarlo: nel 2012 avevano prodotto
77.865 multe, nel 2013 sono salite a 101 mila (il 31 per cento in più) e il
2014 lascia intuire nuovi record. Non va meglio a Palermo, dov’è bastato
installare 3 colonnine nella centrale arteria di viale Regione Siciliana per
raddoppiare le multe, da 34 mila nel 2012 a 68.951 l’anno scorso: nel 2013, solo
per gli eccessi di velocità, il Comune ha incassato 5,5 milioni di euro su un
totale di 18,6 riscossi per multe. Così i vigili palermitani hanno appena
piazzato altri 2 autovelox, sperando nella crescita geometrica delle infrazioni.
A Torino gli occhi elettronici avevano prodotto 52.755 multe nel 2012 e 95.618
nel 2013, ma nei primi 4 mesi del 2014 hanno già identificato 29 mila eccessi
di velocità. È proprio come se i sindaci si fossero passati la parola: la
corsa alla colonninaspia è corale, perché nell’era della spending review è il
più facile strumento per fare cassa. Nell’ultimo mese di maggio sono comparsi
nuovi autovelox, telelaser e rilevatori a ogni latitudine e anche nelle città
medie e piccole: a Mestre, Padova, Bergamo, Caorso, Piacenza, Cremona, Riccione,
Terracina, Taranto, Otranto, Cagliari... Una caccia indiscriminata: perché è
vero che i limiti andrebbero sempre rispettati, ma in molte strade sono
inutilmente (o volutamente?) bassi, con limiti urbani per strade che urbane non
sono.
Com’è ovvio, questa grandine di contravvenzioni "a tradimento" già comincia a
suscitare proteste e polemiche. A Milano l’ex vicesindaco Riccardo De Corato,
ora all’opposizione con Fratelli d’Italia, critica l’amministrazione:
"L’autovelox è l’ultima tassa comunale, è il modo con cui Giuliano Pisapia e
la sua giunta svuotano le tasche ai cittadini". A Roma pare che il Codacons stia
addirittura pensando a una denuncia: "Questi metodi" dice il presidente Carlo
Rienzi "servono più per fare cassa che a garantire sicurezza. Se davvero si
vuole combattere la velocità eccessiva si deve aumentare il numero dei vigili o
installare il Tutor come avviene sulle autostrade, registrando le violazioni dei
limiti in base al tempo di percorrenza". Anche a Bologna Michele Facci,
consigliere comunale di centrodestra, accusa: "Questa città ha il record di
multe elevate con il sistema Scout, da più parti dichiarato illegittimo. Non ha
niente a che fare con la sicurezza, ma porta tanti denari al comune. Se
aggiungiamo che Bologna ha le tariffe per le rimozioni tra le più care
d’Italia, possiamo affermare che qui l’automobilista è il pollo da spennare".
La protesta, insomma, monta. A Firenze un originale artista francese, Clet
Abraham, per manifestare il suo sdegno "contro il potere esercitato nel peggiore
dei modi", ha piazzato accanto a un autovelox in periferia la suggestiva statua
di un mostro rosa con la testa a forma di bidet. Che la situazione sia sfuggita
dalle mani degli stessi ideatori del sistema, del resto, è emerso con evidenza
il 18 maggio a Rovigo, dove un inesorabile e ottuso autovelox ha multato
l’intera carovana delle vetture partecipanti alla Mille Miglia, la storica
competizione d’auto d’epoca, più quelle di organizzatori e collaboratori al
seguito. Un paradosso, è ovvio: eppure annullarle non sarà comunque facile. Il
punto è che i comuni agli autovelox non vogliono rinunciare. Garantiscono
incassi facili, senza personale, senza costi. E le macchinette danno un
contributo aggiuntivo alle multe per le violazioni al codice della strada, che
già rappresentano un notevole incasso. Come si nota dai dati elaborati da
Panorama sui bilanci di 8 grandi città (vedere le schede a pagina 58), il peso
delle multe sulle entrate correnti nel 2013 è andato da un minimo dell’1,9 per
cento a Bari (dove peraltro l’incasso da autovelox è quasi irrilevante) a un
massimo del 6,5 a Bologna e a Roma. L’efficienza bolognese nel fare cassa con i
balzelli sugli automobilisti è testimoniata dal fatto che è quasi tutto
automatizzato: solo il 30 per cento delle contravvenzioni è elevato dai vigili,
mentre il 70 deriva dagli apparecchi elettronici. I più noti sono il Rita (Rete
integrata di telecontrollo degli accessi), il Sirio (vigile elettronico che
controlla gli accessi della Zona a traffico limitato nel centro storico) e lo
Stars (Sanzionamento transiti abusivi rosso semaforico). Poi c’è il
contestatissimo Scout, e ovviamente gli autovelox. La destinazione degli incassi
è un altro piccolo scandalo italiano. Per legge, i soldi pagati per le multe
stradali dovrebbero essere destinati almeno per il 50 per cento a finalità di
sicurezza, prevenzione e manutenzione delle strade stesse. "E la quota sale al
100 per cento per le multe fatte con gli autovelox" ricorda Gian Guido Passoni,
assessore al Bilancio a Torino. Ma le amministrazioni locali rispettano la
norma? "Per quanto ci riguarda, sì" risponde Passoni: "Noi non abbiamo usato le
multe per compensare i tagli della spending review". Altrove, però, i dati sono
molto diversi. Antonio Coppola, presidente dell’Aci di Napoli, accusa: "Su 98
milioni di euro di verbali elevati in un anno a Napoli e in 51 comuni
dell’hinterland, appena il 22 per cento è stato destinato alla sicurezza". Non
è improbabile che, soprattutto in periodo di crisi, siano molti i comuni che
non rispettano la norma sulla destinazione dei fondi. Proprio a Napoli, dove
intanto emerge lo scandalo dei vigili urbani che non vanno mai in strada, la
Corte dei conti contesta al Comune di avere inserito nel "piano di riequilibrio"
80 milioni d’introiti da multe stradali: oltre il doppio di quelli
effettivamente incassati. Il paradosso è notevole: tu comune fai di tutto per
aumentare le multe e poi non sei in grado d’incassarle. Ma il paradosso copre
una pratica di bilancio poco trasparente. Andrea Santoro, consigliere comunale
dell’opposizione (Ncd) e nella vita vigile urbano in un comune dell’hinterland,
spiega che il fenomeno è antico e nasce all’epoca del sindaco Rosa Russo
Iervolino, tra il 2001 e il 2011: "Per un decennio le multe sono state
utilizzate per spendere soldi prima ancora d’incassarli. Il trucco è semplice:
nei bilanci previsionali s’inseriscono entrate da multe molto superiori a quanto
poi si riscuote davvero. Puntualmente, queste entrate non raggiungono il 20-30
per cento delle stime. Nel frattempo però la corrispondente voce di spesa entra
nel calderone generale per accendere mutui o altre forme di finanziamento". È
l’ultimo effetto perverso delle multe come tassa. Anche di quelle da autovelox.
Lo scandalo degli autovelox truccati. A Desenzano la base dell'organizzazione. Incassati 11 milioni con multe illegittime, scrive Giuseppe Spatola su “Il Corriere della Sera”. Taroccavano gli autovelox per «fare cassetto»: un giro d'affari milionario che ha portato alla denuncia di 558 persone, tra cui 367 dipendenti comunali o funzionari pubblici compiacenti, ora nei guai per truffa aggravata, turbativa d'asta e corruzione. È quanto ha scoperto la Guardia di finanza di Brescia (tenenza di Desenzano) in cinque anni di indagini parallele ad un' inchiesta aperta dalla procura di Sala Consilina. A capo della banda che faceva affari con le multe in mille comuni italiani - 146 quelli in cui sono state riscontrate anomalie - era un sessantenne di Desenzano del Garda, Diego Barosi. L'uomo, titolare della «Garda segnale» e di numerose altre società, aperte e chiuse in pochi mesi per potersi aggiudicare gli appalti delle amministrazioni e gestire direttamente gli autovelox, era già noto alle forze dell'ordine per l' inchiesta calabrese che lo aveva travolto nel giugno del 2009. Il bresciano, infatti, era già finito nel mirino di numerose Procure italiane, tra cui quella di Sala Consilina (Salerno) dove lo scandalo delle multe clonate era scoppiato grazie a un automobilista che fece ricorso. «Quella multa - avevano spiegato i magistrati - era stata fatta con un autovelox che risultava essere in "servizio" sulle strade dell' Emilia Romagna, a 1.000 chilometri di distanza». Tanto era bastato per far scattare le indagini in tutti i comuni che si erano affidati a «Garda Segnale». E alla fine i riscontri delle Fiamme gialle di Desenzano hanno permesso di appurare che Barosi, attraverso una cinquantina di autovelox di cui soltanto due omologati, era riuscito a ottenere molti appalti attraverso finte gare cui partecipavano solo ditte a lui riconducibili. Non solo: in molti casi gli investigatori hanno dimostrato la compiacenza della polizia locale o di funzionari comunali ripagati con una congrua percentuale sugli appalti ottenuti. Il sistema avrebbe fruttato 11 milioni e mezzo in multe, sulle quali la ditta di Desenzano percepiva una percentuale del 40%. Tutte sanzioni irregolari: gli autovelox, infatti, erano tarati male e segnavano velocità superiori del 15-17% rispetto al reale. Paradossale il caso di un piccolo paese, Camini, 736 abitanti in provincia di Reggio Calabria, dove nel 2008 gli autovelox della Garda Segnale sono riusciti a multare 13 mila automobilisti, 36 al giorno. Il denaro così incassato veniva reinvestito in immobili di lusso. Le Fiamme gialle ne hanno trovati 245 intestati o riconducibili al titolare dell'azienda bresciana; 51 sono stati messi sotto sequestro.
L'Italia è una repubblica prigioniera degli Autovelox. La mappa delle postazioni che controllano la velocità non lascia scampo a chi guida. Ma più che un invito alla prudenza è un'istigazione alla fuga..., scrive Tony Damascelli su “Il Giornale”. Penso di traslocare a Nuoro o in provincia di Sassari. Scelta di vita? No, di guida. Ho dato un'occhiata, velox pure quella, alla mappa delle postazioni autovelox dislocate lungo il bel Paese. É roba da Dario Argento, profondo rosso dovunque, appena ci muoviamo ci fulminano. La mappa del «terrore» è stata diffusa da Coyote, nome emblematico della società europea, leader del settore per lo sviluppo di dispositivi elettronici di assistenza alla guida. La «scoperta dell'Italia», con tutti i suoi puntini rossi non da scacciare ma da rispettare, non va contra legem, semmai invita al controllo, alla prudenza, ad una specie di selfie continuo, non esibizionistico, della propria autovettura che non deve superare i limiti imposti dal codice, su strade, autostrade, vicoli, viali e controviali. Perché ormai siamo sotto schiaffo dovunque e comunque, ogni angolo nasconde il falco, dunque l'idea di munirsi di un coyote può agevolare la caccia e la tutela della fauna automobilistica. Coyote è il cane latrante, il mammifero carnivoro predatore che, nel cartone animato ha il nome di Willy e cattura beep beep l'uccello dei deserti americani. Qui, invece, per la serie l'unione fa la forza, coyote e beep beep sono una cosa sola, infatti coyote è anche il localizzatore di autovelox, segnala con un suono la presenza del sistema sulle nostre teste, ai nostri lati. Osservando la mappa si può constatare che tutto il territorio italiano non è un deserto, anzi è coperto, dal Monviso a Lampedusa, di autovelox; non c'è zona franca, a parte quelle due province sarde che, non si sa bene in base a quale criterio, sono nude, pure e dure. Per il resto mettiamoci l'anima e il piede destro in pace, l'acceleratore dovrà fermarsi a metà corsa, chi preme sul pedale rischia il multone a meno che non si doti del coyote di cui sopra, senza incorrere in manette e arresto sul posto. Già, in Italia, si ricorre al sistema (vietato) della segnalazione rapida, con movimento furbastro sulla levetta delle luci abbaglianti, per avvisare della presenza di polizia e carabinieri da lì a qualche metro ma l'utilizzo del coyote suddetto potrebbe cambiare la vita, e soprattutto salvarla, a molti automobilisti. Qui, però, dovremmo metterci d'accordo con le aziende che ci martellano di spot pubblicitari: illustrano auto veloci, potenti, robotizzate ma nessuno, ribadisco nessuno, indica la velocità massima consentita, anzi ci spiegano, i maledetti che con i capelli, chi ancora li possiede, al vento la vita è bella fresca, l'automobile regala momenti di grande bellezza. Sarà, lo era almeno. Questa cartina italiana sembra il trionfo della sinistra alle elezioni politiche, non c'è un solo buco nel quale infilarsi, sì, qualcosa, roba piccola, in Basilicata e sulla costa toscana ma sono zone non meglio identificate. Il localizzatore di autovelox ridurrebbe il pericolo di sanzione e anche il lavoro della polstrada. Di certo la nostra vita in abitacolo si è fatta dura davvero: se non c'è l'autovelox c'è il tutor, se non c'è il tutor c'è la moglie, assisa al sedile di fianco, che strilla, ammonisce, redarguisce; se non c'è la moglie c'è la targhetta adesiva in simil oro, con fotografia di parenti, affini o santi che ricordano: «Vai piano». E ripenso a Gianni Morandi che cantava: «Andavo a cento all'ora a trovar la bimba mia, yeyeyeyè, yeyeyeyè». Bei tempi, quando il coyote inseguiva beep beep, tra un canyon e l'altro.
ITALIA DA ROTTAMARE. GIUGNO. LA FARSA DEL PAGAMENTO DELLE TASSE.
Giugno tempo di tasse e di prese per il culo. Imu, Tari, Tasi, Tares, Redditi, ecc. Chi più ne ha, più ne mette. Non si capisce cosa pagare a chi? Però alla fine nulla si può pagare. Perché i burocrati sono sempre in ritardo. E poi dicono che i cittadini evadono….
Se ne occupa Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, tra cui “Speculopoli. L'Italia delle speculazioni. Fisco e monopoli”. Libri che raccontano questa Italia alla rovescia. Giangrande per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Libri dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.
«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Già ho rinunciato a chiedere l’iscrizione all’elenco dei beneficiari del 5X1000, in qualità di presidente di una associazione antimafia ONLUS, per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate. Cosa che ha già promosso una interrogazione parlamentare. Tra ladrocini a go go, (vedi Expo e Mose) e puttanizi vari, dove ognuno si prostituisce per un favore indebito - dice Giangrande - con la regola da rispettare degli appalti pubblici taroccati ed i concorsi ed esami pubblici truccati, ci tocca pure pagare i boiardi di Stato. Ci fanno una testa così a proposito dell’evasione fiscale. Si sono inventati gli studi di settore e cazzate varie. Ciononostante, anche se non hai incassato un euro, ti tocca addossarti l’onere di farlo sapere all’agenzia delle entrate che, guarda caso, ti complica la vita. Da buon cittadino onesto, cerco di far da me la dichiarazione Unico Persone Fisiche 2014. Il primo di giugno mi metto di buona lena, consapevole del fatto che, mai sia, si superi i termini di presentazione ed allora son cavoli amari. Mi metto a scaricare tutta la massa di software che l’agenzia indica nelle pagine più disparate. E’ come cercare il tesoro. Bene. Una volta che pensi di aver fatto tutto quanto precede la benedetta dichiarazione on line, cominci a compilarla, con in allegato lo studio di Settore, pensato da lunatici burocrati. Arrivati alla fine di Unico, al modello RX, la schermata mi informa che è impossibile completare l’operazione, in quanto non si può effettuare il controllo. Provo e riprovo per giorni e notti. Riscarico i programmi, casomai ci sono errori nel mio PC. Niente. Sono depresso e stanco. A quel punto mi chiedo: ma son veramente un coglione? Sbaracco tutto e vado da un Caf o un commercialista, pago la tangente di Stato per la compilazione di Unico e così sto a posto? Ma mi viene un dubbio: vuoi vedere che i coglioni sono altri? E mi metto a cercare i forum dei disgraziati come me. E cerca, che trovi, sul forum di fisco e tasse mi ritrovo qualcuno con lo stesso mio problema.
Scrive Re Artù. “Ciao. Sono un artigiano ex minimo, in contabilità supersemplificata ma soggetto agli studi di settore. Ho elaborato il mio Unico PF - il mio quadro " G " - elaborato con Gerico2014 il tutto risultato congruo e coerente - allego il relativo file all'Unico2014, vado in RN e RX per stampare in miei bravi mod. F24 ed andare in banca a pagare, cosa mi dice il programma di UNICO: "Il modulo di controllo dei record relativi agli studi di settore non è ancora disponibile, non è pertanto possibile eseguire il controllo completo della dichiarazione". Ma possibile che ogni anno si debbano mettere in difficoltà una intera categoria di artigiani che vogliono fare il loro dovere, cioè pagare onestamente le tasse e nel giusto termine imposto dalla legge, senza arrivare col fiatone ad eventuali proroghe (che ci saranno vedrete). Cosa fanno i programmatori dell'ADE, perché non perfezionano in tempo questi programmi messi in rete ogni anno sempre più in ritardo. Sapete se debbo essere io a scaricarmi questo modulo di controllo e se sì dove debbo andare a ricercarlo, oppure l'aggiornamento avviene automaticamente nel pacchetto di UNICO2014? Scusate ma non se ne può più. Ciao a tutti.”
Risponde Rocco, un buon samaritano. “Stai calmo, non ti arrabbiare. Innanzitutto è in arrivo la proroga dei versamenti di UNICO per i contribuenti che applicano gli studi di settore. Il modulo di controllo degli studi di settore non è ancora disponibile; trattasi di modulo superato da quello di controllo di UNICO. Pertanto, in presenza di mod. UNICO con allegato il modello sds, non potrai trasmettere la dichiarazione se il modulo di controllo non viene reso disponibile. Devi pazientare ancora un po', considerando che la scadenza per l'invio telematico è il 30/09/2014. Saluti.”
“E' la solita "farsa" di ogni anno. Grazie Rocco. Saluti.” Risponde rassegnato Re Artù. Allora mi chiedo. Ma per quanto tempo ancora ci devono prendere per il cu…….e non perdere la pazienza?»
ITALIA. AVANTI CON IL FRENO A MANO TIRATO. LUNGAGGINI, TASSE OCCULTE E TROPPE LEGGI.
Autovelox e multe, le nuove tasse occulte. Altro che la Tasi, la Tari e la pioggia delle tasse comunali. A Milano, Roma, Bologna e in tante altre città grandi e piccole spuntano come funghi gli autovelox: per fare cassa e per risollevare i disastrati bilanci municipali. Sempre in tema di multe e di polizia municipale si rivela l’ultimo scandalo italiano: a Napoli i vigili urbani, ufficialmente, sono 2.012. Ma quelli che scendono in strada ogni giorno sono appena 400. Perché impegni sindacali, malattie certificate e diritti legali di ogni genere (dall’accompagnamento di parenti invalidi all’assistenza di bambini sotto gli 8 anni) li tengono o a casa o in ufficio.
Lungaggini, tasse e troppe leggi: la vera impresa è fare impresa. Per diventare imprenditori in Italia servono almeno 6 procedure. E i costi amministrativi toccano i 31 miliardi: 7mila euro a testa, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Una tassa occulta ma soprattutto la più penalizzante. È quella che le imprese italiane pagano alla burocrazia. I costi amministrativi rappresentano la vera e propria palla al piede del sistema imprenditoriale: 31 miliardi (oltre 7mila euro in media per azienda), 2% di Pil e soprattutto un mare di tempo perso per adempiere a oneri che non hanno più nessun legame con la modernità. La sensazione, a leggere i dati elaborati da Confartigianato, è che la classe dei burocrati giustifichi la propria esistenza con questo tipo di vessazioni e che la politica legittimi l'andazzo con una produzione a getto continuo di leggi. Non si spiegherebbe altrimenti come dal 2008 al 2013 siano state emanate 491 norme fiscali delle quali 288 hanno comportato una complicazione delle procedure. Se queste sono le premesse, non stupisce che il nostro Paese sia sempre nelle retrovie quando la Banca Mondiale compila il rapporto Doing Business. L'Italia si trova dietro tutte le principali economie avanzate e nel capitolo «Aprire un'impresa» scende addirittura al 90simo posto, cioè allo stesso livello dei paesi del Terzo Mondo. Basta solo raccontare l'Odissea alla quale si è soggetti per avviare un'attività per capire che non si tratta del solito sentimento anti-italiano che generalmente prende il sopravvento negli organismi internazionali. Nelle 13 città analizzate, l'avvio di un'impresa richiede, in media, 6 procedure, 9 giorni e costa il 14,5% del reddito pro capite. A Milano, Padova o Roma, un imprenditore può completare le procedure necessarie per avviare un'attività d'impresa in appena 6 giorni, come in Danimarca o negli Stati Uniti. All'Aquila e Napoli, far partire il business richiede rispettivamente 13 e 16 giorni. Sempre meglio che in Spagna, ma, a conti fatti, non è una passeggiata. Prima di tutto bisogna versare il 25% del capitale sociale in un apposito conto corrente, poi andare dal notaio per farsi redigere statuto e atto costitutivo, infine acquistare i libri contabili e sociali (vidimati anch'essi dal notaio), registrare impresa e dipendenti presso le pubbliche amministrazioni (Registro delle Imprese, Agenzia delle Entrate, Inps e Inail). Contestualmente, viene presentata una segnalazione di inizio attività (la Scia) allo Sportello Unico del Comune. Seguiranno gli accertamenti dell'ispettorato del lavoro e della Asl su applicazioni delle norme di sicurezza, requisiti di igiene, eccetera eccetera. Fino a pochi anni fa per aprire un coiffeur occorrevano 23 autorizzazioni e per una gelateria solo 14. Oggi si veleggia verso la decina. Finita qui? Neanche per sogno! Se serve un'insegna, bisogna chiedere permesso al Comune, ma se la strada è provinciale, occorre passare prima dalla Provincia e poi farsi accettare la pratica dal Comune. Attenzione alle leggi regionali: nell'hinterland torinese un imprenditore non ha potuto aprire una birreria in franchising perché il Piemonte prevede ancora il ricorso alla vecchia procedura che richiede fino a 90 giorni! Se poi si vuole costruire, è meglio accendere un cero alla Madonna per chiederle la grazia della celerità. A Milano occorrono quasi sei mesi, a Palermo si impiega quasi un anno. In Italia (100sima classificata su 185 Paesi esaminati) sono necessari in media 13 procedure e 231 giorni, per un costo pari al 253,6% del reddito pro capite. Lungaggini che si possono comprendere se si confrontano con i tempi necessari per l'allacciamento alla rete elettrica di un'utenza business: la media italiana è di 124 giorni, quattro mesi e ben 5 procedure (inclusa ispezione tecnica e approvazione dell'impianto). In Germania si impiegano solo 17 giorni e in Giappone non si paga nulla. Forse un motivo c'è se l'Italia è messa male. E soprattutto c'è un motivo se nei sondaggi effettuati dalla Banca Mondiale emerge che il 30% degli intervistati nei Paesi con la regolamentazione più complicata - sotto sotto - si aspetta di dover pagare una tangente per oliare le ruote del carro. D'altronde, in nessun altro posto del mondo industrializzato occorrono 172 giorni lavorativi per pagare tasse che scarnificano il 68% dei redditi di impresa. Insomma, è tutto una fatica: aprire una gelateria è un terno al lotto, un pizzaiolo che eccezionalmente serve ai tavoli rischia una supermulta e se miracolosamente si arriva alla fine del percorso a ostacoli, arriva l'Agenzia delle Entrate e si porta via più della metà di quello che si è guadagnato. Ieri il presidente dei giovani di Confindustria, Marco Gay, ha proposto di espellere da viale dell'Astronomia le aziende che delocalizzano per abbassare il costo del lavoro (i contributi costano il 43% del reddito d'impresa). Forse bisognerebbe pensare a quelli che coraggiosamente resistono in patria.
Vittorio Feltri: maledetti comunisti, avete reso l'Italia un inferno, scrive “Libero Quotidiano”. Maledetti comunisti, avete rovinato l'Italia. E' l'anatema di Vittorio Feltri su quel quarto di italiani che per anni, secondo il fondatore di Libero, è stato la zavorra del Paese. Un Paese, dicono i dati economici, sempre più in calo tra quelli industriali, superato anche dal Brasile. "E la marcia del gambero ci porterà ancora più in basso in futuro", è la profezia di Feltri sul Giornale. Il perché è presto detto: i nostri imprenditori "non sono stupidi" ma soffrono le conseguenze di una "campagna anti-capitalistica iniziata quarant'anni fa e portata avanti con tenacia fino ad oggi da coloro i quali consideravano il denaro lo sterco del demonio oppure, peggio ancora, uno strumento per opprimere il proletariato". In una parola: la sinistra italiana. Dalla politica ai sindacati rossi - "Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati - prosegue Feltri - ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni". Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un'azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati "sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri". E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati "hanno completato l'opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti", trasformando le fabbriche in "luoghi d'odio e di lotta violenta", per "umiliare i padroni e il personale non ideologizzato". Il combinato disposto di questo attacco continuo da parte di politica e sindacati di sinistra da un lato e crisi economica globale dall'altro è la bandiera bianca alzata da molti imprenditori italiani, costretti a chiudere bottega. L'Italia, dunque, è "un inferno" per i volenterosi. "Serve una rivoluzione culturale opposta a quella di Mao - è l'appello conclusivo di Feltri -, per rieducare gli italiani. Finora siamo stati bravi soltanto a distruggere le fabbriche, è assurdo avere la velleità che dal cimitero industriale si ricavino stipendi, benessere e stabilità sociale".
CHI SONO I LADRI: CHI EVADE O CHI, CORROTTO, PECULA O MALVERSA?
Svelato il bluff della lotta all'evasione, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. C’è chi si è visto contestare l’acquisto della materia prima all’estero, con l’accusa di aver evaso milioni per il solo fatto di aver comprato del cashmere in Kashmir e non in Campania. E chi invece, all’ennesima visita della Guardia di Finanza, si è sentito chiedere scusa per il verbale appena redatto con la seguente motivazione: sappiamo che avete conti e imposte in ordine, ma qualcosa che non va lo dobbiamo trovare per forza. Anzi, per esigenze superiori. Ossia per dimostrare che la lotta all’evasione si fa sul serio e che il gettito contestato ogni anno aumenta, rispondendo alle esigenze di far quadrare il bilancio e di giustificare nuove e sempre crescenti spese. E anche perché sulla presunta evasione recuperata si costruiscono carriere e si ricevono premi. Non importa che molti di quei soldi, la gran parte se si dà retta ad Attilio Befera, numero uno dell’agenzia delle entrate, lo Stato non li vedrà mai, perché le ingiuste richieste del fisco saranno respinte nei vari gradi di giudizio. Al momento, cioè quando le infrazioni vengono contestate, fanno numero e consentono di potersi presentare di fronte all’opinione pubblica come se si fosse sgominata una vera gang dell’evasione. Al contrario, spesso a finire nella rete del fisco, sono piccoli e medi imprenditori, i quali pur avendo regolarmente pagato le tasse si vedono contestare le violazioni più assurde, con la conseguente emissione di multe salatissime. Tanti si rassegnano e piuttosto di ingaggiare una lunga e difficile battaglia, pagando consulenti ed esperti, versano un terzo di quel che dovrebbero. I grandi evasori, quelli che nascondono tutto e operano fuori dalla legalità, al contrario festeggiano, perché fino a quando l’attenzione è rivolta su chi già paga, possono continuare ad agire indisturbati. Infatti la Finanza mira ai soliti noti, quelli alla luce del sole, non coloro che si nascondo nei paradisi fiscali o che cambiano continuamente partita Iva. È il grande bluff della lotta ai furbi, dove in realtà i furbi si rivelano quelli che dovrebbero dar loro la caccia e le vittime diventano i contribuenti onesti. A raccontare come lavorano gli uomini della grande macchina fiscale è proprio uno di loro, che in un’intervista esclusiva a Libero (anonima per evitare rappresaglie dei superiori, ma in redazione la sua identità e la sua esperienza sono note), svela i metodi, le furbizie e le scorrettezze messe in atto nei confronti delle imprese pur di dimostrare che lo Stato ha dichiarato guerra agli evasori. La narrazione del grande imbroglio è incredibile. Una ad una vengono a galla le vessazioni contro gente per bene che non si è mai sognata di non far il proprio dovere di cittadino. Un meccanismo infernale che non lascia scampo, perché una volta avviato deve concludersi con il raggiungimento dell’obiettivo, ovvero con l’emissione di un verbale che porti all’accertamento. Così i comandanti possono autocelebrarsi con cifre e dati non veritieri e i ministri gonfiare il petto per i risultati raggiunti. «Quando entriamo in un’azienda sappiamo già che dobbiamo notificare un verbale a qualsiasi costo e se bussiamo alla porta di un imprenditore sappiamo già che non ha praticamente speranza di salvezza». Il quadro descritto dall’ispettore è agghiacciante, perché dimostra l’esistenza di uno stato di polizia fiscale in cui non è il rispetto della legge, delle norme vigenti, ad essere garantito, ma il sopruso dell’Erario. Dalle parole dell’uomo del fisco si capisce che siamo all’estorsione legalizzata, anzi statalizzata, perché lo Stato deve mantenersi e per farlo è disposto anche a pretendere una specie di pizzo dalle imprese, ossia un di più non dovuto, che supera la tassazione già da primato mondiale che viene praticata in Italia. Quella descritta nell’intervista che potete leggere in queste pagine non è altro che una tangente fiscale, pretesa senza vergogna da uomini mandati dallo Stato e che quello Stato rappresentano. E poi si chiedono perché le aziende scappano all’estero. Al contrario ci sarebbe da interrogarsi sul perché molti imprenditori continuino a rimanere ancora qui.
Raccontateci come il fisco vi impone il pizzo legale, scrive di Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” . Ovviamente la Guardia di Finanza non ha gradito. L’intervista con cui un uomo delle Fiamme Gialle ha raccontato i soprusi compiuti nella lotta all’evasione ha fatto scattare dentro il corpo una specie di caccia all’uomo. Gli alti papaveri del comando generale vogliono sapere chi sia la gola profonda che ha «cantato», divulgando i sistemi con cui vengono compiuti gli accertamenti fiscali. In particolare ha dato fastidio che l’informatore abbia svelato come sempre più spesso non si punti a stanare chi non paga le tasse, ma ci si preoccupi esclusivamente di fare «gettito». Così nel mirino finiscono in gran quantità le persone oneste, che le imposte le hanno sempre versate, ma che hanno il torto di essere facile preda proprio a causa della loro correttezza. Come ha spiegato l’anonimo finanziere, prendere i grandi evasori, coloro i quali si nascondono nei paradisi fiscali o dietro società di comodo, cambiando spesso partita Iva, è difficile. Molto più semplice invece presentarsi alla porta di un’azienda in regola con il fisco, contestando errori formali, piccole infrazioni sempre possibili a causa della complessa legislazione fiscale in vigore. «Quando bussiamo alla porta di un imprenditore sappiamo già che non ha scampo e dovrà rassegnarsi a pagare», ci ha rivelato il nostro interlocutore dentro le Fiamme Gialle. Infatti, piuttosto che intraprendere una battaglia lunga, denunciando gli accertamenti, in molti preferiscono la via breve, ovvero rassegnarsi a versare un terzo della multa ed evitare di ingaggiare un contenzioso fiscale costoso e dagli esiti incerti. «In questo modo si consente agli ufficiali di annunciare successi nella lotta all’evasione e i governi festeggiano», sostiene la nostra gola profonda, che nell’intervista ha aggiunto qualcosa di più. Grazie a questo sistema si costruiscono le carriere dei comandanti e si ottengono i premi per gli obiettivi raggiunti. E questa è la rivelazione che ha più infastidito gli alti papaveri, che ovviamente non hanno alcuna voglia di ammettere che molti accertamenti non portano a scovare gli evasori, ma soltanto a gonfiare le statistiche e il volume delle infrazioni. Tuttavia, a fronte della reazione stizzita di una parte delle Fiamme Gialle (è ovvio che la maggior numero di aderenti al corpo cerchi di fare al meglio il proprio mestiere, evitando i soprusi nei confronti del contribuente) c’è anche la soddisfazione di molti imprenditori che finalmente vedono rappresentati i propri problemi con il Fisco. Fin dalla mattina in redazione sono giunte numerose lettere di vittime della Guardia di Finanza. Gente onesta. Industriali, artigiani e professionisti e commercialisti che si sono visti contestare evasioni mai commesse, ma che, pur avendo sempre versato il dovuto, non hanno potuto sottrarsi alla multa. «Avete scoperto l’acqua calda», ci rimprovera qualcuno. Forse. O forse semplicemente sono così sotto gli occhi di tutti gli eccessi di un sistema che rischia di taglieggiare le persone per bene, che sembra quasi ovvio ci si rassegni alla situazione, senza parlarne e senza denunciare l’anomalia. Al contrario, noi pensiamo che sia giusto parlarne, anzi che sia opportuno dare voce a chi si ritiene ingiustamente vessato. Il rapporto tra cittadino e Fisco è già complesso causa dell’elevata pressione fiscale, in quando i governi che si sono succeduti in quasi settant’anni di Repubblica hanno sempre pensato di far quadrare i conti aumentando le tasse. Non c’è dunque bisogno di aggiungere qualcosa che somiglia molto a un’estorsione, anzi a una specie di tangente legalizzata. È per questo che apriamo le pagine di Libero a chi vorrà segnalarci la sua storia, raccontando i soprusi di cui si sente vittima. Forse, denunciare l’aggressione di uno Stato che manda i suoi uomini a fare i gabellieri così come facevano nel passato i castellani del Medioevo contribuirà a farci sentire un po’ meno sudditi. In Gran Bretagna quando il Fisco bussa alla porta di un contribuente chiede permesso e fissa un appuntamento scusandosi. Sarà bene che cominci a farlo anche qui.
Confessioni di un finanziere: "Incasso tangenti per lo Stato", scrive “Libero Quotidiano”. Memorie di un finanziere della polizia tributaria. Si potrebbe intitolare così il sorprendente documento esclusivo che state per leggere. Si tratta della trascrizione, fedele alla lettera, del disarmante sfogo di un disincantato, onesto e preparato maresciallo della Guardia di Finanza, impegnato da diversi lustri nei temutissimi controlli alle imprese. L’uomo, di cui evitiamo di indicare dati anagrafici e curriculum per non renderlo riconoscibile, ha apparecchiato per Libero uno zibaldone di pensieri, suddiviso in capitoletti, sul suo lavoro di tutti i giorni. Che per lui è diventato un tran tran asfissiante, capace di condurlo quasi al rigetto. Il risultato è questa spietata radiografia che stupisce e, in un certo senso, preoccupa di un mestiere che tanto trambusto porta nelle vite degli italiani. Infatti in questo sfogo il militare dipinge le ispezioni delle Fiamme gialle come un ineluttabile meccanismo stritola-imprenditori il cui obiettivo non sarebbe una vera e sana lotta alle frodi fiscali, ma una fantasiosa e famelica caccia al tesoro indispensabile a lanciare le carriere di molti professionisti dell’Antievasione. «Nel nostro lavoro ci sono forzature evidenti, a volte imbarazzanti», ammette con Libero il maresciallo. Che qui di seguito svela retroscena e segreti dei controlli che intralciano ogni giorno il lavoro di centinaia di imprenditori. Una lettura che potrebbe agitare qualcuno e far alzare il sopracciglio ad altri. Ma a tutti deve essere chiaro che non di fiction si tratta e che domani il nostro maresciallo e la sua pattuglia potrebbero bussare alla vostra porta. Preparatevi a leggere il testo di questo finanziere raccolto in esclusiva da Libero. Ossessione numeri - Dietro alle verifiche ci sono enormi interessi economici: il dato del recupero dell’imposta serve a molti. Sia ai politici che ai finanzieri. Nella Guardia di Finanza il raggiungimento degli obiettivi legittima l’ottenimento dei premi incentivanti e gli stipendi stellari dei generali, che sono decine: uno per provincia, più uno per regione. Nel nostro Corpo esistono vere e proprie task-force che si occupano di fare previsioni di recupero d’imposta e a fine anno queste devono essere raggiunte, come se l’evasione fiscale si basasse su dei budget. Gli operatori sul territorio sono meno di chi elabora questa realtà virtuale, su 64 mila finanzieri siamo circa 4 mila a fare i controlli. Indietro non si torna - A fine anno i generali chiedono il dato dell’imposta evasa constatata e lo confrontano con quello dell’anno prima. Il risultato non può essere inferiore a quello di 12 mesi prima. Se il dato scende bisogna dar conto al reparto centrale di Roma del perché si siano recuperati meno soldi e il comandante del reparto periferico rischia di vedersi bloccare la carriera. Per questo le nostre verifiche proseguono anche di fronte a evidenti illogicità. I nostri ufficiali parlano solo di numeri e quando hanno sentore di un risultato, magari per una previsione affrettata di un ispettore, corrono dai loro superiori anticipando che da quella verifica potrà venir fuori un certo risultato: a quel punto non si può più tornare indietro. Il verbale diventa subito una statistica, una voce acquisita e ufficiale di reddito non dichiarato. Quando si prospetta un ventaglio di possibilità per risolvere una contestazione si concentrano le energie sempre su quella che porta il risultato più alto. Che sarebbe poco grave se fosse la strada giusta. Ma spesso non lo è. Per la Finanza quello che conta è il dio numero. Il nostro unico problema è come tirarlo fuori. Per riuscirci c’è un nuovo strumento infernale, la cosiddetta “mediana”, che va di gran moda tra gli ufficiali. La si pronuncia con rispetto e deferenza, anche perché da essa dipende la carriera di chi la evoca. Si tratta di uno studio fatto a tavolino, che stabilisce il valore medio della verifica necessario a raggiungere gli obiettivi, il tetto al di sotto del quale non si può andare. Se capiamo che in un’azienda il verbale sarà di entità inferiore alla mediana, derubrichiamo la verifica a controllo in modo che non entri nelle statistiche ufficiali. Alla Guardia di Finanza abbiamo uffici informatici che elaborano dati in continuazione. Ma si tratta di numeri “drogati”, come lo sono quelli dei sequestri. Nei magazzini dei cinesi ho visto colleghi registrare alla voce “giocattoli” ogni singolo pallino delle pistole per bambini. Spesso questi servizi si fanno in occasione delle feste natalizie, così passa l’informazione che sul territorio c’è sicurezza. Con questi numeri i generali si riempiono la bocca il 21 giugno, giorno della festa del Corpo. Lo speaker spara cifre in presenza di tutte le autorità, dei presidenti dei tribunali, dei politici, ecc. ecc. Quel giorno è un tripudio di dati pronunciato con voce stentorea: recuperata tot Iva, scovati tot milioni di redditi non dichiarati, arrestati x emittenti fatture false. Una festa! Normativa astrusa - La normativa tributaria italiana è talmente ingarbugliata che si presta alla nostra logica del risultato a ogni costo. Per noi è piuttosto semplice fare un rilievo visto che siamo aiutati da questa legislazione astrusa e abnorme, spesso contraddittoria e conflittuale. Nel nostro Paese è quasi impossibile essere in regola e per chi lo sembra ci prendiamo più tempo per spulciare ogni carta. Infatti se una norma può apparire favorevole all'imprenditore, c’è sicuramente un’altra interpretabile in maniera opposta. E in questo ci aiuta l’oceanica produzione di sentenze, frutto di un eccessivo contenzioso. Un contratto, un’operazione possono essere interpretati in mille modi e alla fine trovi sempre una sentenza della Cassazione che ti permette di poter fondare un rilievo su basi giuridiche certe. Questo è il Paese delle sentenze. Analizzando un bilancio, un’imperfezione si trova sempre. Magari per colpa dello stesso controllore che prima dice all’imprenditore di comportarsi in un modo e poi in un altro, inducendolo in errore. Per esempio, su nostro suggerimento, un’azienda non contabilizza più certe spese come pubblicità (deducibili), ma come spese di rappresentanza (deducibili solo in parte). Quindi arriva l’Agenzia delle Entrate e spiega che quelle non sono né l'una né l’altra. A volte succede che qualcuno abbia già subito un controllo, abbia aderito a un condono e, zac, arriviamo noi e contestiamo lo stesso aspetto, ma in modo diverso. Dopo i primi anni nel Corpo non ho più sentito di controlli chiusi con un nulla di fatto e in cui si torna a casa senza aver contestato qualcosa. Alla fine chi lavora impazzisce. Chi sbaglia non paga - Come è possibile tutto questo? Semplice: perché chi sbaglia non paga, ma anche perché chi sbaglia non saprà mai di averlo fatto. Il motivo è semplice: noi non comunichiamo con l’Agenzia delle Entrate e non sappiamo mai che fine facciano i nostri verbali. Per questo se ho commesso un errore non lo verrò mai a sapere: il nostro è solo un verbale di constatazione, a renderlo esecutivo è l’Agenzia delle Entrate che lo trasforma in verbale di accertamento. Però raramente i nostri colleghi civili bocciano il nostro lavoro, anzi questo non succede nel 99,9 per cento delle situazioni. Si fidano di noi e, anche se sono molto più preparati, nella maggior parte dei casi prendono il nostro verbale e lo notificano, tale e quale, al contribuente. Quello che sappiamo per certo è che i nostri verbali, giusti o sbagliati che siano, diventano numeri e quindi non ci interessa che vengano annullati, tanto non ne verremo mai a conoscenza né saremo chiamati a risponderne. Per noi resta un grosso risultato. E visto che nessuno paga per i propri errori, il povero imprenditore continuerà a trovarsi ignaro in un castello kafkiano fatto di norme e risultati da ottenere. Imprese sacrificali - Gli imprenditori con noi sono sempre gentili, ci accolgono con il caffè, sopportano di averci tra i piedi per settimane, ma si capisce che vorrebbero dirci: scusateci, ma avremmo pure da lavorare. A noi però questo non interessa: dobbiamo contestargli un verbale a qualsiasi costo e quando bussiamo alla loro porta sappiamo che non hanno praticamente speranza di salvezza. Per contrastare e contestare questa trappola infernale l’imprenditore è costretto a pagare consulenti costosissimi, ma noi rimaniamo sempre sulle nostre posizioni. A volte capita che per provare a difendersi il presunto evasore chiami in soccorso come consulenti ex finanzieri, ma spesso questo non gli evita la sanzione. Anzi. Negli ultimi anni ho notato una certa arrendevolezza da parte degli imprenditori: dopo un po’ si stancano. Capiscono, e ce lo dicono, che tanto dovranno fare ricorso perché noi non cambieremo idea. Per tutti questi motivi molti di loro costituiscono a inizio anno un fondo in previsione della visita della Finanza. Sono coscienti che qualcosa dovranno comunque pagare. Chi fa veramente le grandi porcate, chi apre e chiude partite Iva, emette false fatture o costituisce società di comodo magari alle Cayman è molto più veloce di noi e per questo non lo incastriamo, mentre azzanniamo quelli che operano sul territorio e che sono regolarmente censiti nelle banche dati. Alla fine lo Stato colpisce sempre i soliti noti. Non è una nostra volontà, ma dipende dal fatto che non abbiamo risorse per fare la vera lotta all’evasione e in ogni caso dobbiamo fornire dei numeri al ministero per poter legittimare la nostra esistenza come istituzione. Anche in Europa. Tangente di Stato - L’imprenditore, se accetta la proposta di adesione al verbale entro 60 giorni, paga solo un terzo di quanto gli viene contestato e spesso salda anche se non lo ritiene giusto, per togliersi il dente ed evitare ricorsi costosi (a volte più dei verbali) e sine die. In pratica accetta di pagare una tangente allo Stato. Agli imprenditori i ricorsi costano molto e se la commissione provinciale, il primo grado della giustizia tributaria, dà ragione allo Stato, l’imprenditore prima di ricorrere alla commissione regionale, il secondo grado, deve pagare metà del dovuto. Per questo chi lavora spesso preferisce chiudere la partita all’inizio, pagando un terzo. Giustizia da farsa - Il contradditorio tra Guardia di Finanza e imprenditori durante le verifiche è una farsa, perché ognuno rimane sulla propria posizione, ma va fatto per legge. Nel contradditorio gli imprenditori non hanno scampo: quel numero, quell’ipotesi di evasione, ormai è stato venduto e non può più essere ridimensionato. È entrato nel sistema e nelle nostre statistiche. A noi non interessa se magari dopo anni quel verbale verrà annullato e non avrà prodotto alcun introito per lo Stato. Le cose non vanno meglio con la giustizia tributaria, gestita da commissioni composte da avvocati, commercialisti, ufficiali della Finanza in pensione che fanno i giudici tributari gratuitamente giusto per fare qualcosa o per sentirsi importanti. È incredibile, ma in Italia il sistema economico-finanziario viene affidato a un servizio di “volontariato”. La verità è che un tale esercito di volontari senza gratificazioni economiche non se la sente di cassare completamente il lavoro di finanzieri e Agenzia delle Entrate e l’imprenditore qualcosa deve sempre pagare. Difficilmente questi giudici per hobby danno torto allo Stato. L’assurdità è che vengono pagati 30-40 euro per motivare sentenze complesse che hanno come oggetto verbali da milioni di euro, scritti da marescialli aizzati dal sistema. Formazione assente - Il nostro vero problema è la mancanza di specializzazione di un Corpo che cerca di riscattarsi nel modo sbagliato, provando a portare a casa grandi risultati, sebbene “storti”. A volte l’ignoranza aiuta a far montare un rilievo che non sta né in cielo né in terra. Sulla nostra formazione non ho niente da dire, perché non esiste. Eppure dobbiamo confrontarci con specialisti agguerriti, leggere documenti in lingue straniere, e la gran parte di noi non sa una parola in inglese. Non ci forniscono nemmeno i codici tributari aggiornati, mentre spendono milioni per farci esercitare ai poligoni, visto che siamo inspiegabilmente ancora una polizia militare, come solo in Ecuador e Portogallo. Un commercialista lavora 12 ore al giorno e si forma continuamente. Dall’altra parte della barricata c’è gente come noi che non vede l’ora di scappare via dall’ufficio, dove spesso non ha neppure a disposizione una scrivania o la deve condividere con altri colleghi. In questo modo il lavoro diventa l’ultimo dei pensieri. I più bravi vanno in pensione appena possono, per riciclarsi come professionisti al soldo delle aziende. Ci vuole una fortissima motivazione per studiare una materia terribile come il diritto tributario. Avvocati e commercialisti trovano gli stimoli nelle parcelle, da noi un maresciallo con vent’anni di servizio guadagna 1.700 euro. Gli incentivi li dobbiamo trovare dentro di noi, magari pensando di sfruttare il sistema per trovare un altro lavoro. È illogico che un mestiere così delicato, dove si contestano milioni di euro d’evasione, sia affidato a gente sottopagata e impreparata. L’unico modo di tenersi aggiornati è quello di studiare a proprie spese, pagandosi master e corsi. Purtroppo la formazione è costosissima e spesso ci rinunciamo. È chiaro che un sistema del genere presti il fianco al rischio della corruzione. In più bisogna considerare che per noi le verifiche sono particolarmente rischiose. In base alla mia esperienza non le facciamo con la giusta professionalità, possiamo commettere errori in buona fede, essere invischiati in fatti che neanche capiamo. Per esempio alcuni di noi sono stati accusati di aver ammorbidito un verbale per un tornaconto, in realtà lo avevano fatto per ignoranza e per questo ora quasi nessuno vuole più fare questo tipo di lavoro. Risorse all'osso - I nostri capi hanno budget di spesa sempre più ristretti. Nonostante ciò ogni ufficiale deve portare a casa i risultati con i soldi e le pattuglie che ha. Risultati almeno uguali a quelli dell’anno precedente. A causa di questa mancanza di mezzi siamo costretti a portare via dalle aziende penne, risme di carta, spillatrici. E secondo me gli imprenditori se ne accorgono, ma non dicono nulla per compassione. Onestamente gli ufficiali non sono responsabili di questa penuria di risorse, visto che i fondi destinati alla lotta all’evasione vengono decisi dai politici. Ma la frustrazione dei nostri superiori viene compensata da ottimi stipendi personali che lievitano grazie ai risultati conseguiti. Cosa che ovviamente non succede a noi. Nel nostro lavoro, la mattina, ammesso che trovi una macchina libera, devi prima fare car-sharing e accompagnare diversi colleghi ai reparti, quindi ti restano due o tre ore per fare visita a un’azienda. Quando rientriamo da una verifica il nostro principale problema è segnare sul registro quanti chilometri abbiamo fatto e quanta benzina abbiamo consumato. Arriveremo al paradosso di fare le verifiche in ufficio a contribuenti trovati su Google. Lontani dalla realtà - I nostri vertici sono lontani dalla realtà, sono convinti che noi facciamo “lotta all'evasione”. C’è una distanza siderale tra chi sta in trincea, come me, e chi vive nei salotti. Un maresciallo può parlare solo con il tenente e non con i gradi superiori. Il nostro messaggio viene filtrato e arriva al vertice completamente distorto. Nel nostro sistema militare non conta quello che pensi del tuo lavoro, ma il grado che hai sulle spalle. L’ufficiale non va a riferire al superiore se l’ispettore gli ha detto che un controllo potrebbe non portare a niente. Al contrario insinua nei vertici la speranza che un risultato arriverà. E così chi va in giro per aziende deve ingegnarsi per trovare il cavillo che porti al risultato, solo per sentirsi dire bravo o per una pacca sulla spalla. L’animo umano si accontenta di poco. In questa catena di comando in cui tutti devono fare carriera non sono ammessi dubbi od obiezioni, l’informazione reale resta a valle, al generale arriva quella virtuale, il famoso “numero”. In nome del quale vengono immolati molti evasori virtuali.
Ecco come lo Stato vi estorce denaro: le prime lettere su “Libero Quotidiano”.
Tangenti di Stato, la mia azienda colpita con metodi da aguzzini. Caro direttore Belpietro, dopo aver letto suo articolo di domenica scorsa mi munisco di coraggio e le racconto quanto è successo a me e alla mia azienda durante una verifica fiscale fatta nel corso dell’anno 2010. Le premetto che la mia azienda esiste da quasi un secolo e in tanti decenni non ha mai presentato un bilancio in perdita. Poi, negli ultimi anni, crescendo per nostra fortuna, i numeri sono diventati più importanti e i nostri bilanci hanno sempre riportato utili a sei zeri con conseguente pagamento all’erario di milioni di euro in tasse. La mia azienda è classificata con «tripla A» dalle banche e dalle agenzie di rating, un bell’orgoglio per la mia famiglia, per i miei dipendenti e per il territorio (almeno così dovrebbe essere). E mi lasci aggiungere che non abbiamo mai attinto alla cassa integrazione e ci siamo sempre autofinanziati da soli nei nostri investimenti e nei nostri piani di crescita. Abbiamo creato oggi un azienda che continua ad assumere, che esporta in tutto il mondo e che è un fiore all’occhiello per il nostro territorio, e per il nostro paese. Capita un controllo delle fiamme gialle, d’improvviso, una mattina nell’aprile del 2010. Premetto: erano passati circa sei anni da un altro controllo avuto in precedenza, senza particolari problemi nè contestazioni. Questa volta il piglio dei finanzieri è più aggressivo e arrogante, ci bloccano immediatamente metà degli uffici e pretendono una stanza tutta per loro, con tanto di due impiegate a disposizione otto ore al giorno. Appongono sigilli ai nostri armadi, che contengono tutto quello che serve al nostro lavoro quotidiano e all’amministrazione. Per l’accesso dobbiamo chiedere il permesso e le chiavi a loro. Fin qua, tutto «normale», anche se sembrerebbe l’assalto di una banda di malviventi anziché l’intervento di un organo di controllo. Man mano che i giorni passano i due marescialli si fanno sempre più arroganti, quasi prepotenti. Minacciano gli impiegati di «collaborare», altrimenti sarebbero stati verificati personalmente anche loro. La verifica sulla nostra impresa durò cinque mesi. Spaziò su una serie di operazioni contrattuali che la mia azienda, così come tutte le altre aziende concorrenti nel nostro settore, usa compiere da sempre. Noi ritenevamo, in buona fede, di procedere nel rispetto delle norme vigenti e della legge. Purtroppo, a detta loro, stavamo agendo non correttamente in quanto - secondo una chiave di interpretazione dei finanzieri - non avremmo rispettato un cavillo di una certa legge sulla quale non mi voglio dilungare, in quanto materia complicatissima dove anche più studi legale e fiscali contattati hanno dato pareri discordanti. Individuata questa nostra «falla», i signori della guardia di finanza ci si sono buttati a capofitto e hanno spremuto più che hanno potuto, riprendendoci tutti i contratti per cinque anni, per un ammontare contestato di oltre un milione e mezzo di euro, oltre a una denuncia penale in capo agli amministratori. Faccio notare che la materia non era assolutamente inerente ad evasione fiscale o simile, ma semplicemente una difficilissima interpretazione legislativa nella quale, purtroppo, siamo incappati. Abbiamo dovuto aderire all’ammontare ripreso in quanto, attraverso una sorta di «minaccia», ci era stato detto che se ci fossimo opposti la verifica fiscale sarebbe continuata in altri ambiti e sicuramente ci avrebbero contestato altre cose. Terrorizzati, abbiamo assecondato quelli che non esito a definire aguzzini, accettando la multa (per la denuncia penale invece ci stiamo ancora difendendo) e mettendo in seria difficoltà la nostra capacità di cassa. Solo perché abbiamo gestito la nostra azienda in modo oculato e sano negli anni addietro, siamo riusciti a pagare una multa del genere. Il paradosso è stato poi che la nostra impresa è stata inibita nel procedere con queste forme contrattuali nei confronti della clientela, in quanto a detta delle fiamme gialle non avevamo i requisiti per farlo, mentre invece tutte le altre aziende nostre concorrenti hanno continuato tranquillamente ad operare nel medesimo modo, quindi oltre il danno subiamo anche la beffa. Tra poco saranno trascorsi cinque anni da quei giorni, e già pensiamo alla prossima verifica fiscale: quando arriverà e come sarà condotta. Roba da non dormirci la notte. Confrontandomi con altri imprenditori del mio stesso territorio, anche loro «verificati» dalla Gdf, è emerso che oggi - apparentemente - per fare cassa la tendenza da parte dello Stato è quella di concentrare la sua attenzione su aziende sane, liquide ed immediatamente solvibili. Così facendo, il risultato - per loro - è assicurato. Questo è quello che succede. Non me la sento di firmare questa la lettera, nè di dare nominativi. Me ne scuso con Lei, direttore, ma capirà il mio stato d’animo e la mia paura. La prego anche di non riportare in nessun caso la casella di posta elettronica che ho adoperato. Cordialmente, un imprenditore.
"Apriamo le pagine di Libero a chi vorrà segnalarci la sua storia, raccontando i soprusi di cui si sente vittima", ha scritto il direttore Maurizio Belpietro. "Forse, denunciare l’aggressione di uno Stato che manda i suoi uomini a fare i gabellieri così come facevano nel passato i castellani del Medioevo contribuirà a farci sentire un po’ meno sudditi". Di seguito alcune delle lettere già arrivate.
Quelle norme introdotte ad hoc. Egregio Direttore, sono un abbonato, da anni, a Libero e faccio il commercialista (specializzato in diritto tributario) da oltre trent’anni a Lecco. Ciò che dice l’anonimo finanziere è vero e questo identico discorso lo può estendere, pari pari, all’operato dell’Agenzia delle Entrate. Bisogna, inoltre, aggiungere che il potere accertativo di cui dispongono e che può comportare la distruzione economica di aziende e di persone è abnorme ed illimitato ed è stato ulteriormente aggravato da norme introdotte ad hoc da loro e per loro (anche dall’ex ministro Tremonti!), tipo: l’inversione dell’onere della prova, la riduzione delle soglie di punibilità penale o il “sequestro per equivalente finalizzato alla confisca” sui beni personali dell’imprenditore, che scatta quando il sospetto (dico il sospetto) di evasione supera i 50.000 euro, cioè ancora prima che siano emessi gli avvisi di accertamento. Con queste procedure espropriative, le banche, per prima cosa, chiudono i conti correnti agli imprenditori, condannandoli a morte economica certa. Felice Tavola, Lecco.
Il ricatto fiscale. Caro direttore, il suo articolo di fondo su Libero rispecchia le opinioni di tutti gli operatori del settore fiscale (commercialisti, avvocati, associazioni di categoria,ecc.) e sarebbe utile che la voce di questi tecnici fiscali potesse emergere per far capire che non esiste solo il problema dell’evasione, ma anche quello del ricatto fiscale all’ombra della presunta lotta contro chi non paga le imposte dovute. Con la pletora di norme spesso complicate e poco chiare può accadere che il contribuente commetta errori formali che non cambiano l’entità delle imposte dovute, quindi senza danno per l’erario. Se un errore formale viene fatto apparire come indice di intenzione di evadere ne può seguire un fantasioso accertamento, contro il quale ci si può opporre in tre gradi di giudizio. Ma, mentre gli uffici non sostengono spese per gli accertamenti, i contribuenti vessati debbono servirsi di un esperto che, nel terzo grado di giudizio (Cassazione) potrebbe costare non meno qualche migliaio di euro. Infine, cito una frase di un imprenditore colpito in sede di verifica solo per errori formali: «Se avessi immaginato che mi avreste spremuto così per errori formali, mi sarei premurato di evadere, accantonando in un apposito fondo le risorse per pagare quanto ingiustamente richiesto da voi». Mario Binazzi Zattoni.
Siamo onesti ma paghiamo. Sono amministratore delegato nell’azienda di famiglia, fondata oltre 100 anni fa. Posso testimoniare che ogni parola del maresciallo della Finanza raccolta da Libero è assolutamente veritiera in ogni particolare che ho potuto vivere personalmente. I militari che fanno gli accertamenti sono spesso contriti per doversi comportare forzatamente in quella maniera così lucidamente descritta. Noi ci siamo comportati come descritto nell’articolo. I primi verbali li abbiamo contestati e regolarmente vinti dopo lunghissime trafile costate quasi come i verbali stessi. Ma a distanza di anni (anche oltre i dieci) c’è stato sempre un appiglio legale per non restituirci i soldi che lo Stato, per permetterci di difendere la nostra buona fede, iscriveva a ruolo e quindi pretendeva pagassimo immediatamente. Poi abbiamo capito anche noi come dovevamo fare e, pur essendo innocenti e come le altre volte sicuri di esserci comportati onestamente, abbiamo infine aderito al pagamento di un terzo del verbale (centinaia di migliaia di euro) Pur nella evidente vessazione, una vera "pacchia" in confronto alle estenuanti opposizioni legali! Vengono ogni due, massimo tre anni i militari, occupano uno o più uffici e rimangono mesi. Poiché hanno per legge un limite di giorni lavorativi per chiudere il verbale, vanno e vengono facendo lunghe pause, incuranti del fatto che i nostri coscienziosi impiegati hanno il doppio impegno di accontentare le esigenze della azienda e dei finanzieri. Paolo Fabbri.
Le stesse storie di 60 anni fa. Caro Direttore, che «viviamo in uno stato di polizia fiscale» non è una novità. Da decenni la Guardia di Finanza (o almeno alcuni dei suoi membri) si comporta in modo a dir poco “scorretto”. Ho 76 anni ma ricordo bene quando ne 1955 vennero a fare una ispezione nella ditta in cui lavoravo. Stettero un mese negli uffici, facendoci rallentare ogni attività, perché i proprietari, in perfetto ordine sotto ogni aspetto fiscale, si rifiutarono di versare “l’obolo”. Nella ditta in cui lavorava mia sorella, non trovando nulla, la multarono per non aver messo la marca da bollo su 3 (dico 3) distinte di acquisto francobolli. Ad un mio amico, che vendeva articoli sportivi, prima ancora di iniziare il controllo chiesero 2 completi sportivi da sci in cambio di non procedere all’ispezione. E così via, in tutti questi anni ne ho sentite di tutti i colori. Non sarebbe ora di fare un bel repulisti anche nella Guardia di Finanza?Anna Lucia Volpi, Milano.
Il fisco conosce per nome e cognome tutti coloro che non pagano le tasse scavando ogni anno un buco di 180 miliardi nel bilancio dello Stato. Con i dati di cui dispone potrebbe stanarli subito, costringendoli a restituire quanto hanno rubato alla collettività. E sarebbe così in grado di abbassare la pressione fiscale sui contribuenti onesti. L’evasione è il cancro della nostra economia. Ma basta passare in rassegna le leggi che dovrebbero combatterla per capire che in Italia la lotta a un fenomeno senza uguali in altri paesi è solo una farsa. Il sistema è congegnato proprio per consentire ai contribuenti infedeli di non rischiare nulla. Perché i ladri di tasse sono anche elettori. E votano compatti come nessun’altra categoria. Perciò, sono protetti da una potentissima lobby politica. Che ha il suo zoccolo duro nel centrodestra. Livadiotti lo dimostra svelando chi ha scritto, proposto e votato quelle leggi che lasciano certezza di impunità agli evasori. Il lavorio di Berlusconi & Co. ha dato i suoi frutti: uno studio condotto in esclusiva per questo libro fa vedere come l’evasione sia sempre salita con i governi di centrodestra e scesa quando a comandare era il centrosinistra. E la lobby che ha fatto gli interessi dei contribuenti infedeli ha ottenuto il suo tornaconto. L’analisi dei flussi elettorali dal 1994 al 2008 dice che il voto degli evasori è sempre stato alla base dei successi di Berlusconi. Fino al 2013, quando i ladri di tasse sono passati armi e bagagli con Beppe Grillo. Scandalo nello scandalo, la casta della politica ha concesso un formidabile privilegio ai suoi rappresentanti in parlamento. Se un comune mortale guadagnasse quanto loro, la sua aliquota media arriverebbe al 39,4. Quella di Lor Signori è appena del 18,7 per cento. Stefano Livadiotti è una delle firme più note de “L’Espresso”: da venticinque anni si occupa di economia e di politica con inchieste, interviste e reportage. Per Bompiani ha pubblicato L’altra casta. L’inchiesta sul sindacato (2008; tascabili Bompiani 2009), Magistrati. L’ultracasta (2009; tascabili Bompiani 2011), I senza Dio. L’inchiesta sul Vaticano (2011; tascabili Bompiani 2013).
Ladri - Gli evasori e i politici che li proteggono, di Stefano Livadiotti, scrive Michele Cassano su “L’Ansa”. Italiani tutti allenatori della nazionale, super esperti di moduli di gioco e storia del pallone, ma dall'ultimo libro di Stefano Livadiotti emerge qualcosa che sanno fare ancora meglio. Lo sport nazionale non è il calcio, ma fregare il fisco. Qualche cifra? Il 27% dei contribuenti non sgancia un euro e quelli che dichiarano più di un milione occuperebbero tutti insieme un terzo delle poltrone della Scala. Risultato? In dieci hanno l'agenzia delle entrate ha accumulato crediti per 807 miliardi di euro e ne ha riscossi appena 69. In tempi in cui gli agenti della riscossione vengono spesso visti come vampiri succhia sangue e il capo di Equitalia, Attilio Befera, viene soprannominato 'Artiglio', il giornalista dell'Espresso va controcorrente. E spara a zero contro il Pdl di Silvio Berlusconi che - sostiene - è stato il partito dei ladri di tasse. Per dimostrarlo l'autore fa ricorso a uno studio condotto in esclusiva per il libro: da un grafico, che dall''82 in poi analizza pressione fiscale effettiva e apparente governo per governo, emerge che con Berlusconi premier cresce l'evasione e anche il peso per chi effettivamente le tasse le paga. Già all'esordio nel '94 il Cavaliere, proprio in virtù di un patto con gli evasori, riesce a conquistare due terzi dei lavoratori autonomi che gli restano fedeli anche quando nel 2001 torna al governo al grido "Meno tasse per tutti". E ora? La tesi di Livadiotti, che, espressa nel corso di Ballarò gli ha già causato critiche dal Movimento 5 Stelle e la menzione sul blog di Grillo come 'Giornalista del giorno', è che Berlusconi sia stato costretto dalla crisi a tradire le promesse elettorali, costringendo la sua base a passa in massa con il Movimento populista dell'ex comico. Il giornalista, già autore di tre libri inchiesta sulla casta dei sindacalisti e dei magistrati e poi sul Vaticano, mette in fila cifre e grafici. E nel finale spiega: "se gli opposti schieramenti se le sono date di santa ragione per favorire le rispettive basi elettorali, su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente, garantire un trattamento fiscale di privilegio ai parlamentari": la loro aliquota media Irpef è del 18,7%, contro una media allo 39,4%, e la liquidazione è esentasse. A dispetto degli sforzi apparenti, l'esame delle leggi approvate negli ultimi due decenni dimostra che la lotta all'evasione è solo una farsa e il sistema consente agevolmente a chi non vuole pagare di farla franca. Gli automi - spiega l'autore - dichiarano redditi da fame, eppure in Italia ci sono 2,7 milioni di auto di lusso e 600 mila barche. Se non bastasse, l'Italia è il quinto mercato al mondo per vendita di Bmw e il sesto per vendite di champagne. Insomma, la nostra ricchezza è vicina a quella degli svizzeri. Altro che "resistere, resistere, resistere", il motto del Belpaese sembra essere "evadere, evadere, evadere" e c'è poco da sperare. "Non è certo da questi politici - avverte Livadiotti - che si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse, per l'ottimo motivo che Lorsignori lo sono per primi".
Ladri d’Italia, gli evasori e la lobby che li protegge. Nel centrodestra sta lo zoccolo duro schierato in difesa del contribuente infedele Il blocco sociale (commercianti, artigiani, professionisti) vale 10-12 milioni di voti, scrive Stefano Livadiotti su “Il Messaggero Veneto”. Già autore d’inchieste sul sindacato, sui magistrati, sul Vaticano, Stefano Livadiotti, firma de l’Espresso, esperto di politica e di economia, pubblica ora, per Bompiani, Ladri. Gli evasori e i politici che li proteggono. Lo stesso Livadiotti ne sintetizza qui, per i lettori, il contenuto. Per un intero anno abbiamo assistito a un penoso balletto sull'Imu: come e dove trovare meno di 4 miliardi per cancellarla. L'evasione fiscale, che è il vero cancro dell'economia italiana, vale quasi 50 volte di più: 180 miliardi, un quinto di quella che si registra nell'intera Europa. Del resto, se non ci fosse una gigantesca evasione non si spiegherebbe come nel 2009 gli italiani abbiano potuto spendere 918 miliardi dopo averne dichiarati 783, lordi per giunta. Un vero miracolo. Con gli strumenti di cui dispone, 300 banche dati collegate tra loro, il fisco potrebbe stanare subito gli evasori, punendoli in maniera esemplare e costringendoli a restituire sull'unghia quanto hanno rubato alla collettività. In questo modo sarebbe in grado di abbassare la pressione fiscale sui contribuenti onesti o che non possono comunque evadere perché il prelievo lo subiscono direttamente in busta paga, come nel caso dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che oggi danno l'82 per cento del gettito fiscale. Che le cose stiano così, che cioè il fisco sappia esattamente dove si annida l'evasione, lo ha indirettamente ammesso lo stesso Attilio Befera, il grande capo dell'Agenzia delle Entrate e di Equitalia, il suo braccio armato per la riscossione, quando ha denunciato l'esistenza di quattro milioni di nuclei familiari, un quinto del totale, che consumano più di quanto dichiarino di guadagnare. Perché non vengono convocati negli uffici dell'amministrazione per fornire chiarimenti? Il saggio Ladri. Gli evasori e i politici che li proteggono, appena giunto in libreria (Bompiani, 237 pagine, 16,50 euro), spiega perché. Basta passare in rassegna le leggi che dovrebbero combattere l'evasione per capire che in Italia la lotta a un fenomeno senza pari in altri paesi è solo una farsa. Il sistema è congegnato proprio per consentire ai contribuenti infedeli di non rischiare nulla. Perché i ladri di tasse (il libro contiene una classifica degli evasori, professione per professione, con tanto di importi) sono anche elettori. Valgono qualcosa come dieci-dodici milioni di voti. E nelle loro scelte politiche si mostrano compatti come nessun'altra categoria. Con il venir meno delle ideologie e l'affievolirsi del fattore religioso il voto della gran parte degli italiani, soprattutto delle due ali estreme della società (la classe operaia e la borghesia) è diventato sempre più erratico. E il fenomeno si è accentuato dopo Tangentopoli. Al contrario, commercianti, artigiani, professionisti e piccoli imprenditori hanno preso a muoversi sempre più in blocco. Per questo quella che i politologi chiamano “piccola borghesia urbana” è corteggiatissima e difesa da una straordinaria lobby parlamentare. Che ha il suo zoccolo duro nel centrodestra. Il libro lo dimostra svelando, con nomi e cognomi, chi ha scritto, proposto e votato quelle leggi che lasciano certezza di impunità agli evasori. Gli stessi, guarda caso, che hanno cancellato i provvedimenti che rendevano la vita più difficile a chi è allergico al fisco. Uno studio realizzato in esclusiva per il libro certifica come l'evasione sia sempre salita con i governi di centrodestra e scesa quando a comandare era il centrosinistra. La lobby che ha fatto gli interessi dei contribuenti infedeli ha puntualmente incassato il suo tornaconto politico. L'analisi dei flussi elettorali dal 1994 in poi dice che il voto dei lavoratori autonomi, il cui tasso di evasione è pari al 56 per cento, è sempre stato alla base dei successi di Berlusconi. Tutto questo fino al 2013. Quando i ladri di tasse si sono vendicati del Cavaliere per l'appoggio fornito al governo Monti e alla sua politica di austerità, basata per due terzi sull'inasprimento fiscale, e sono passati armi e bagagli con il comico populista Beppe Grillo, che in campagna elettorale aveva attaccato come un forsennato il nostro sistema fiscale. Tutto ciò spiega come sia possibile che il fisco italiano abbia un credito verso i contribuenti di 807 miliardi (in tredici anni ne ha recuperati solo 69). Che il 27 per cento dei contribuenti non paghi nulla. Che 518 soggetti risultino possessori di jet privati pur dichiarando meno di 20.000 euro di reddito l'anno. Che il catasto abbia improvvisamente scovato 350.000 case fantasma, inesistenti nei suoi archivi. Che secondo un confronto tra il numero dei decessi e i bilanci delle aziende di pompe funebri due italiani su tre di quelli che passano a miglior vita coltivino la bizzarra abitudine di seppellirsi da soli. Che in base ai calcoli dell'ex governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, in 34 anni si siano stati varati 32 condoni. Il libro rivela inoltre che, scandalo nello scandalo, la casta della politica ha concesso un formidabile privilegio fiscale ai suoi rappresentanti in parlamento. L'indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sul trattamento economico e pensionistico degli onorevoli, ma quello fiscale è ancora più vergognoso. Se un comune mortale arrivasse a guadagnare quanto un deputato (235.615 euro) sopporterebbe un'aliquota media del 39,4 per cento. Quella di Lorsignori è del 18,7.
I “Ladri” di tasse che nessuno vuole stanare. Il libro-inchiesta di Stefano Livadiotti: "La macchina del fisco, all'avanguardia nel mondo, sarebbe perfettamente in grado di intercettare in tempi brevi una parte importante dei 180 miliardi di euro" evasi ogni anno. Ma le leggi non vengono adeguate, scrive Silvana Mazzocchi su “La Repubblica”. L'Italia perde ogni anno 180 miliardi a causa dell'evasione fiscale. Eppure non sarebbe difficile applicare il principio della comparazione tra spese e consumi che aveva dato vita allo strumento del redditometro, di fatto già naufragato. I ladri di tasse si comportano spesso con l'arroganza di chi ritiene di poter contare sull'impunità. Basti una considerazione per tutte: nel solo 2011, oltre il 25% dei proprietari di jet privati ha denunciato un reddito inferiore a 20 mila euro. Ma, se i grandi evasori sono quelli che più danno scandalo, è l'esercito di chi impunemente usa i servizi dello Stato (magari lamentando la loro inefficienza), e non si sogna nemmeno di pagare le tasse a costituire il grosso del buco da 180 miliardi. Il fisco colpisce lavoratori dipendenti e pensionati che, tassati alla fonte, costituiscono oltre l'82% dell'attuale gettito fiscale, ma sembra esercitare ben pochi controlli sugli autonomi che, fatti salvi gli onesti, dichiarano generalmente redditi da fame. Eppure la fotografia dei consumi nazionali denuncia che in Italia si contano 2,7 milioni di auto di lusso e 600mila barche e che siamo il quinto mercato nel mondo delle Bmw e il sesto quanto a vendita dello champagne. Dati che spiegano come si arriva alle cifre astronomiche dell'evasione. Una realtà che impedisce di ridurre la pressione fiscale e che, accompagnata da cifre, considerazioni ed analisi puntuali, è contenuta nel saggio-denuncia di Stefano Livadiotti, Ladri, gli evasori e i politici che li proteggono, in libreria per Bompiani. Un'inchiesta dettagliata che scandaglia le cause e gli effetti , mostra come vengono persi i miliardi sottratti al bilancio dello Stato e indica con chiarezza il meccanismo di protezione che i politici garantiscono agli evasori in cambio del consenso elettorale. I ladri di tasse, cancro della nostra economia, potrebbero essere stanati. Il fisco è in grado di conoscere i nomi e i cognomi degli evasori, ma le leggi dello Stato non vengono adeguate. Grazie alla protezione, spiega Livadiotti, di una potente lobby politica ben decisa a non perdere la gran massa di voti costituita dai soliti furbetti.
Tutti sanno che, stanando gli evasori, potrebbe finalmente diminuire la pressione fiscale. Perché nessuno ci riesce?
«La macchina del fisco, per una volta all'avanguardia nel mondo con le sue 300 banche dati, sarebbe perfettamente in grado di intercettare in tempi brevi una parte importante dei 180 miliardi di euro che i ladri di tasse fanno mancare ogni anno alle casse dello Stato. Del resto, lo stesso numero uno dell'Agenzia delle entrate, Attilio Befera, ha ammesso l'esistenza di quattro milioni di nuclei familiari, dunque uno ogni cinque, che ha un tenore di vita incompatibile con quanto dichiara di guadagnare: se le sue non sono solo parole in libertà, vuol dire che li ha già contati e dunque individuati. Il problema non è tecnico. Ma squisitamente politico. Gli studiosi di flussi elettorali dicono che gli evasori fiscali, con le loro famiglie, valgono qualcosa come dieci o dodici milioni di voti e che per giunta sono molto compatti nell'indirizzare le loro preferenze. Nessuno vuole farseli nemici. È emblematica, in proposito, la storia recente del nuovo redditometro, uno strumento che partiva con grandi potenzialità e che è stato via via smontato, fino a renderlo di fatto inoffensivo.»
Chi protegge i ladri di tasse?
«Gli evasori sono protetti da una potentissima lobby politica che ha avuto a lungo il suo zoccolo duro nel centrodestra di Silvio Berlusconi: "Ladri" lo dimostra inequivocabilmente nel capitolo in cui svela chi ha scritto, proposto e votato quelle leggi che lasciano certezza di impunità a chi non fa il proprio dovere con il fisco. Le stesse persone, guarda caso, che hanno fatto tabula rasa dei provvedimenti capaci di rendere più dura la vita ai furbetti della dichiarazione dei redditi. Un esempio per tutti: nel 2006 il governo Prodi aveva introdotto l'obbligo per i lavoratori autonomi di avere un conto dedicato (dove far confluire tutti i pagamenti e dal quale prelevare i soldi necessari a coprire le spese) e il divieto di incassare contanti oltre i mille euro. Quell'anno l'imposta sul reddito dichiarato dagli autonomi era cresciuta del 12,15 per cento. Nel 2008 Berlusconi, come aveva promesso in campagna elettorale, ha abolito la normativa. E il gettito degli autonomi è sceso del 2,97 per cento. Non si tratta di un caso isolato: un grafico contenuto nel libro dimostra come dal 1994 al 2012 l'evasione sia salita con tutti i governi di centrodestra e scesa con tutti quelli di centrosinistra.»
Quale rapporto c'è tra consenso elettorale e lotta all'evasione?
«L'analisi dei flussi elettorali dimostra che c'è un rapporto diretto. Il lavorio del centrodestra a protezione dei lavoratori autonomi, di fatto gli unici in grado di evadere (dato che dipendenti e pensionati sono tassati alla fonte e forniscono l'82 per cento del gettito complessivo), ha ottenuto i suoi frutti. Il voto di quella che i politologi chiamano "piccola borghesia urbana" e cioè di commercianti, artigiani, liberi professionisti e piccoli imprenditori, è sempre stato alla base dei successi elettorali di Berlusconi e gli ha consentito di limitare i danni nelle sconfitte. Questo fino a quando l'ex Cavaliere non ha dovuto cedere il passo a Monti e appoggiarne obtorto collo una politica di austerità basata per due terzi sull'inasprimento fiscale. A quel punto la piccola borghesia urbana si è sentita tradita da quello che era stato il suo protettore e nelle elezioni del 2013 si è vendicata, passando armi e bagagli con Beppe Grillo, protagonista di una campagna elettorale a base di attacchi forsennati contro il fisco rapace.»
Gad Lerner: pagare le tasse a chi, a una banda di ladri? La stangata di ferragosto promulgata con il “cuore che gronda sangue” dal commediante che ci governa, non era inevitabile. Provvedere a una gestione risoluta dei conti pubblici nel precedente triennio della crisi mondiale, anziché inscenare la recita compiaciuta di una nostra falsa buona salute, ci avrebbe risparmiato questo tardivo e disperato ricovero in pronto soccorso. Ora pagheremo, e salato. Per di più con l’odiosa sensazione di pagare a dei ladri, visto che nel frattempo continuano a uscire le notizie dei bonifici da milioni di euro in ballo fra compari d’affari e politica: da Berlusconi a Dell’Utri; da Angelucci a Verdini; e compagnia bella. State tranquilli che le loro ville sontuose collocate in riva ai laghi, su colli toscani, su coste smeralde o nei paradisi fiscali, mica verranno conteggiate dalla proporzionalità della tassazione. Noi ricchi verremo conteggiati in base al reddito dichiarato (figuriamoci!) e non certo al patrimonio che resta occultato, né ai consumi privilegiati. Scommetto che la maggioranza degli attuali governanti ha già provveduto da tempo a costituirsi una riserva di denaro all’estero, mentre i loro sottoposti fanno invano la fila nel Canton Ticino, dove la banche svizzere registrano il tutto esaurito delle cassette di sicurezza. Il ritardo e l’iniquità della manovra che questa classe dirigente non aveva l’autorevolezza di promuovere – difatti rifiutava di agire, finché gliel’hanno dovuta imporre entità sopranazionali – si manifesta nella più classica delle modalità terminali: si salvi chi può. Ora che non basta più colpire i soliti noti (giovani, lavoratori del settore privato, dipendenti pubblici, pensionati), i veri ricchi e i veri potenti di questa classe dirigente scaricano gli ulteriori sacrifici necessari sulle figure intermedie del loro sistema in rovina. Non a caso ci casca un Di Pietro, che prende sul serio le “luci” della manovra perché come Berlusconi impernia la sua politica sulla demagogia degli annunci vistosi, come la presunta abolizione di 50 mila poltrone negli enti locali. Che sovrasta provvedimenti sostanziali come la deroga ai contratti nazionali di lavoro e l’inevitabile boom di nuove tasse municipali e regionali, portatori di acute sofferenze sociali. Non potevamo certo aspettarci che il diktat proveniente dalle istituzioni europee contemplasse vincoli di giustizia sociale e redistribuzione equa della ricchezza. I tecnici applicano regole economiche di mera compatibilità, come tali ineludibili, ma spetterebbe ai politici indirizzarle a tutela dei ceti sociali svantaggiati. Sarebbe stato ingenuo pensare che tale esigenza venisse avvertita da una nomenclatura cleptomane resasi artefice nel corso degli anni di un imponente dirottamento della ricchezza nazionale a vantaggio di rendite e profitti. Quest’ultima non è una particolarità italiana. Ma è solo in Italia, fra i paesi industrializzati dell’occidente, che l’acuirsi delle disuguaglianze ha subito un’accelerazione così sfacciata. L’autunno si preannuncia gravido di effetti nefasti sull’economia reale, cioè sulle condizioni di vita della maggioranza delle famiglie. Senza alcuna ragionevole certezza che la stangata di ferragosto basti a metterci al riparo dalle tempeste della speculazione finanziaria. (Gad Lerner, “Credete davvero che saranno i ricchi a pagare?”, da “Vanity Fair” del 17 agosto 2011).
LO STATO PATRIGNO CHE UCCIDE I SUOI FIGLI.
Lo Stato patrigno che uccide i suoi figli (specie se lavoratori autonomi). Un imprenditore costretto a pagare 1 milione di euro non dovuto e che non ha. Costretto dalla mafia? No dallo Stato!
Quando si sentono le miriadi storie di ordinaria ingiustizia e si parla di lavoratori autonomi estenuati dal sistema fino a togliersi la vita, a volte vien da pensare che le forze dell’ordine e la magistratura stiano lì a fottere le persone per mantenere uno Stato (e quindi loro stessi) senza alcun rimorso o rispetto per il male ingiusto che spesso arrecano con i loro errori. Racconto questa storia esemplare che nessun giornalista mai racconterà. Una storia che è l’antitesi delle note distribuite dalle forze dell’ordine e dalla magistratura ai giornali che prontamente tal quali li pubblicano. Note in cui le cosiddette istituzioni si vantano delle loro gesta per essere santificati. Ad Avetrana, (ma può essere qualsiasi altro paese italiano) è successo che, prima del caso di Sarah Scazzi, si son visti volteggiare sul paese un sacco di elicotteri. Sulla spinta degli ambientalisti di maniera, spesso dipendenti statali, ecco montare il tema dell’inquinamento ambientale e delle discariche abusive. Ogni appezzamento di terreno, a torto o ragione, era ed è sotto la lente del controllo inusuale. Ognuno di noi che sia maleducato e che butti un sacchetto di rifiuti in un terreno altrui, deve sapere che mette nei guai il malcapitato proprietario per smaltimento illecito di rifiuti. Bruci una carta o piccole sterpaglie o accendi un falò in spiaggia: sempre smaltimento illecito di rifiuti. Avetrana non è la terra dei fuochi, ma la terra di cave tufacee e del relativo materiale di risulta. L’estrazione dei blocchi di tufo comporta che, tolto l’elemento utile squadrato, il materiale originario di scarto rimanga in cava. Certo è che tale materiale non può essere per logica trattato come smaltimento di rifiuto speciale, se è materiale vergine ed indigeno del posto. Ebbene. Il paradosso è che questo stormo di elicotteri volteggiava su una piccola cava dismessa da decenni alla periferia del paese. Cava già utilizzata abusivamente dallo stesso Comune di Avetrana per la discarica di acque reflue piovane. Il proprietario di un lotto confinante, comprendente una misera abitazione ed il suo piccolo opificio di manufatti in cemento decide di comprare una parte della cava dismessa, pari a 5 mila metri quadri, per usarla come luogo di sosta dei mezzi, senza arrecare alcuna modifica. Dopo qualche mese ecco la Guardia di Finanza, con varie pattuglie ed elicotteri, intervenire in forze spropositate sul luogo, intimorendo i proprietari e sequestrando l’area. Risultato: un processo penale e sanzioni amministrative pari ad un milione di euro, che il piccolo artigiano non ha e non avrà nemmeno dopo una vita di estenuante lavoro. In più il ripristino dei luoghi. Punizioni per un fatto che lui non ha commesso e per la dimensione inesistente. La relazione stilata dalla Guardia di Finanza e prodotta agli atti era: smaltimento illecito di rifiuti speciali per decine di migliaia di metri cubi da parte dell’artigiano, per i quali, oltretutto, non era stata pagata l’eco tassa, ed abuso edilizio. Tempi dell'illecito non veritieri e calcoli falsi ed inverosimili sull'entità del presunto materiale smaltito. Ma tant’è servono soldi allo Stato e tutto va bene. L’artigiano che ha pagato regolarmente sempre le sue tasse, quindi meritevole di tutela e rispetto, è stato costretto a rivolgersi ad esosi avvocati per difendersi dalle infamanti accuse penali e dalle inconsistenti accuse amministrative. L’avvocato tarantino nella causa penale, non si sa perché, è tentato dal Patteggiamento, ma poi ci ripensa. Con le relazioni prodotte dalla guardia di Finanza comunque c’è lo spettro della condanna. L’avvocato leccese, non si sa perché, perde la causa amministrativa. Nessuno degli avvocati in atti hanno menzionato il fatto che il materiale contestato è materiale vergine ed indigeno e che, se di smaltimento si tratta, il nuovo proprietario non è responsabile di quanto è avvenuto decenni prima da parte di chi gestiva la cava. Colpe comunque ampiamente prescritte. L’amministrativista, inoltre non avverte il cliente dell'opportunità dell'appello. Questo principe del foro è quello che si è attivato affinchè il presidente del Tar di Lecce emettesse un decreto cautelare dopo sole 24 ore dal deposito, di sabato, da chi non era legittimato ed in favore di un azienda in odor di mafia, per una vicenda che si collega ad un appalto per la raccolta dei rifiuti urbani a Casarano. Il presidente del Tar non è nuovo ad essere soggetto di accuse. Dai giornali si apprende che: "Ilva, il presidente del Tar di Lecce cognato dell'avvocato dell'azienda". I ricorsi del colosso sempre accolti. Esposto di Legambiente al Csm. Ciononostante sul povero artigiano, protagonista di questa storia, cala Equitalia per riscuotere il milione di euro, che il tapino non ha. In quella famiglia è calato il lutto, consapevoli che dall'inizio della storia uno stormo di avvoltoi è calato su di loro e gli toglieranno il frutto di tutto il lavoro di una vita, che ad oggi non ha più senso di essere vissuta. E meno male che non ci sono avvisaglie di gesti inconsulti autolesionistici.
Chi ringraziare di tutto ciò. Grazie Stato patrigno. Grazie stampa che non raccontate mai la realtà dei fatti, ossia le versioni difensive che sputtanano le note di forze dell’Ordine e della Magistratura, o comunque le storie di ordinaria follia burocratica che si insinua nella vita della gente che lavora per poter da essi estrarre il sangue per mantenere questo Stato Patrigno. Quando parlate dei suicidi degli imprenditori, cari giornalisti, parlate delle storie che li hanno indotti. Se non fosse per me questa storia non sarebbe mai stata raccontata e la sofferenza dell’artigiano mai esistita. Come volevasi dimostrare, in Italia, pur con la ragione, non si riesce a cavare un ragno dal buco, anzi sì è cornuti e mazziati e ti dicono, in aggiunta, subisci e taci.
DOLCE E GABBANA E L’INVASIONE DELLA GUARDIA DI FINANZA.
Non solo una richiesta di assoluzione, basata sull’interpretazione di una sentenza della Cassazione e delle normative fiscali, ma addirittura una sorta di difesa a spada tratta di una «impresa moderna» che ha agito come deve fare un «grande gruppo» che punta ad espandersi. Con una requisitoria, a tratti fuori dagli schemi, il sostituto procuratore generale di Milano Gaetano Santamaria Amato ha chiesto alla Corte d’Appello di ribaltare la sentenza di primo grado che ha condannato gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana a un anno e 8 mesi di reclusione (pena sospesa) per una presunta evasione fiscale, scrive “La Stampa”. «Sapete cosa significa per un’azienda avere la Guardia di Finanza in sede? Per Dolce e Gabbana l’invasione della Gdf è stata anche un colpo alla credibilità del marchio», ha affermato in aula il sostituto pg, sostenendo anche che Dolce e Gabbana sono «impegnati tra stoffe, modelli, modelle, ricevimenti, sono dei creativi e non me li immagino a gestire schemi di abbattimento fiscale». Con l’operazione “Gado”, ha spiegato, gli stilisti «invece di pagare le tasse in Italia hanno pagato solo il 4% sulle royalties in Lussemburgo». Certo, ha aggiunto il magistrato, «come cittadino contribuente italiano posso indispettirmi e magari sono contento che la Finanza accenda un faro e allora posso anche aspettarmi l’intervento su Marchionne e sulla Fiat quando trasferiranno la sede legale in Olanda». Tuttavia, ha chiarito Santamaria Amato, «come operatore del diritto devo dire che sono operazioni legittime e vanno tutelate con il principio sacrosanto della libera circolazione dei capitali nel mercato». Con quell’operazione, secondo il pg, «Dolce e Gabbana hanno pensato in grande come un grande gruppo in espansione nel mondo, pensavano alla quotazione in Borsa per porsi alla pari degli altri grandi gruppi nel settore». Se poi è vero che «Gado ha pagato solo il 4% di imposte sulle royalties è anche vero che i dividendi sono stati tassati in Italia e il prelievo complessivo è arrivato quindi al 32%». I due fondatori della multinazionale della moda e altre quattro persone, infatti, secondo il magistrato che rappresenta l’accusa nel processo d’appello, vanno assolti perché «il fatto non sussiste»: in sostanza, hanno «pagato le tasse» che dovevano versare in Italia e la scelta di creare una società in Lussemburgo, la “Gado srl”, per tutelare i marchi del gruppo era «perfettamente lecita». Lo scorso 19 giugno, gli stilisti sono stati condannati a un anno e 8 mesi assieme al loro commercialista Luciano Patelli e ad altri 3 manager (a un anno e 4 mesi), tra cui Alfonso Dolce, fratello di Domenico. Al centro del processo una presunta evasione fiscale che sarebbe stata realizzata, secondo le indagini dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta, con una “estero-vestizione”: la creazione nel 2004 della Gado per ottenere vantaggi fiscali. La cifra contestata all’inizio delle indagini di un miliardo di euro si era poi ridotta con la sentenza a circa 200 milioni di euro e la condanna di primo grado era arrivata solo per il reato di omessa dichiarazione dei redditi. Mentre per la restante parte i due stilisti, difesi dai legali Dinoia, Taglioretti e Simbari, erano stati assolti dal Tribunale. Tra l’altro, il primo aprile del 2011 tutti gli imputati erano già stati assolti, ma poi la Cassazione aveva annullato i proscioglimenti e un nuovo giudice li aveva mandati a processo. Poi erano arrivate le condanne. Una sentenza che era stata seguita, lo scorso luglio, da una lunga “querelle” tra il Comune di Milano e i due fondatori della multinazionale, dopo le parole dell’assessore al Commercio Franco D’Alfonso, secondo cui l’amministrazione non avrebbe dovuto concedere spazi a evasori come loro. Frasi a cui Dolce e Gabbana avevano reagito con una serrata di tre giorni delle loro boutique in città. E oggi il centrodestra in Comune ha chiesto le dimissioni dell’assessore e che la Giunta si scusi con gli stilisti.
Un anno e otto per Dolce & Gabbana. Redditi in Lussemburgo per 130 milioni. I giudici della seconda sezione penale hanno condannato i due stilisti per omessa dichiarazione dei redditi relativi alla società Gado. Assolti per la dichiarazione infedele di 420 milioni a testa. I pm: "una frode sofisticata" sostenuta da "prove granitiche", scrive “La Repubblica”. Un anno e otto mesi per Domenico Dolce e Stefano Gabbana, imputati di omessa dichiarazione. Assolti per quello di dichiarazione infedele, che comunque era già prescritto. L'accusa, sostenuta dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta, aveva chiesto per entrambi una condanna a due anni e mezzo di reclusione. La sentenza, che ha riconosciuto le attenuanti generiche, è stata pronunciata dal giudice della seconda sezione penale, Antonella Brambilla. I due stilisti dovranno pagare una provvisionale di 500mila euro all'Agenzia delle entrate, la pena è sospesa. La difesa farà ricorso in appello. Nel corso dell'udienza la Pedio aveva accusato i due stilisti di aver costruito una "frode fiscale sofisticata", certificata da "prove granitiche". Secondo l'accusa, i due fondatori della multinazionale della moda avrebbero costituito una società in Lussemburgo, la Gado, proprietaria di due marchi del gruppo e di fatto gestita in Italia, per ottenere vantaggi fiscali. Tra gli anni 2004 e 2005 non avrebbero dichiarato redditi per 130 milioni di euro, mentre ai due stilisti erano state contestate omesse dichiarazioni per 420 milioni di euro a testa, reato prescritto per cui sono stati comunque assolti. "In tutta questa vicenda si è realizzata una frode fiscale sofisticata - ha chiarito il pm Pedio - queste vicende così complesse sono le più insidiose, quelle sulle quali il legislatore sta ponendo l'attenzione e non possono essere liquidate come mere questioni tributarie. Quando queste questioni diventano indizi gravi, precisi e concordanti, nel processo penale vanno considerate come prove granitiche". Secondo il pm, "gli stilisti vi hanno partecipato attivamente, firmando i contratti di cessione dei marchi" e la Gado era "una sorta di nebulosa che ha la consistenza del gas". Gli altri imputati erano gli amministratori della Gado e i consulenti, per tutti condanne sotto i due anni: un anno e 4 mesi per Alfonso Dolce, per cui la procura aveva chiesto una condanna a 2 anni, per Cristiana Ruella (richiesta di 2 anni e 6 mesi) e per Giuseppe Minoni (richiesta di 2 anni). Un anno e 8 mesi invece, per il commercialista Luciano Patelli (richiesta di condanna a 3 anni). Assolta, come chiesto dai pm, Antoine Noella "perché il fatto non sussiste. Il procuratore generale di Milano Gaetano Santamaria Amato il 25 marzo 2014 a sorpresa ha chiesto di assolvere Domenico Dolce e Stefano Gabbana, «perché il fatto non sussiste», dall’accusa di omessa dichiarazione dei redditi per la quale erano stati condannati, in primo grado, a un anno e otto mesi nel giugno 2013. Per il rappresentante della pubblica accusa, «una condanna penale contrasta col buon senso giuridico». Ai due creatori di moda viene contestata una complessa operazione finanziaria del 2004 con la quale Dolce e Gabbana, all’epoca proprietari del 50% dei marchi, li cedettero a una società lussemburghese, la Gado srl. Un’operazione di esterovestizione che, secondo l’accusa, sarebbe servita per evadere il fisco italiano. La richiesta è arrivata nel processo di Appello.
Invece nell'appello è uscita un'altra tesi accusatoria, che diventa difensiva e di denuncia del sistema. Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono «impegnati tra stoffe, modelli, modelle, ricevimenti, sono dei creativi e non me li immagino a gestire schemi di abbattimento fiscale». Lo ha spiegato il sostituto pg di Milano Gaetano Santamaria. Secondo il magistrato gli stilisti non avrebbero creato una società fittizia in Lussemburgo, la Gado srl, per evadere il fisco, ma questa società avrebbe avuto «un’effettiva operatività» nel Granducato. «La Guardia di Finanza e i giudici di primo grado hanno sostenuto che la Gado non avrebbe svolto la sua attività in Lussemburgo perché era domiciliata in angusti locali, non aveva dipendenti e non vi era la prova che i cda si svolgessero all’estero». Questa tesi, tuttavia, viene confutata dalle «prove testimoniali nel dibattimento» di primo grado. «Queste prove non entrano nel processo tributario - dice il pg con tono accorato - ma, santiddio, entrano nel processo penale e non le guardiamo?». «Tutti i testi, quelli ammessi e quelli che avrebbero potuto essere ammessi, dicono che la sede era operativa in Lussemburgo e adeguata alle esigenze». Inoltre, per il pg «c’è bisogno di un salto culturale: davvero vogliamo credere che le sedi delle società devono avere strutture faraoniche?».
La procura generale di Milano: "Assolvete Dolce e Gabbana". Il Pg: "Devo aspettarmi un intervento su Marchionne e sulla Fiat quando verrá trasferita in Olanda?", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Assolvete Dolce e Gabbana: a sorpresa, questa mattina la procura generale di Milano ha chiesto alla corte d'appello di annullare le condanne a un anno e otto mesi di carcere inflitte ai due stilisti, accusati di omessa dichiarazione dei redditi. È una svolta abbastanza clamorosa, visto che nell'impeachment dei due stilisti si era spesa non solo la Procura della Repubblica ma anche la giunta comunale di Milano, che attraverso il suo assessore al commercio Franco D'Alfonso aveva pesantemente attaccato D&G, dichiarandoli indegni di usufruire di spazi pubblici in città. I due stilisti avevano reagito aspramente, e lo scontro non si era mai del tutto risolto. Nel 2008 la procura della Repubblica milanese aveva messo sotto inchiesta D&G sostenendo che la società lussemburghese creata per lo sfruttamento dei marchi della maison era solo un trucco per beneficiare l'aliquota fiscale del 4 per cento prevista nel principato. La società Gado, con sede in Lussemburgo, era secondo la procura solo una scatola vuota mente tutte le attività commerciali si svolgevano a Milano. Ora la richiesta di segno opposto della Procura generale, che - se verrà fatta propria dalla Corte d'appello, la cui sentenza è prevista il 4 aprile - spazzerà via la condanna che nel giugno scorso aveva dichiarato Stefano Dolce e Domenico Gabbana, insieme ad alcuni collaboratori tra cui il fratello di Dolce, Alfonso, innocenti dell'accusa di dichiarazioni infedele dei redditi ma colpevoli del reato di omessa dichiarazione. La condanna primo grado era arrivata dopo un percorso complesso: l'accusa originaria di truffa ai danni dello stato era stata già dichiarata inconsistente in sede di udienza preliminare, ma la cassazione aveva ordinato un nuovo processo ritenendo che non si trattasse di un caso di truffa ma di violazione delle norme tributarie. Ed era arrivata la condanna, relativa agli anni di imposta 2004 e 2005. Ma stamattina 25 marzo 2014 nell'aula del processo d'appello è apparso a rappresentare la pubblica accusa il sostituto procuratore generale Gaetano Santamaria, che ha demolito l'impianto accusatorio nei confronti di Dolce e Gabbana. Il pg ha definito la sentenza della Cassazione "corposa ma un po' generica" . E, dopo avere fatto presente che l'accusa relativa al 2004 è ormai prescritta, e ricordando che la Gado ha comunque versato 40 milioni di euro al fisco, l'imputazione del 2005 va anche essa dichiarata inconsistente. È vero, dice polemicamente Santamaria, che col trasferimento in Lussemburgo gli stilisti sono passati da una tassazione del 45 per cento ad una del 4. "Come cittadino e contribuente italiano posso indispettirmi per questo risultato che mi fa tanto rabbuiare. Posso plaudire alla Guardia di finanza che accende i riflettori, però posso allora aspettarmi un intervento su Marchionne e sulla Fiat quando verrá trasferita in Olanda. Ma come operatore della legge devo spogliarmi da ogni pregiudizio. La comunità europea ha detto che operazioni di questo genere sono in se legittime, che nessuna norma vieta la ristrutturazione del gruppo come è stata fatta, che la cessione dei marchi è lecita, che il trasferimento un paese della comunità rientra nelle libera scelta imprenditoriale e nel diritto alla libera circolazione". Certo, tutto cambierebbe se la sede in Lussemburgo fosse stata fittizia. Ma secondo il pg la sede della Gado era "pienamente adeguata alle esigenze". E la scarsità di personale si spiega col fatto che come tutte le "odierne realtà che vogliono abbattere costi fisso di beni strumentali e non vogliono aver a che fare con dipendenti, sindacati e quant'altro" si era affidata a una società di servizi esterna. Dolce e Gabbana, sostiene il rappresentante dell'accusa, "pensano in grande come si conviene all squadra di un grande gruppo italiano della moda che è presente in tutto il mondo", e la scelta del Lussemburgo era finalizzata allo sbarco in borsa. "Lussemburgo ha la borsa più vivace d'Europa perché il suo regime fiscale è in grado ai attrarre capitali, e cosa vuole una società che si quota in borsa se non attrare capitali?". Oltretutto, ha spiegato Santamaria, non c'è alcuna prova che Dolce e Gabbana si occupassero del settore contabile e amministrativo. Anzi, c'è la prova che i due "si affidano a persone di fiducia per tutti gli assetti non legati alla creatività". Per questo "una condanna penale contrasta con il buon senso giuridico", ha concluso chiedendo l'assoluzione con formula piena di D&G. Assoluzione piena chiesta anche per i quattro imputati minori.
Dolce e Gabbana: Pg, assolveteli dall'accusa d'evasione. In primo grado i due stilisti erano stati condannati a un anno e 8 mesi . Per il sostituto procuratore generale il fatto non sussiste: "Una condanna penale contrasta con buon senso giuridico". E ha aggiunto: "come cittadino contribuente italiano posso indispettirmi e magari sono contento che la Finanza accenda un faro e allora posso anche aspettarmi l'intervento su Marchionne e sulla Fiat quando trasferiranno la sede legale in Olanda", ma "come operatore del diritto devo dire che sono operazioni legittime, scrive “La Repubblica”. Il sostituto procuratore generale di Milano, Gaetano Santamaria, ha chiesto l'assoluzione per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, nel processo di secondo grado per l'accusa di concorso in omessa dichiarazione dei redditi. In primo grado i due stilisti sono stati condannati a un anno e 8 mesi. Una condanna della quale viene chiesta la conferma, invece, da parte dell'Agenzia delle Entrate, che si è costituita parte civile attraverso l'avvocato Gabriella Vanadia. Per Vanadia "il dolo dell'evasione c'è stato" da parte degli imputati e "l'evasione è stata particolarmente rilevante". Questa presa di posizione è arrivata dopo che, davanti alla seconda sezione penale della corte d'appello di Milano, Santamaria aveva fatto la stessa richiesta di assoluzione anche per gli altri quattro imputati, accusati dello stesso reato, tre amministratori e funzionari della Gado, società lussemburghese del gruppo di moda, Alfonso Dolce (in primo grado condannato a un anno e 4 mesi), Cristiana Ruella (1 anno e 4 mesi), Giuseppe Minoni (1 anno e 4 mesi) e il commercialista e consulente Luciano Patelli (1 anno e 8 mesi). "Il buon senso mi porta a chiedere" per tutti gli imputati "l'assoluzione, perchè il fatto non sussiste". Per il Pg "una condanna penale contrasta col buon senso giuridico". La requisitoria del sostituto pg Santamaria è stata una sorta di difesa a 'spada tratta' dell' operato dei due fondatori del marchio D&G, sia dal punto di vista del diritto per chiarire che l'operazione di creare una società in Lussemburgo per tutelare i marchi del gruppo era "perfettamente lecita", sia per riconoscere che il gruppo della moda ha agito come "si conviene ad una impresa moderna". Con l'operazione della creazione della società Gado in Lussemburgo, ha spiegato il pg, Dolce e Gabbana "invece di pagare le tasse in Italia hanno pagato solo il 4% sulle royalties in Lussemburgo". Certo, ha aggiunto il magistrato, "come cittadino contribuente italiano posso indispettirmi e magari sono contento che la Finanza accenda un faro e allora posso anche aspettarmi l'intervento su Marchionne e sulla Fiat quando trasferiranno la sede legale in Olanda". Tuttavia, ha spiegato ancora il pg, "come operatore del diritto devo dire che sono operazioni legittime, che la cessione dei marchi rientra nelle libere scelte imprenditoriali e va tutelata con il principio sacrosanto della libera circolazione dei capitali nel mercato". Con quell'operazione, secondo il pg, "Dolce e Gabbana hanno pensato in grande come un grande gruppo in espansione nel mondo, pensavano alla quotazione in Borsa per porsi alla pari degli altri grandi gruppi nel settore e sono andati in Lussemburgo perchè là c'è un regime fiscale capace di attrarre capitali e attirare investitori internazionali". Se poi è vero che "Gado ha pagato solo il 4% di imposte sulle royalties in Lussemburgo, poi è anche vero che i dividendi sono stati tassati in Italia e il prelievo complessivo è arrivato quindi al 32% e non è vero, dunque, che non hanno pagato le tasse in Italia". Il magistrato, inoltre, ha ricordato che gli stilisti hanno già versato 40 milioni di euro nell'ambito del contenzioso fiscale "e pagheranno quello che pagheranno, ma il processo tributario è diverso da quello penale e in questo processo non ci sono prove di illeciti penali". Una parte delle imputazioni poi, ha concluso, ossia quelle relative all'anno 2004 "sono prescritte e restano in piedi quelle per il 2005, da cui comunque gli imputati vanno assolti perchè il fatto non sussiste". Ai due creatori di moda viene contestata una complessa operazione finanziaria del 2004 con la quale Dolce e Gabbana, all'epoca proprietari del 50% dei marchi, li cedettero a una società lussemburghese, la Gado srl. Un'operazione di esterovestizione che, secondo l'accusa, sarebbe servita per evadere il fisco italiano. Un anno fa i due stilisti erano stati condannati anche a pagare una maxi multa da 343 milioni di euro: la Commissione tributaria di Milano aveva, infatti, confermato la sentenza di primo grado, del novembre 2011, respingendo il ricorso presentato dai legali dei due stilisti e facendo segnare un altro punto a favore dell'Agenzia delle Entrate.
Dolce e Gabbana: "Vedremo Pisapia. Amiamo Milano e vogliamo rispetto". I due stilisti nell'intervista a 'Repubblica' dopo la serrata di protesta per la frase dell'assessore D'Alfonso ("Niente spazi comunali agli evasori celebri"): "Il caso è chiuso, ma noi non siamo due evasori", scrive Marco Romani su “La Repubblica”. "Caso chiuso. Ora vogliamo tornare a fare i vestiti in pace ". Domenico Dolce e Stefano Gabbana smorzano i toni. Dopo la dichiarazione dell'assessore Franco D'Alfonso ("Niente spazi comunali agli evasori celebri"), un tweet poco diplomatico di Gabbana e la serrata di tre giorni delle boutique meneghine del marchio ("Chiusi per indignazione" si leggeva sulle vetrine), arrivano le prove tecniche di dialogo. Il primo passo lo ha fatto il sindaco Giuliano Pisapia, c he ha invitato i due stilisti a Palazzo Marino. "Abbiamo letto di questo invito - dice Gabbana - e lo accettiamo volentieri. Siamo stanchi di questa vicenda e dell'eccessiva attenzione mediatica che le è stata data".
Dopo un tweet come "Comune di Milano fai schifo" e tre giorni di chiusura pensava che la stampa facesse finta di nulla? Non è stata una reazione troppo forte?
Domenico Dolce: "Noi rilasciamo poche interviste e non parliamo mai della vicenda giudiziaria che ci riguarda perché vogliamo difenderci in tribunale e non sui giornali. Ma quando è troppo... Siamo stufi di essere trattati da evasori. Il mio tweet era un po' forte ma non si riferiva né al sindaco, che non conosciamo, né alla città o ai milanesi. Qui abbiamo iniziato, qui lavoriamo, qui viviamo e qui paghiamo le tasse. Più milanesi di così".
Voi vi siete definiti indignati, un termine che rimanda alle proteste di chi, per la crisi, è rimasto senza nulla...
SG: "Non ci riferivamo a quei movimenti, ma al significato che la parola ha in italiano: furibondi".
Ma che spazi avevate chiesto al Comune?
DD: "Nessuno, anzi. Al Palazzo Reale si sono appena conclusi i restauri e la risistemazione di tre sale che abbiamo interamente finanziato. Già dobbiamo spiegare a tutti i giornalisti stranieri cosa sta accadendo, dobbiamo poi sopportare le campagne di boicottaggio su Internet, che pure un assessore dia degli evasori è davvero troppo".
Nei processi ancora in corso (due tributari e uno penale riguardante la società Gado) venite accusati proprio di evasione, però.
SG: "Ci si dimentica sempre di dire che nel processo penale a carico mio e di Domenico siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste". Per noi questa è stata una vittoria ancora più bella perché, essendo scattata la prescrizione, il giudice avrebbe potuto chiudere lì il processo, invece ha emesso una sentenza che dimostra che quello che abbiamo sempre detto è vero".
C'è però una condanna a 18 mesi di carcere e una multa da pagare di quasi 400 milioni di euro.
DD: "Per quanto riguarda la condanna penale di primo grado andremo in appello, per la multa per infedele dichiarazione dei redditi ricorreremo invece in Cassazione. Loro dicono: la vendita dei marchi doveva essere effettuata non a 360 milioni di euro, ma almeno al doppio. E vogliono farci pagare delle tasse su redditi ipotetici, mai percepiti. Dopo la sentenza del 19 giugno i giornalisti stranieri erano convinti che non avremmo fatto la sfilata della collezione uomo perché ci avevano messi in carcere. Per noi, che lavoriamo in tutto il mondo, il danno d'immagine è enorme".
Perché avete fondato la Gado, che gestisce l'uso dei marchi in Lussemburgo?
SG: "La Dolce & Gabbana era il frutto di una storia d'amore tra me e Domenico durata vent'anni. Quando si è conclusa abbiamo voluto dare alla società una struttura meno familiare. Il Lussemburgo non sono le Isole Cayman, è un Paese dell'Unione europea dove peraltro hanno sede grandi società. Non c'è niente di illegale, altrimenti ci avrebbero già messi in galera sulla Luna. Comunque, ora tutte le nostre società sono a Milano: in Italia produciamo i nostri capi e abbiamo oltre 4mila dipendenti diretti e circa 40mila che lavorano nell'indotto".
Siccome producete ricchezza, chiedete un atteggiamento più morbido?
SG: "Assolutamente no. E su questo punto voglio essere chiaro: è giusto che i controlli siano seri e, visto che noi abbiamo pagato fino all'ultimo euro, siamo comunque tranquilli".
Mai pensato di dire addio all'Italia?
DD: "In questi anni di brutti pensieri ne abbiamo fatti tanti. Ma Dolce & Gabbana è un marchio italiano che promuove l'immagine del Paese nel mondo".
E di vendere tutto?
SG: "All'inizio del Duemila sono venuti qui tutti i grandi poli del lusso per capire se volevamo cedere l'azienda. Noi abbiamo ascoltato le loro proposte ma poi abbiamo deciso che non ci interessava".
DD: "Con gli anni le cose cambiano, però. Ora, con le nostre collezioni di alta moda, che facciamo sfilare in Italia, stiamo riscoprendo la grande artigianalità del Paese. È un progetto di lunga durata. Però chissà, bisogna capire come andrà a finire questa vicenda giudiziaria. Quando ti prende lo sconforto, le pensi tutte".
Cosa chiederete al sindaco Pisapia?
SG: "Noi non abbiamo nulla da chiedere. Solo rispetto. È lui che ci ha invitati. Staremo a sentire cosa ha da dirci".
VIZI PUBBLICI: AFFARI DI STATO.
Perchè lo Stato guadagna i miliardi essendo il detentore del monopolio di sigarette e alcool?
Davide ha posto la domanda 3 anni fa. Si fanno tante campagne pubblicitarie, sponsorizzate dal ministro della salute, tante soluzioni in farmacia per smettere di fumare... il vero benefattore chi è? Lo Stato... che legalizza le sigarette e non la droga (capisco che sono due cose differenti) ma perchè guadagnare su una cosa che come scopo ha solo quello di danneggiare l'ambiente e sopratutto la salute della popolazione?? Per non parlare del gioco del lotto e dell'alcool... vi rendete conto di quanti miliardi di soldi ci guadagna lo stato sui vizi e i difetti delle persone? Secondo me non è una cosa giusta!
Rocco Papaleo ha risposto 3 anni fa. In realtà lo Stato no ha più il monopolio di niente perchè ha svenduto tutto, anche la banca d'Italia, ma sui valori bollati continua a taglieggiare gli italiani, il resto è tutta ipocrisia, la salute la lotta all'alcolismo, non gliene frega niente ma spendono i nostri soldi per fare campagne anti questo, anti quello, infine sono capaci di arrestare un ragazzino perchè compra hashish sai perchè? Perchè ha comprato una droga (meno dannosa di alcool e tabacco) che non gli fa guadagnare niente.
Mark ha risposto 3 anni fa. Lo Stato non ha il monopolio dell'alcool ma impone una imposta di fabbricazione che dovrebbe avere lo scopo di limitarne l'uso rendendo l'alcool più caro. E' quello che moltissimi stati fanno appunto per combattere l'alcoolismo. In Francia ad esempio le imposte sugli alcoolici sono molto più alte che in Italia e se vai in qualche posto di confine fra Italia e Francia troverai molti negozi zeppi di liquori francesi che i cittadini provenienti da oltre confine comprano qui a prezzi minori che da loro. La stessa cosa avviene per il tabacco dove le imposte in questo caso sono maggiori in Italia che in altri stati, Svizzera ad esempio, per cui c'è un effetto opposto. Essendo vizi difficili da estirpare sarebbe peggio se questi generi non fossero pesantemente tassati.
JDM ha risposto 3 anni fa. Lo Stato innanzitutto ti vende le sigarette e l'alcool, per tutelarsi, ti dice che fumare porta alla morte, di non bere se ci si deve mettere alla guida. Per quanto riguarda il bere, mi pare ovvio, in modo da tutelare la persona di turno che verrà possibilmente investita. Oppure è soltanto per evitare querele del tipo... Mi hai venduto tu le sigarette e adesso ho il cancro, quindi voglio essere risarcito.
Come lo Stato guadagna dalla tua dipendenza, scrive Andrea Mollica su “Giornalettismo”. Uno studio austriaco evidenzia come alcol, sigarette e giochi assicurino più introiti che spese. Lo Stato guadagna dalla dipendenza da alcol, sigarette e giochi. Nonostante precedenti statistiche evidenziassero il contrario, un nuovo studio condotto sull’Austria evidenzia come il gettito fiscale garantito dai vizi è superiore ai costi per la cura e l’assistenza dei malati. L’istituto di ricerche di mercato Kreutzer, Fischer & Partner (KFP) ha condotto uno studio che ha svelato come lo stato guadagni dalle dipendenze delle persone. La ricerca riguarda l’Austria, ma vista la metodologia adottata questi risultati potrebbero valere anche in altri paesi, incluso il nostro. Le entrate fiscali garantite dalla vendita dell’alcol, dalle sigarette così come il gettito fornito dai giochi, dalle lotterie alle macchine per i videopoker fino alle scommesse, supera di circa un miliardo e mezzo di euro il costo per il trattamento relativo alle dipendenza dal fumo, dall’alcol oppure la ludopatia. Come rimarcano Kurier così come Krone Zeitung, altri studi avevano fornito risultati opposti, ma KFP sottolinea come le ricerche svolte fino ad ora si basavano su dati rilevati da statistiche non robuste. Il guadagno del settore pubblico permetterebbe un miglioramento del trattamento delle dipendenze, visto che ci sarebbero le risorse per finanziare cure al momento assenti o insufficienti, hanno rimarcato i responsabili di KFP. La nuova analisi, che si basa su precedenti studi effettuati negli anni scorsi, palesa come i guadagni derivanti dalla vendita di alcol, sigarette o dalla passione per i giochi procuri un margine di guadagno piuttosto sensibile allo stato austriaco. Per esempio la dipendenza dall’alcol genere costi sociali per circa 130 milioni di euro, tra le quali sono compresi le spese per il trattamento medico, l’aiuto sociali, l’amministrazione della giustizia e la perdita di produttività. I guadagni derivanti dall’Iva sul vino, birra o superalcolici, così come le specifiche tasse sull’alcol garantiscono introiti per 385 milioni di euro. Ancora più netto è il profitto generato dal tabacco. Grazie alle sigarette l’erario austriaco ottiene 1,6 miliardo di euro, mentre il costo sociale è sensibilmente inferiore, visto che KFP calcola spese per 234 milioni di euro. Le lotterie ed i giochi generano entrate pari a 2,2 miliardi di euro, ma hanno costi poco superiori al miliardo di euro. Lo studio condotto da KFP evidenzia come grazie al gettito garantito dalle dipendenze lo stato avrebbe le possibilità di finanziare un migliore trattamento di queste malattie. I poteri pubblici potrebbero migliorare la ricerca, così come una prevenzione efficace e le terapie per guadagnare da queste dipendenze. Secondo uno dei responsabilità della società di analisi di mercato le statistiche ufficiali fornite dal ministero della Sanità non sarebbero solide, ed ha citato come esempi il dato degli alcolisti. Secondo il dicastero della Salute il cinque per cento degli austriaci tra i 15 ed i 90 anni sarebbe dipendente dall’alcol, un dato che però si basa un campione di sole cinquanta persone. Per Gabriele Fischer la ricerca invece ha evidenziato la necessità di cambiare la strategia, perchè la dipendenza è spesso determinata da fattori genetici, una malattia cronica che merita di essere curata in modo adeguata. Chi ne soffre non ha una lobby, ed anche per questo lo stato può sottrarsi al suo compito, ha rimarcato la responsabile di KFP.
Il popolo del vizio. Il 45% degli italiani non può fare a meno di scommettere, scrive Angelo Perfetti su “La Notizia Giornale”. Siamo un popolo di santi, poeti, navigatori e giocatori d’azzardo. Dagli ultimi dati in possesso del Dipartimento politiche antidroga della presidenza del Consiglio, che si occupa di tutte le dipendenze dunque anche delle ludopatie, risulta che il 45% della popolazione italiana gioca regolarmente. Dai gratta e vinci alle lotterie, in moltissimi tentano la fortuna. Pochi vincono, molti perdono. Qualcuno anche la salute, e intere famiglie vengono rovinate. La fotografia è impietosa, eppure risulta ancora sfocata. “Solo da poco tempo – spiega il capo del Dipartimento, prof. Giovanni Serpelloni, neuroscienziato – si è capito che la situazione va monitorata con metodo scientifico, che la propensione al gioco d’azzardo in alcuni casi, purtroppo sempre più frequenti, può sfociare in dipendenza”. Dietro al mondo del gioco c’è una zona d’ombra, tentacolare. D’altra parte il business è appetibile: solo lo Stato guadagna 8 miliardi annui grazie agli incassi relativi ai giochi d’azzardo legali. Poi c’è la tentazione della criminalità a utilizzare il settore come lavaggio per denaro sporco. Ma per la maggior parte dei cittadini il gioco, che di per sé evoca scenari di divertimento e spensieratezza, viene notato solo nel caso di vincite. Invece per uno che vince ce ne sono milioni che pagano le conseguenze di chi precipita nel cosiddetto “gambling” (cioè la dipendenza patologica al pari di un drogato). Non si ha bene la percezione di quanto costi allo Stato, e dunque alla collettività che lo finanzia con le tasse, ma parliamo di cifre ben più grandi degli stessi ricavi. “Il costo annuo per la cura di un paziente affetto da una dipendenza – spiega ancora Giovanni Serpelloni, che è anche consulente del neonato Coordinamento tecnico scientifico dell’Osservatorio nazionale sulle dipendenze – tra intervento psicologico, educativo e farmacologico si aggira tra i 4000 e i 6000 euro all’anno. Che schizza a 20.000 euro se necessita di ingresso in comunità di recupero. Costi altissimi, a carico del Servizio sanitario nazionale. Ecco perché ci battiamo molto per la prevenzione, ecco perché cerchiamo l’approccio scientifico alla materia: è l’unica strada per intervenire efficacemente in un settore devastante proprio perché mascherato da ‘gioco’”. Per ora gli introiti superano gli eventuali costi sociali e sanitari da sostenere, ma basta moltiplicare il costo per le proiezioni sul numero medio dei giocatori affetti da ludopatia per arrivare a una spesa sanitaria che va ben oltre il guadagno dello Stato. Il punto è che quei soldi sono cash e raggruppati mentre il costo sanitario ha come terminale i conti pubblici e si spalma più a lungo nel tempo. “Troppo spesso i numeri che vengono forniti sono imprecisi – chiarisce Massimo Passamonti, presidente di Sistemi Giochi Italia, la Confindustria del gioco – e si basano su possibili rischi rispetto all’intera popolazione che si avvicina al gioco, anche a chi spende due euro in un intero anno. Per un’analisi seria bisognerebbe riferirsi solo a chi gioca con regolarità, e i numeri sono estremanente più bassi. Anche in termini di costi. Ciò non vuol dire che il problema non vada affrontato, e siamo da sempre disponibili a farlo. Ma senza demonizzazioni”. Ma come può un gioco d’azzardo di pochi euro provocare tanti danni? Anche qui basta andare oltre la superficie per capire quanto disagio innesca una ludopatia grave. L’attività compulsiva verso l’acquisto di gratta e vinci piuttosto che verso il poker on line, “costringe” il malato a spendere tutto ciò che ha nella speranza/certezza di riconquistare i soldi investiti. Finiti i propri si passa a quelli dei familiari, si mette il lavoro in secondo piano fino a perderlo. Con un aggravio di costi per la collettività che si ritrova improvvisamente con nuovi disoccupati oltre quelli già provocati dalla crisi economica. Non solo, ma per reperire fondi, sempre con la speranza del riscatto, si finisce nelle mani degli usurai che con il vizio del gioco lucrano di riflesso. La mancanza di organizzazione generale, di coordinamento tra i vari soggetti coinvolti nella prevenzione (Ministero della Salute, Dipartimento politiche antidroga, Sert, Asl, Sistema Gioco Italia, ecc.) spesso vanifica quell’azione di conoscenza del problema che pure muove le diverse istituzioni. Un esempio per tutti: il decreto Balducci prevedeva che nei luoghi di gioco fossero affisse delle tabelle con i rischi specifici per la salute rispetto alla ludopatia. Peccato che nessuno le avesse preparate, e dunque si era innescato un “fai da te” improduttivo quanto pericoloso. Ci ha pensato poi il Dipartimento a uniformare i testi, ma è stata la cartina di tornasole di quanto indietro sia ancora la metodologia per affrontare un problema che, vista la congiuntura economica, rischia di assumere i contorni di una vera e propria piaga. Se da un lato si analizzano con sempre maggiore precisione i costi sociali del fenomeno della ludopatia, dall’altra sono sempre più frequenti gli spot televisivi e radiofonici che invitano al gioco. Una situazione francamente incomprensibile, e a nulla vale la “foglia di fico” dell’invito a giocare “responsabilmente”: sarebbe come dare la spinta a qualcuno sull’orlo di un precipizio e invitarlo a cadere lentamente. I messaggi dovrebbero essere mirati verso i casi veramente a rischio – che non sono la maggioranza – risultando così più efficaci e meno soggetti ad interpretazioni errate quanto alla diffusione del problema.
Sono troppe le occasioni per rovinarsi, scrive Valeria Di Corrado. Il circolo vizioso del gioco ha coinvolto anche le istituzioni. Gli enti locali hanno ormai chiaro che il settore va disciplinato. Per colmare le lacune lasciate dalla normativa nazionale, le amministrazioni comunali gradualmente stanno elaborando propri regolamenti interni. Delibere che, puntualmente, vengono bocciate dai tribunali amministrativi regionali (con l’eccezione delle leggi approvate dalle province autonome di Trento e Bolzano). Questo perché la materia è di competenza dello Stato. E lo Stato che fa? Nel momento in cui, con il decreto legge Balduzzi, c’è stata la possibilità di limitare l’espansione di sale scommesse, slot machines e videolottery, ha partorito un topolino. L’articolo 7 del decreto legge 158 del 13 settembre 2012 parla della necessità di attuare “una progressiva ricollocazione” degli apparecchi ludici che risultano “territorialmente prossimi a istituti scolastici primari e secondari, strutture sanitarie e ospedaliere, luoghi di culto”. Senza però stabilire quale sono le distanze minime da imporre. In sostanza, tutto fumo e niente arrosto. Come se non bastasse, nel testo si precisa che le limitazioni verranno applicate solo alle nuove concessioni (quelle bandite, cioè, dopo l’entrata in vigore della legge). Tradotto: fra 5 o 7 anni. Le altre novità introdotte sono solo “d’immagine”. Sono stati vietati i messaggi pubblicitari di giochi con vincite in denaro nel corso di trasmissioni televisive, radiofoniche, cinematografiche o teatrali. Ed è entrato in vigore l’obbligo di trovare una “formula di avvertimento sul rischio di dipendenza dal gioco nonché sulle relative probabilità di vincita” nelle schedine e nei tagliandi di tali giochi. Quello che in sostanza si fa con le sigarette. Eppure la gente continua a fumare. E pensare che la bozza iniziale del decreto Balduzzi aveva al suo interno delle restrizioni reali e concrete. Si introduceva una distanza minima di 500 metri delle sale da gioco dai centri di aggregazioni delle persone sensibili alla ludopatia. Ma gli interessi delle società di gioco hanno prevalso sull’interesse a tutelare la salute. Il testo conclusivo è stato annacquato e in sede di conversione in legge del gli emendamenti proposti per reinserire tali restrizioni sono rimati lettera morta. I maligni sono convinti che alla fine sia convenuto anche allo Stato chiudere un occhio, considerato l’indotto che il settore frutta all’Erario 8,5 miliardi l’anno e in tempi di crisi non ci si può permettere di andare tanto per il sottile. Circa un centinaio di comuni italiani hanno assunto negli ultimi anni delibere o regolamenti per limitare gli orari delle sale da gioco e l’installazione in prossimità di scuole, ospedali e chiese di slot machine e punti di scommesse. Ogni qualvolta però gli esercenti hanno impugnato i provvedimenti davanti ai Tar locali, i magistrati non hanno potuto fare a meno di dare torto alle amministrazioni comunali, ritenendo illegittimi gli atti adottati. Questo perché manca una legge regionale in materia e quella nazionale (nonostante il decreto Balduzzi) non prevede restrizioni così vincolanti. L’ultima in ordine temporale è la sentenza del Tribunale regionale del Veneto, emessa il 16 aprile scorso, con la quale viene bocciato il regolamento elaborato dal comune di Venezia. La motivazione? La materia della ludopatia va trattata in modo unitario in tutta Italia. Una voce parzialmente fuori dal coro rispetto a questa giurisprudenza “granitica” è quella del Tar del Piemonte, che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale davanti alla Consulta. Secondo i giudici amministrativi torinesi va integrato l’articolo 50 del Testo unico degli enti locali, lì dove si conferisce al sindaco poteri di tutelare la salute dei cittadini “solo in caso di emergenza sanitaria”. Se la Corte di Costituzionale dovesse accogliere questa interpretazione riformista, i comuni avrebbero finalmente campo libero per autoregolamentarsi. Visto che lo Stato è latitante, le Province autonome di Trento e Bolzano hanno preferito trovare da sole la propria strada. Hanno elaborato due leggi che vietano l’installazione di slot machines in fasce sensibili, quelle frequentate cioè da persone solitamente vittime del gioco compulsivo. Nello specifico, l’Alto Adige ha ordinato nel 2012 la rimozione di tutti gli apparecchi che distano meno di 300 metri da scuole, chiese e ospedali; il Trentino invece ha dato nel 2011 ai singoli comuni la possibilità di decidere come distanziare gli apparecchi. L’iniziativa legislativa non è andata giù a Lottomatica Video Lot Rete, società che gestisce la raccolta degli apparecchi. Il colosso del gioco e ha impugnato davanti al Trga del Trentino (il corrispettivo del Tar per le regioni a statuto speciale) tutte le delibere emanate dai comuni trentini. Si è appellato al fatto che la “diffusione del gioco controllato” è rimessa allo Stato e deve essere trattata in modo unitario in tutto il territorio nazionale. Connessi alla materia ci sono infatti principi come la libera iniziativa, la concorrenza, la tutela della salute e la sicurezza, demandati appunto allo Stato. Fatto sta che il Tribunale amministrativo di Trento ha respinto il ricorso di Lottomatica. Un precedente che potrebbe estendersi ad altre regioni autonome, come la Sicilia o la Valle d’Aosta, e per questo preoccupa gli interessi della società. Il rischio ventilato è che si creino dei fenomeni di “migrazione da gioco” da una regione all’altra, acuendo i casi di ludopatia in determinate zone. La risposta definitiva può venire solo dallo Stato. Il prossimo governo dovrà dimostrare se sul gioco vuole fare sul serio.
La ludopatia e lo Stato ''biscazziere'', scrive Antonio Lubrano su “Il salvagente”. Il segnale è dei più allarmanti stavolta: a Pavia, città che detiene un tristissimo record, quello della spesa più alta pro capite per il gioco d’azzardo (2.892 euro), venti famiglie si sono rivolte al giudice per bloccare i congiunti distrutti dalle slot machines e dalle scommesse. “Dichiarate mio marito incapace d’intendere e di volere”, chiede una moglie. “Vi supplico interdite mio padre”, implora una figlia: “Si è rovinato e ci sta rovinando”. Immagino che sarà difficile per il tribunale accogliere simili disperate richieste. Da noi la ludopatia non è ancora riconosciuta come malattia sociale, anche se al ministero della Salute la dipendenza dal gioco è vista come “un problema sociale gravissimo”. Sia detto per inciso: ogni giocatore patologico costa allo Stato 38mila euro l’anno! E i ludopatici sono ormai in Italia più di un milione. Il guaio è che siamo fermi, mentre da ogni angolo del paese si levano grida di protesta e si fanno inutili tentativi di arginare l’invadenza delle macchinette mangiasoldi. Nella stessa Pavia se ne conta una ogni 136 abitanti. Purtroppo la lobby dell’azzardo ha già vinto questa opposizione crescente sia a livello nazionale che locale. Basterà ricordare che la legge che definiva la distanza minima (500 metri) dei locali da gioco da scuole, chiese e ospedali è stata bocciata. E la stessa cosa è avvenuta con le ordinanze comunali, vedi il caso di Verbania dove i giudici hanno dato torto all’amministrazione che aveva adottato una misura simile. Sì, certo, il giro d’affari dei giochi e delle scommesse ha sfiorato nel 2011 gli 80 miliardi di euro e sappiamo bene che una notevole fetta di questa torta va a finire nelle casse Stato, grazie al prelievo dell’erario. Ma dallo Stato “biscazziere” noi pretenderemmo un diverso atteggiamento. Non possiamo ignorare il fatto che l’azzardo rappresenta la seconda causa di indebitamento delle famiglie italiane. E non è sufficiente un dato come questo per intervenire in qualche modo?
Gioco d'azzardo, lo Stato biscazziere. Diventa legale giocare a poker davanti al pc di casa. Boom per le bische online: 9,9 miliardi di euro all'Erario. L'esperta: i malati d'azzardo rischiano danni irreversibili, scrive Antonio Sanfrancesco su “Famiglia Cristiana”. Prima, tramite il comitato antiriciclaggio della commissione parlamentare Antimafia, lancia l'allarme affermando che il gioco d'azzardo è un settore dove si allungano i tentacoli della criminalità organizzata. Poi, per fare ancora più quattrini, lo legalizza completamente. In materia di giochi, lo Stato italiano somiglia molto a un Giano bifronte che predica bene e razzola male. «Gioco legale e responsabile», recita pudico il logo dell'Aams (Amministrazione autonoma dei Monopoli di Stato). Legale sicuramente, responsabile chissà visto che si tratta di azzardo. Non bastava il diluvio di lotterie, gratta e vinci, scommesse e slot machine disseminate ovunque, adesso arriva la possibilità di giocare a poker seduti comodamente davanti al proprio computer di casa. In pratica, il casinò è a domicilio e senza neppure quell'adrenalina da tavolo verde, tra fumo di sigari e mosse d'astuzia, che per secoli ha nutrito pagine e pagine di letteratura e grande cinema, da Dostoevskij alla saga di 007, Casino Royale di Daniel Craig fino a Matt Damon. Dopo un periodo di sperimentazione come previsto dal “decreto Abruzzo” a sostegno delle zone terremotate, dal 18 luglio, infatti, è possibile giocare a poker con la modalità cash che rispetto a quella del torneo (che nel 2010 ha fruttato 3,1 miliardi di euro sui 4,8 complessivi del comparto online) prevede che si giochi con soldi veri e puntate che vanno da un minimo di 50 centesimi a un massimo di mille euro. Secondo le stime degli operatori, a regime il nuovo gioco dovrebbe produrre un giro d'affari di 1,5 miliardi di euro al mese, suddivisi tra poker vero e proprio (800 milioni complessivi) e i giochi da Casinò come dadi, blackjack e roulette (700 milioni). Il cash, rispetto alla modalità torneo, si differenzia nell'investimento e nel ritorno in vincita. Nel secondo si paga l'iscrizione (massimo 250 euro) e si gioca con un numero di chips virtuali (le fiches) uguale per tutti e con il meccanismo di eliminazione stile tabellone tennistico. Nel cash, invece, la quantità di chips dipende da quanto denaro si vuole mettere sul tavolo come in una normale partita dal vivo. Anche il meccanismo di vincita è diverso: nel torneo, una volta eliminati, l'unica perdita sarà quella del buy-in (l'iscrizione) mentre chi riesce a piazzarsi si prende tutto il piatto. Nel cash si vince e si perde in base ai soldi che si portano anche se per ogni sessione è posto un limite di mille euro. «È il poker vero», annuncia ammiccante il sito di Lottomatica. Il tavolo si lascia quando si vuole ma per molti giocatori – disoccupati, giovani e spesso disperati, stando agli identikit tracciati dagli esperti – la febbre da scommessa a portata di mouse può bruciare soldi e freni inibitori. Fino alla disperazione. Lo Stato biscazziere ha trovato la gallina delle uova d'oro. In tempi di crisi, infatti, fare cassa con i giochi è il modo più semplice. I dati, d'altra parte, parlano chiaro. Nel 2010 la raccolta complessiva dei Monopoli di Stato tra giochi tradizionali come lotterie e Superenalotto e quelli di nuova generazione ha raggiunto la cifra monstre di 61,4 miliardi di euro, praticamente il 4 per cento del Pil. Molto di più di una manovra finanziaria, insomma. Complessivamente l'anno scorso il business è aumentato del 12,7 per cento ma a fare la parte del leone sono state proprio le bische online con un aumento del 34 per cento. Nelle casse dell'Erario sono finiti 9,9 miliardi di euro, di cui 1,2 provenienti dai concessionari per tasse e diritti. Nell'ultima finanziaria approvata dal Parlamento a tempo di record si prevedono entrate aggiuntive da tassazioni sui giochi per 400 milioni nel 2011, 470 nel 2012 e circa 500 nel 2013. Nei giorni scorsi, quasi in concomitanza con il via libera al poker, il Comitato antiriciclaggio dell'Antimafia, presieduto da Luigi Ligotti (Idv), ha approvato una relazione dove si legge che «le norme vigenti e i sistemi di controllo non garantiscono la tutela dei minori», e che «la prevalenza del gioco patologico tra i giovani è diventato un problema di interesse pubblico». Dello stesso tenore le critiche di “Libera”: «Nel nostro paese», ha sottolineato in una nota l'associazione di don Luigi Ciotti, «il gioco d'azzardo colpisce una fascia di popolazione che va dai 15 agli 80 anni, ma preoccupa soprattutto perché incide sulle fasce di età che sono più esposte al mezzo telematico e hanno molto più facilità d'accesso che non siano i classici tavoli verdi». Sulla vicenda ha chiesto l'istituzione di una commissione d'inchiesta il senatore del Pdl Raffaele Lauro che parla della legge appena entrata in vigore come di «nuova fiera delle illusioni e della disperazione». Secondo una stima dell'Eurispes, infatti, in Italia le persone patologicamente dipendenti dal gioco legale e d'azzardo – che l'Oms dal 1980 ha riconosciuto a tutti gli effetti come malattia psichiatrica – sono in circa 700 mila delle quali circa l'85 per cento sono uomini. Fra loro, il 51 per cento ha un'età compresa tra i 40 e i 50 anni, il 22 per cento tra i 50 e i 60 anni e il 6 per cento ha oltre i 60 anni. Il fenomeno è molto diffuso anche tra i giovani. Per liberare i pazienti dalla "febbre da tavolo verde" in Italia esistono quasi 200 centri. E la cura di gruppo è fra gli strumenti più adeguati. «Quella dei giochi d'azzardo è un'industria a tutti gli effetti che cerca di intercettare più persone possibili offrendo, per ogni target, il gioco più appropriato: i gratta e vinci per pensionati e casalinghe, le slot machines per gli uomini di mezza età, l'online per i giovani e così via». Daniela Capitanucci, psicologa e psicoterapeuta e presidente dell'associazione di promozione sociale “Azzardo e nuove dipendenze” con sede a Gallarate (Varese), non si stupisce più di tanto del via libera al poker in Rete con modalità cash. «Sono molto preoccupata», spiega, «per le conseguenze che avrà sulle persone».
Può spiegarci perché?
«Tutti i giochi online, a cominciare dal poker, sono stati fatti per attrarre prevalentemente le fasce giovanili, che con Internet hanno una grande dimestichezza, e gli uomini con una discreta cultura pokeristica».
Tutti a rischio dipendenza, secondo lei?
«Ovviamente no. Ma se nella modalità torneo, con cui si è giocato finora, era prevalente lo spirito sportivo e di competizione, con il cash resta soltanto l'azzardo puro. Non solo, rispetto a una partita con giocatori “veri” al tavolo di un casinò o fra amici, la possibilità di giocare su Internet elimina completamente tutta una serie di elementi che non sono azzardo come la capacità di giocare le carte, l'arte del bluff, la vertigine e la suspense offerte dall'avversario mentre scopre le sue carte».
Che cosa la preoccupa di più?
«La facilità di accesso che può rivelarsi devastante e rischia di innescare un meccanismo perverso. Magari all'inizio uno ci prova per diletto, poi però il fatto di dover recuperare i soldi delle perdite precedenti fa scattare una corsa che finisce, come vediamo dalle esperienze dei nostri pazienti, con i prestiti ad usura».
Quanto costa curare un malato d'azzardo?
«Molto perché occorrono tanti anni di terapia. Ai problemi di salute, come lo sviluppo di patologie cardiache o ischemie, bisogna aggiungere le relazioni familiari e sociali completamente devastate e una situazione debitoria che sfocia nei pignoramenti e in una condizione di povertà. Spesso i danni sono irreversibili».
GIOCO D’AZZARDO. IN ITALIA E’ TOLLERATO CON SOTTILE IPOCRISIA.
Più è grave il periodo di recessione economica più proprio coloro che hanno meno risorse cercano di trovare una via attraverso il gioco d’azzardo. Al di là di incamerare i miliardi di euro che provengono dal gioco, lo Stato non ha fatto praticamente nulla, scrive Gaetano Mastellone. Ogni tanto si leggono interventi sul gioco d’azzardo; rammento che la mia posizione in merito è ben nota (sono contrario e sono contrario ai Casinò) in quanto ne scrivo anch’io ogni tanto (ma non è il mio mestiere farlo!). Ora vorrei far capire, se ci riesco, quanta IPOCRISIA del GOVERNO esiste in materia! Si pensa a “succhiare” soldini dalle tasche degli italiani, anzichè bandire ed educare meglio i giovani! “Un debito è un debito, è un fatto, un numero, una conseguenza di circostanze. Un debito non è nè bello nè brutto, è misurabile, è circoscrivibile, è aggirabile. Talvolta un debito aiuta, talvolta è un nemico, ma si puó sempre affrontarlo, sconfiggerlo, o venirci a patti. Un debito non è alla fine così terribile se si conoscono le regole del gioco, un po’ come il diavolo, che è meno brutto se si ha la forza e il coraggio di guardarlo negli occhi. Terribile invece è vedere una società fondata sui consumi, che marginalizza chi non riesce a stare al passo. Terribile è vedere tanta gente che di fronte all’indebitamento ed ai problemi contingenti, si perde d’animo e non riesce più a pensare al domani” (Antonio Iuri Donati). Mi sono imbattuto sulla definizione fatta da Antonio Iuri Donati (esperto di finanza, blogger, ideatore di siti che consigliano le persone indebitate etc.) sulla maledetta parola “DEBITO”. Mi è piaciuta e per questo motivo ho deciso di iniziare questo mio redazionale con questa definizione. Vorrei che tutti tenessimo a mente queste parole: “Terribile è vedere tanta gente che di fronte all’indebitamento ed ai problemi contingenti, si perde d’animo e non riesce più a pensare al domani”. Lo scandalo italiano è che chi dovrebbe tutelare le persone (lo Stato) è invece, direttamente o indirettamente, il principale sviluppatore del gioco d’azzardo, quindi del debito. Cari amici il gioco d’azzardo è sotto gli occhi di tutti noi! Ci capita tutti i giorni di andare nei bar, nelle tabaccherie e vedere – nascoste – le tante macchinette “mangiasoldi”? Qual è il nostro atteggiamento? Non abbiamo alcun tipo di reazione: pensiamo che se stanno lì è tutto “regolare”! Sarà! Ma è normale che quello che abbiamo davanti agli occhi e quello che vedono i tanti bimbi o ragazzi è una cosa normale? Una delle tante contraddizioni italiane! In Italia il gioco d’azzardo è monopolio dello Stato, che lo appalta a ditte private in cambio di cospicue tasse. Il Codice Penale autorizza 5 casinò: Campione d’Italia, Sanremo, Venezia, Bagni di Lucca e Saint-Vincent. Qui, secondo la legge dei grandi numeri, il banco vince sempre. Le agenzie di scommesse tipo Bingo, Lotto, Enalotto e Totocalcio, hanno invece maggiore libertà di proliferare sul territorio nazionale. Gli introiti che scivolano via dalle tasche degli italiani per arrivare dritti dritti nelle mani dello Stato sono da capogiro. Un’industria che, secondo un rapporto del Censis (luglio 2009), genera una filiera, tra costruzione di apparecchi per l’intrattenimento e produzione di gratta-e-vinci, di 1.600 aziende 80.000 posti di lavoro. Lottomatica è così il cuore pulsante di un settore che offre sogni di ricchezza a molti italiani, e posti di lavoro a tanti altri. Cosa concede il gioco d’azzardo? Probabilità di vincere? Praticamente insistenti: 1 su 56.035.316.700 per ogni combinazione giocata. Dunque in Italia il gioco è “tollerato” con sottile ipocrisia. Lo Stato (che ci dovrebbe tutelare) gioca e vince sempre, ma la legge, per esempio, non protegge i creditori dei debiti di gioco. Lo Stato tiene il banco, ma secondo il Codice Penale chiunque tenga gioco d’azzardo o lo agevoli è punibile con l’arresto da 3 mesi a 1 anno, più una pena monetaria. Tranne che nei Casinò autorizzati o nelle navi da crociera. Ma la cosa più interessante è la definizione di “gioco d’azzardo” del Codice Penale: sono giochi d’azzardo quelli in cui ricorre il fine di lucro e in cui la vincita e la perdita sono aleatorie, cioè legate alla fortuna. Abbiamo detto tutto! Dov’è la bravura nelle macchinette dei video poker? Il gioco d’azzardo è il “cancro” dei tempi nostri. Il vizio del gioco d’azzardo interessa circa il 27% degli italiani, che arrivano a giocare più di tre volte alla settimana spendendo oltre 500 euro. Scommesse on-line le più ambite, poi slot-machine, lotto e superenalotto. Sono i dati emersi da una ricerca pubblicata dal CONAGGA, Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo, che denunciano: “il gioco d’azzardo dà dipendenza”. Al di là di incamerare i miliardi di euro che provengono dal gioco, lo Stato non ha fatto praticamente nulla. L’attenzione alle conseguenze negative che possono derivare dall’ampliamento del fenomeno del gioco d’azzardo, ha prodotto soltanto l’approvazione da parte del Senato del precedente Governo di un ordine del giorno che impegnava il Governo a “destinare parte dei proventi derivanti dalla raccolta conseguente ai giochi e alle scommesse ad appositi capitoli di spesa dello stato di previsione del Ministero dell’Istruzione per la realizzazione di campagne di informazione e di educazione dei giovani”. In concreto questo fondo di 100.000 euro per l’anno 2007 (suddiviso per i 6.500 Istituti Superiori a cui doveva andare) comportava un budget complessivo di 15,30 euro per attivare politiche di prevenzione e informazione in ogni Istituto Scolastico.
L’appello. Lo Stato, il Governo, i Parlamentari, le Forze dell’Ordine si attivino maggiormente perché la piaga dell’azzardo si espande a macchia d’olio. Sento molto fastidio dentro quando leggo dichiarazioni sul fatto che c’è questo male oscuro che danneggia gli italiani, quando guardo gli show Tv di tanti personaggi. Basta! Bisogna agire con determinazione. Per concludere sintetizzo i principali “numeri del gioco d’azzardo” italiano. Sono terrificanti!
I numeri. L’Italia, alla fine del 2004, si collocava al terzo posto fra i paesi che giocano di più al mondo, preceduta solo da Giappone e Regno Unito; già allora il mercato italiano rappresentava il 9% di quello mondiale e negli anni successivi la spesa è aumentata in modo esponenziale portando l’Italia ad avere il primato mondiale per spesa procapite, arrivando nel 2009 ad oltre 906 euro per ogni italiano (neonati compresi); e in Regioni quali Sicilia, Campania, Sardegna e Abruzzo le famiglie investono in gioco d’azzardo il 6,5% del proprio reddito. A fronte di un’evidente contrazione dei consumi familiari negli ultimi anni, cresce la voglia di giocare nella speranza del colpo di fortuna; la spesa in Italia per il gioco d’azzardo passa dai 14,3 miliardi di euro incassati nel 2000, ai 18 del 2002, ai 23,1 raccolti nel 2004, ai 28 nel 2005, ai 35,2 miliardi di euro nel 2006, ai 42,2 miliardi nel 2007, agli oltre 47,5 miliardi del 2008, ai 54,4 miliardi del 2009, ai 60, ed oltre, miliardi del 2010.
- Come fatturato quella dei giochi d’azzardo è la 3° industria in Italia dopo Eni e Fiat.
- La maggior causa di ricorso a debiti e/o usura in Italia è da attribuire all’azzardo.
Amen! Politici fate qualcosa, discutere e ridiscutere non serve allo scopo!
I giudici accusano: l'Italia è uno Stato biscazziere. Il Tar di Milano sospende l'ordine del Comune di chiudere una sala scommesse: "Oggi il legislatore favorisce il gioco d'azzardo per aumentare le entrate fiscali", scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. La riffa di Stato ha l'età dello Stato. Che piaccia o meno, fanno centocinquant'anni di Paese biscazziere. Anno 1861, nasce l'Italia Unita. Anno 1863, nasce il Lotto. È lo stesso Paese che oggi scopre la parola «ludopatia», che invita rapidamente gli italiani a «giocare con moderazione» mentre pubblicizza la nuova droga, ma che se c'è da grattare e vincere - perché il banco vince sempre - non si tira indietro. Allo Stato servono soldi. E niente è come le mille lotterie dello Stivale. Chi non vorrebbe vivere da «turista per sempre»? E allora qualcosa non torna nelle barricate delle amministrazioni contro le sale scommesse che aprono nelle nostre città. Una battaglia che i sindaci fanno a colpi di ordinanze: troppo vicina a una scuola, a un centro anziani, a un ospedale. Così si prova ad arginare la marea, eppure basta un ricorso al Tar per svelare la doppia morale. È successo a Milano, ma il messaggio arriva forte e chiaro su tutto il territorio nazionale. Lo Stato ha un dovere di dissuasione dal gioco d'azzardo? Macché. Lo Stato ci campa, col gioco d'azzardo. Fatevene una ragione. «Il legislatore italiano - scrivono i giudici del tribunale amministrativo nell'ordinanza depositata ieri e che sospende l'atto con cui il Comune di Milano aveva chiuso il centro scommesse aperto dalla Univest spa in corso Vercelli - ha in realtà adottato da tempo una politica espansiva nel settore dei giochi d'azzardo allo scopo di incrementare le entrate fiscali». E fin qui, l'evidenza. Ma a fare impressione è lo sterminato elenco dei giochi che il croupier di Stato ha partorito da 150 anni a questa parte per fare cassa, e che i magistrati amministrativi inseriscono nel documento senza eccezione alcuna. Come a dire: smettiamo di raccontarci favole. La dipendenza da gioco esiste, ma al gioco non si può rinunciare perché è una voce essenziale nel bilancio della Repubblica. Punto. «Questa situazione - si legge nell'ordinanza del Tar - è evidente anche dal semplice riepilogo delle principali forme di gioco previste dalla normativa nazionale con i rispettivi anni di attivazione». Ed eccolo, il lungo elenco di sogni infranti. Sono nomi esotici, inviti al successo, allucinazioni da estrazione, ossessioni da botta di culo. Gioca facile, Prendi tutto, Il tesoro del faraone, Spiaggia d'oro, Magico Natale, Quadrifoglio d'oro, 10 e lotto, Sbanca tutto, Una barca di soldi, Vivere alla grande, Tanti auguri. Ecco appunto, tanti auguri. Perché si tratta di vincite statisticamente (quasi) impossibili - è assai più probabile essere colpiti da un asteroide che fare sei al superenalotto -, ma dietro alle quali stanno senza sosta milioni di italiani come cani alla catena. Inizia tutto con il lotto, anno del Signore 1863. Poi è un diluvio. Lotterie nazionali (1932), scommesse ippiche (1942), totocalcio (1946), totip (1948) e tris (1958), che viene un po' di nostalgia per la semplicità dell'uno-x-due. Nel 1994 arrivano il totogol e soprattutto lotterie istantanee gratta e vinci. C'è il miraggio del superenalotto (1997), le scommesse sportive (1998), il bingo (2000), big match (2004), e infine gli apparecchi e videoterminali di gioco (2004). Fatti due conti, si tratta di 75 concorsi da quando è nata l'Italia. E così fa quasi tenerezza che qualche sindaco provi a chiudere una sala scommesse per tutelare il decoro di un quartiere e la salute dei suoi residenti. Il Comune di Milano, ad esempio, ha annunciato farà ricorso al Consiglio di Stato per avere la meglio sulla società che gestisce la sala giochi di corso Vercelli. Ma in fondo cosa importa, se solo nei primi due mesi del 2014 lo Stato ha messo in commercio Botta di fortuna, Turista per 10 anni, Super portafortuna, Mega doppia sfida. Quattro concorsi in due mesi e mezzo. E, ne siamo certi, altri ne arriveranno. Scommettiamo?
Gioco d'azzardo: i calcoli sbagliati dello Stato biscazziere, scrive Andrea Bocconi su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per fortuna rovinarsi è molto più facile: una volta il gioco d’azzardo vero comportava lunghe trasferte per chi non aveva la fortuna di vivere a Sanremo, a Venezia o a Campione. Naturalmente c’erano bische clandestine a portata di mano in ogni città, ma ci si avventuravano pochi audaci, non certo i pensionati e le casalinghe. Ricordo che il sindaco di un paesello dalle mie parti, Bagni di Lucca, riaprì il casinò per una sera per rompere il monopolio e finì sulla stampa nazionale. Non riuscì a ottenere la riapertura dello storico casinò, con rammarico di un avvocato penalista che aveva già fatto affidamento sulla mole di lavoro che avrebbe portato l’aumento di criminalità che è l’indotto di questa impresa: usura, ricatti, qualche bel delitto. Tempi lontani, ricordi che quasi inteneriscono: oggi un bel videopoker non si nega a nessuno, c’è la macchinette vicino al bancone del bar dove si prende il cappuccino, tappezzato peraltro di gratta e perdi che ti vengono proposti anche alle poste, appena ritirata la pensione. Chi si ferma vede persone che ne comprano uno, poi un altro, poi un altro…o che passano la mattinata alle slot machine. Ma, si dice, lo stato incassa ottocento milioni da queste attività, con la vendita delle licenze, e se non lo facesse farebbe un gran favore alla malavita, a cui si rivolgerebbero i giocatori. Peccato che molte persone siano affette da una patologia grave, la ludopatia, e siano così incoraggiate nella loro patologia, che avrà costi indiretti molto superiori agli ottocento milioni. Per non parlare del danno sociale, delle famiglie rovinate, del ricorso all’usura. Già i Sert trattano queste dipendenze, come quelle da sostanze: eroina, cocaina etc. E allora siamo coerenti, vendiamo alle drogherie licenze anche per queste sostanze: la qualità sarebbe controllata, la malavita perderebbe l’esclusiva sul business e il consumatore non dovrebbe avventurarsi nei parchi di notte per trovare ciò che cerca. A Scampia un bel supermercato, anche se sospetto che il gestore sarebbe il solito. Si potrebbero anche ideare delle macchinette più economiche per i minorenni, per allevare i nuovi benefattori dello stato. Oppure si potrebbe cambiare bar e non andare in quelli con le slot machine, smettere di dare licenze per nuove sale giochi, proporre agli studenti la lettura de Il giocatore di Dostoevskji, rendere più difficile l’accesso ai giochi. La cosa più insopportabile è la pubblicità con le sue ipocrite avvertenze: gioca responsabilmente. Sniffa ma solo il sabato, bucati ma attento all’overdose.
Lo Stato biscazziere forse sta esagerando…Da un lato guadagna un mare di euro, dall'altro si accorge che il gioco fa male... scrive Michele Lupi su “Rollingstonemagazine”. Stato biscazziere. Ma anche Stato in lotta contro il gioco d’azzardo. Il Giano bifronte fa paura: da un lato lo Stato affamato di entrate incassa fior di euro da grattini, grattoni, puntate ecc, dall’altro, e più precisamente, dal ministro alla Cooperazione internazionale e l’integrazione Andrea Riccardi, arriva la richiesta di regolamentare una situazione che rischia di diventare insostenibile. L’allarme viene suonato dopo l’aumento esponenziale degli spot televisivi pro gioco. Spiega Riccardi: “Il fenomeno del gioco d’azzardo sta assumendo in alcuni casi i contorni di una vera e propria dipendenza psicologica. In un momento di difficoltà economica il miraggio di una ricchezza facile e immediata ha mandato in rovina molte persone. Particolarmente esposti sono i giovani, i disoccupati e le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, gli anziani soli”. La soluzione, quindi, non può essere che una: “Ho chiesto ai miei uffici di studiare il problema, piuttosto complesso, e l’obiettivo è di arrivare al divieto di pubblicità, come nel caso delle sigarette, o a una ferrea regolamentazione degli spot”. Il bubbone, dunque, è scoppiato. Noi di RS lo avevamo denunciato qualche mese fa, dalle pagine del nostro magazine (n.97, novembre 2011). È un’inchiesta abilmente scritta dal nostro Francesco Martini. Ve la riproponiamo. A fine 2011 il business del gioco d’azzardo, secondo le stime, incasserà la bellezza di 75 miliardi di euro, più del prodotto interno lordo di Paesi come il Mozambico o l’Armenia. Il gioco di Stato è la terza industria italiana, dopo Eni e Fiat. E fa sempre più soldi nonostante la crisi e le aziende che falliscono in tutto il mondo. Ma quando i Gratta e Vinci non vincono, le slot machine non regalano cascate di monetine e le scommesse finiscono male, la colpa non è solo della sfortuna. Nei prossimi mesi vincere al gioco sarà ancora più difficile perché lo Stato si prepara a mettere le mani sui montepremi per far cassa. Senza che i giocatori siano informati. Per fronteggiare la crisi, infatti, il governo ha deciso di spremere il gioco d’azzardo, anche se non ha specificato chi intende colpire. Nel decreto correttivo dei conti pubblici approvato a settembre c’è scritto che i Monopoli di Stato – che controllano il business dei giochi – devono rastrellare “maggiori entrate in misura non inferiore a 1500 milioni di euro”. Ma non è chiaro come salteranno fuori. Tanto che il Servizio studi della Camera, poco incline ai commenti, stavolta è costretto a evidenziare l’inconsueta “genericità delle disposizioni in materia di giochi”. Una vaghezza che legittima qualche sospetto. Basta addentrarsi nei meccanismi che regolano il business del gioco d’azzardo – che sveliamo in queste pagine, insieme a qualche segreto – per scoprire che i veri bersagli del comma 3 dell’articolo 2 del decreto economico, come confermano anche gli esperti del settore, potrebbero essere proprio i giocatori. Ovvero l’anello più debole della catena. La norma è particolarmente insidiosa perché può essere applicata in sordina, lontano dal Parlamento e dai riflettori della stampa. Il rischio, estremamente concreto, è che si decida di abbassare le vincite, salvando gli interessi delle grandi imprese. Chi gioca, quindi, riceverebbe meno soldi e con minore frequenza, senza nemmeno sapere del cambiamento. Vediamo perché. Per ottenere un miliardo e mezzo di “maggiori entrate” sarebbe previsto anche un ritocco del prezzo delle sigarette, che però è già aumentato insieme all’Iva e non potrà crescere troppo senza favorire il mercato nero. Qualcosa bisognerà prendere anche dal gioco d’azzardo, governato completamente dallo Stato, che raccoglie una percentuale dei soldi spesi dai giocatori. Una cifra colossale: entro la fine del 2011 gli italiani avranno puntato circa 75 miliardi di euro. Per dare un ordine di grandezza, l’intera manovra “lacrime e sangue” varata da Berlusconi e Tremonti vale, a confronto, 20 miliardi di meno. Le maggiori entrate previste dal decreto corrispondono, pressappoco, al 2 per cento dell’incasso. Anche se i giochi sono tutti controllati dai Monopoli di Stato, in concreto la gestione è affidata ad aziende private come Lottomatica, Sisal o Snai, che hanno ricevuto concessioni pubbliche per occuparsi, ad esempio, di stampare e distribuire i Gratta e Vinci, raccogliere le scommesse e tenere in funzione le slot machine. In cambio, insieme ai Monopoli, i concessionari raccolgono una percentuale delle cifre spese dai giocatori. Chi paga? sempre gli stessi. Ora che il governo chiede più soldi, però, qualcuno dovrà sacrificarsi. A chi toccherà? Forse ai giganti come Lottomatica o Sisal? Sarebbe una soluzione ragionevole, perché i concessionari raccolgono cifre strepitose con spese relativamente modeste, quindi negli anni si sono arricchiti formando una lobby potente. Ma se lo Stato toglie ai concessionari, questi ultimi per recuperare la perdita abbassano le speranze di vittoria dei giocatori. Le grandi aziende, oltretutto, hanno contratti già firmati e, se non bastasse, una pletora di avvocati pronti a difenderli: la loro fetta, quindi, è al riparo. Forse il sacrificio potrebbe riguardare i commercianti che vendono i Gratta e Vinci, ospitano le slot machine e raccolgono parte dell’incasso. Ma pure loro, specie i tabaccai, si difendono bene. In passato hanno presidiato le loro percentuali con dure battaglie, digerendo a fatica qualche compromesso. Tanto che Giovanni Risso, presidente della Federazione Italiana Tabaccai, non vuole più sentirne parlare e dichiara: “Non ci sono margini di trattativa. Abbiamo già rinunciato a molto: i contratti non si toccano”. Anche l’ipotesi di colpire i commercianti, quindi, avrebbe vita difficile. Ma allora dove va a parare la legge economica? Per quale motivo, invece di fornire precise direttive, si limita ad avanzare ipotesi, come quella di sperimentare “nuovi giochi”? Otto italiani su dieci, secondo una ricerca Eurispes, non ne sentono alcun bisogno, anche perché molti giochi sono già stati lanciati nel corso dell’anno: il mercato, più che saturo, è sfinito. Qualcosa si potrà raggranellare “vendendo” nuove concessioni, ma il conto comunque non torna. Evidentemente l’obiettivo, mimetizzato fra i diversivi, è un altro. Di fatto, senza ordini chiari, il compito di trovare un miliardo e mezzo ricade tutto sui Monopoli di Stato, che ricevono una delega in bianco. Con un vantaggio: i Monopoli possono muoversi un po’ in sordina, promulgando “decreti direttoriali” che passano generalmente inosservati anche se spostano milioni di euro. Senza dare troppo nell’occhio, con una norma secondaria, i Monopoli potranno battere il tasto più comodo: “Variare il montepremi”, come si legge anche nel decreto. Ovvero abbassare la percentuale destinata alle vincite. È l’uovo di Colombo: un’idea semplice ed efficace che consente allo Stato di mettere le mani su una montagna di soldi, sicuri e immediati, senza scomodare grandi interessi organizzati. Infatti i giocatori non sono riuniti in corporazioni, non possono invocare il rispetto di contratti e non sanno neppure qual è la percentuale dell’incasso, per ogni concorso, destinata ai premi. Senza termini di confronto, nessuno potrebbe notare se le vincite sono diminuite. Perché in Italia siamo abituati a giocare alla cieca. Facciamo un esperimento. Prendiamo due concorsi del gioco più di successo, il Gratta e Vinci: conviene più “Sbanca Tutto” o “Vivere alla Grande”? Hanno lo stesso prezzo (10 euro) perciò potremmo ritenerli uguali. Diciamo subito che il concorso “Sbanca Tutto” è più conveniente di “Vivere alla Grande” perché permette di vincere di più e con maggiore frequenza. Vale lo stesso per gli altri concorsi in circolazione: sono tutti diversi, cambiano le probabilità di vittoria e le percentuali di incasso desinate ai premi. Ma sui biglietti queste informazioni non si trovano, quindi è impossibile scegliere i migliori. Ecco perché sarebbe facilissimo, per il governo, fare un bel po’ di cassa anche solo con i Gratta e Vinci. Basta che i Monopoli producano un maggior numero di concorsi “meno fortunati”. Lo stesso vale per lo slot machine. Secondo indiscrezioni pubblicate dai maggiori quotidiani, lo Stato potrebbe tagliare qualcosa dai ricavi concessionari. Che però a loro volta sono liberi di recuperare i soldi agendo sui meccanismi delle “macchinette”, per rendere le vincite meno facili. Per intervenire sul funzionamento delle slot di ultima generazione occorre meno di una notte, basta un comando a distanza, perché sono tutte collegate a un sistema centrale: il mattino dopo, senza alcuna differenza visibile, chi gioca vincerà di meno. Insomma, giocare con lo Stato non è molto conveniente. Anche senza tagli la percentuale di “restituzione” per tutti i giochi – ovvero la parte di incasso “restituita” in media con i premi – non è altissima: circa il 75%. Ma non c’è alternativa: diversamente da altri Paesi (come l’Inghilterra) la libera iniziativa è vietata, quindi non è possibile scegliere con chi giocare. La Corte Europea, con una certa regolarità, negli anni ha continuato a chiedere all’Italia di giustificare la violazione delle regole che dovrebbero tutelare il libero mercato. Anche perché il monopolio pubblico, da noi, è stato trasferito, tale e quale, a un ristretto numero di concessionari privati. L’Italia ha risposto alla Corte che il gioco “è un vizio” e il monopolio, anche gestito da privati, serve a tutelare i cittadini. Il tribunale europeo, però, si è lasciato convincere solo a metà. Secondo i giudici se l’azzardo è un vizio allora i cittadini vanno tutelati sul serio, quindi lo Stato – più che far cassa – deve impegnarsi a scoraggiare i giocatori. Se invece è un business, lo Stato deve mollare le briglie e aprire il mercato alla concorrenza. Dunque che strada si è scelta? Tutte e nessuna: un capolavoro di doppiezza. Lo Stato continua a raccogliere soldi lanciando nuovi concorsi ampiamente reclamizzati: solo nel 2010 i concessionari hanno speso 4 milioni di euro in pubblicità. Ma accanto agli slogan che promettono vincite strepitose, per mantenere un apparente rigore, c’è scritto: “Gioca senza esagerare”. È come se ad Amsterdam all’ingresso o all’interno dei bordelli mettessero un avviso: “Non tradire tua moglie”. Nonostante le avvertenze, infatti, l’opera di dissuasione dei giocatori non è riuscita molto bene. Negli ultimi sette anni la spesa pro capite per il gioco è cresciuta quattro volte, da 270 a più di 1000 euro a testa: siamo il Paese al mondo in cui si gioca di più. Sbaglia però chi la considera una “tassa sugli stupidi” (frase attribuita al conte di Cavour, che oltretutto era un accanito scommettitore) oppure, con un po’ di retorica, una “tassa sulla povertà”. Perché in Italia giocano quasi tutti: secondo una ricerca Eurispes, circa 35 milioni di persone. La vera differenza è fra le motivazioni. Basta dare un’occhiata agli ultimi dati: mentre i dirigenti giocano principalmente “per divertimento”, la maggioranza degli operai, dei commessi e delle casalinghe cerca di “cambiare la propria esistenza”. Il 13,5 per cento dei disoccupati poi ammette di aver sperimentato periodi di dipendenza da gioco e il 14,3 per cento degli intervistati fra 35 e 44 anni gioca con l’obiettivo di “integrare il reddito”. Facendo leva anche sulle speranze degli italiani, dal 2003 le dimensioni del settore si sono addirittura triplicate, fino a incidere per il 3,86 per cento sul Prodotto interno lordo. Dal 2008 il business controllato dai Monopoli, in ordine di fatturato, è – come detto all’inizio – al terzo posto fra le maggiori industrie italiane italiane dopo Eni e Fiat. Altro che “Gioca senza esagerare”. Perfino un esperto come Fabio Felici, direttore di Agicos, la prima agenzia stampa tutta dedicata ai giochi, è convinto che siamo andati troppo oltre. “È un mercato da cui si pretende troppo. Di questo passo”, dice Felici, “c’è il rischio che imploda. La politica continua a intervenire in modo pesante, cambiando tutto a velocità vertiginosa, mirando a nuove entrate. I giochi stanno correndo a un ritmo completamente diverso dall’economia del Paese. C’è il rischio di andare a sbattere”. È già successo, ad esempio, nel business delle scommesse ippiche, che negli anni ’70 ha riempito il Paese di ippodromi, ma ora sopravvive solo grazie ai contributi statali. Si è visto anche con le sale Bingo, volute fortemente dal governo D’Alema, incoraggiate a diffondersi e poi in gran parte fallite. Eppure dal 1998, dopo i primi decreti per la riorganizzazione del settore, lo Stato ha continuato a rilanciare. Segno che le prime vittime di una patologia sempre più diffusa, il “gioco compulsivo”, sono proprio i responsabili di governo. Che stanno contagiando un intero Paese. E corrono rischi sempre più alti.
MEDICI ED AVVOCATI GLI AVVOLTOI DELLA SALUTE.
Malasanità, bufera sullo spot dell'avvoltoio: diffide e denunce tra avvocati e medici. Parte la controffensiva dei medici contro gli spot che spingono sempre più pazienti a denunciare presunti casi di malasanità, con il lancio sul web dello spot "Medici, pazienti e avvoltoi" realizzato da Amami (Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente) con il patrocinio del ministero della Salute e l'adesione di 25 associazioni scientifiche e sindacali. "I medici italiani si sentono prede, sono vittime di un'aggressione a 360 gradi, fatta di spot televisivi e annunci radio: questa però non è un'iniziativa contro qualcuno ma per qualcosa, per un cambiamento di cultura a favore di una sanità che non sia vittima del contenzioso esasperato e strumentale, e dove il medico sia messo in condizione di fare il suo lavoro nel migliore dei modi possibile"spiega Maurizio Maggiorotti, presidente di Amami. "Ogni anno sono 30mila le denunce contro i medici in Italia e solo uno su cento risulta colpevole" aggiunge Maggiorotti. Solo a Roma negli ultimi dieci anni sono stati 3000 i procedimenti penali per presunti casi di malasanità, che coinvolgono nel complesso circa 2000 tra medici e personale sanitario, concludendosi però solo nell'1% dei casi con la condanna: questo il quadro tratteggiato da Fabio De Giorgio dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, al convegno dal titolo "Restituire dignità al medico e serenità al paziente" organizzato a Roma da Amami. Mediamente i procedimenti giudiziari, che coinvolgono per la maggior parte i chirurghi seguiti dai professionisti di specialità cliniche, hanno la durata media di tre anni. "Difendetevi dagli avvoltoi che individuano nei medici prede costose e sfruttano la fiducia dei pazienti sventolando la sirena di ricchezze facili con cause milionarie". E' più o meno questo il messaggio contenuto nello spot "Medici, pazienti e avvoltoi" presentato oggi da Amami (Associazione per i medici accusati di malpractice ingiustamente), anche in risposta agli spot che spingono sempre più pazienti a denunciare i propri medici. «I medici italiani si sentono prede, sono vittime di un'aggressione a 360 gradi, fatta di spot televisivi e annunci radio: questa però non è un'iniziativa contro qualcuno ma per qualcosa, per un cambiamento di cultura a favore di una sanità che non sia vittima del contenzioso esasperato e strumentale, e dove il medico sia messo in condizione di fare il suo lavoro nel migliore dei modi possibile», ha spiegato Maurizio Maggiorotti, presidente di Amami. «Ogni anno - ha proseguito - sono 30mila le denunce contro i medici in Italia e solo uno su cento risulta colpevole. La nostra è l'unica categoria ad essere colpita in questo modo, stiamo diventando dei bancomat». Nello spot, comunque, non vi sarebbe comunque nessun appiglio per eventuali denunce: gli esperti dell'Amami hanno tenuto a sottolinearlo spiegando di aver fatto valutare attentamente lo spot dai loro legali dopo all'annuncio fatto nei giorni scorsi da Osservatorio Sanità - associazione di avvocati e medici legali impegnati a tutela dei cittadini che hanno subito danni da presunti errori medici - che si era detta pronta a «querelare lo spot dell'Amami il giorno stesso della presentazione».
Il Consiglio nazionale forense chiede al ministro Lorenzin di dissociarsi dal video dell'associazione Amami e annuncia querele. Interviene anche l'Unione delle Camere penali. Sullo sfondo lo scontro sul fenomeno del contenzioso medico-legale, alimentato anche da iniziative di natura commerciale, scrive “La Repubblica”. Professionisti contro. Come era facile prevedere, lo spot "Medici-Pazienti-Avvoltoi" dell'Associazione di medici Amami non è piaciuto agli avvocati. A un giorno dalla presentazione e dalla pubblicazione dello spot sul contenzioso medico-legale, oggi il Consiglio nazionale forense ha annunciato una "formale diffida" volta ad "ottenere il ritiro, dal web e da ogni altro canale, del video che risulterebbe essere stato patrocinato dal ministero della Salute". Da qui l'invito del Cnf allo stesso ministro Beatrice Lorenzin a "prendere le distanze da un'iniziativa dai contorni diffamatori" e ad "assumere tutte le iniziative necessarie ad affermare la propria estraneità e non condivisione di tale iniziativa pubblicitaria". Nel video diffuso da Amami (Associazione medici accusati di malpractice ingiustamente) scorrono immagini di avvoltoi, mentre una voce fuori campo invita i cittadini a diffidare di quanti, in attesa, sono "pronti a gettarsi sul medico che non ha saputo fare miracoli", "approfittano della buona fede dei pazienti" e "promettono facile arricchimento con cause milionarie". "Allo spot in questione - spiega la nota del Consiglio forense - è stato dedicato un ampio servizio nella edizione delle 20.00 del Tg5, secondo cui lo spot prodotto da Amami deve ritenersi riferibile agli avvocati, affermazione che ad ora non risulta smentita. Nel contempo, il Cnf chiede al Ministro della Salute di prendere immediatamente le distanze dallo spot presentato in un convegno dallo stesso patrocinato, e dunque sotto la sua responsabilità, e di assumere tutte le iniziative necessarie ad affermare la propria estraneità e non condivisione di tale iniziativa pubblicitaria". Il Consiglio forense definisce "di assoluta evidenza la volgarità dell'operazione diffamatoria, genericamente compiuta ai danni di una intera categoria, altamente lesiva della dignità di una professione deputata costituzionalmente alla difesa dei diritti dei cittadini". Riservandosi di procedere in ogni sede, penale e civile, a tutela della categoria, il Cnf "richiama al rispetto del senso etico ogni professione, anche nei reciproci rapporti, nella convinzione che i toni e le forme diffamatorie assolutamente generalisti nuocciano alla corretta analisi dei fatti e, in fin dei conti, nuocciano proprio a quei diritti che si dichiara di voler tutelare". Anche l'Unione delle Camere penali, altro organismo nazionale di rappresentanza degli avvocati, è intervenuto, definendo lo spot anche "più stupido e volgare" di quello al quale intendeva rispondere: "Se è vero che l'arma tipica dell'ignorante è la generalizzazione - si legge in una nota -, mai dei professionisti dovrebbero farne uso". Invece l'associazione Amami "risponde ad uno spot poco intelligente con un altro ancor più stupido ed anche volgare, in una gara al ribasso tra medici-macellai ed avvocati-avvoltoi che sembra la fiera delle stupidità". Nel pomeriggio è arrivata la controreplica di Amami: "Alcune categorie professionali si sono sentite offese dallo spot 'Medici, pazienti e avvoltoi', diffidandoci e minacciando querele. Colpisce - si legge nella nota dell'associazione - pensare che per alcuni il messaggio fosse loro indirizzato. Infatti è ben lungi da noi voler individuare una categoria professionale quale responsabile dell'aggressione mediatica, pubblicitaria e risarcitoria che da anni prende di mira i medici attraverso iniziative di ogni genere. Il prodotto è stato il danno economico della medicina difensiva, la nota crisi di vocazione per le specialità chirurgiche e ha screditato la sanità italiana. Amami ritiene che gli avvoltoi della malasanità siano tra i medici, tra gli avvocati, tra i giornalisti e molti altri per i quali non è ancora stato inventato un ordine professionale". Per questo l'associazione lancia la proposta a tutti gli ordini professionali di costruire insieme ad Amami un Osservatorio "per smascherare gli avvoltoi della malasanità, quale che sia il loro mestiere". Lo spot dell'associazione Amami è arrivato, a distanza di qualche settimana, in risposta a quello promozionale dell'associazione Obiettivo risarcimento, un pool di avvocati ed esperti che invitava malati e pazienti a presentare denuncia in ogni caso presunto di malasanità, assicurando consulenza e servizi per ottenere risarcimenti.
LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.
Tasse, ecco come la Casta si è dimezzata l'aliquota. Con un trucchetto, grazie a un lavorìo rimasto sempre sotto traccia, è passata la riduzione al 18,7 delle tasse sulla busta paga di deputati e senatori, scrive Stefano Livadiotti su “L’Espresso”. I partiti politici italiani se le sono date di santa ragione per favorire a colpi di leggi i loro rispettivi bacini elettorali. Ma su un fronte hanno lavorato tutti insieme appassionatamente. L’obiettivo era quello di garantire un trattamento fiscale di straordinario privilegio ai loro rappresentanti in parlamento (ma le stesse regole sono previste anche per gli onorevoli regionali). Ed è stato perfettamente centrato, con un lavorìo rimasto sempre sotto traccia. Pochi lo sanno: l’indignazione dei cittadini per i costi della politica si è finora concentrata sui benefici economici e pensionistici degli onorevoli. Ma quelli fiscali sono ancora più scandalosi: la retribuzione complessiva di chi siede alla Camera in rappresentanza del popolo italiano è sottoposta a un’aliquota media Irpef del 18,7 per cento. Ecco come funziona, documenti ufficiali alla mano (ricavati dal sito istituzionale della Camera). Prendiamo un parlamentare che non svolge altre attività ed è talmente ligio da non saltare mai una seduta di Montecitorio. La voce più pesante della sua busta paga è l’indennità mensile, oggi ridotta a 10.435 euro, pari a 125.220 euro l’anno. Dall’importo vengono sottratte ritenute previdenziali per 784 euro al mese (9.410 euro l’anno) come quota di accantonamento per l’assegno di fine mandato, che è esentasse, come vedremo (e come d’altronde è scritto nero su bianco nella relazione al 31 dicembre 2011 su Attività e risultati della Commissione Giovannini sul livellamento retributivo Italia-Europa). L’onorevole subisce poi una ritenuta mensile per il trattamento pensionistico di circa 918 euro (11.019 euro l’anno). Dall’indennità parlamentare viene infine detratta una ritenuta mensile di 526 euro (6.320 euro l’anno) per l’assistenza sanitaria integrativa. Il trattamento del deputato è però arricchito da altre quattro voci con il segno positivo, tutti benefit esentasse. La prima è la diaria, una sorta di rimborso per i periodi di soggiorno a Roma, che ammonta a 3.503 euro al mese (42.037 l’anno) e viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza. La seconda è il rimborso delle spese per l’esercizio del mandato, pari a 3.690 euro al mese (44.280 l’anno), che per il 50 per cento va giustificato con pezze d’appoggio (per certe voci) e per il restante 50 per cento è riconosciuto a titolo forfettario. La terza voce non è perfettamente quantificabile e deriva dal fatto che il deputato è fornito di una serie di tessere per volare, prendere treni e navi e viaggiare in autostrada senza sborsare un soldo (ai fini della nostra simulazione abbiamo ipotizzato che ciò gli consenta di risparmiare 5 mila euro tondi l’anno) e un rimborso forfettario delle spese di trasporto (ma non viaggia già gratis?) di 3.995 euro a trimestre (15.980 l’anno). La quarta voce è rappresentata da una somma a forfait mensile di 258 euro (3.098 euro l’anno) per le bollette telefoniche. Il pallottoliere dice che il totale fa 235.615 euro. Che, dedotte le ritenute previdenziali e assistenziali e i rimborsi spese documentati, si riduce a 189.431 euro. Ma per l’onorevole, come per magia, grazie ai trattamenti di favore architettati dal parlamento stesso, la base imponibile ai fini Irpef è di soli 98.471 euro e comporta il pagamento di tasse per 35.512 euro. Che corrisponde in concreto a un’aliquota media, appunto, di appena il 18,7 per cento. Qualunque altro cittadino italiano, un manager per esempio, che percepisse la stessa somma a titolo di stipendio e di benefit di analoga natura, si ritroverebbe con una base tassabile ai fini dell’imposta sul reddito di 189.431 euro e dovrebbe mettere mano al portafoglio per 74.625 euro di Irpef (con un’aliquota media del 39,4 per cento). L’onorevole paga dunque solo il 47 per cento di quello che toccherebbe a un cittadino comune (e per semplicità non si è tenuto conto degli ulteriori benefici di cui gode sulle addizionali regionale e comunale) e risparmia ogni anno qualcosa come 39 mila euro d’imposta (vedere la tabella nella pagina a fianco). A consentire questa incredibile iniquità è un’interpretazione alquanto generosa, da parte del parlamento, dell’articolo 52, comma 1, lettera b del Tuir (Testo unico delle imposte sui redditi), in base al quale non concorrono a formare il reddito le somme erogate a titolo di rimborso spese ai titolari di cariche elettive pubbliche (parlamentari, consiglieri regionali, provinciali e comunali) e ai giudici costituzionali, «purché l’erogazione di tali somme e i relativi criteri siano disposti dagli organi competenti a determinare i trattamenti dei soggetti stessi». Il rispetto dei principi di capacità contributiva e il divieto di disparità di trattamento rispetto agli altri contribuenti imporrebbe la limitazione dell’esenzione fiscale ai soli rimborsi spese effettivi, quelli cioè strettamente legati alle funzioni pubbliche svolte e corredati di documentazione. Ma il parlamento ha deciso diversamente. Costringendo altri uffici pubblici a fare i salti mortali per non doverne censurare le scelte. Basti pensare che il Gruppo di lavoro sull’erosione fiscale, costituito a suo tempo da Tremonti per tagliare la spesa pubblica e presieduto da Vieri Ceriani, non avendo altri criteri di rilievo costituzionale per giustificare le ragioni di tali benefici fiscali ha dovuto classificarli tra le misure a rilevanza sociale, cioè alla stregua di quelle a favore delle Onlus e del terzo settore e di quelle che aiutano l’occupazione. Poi dice l’antipolitica. Ma non è finita. Siccome pagare l’Irpef al 18,7 per cento a Lorsignori doveva sembrare ancora poco e per non farsi mancare proprio nulla, i parlamentari hanno pensato bene di trovare un escamotage per mettersi in tasca pulito pulito l’assegno di fine mandato, che dovrebbe invece essere sottoposto a tassazione in base all’articolo 17, comma 1, lettera a del Tuir (Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917). Ecco come hanno fatto. Ogni mese, lo abbiamo appena visto, l’onorevole subisce, proprio in vista dell’assegno di fine mandato, una ritenuta sull’indennità parlamentare di 784 euro. Trattandosi di contributi previdenziali, la somma viene dedotta annualmente dal reddito da tassare, nel presupposto che ciò avverrà poi al momento della consegna dello chèque. L’articolo 17, comma 1 del D.P.R. 917/86 prevede, come per il Tfr dei lavoratori, una tassazione separata dell’assegno di fine mandato, per evitare che si sommi al reddito dell’anno in cui viene incassato, facendo così scattare un’aliquota fiscale più alta. Ma c’è un’altra disposizione (contenuta nell’articolo 19, comma 2 bis del Tuir) che riguarda il metodo di tassazione separata dell’indennità spettante ai dipendenti pubblici (buonuscita per gli statali) e agli assimilati (soci lavoratori delle cooperative, sacerdoti e parlamentari): dice che la base imponibile dell’assegno va determinata in funzione del peso del contributo a carico del datore di lavoro sul totale del contributo previdenziale. Per capire meglio, prendiamo un caso concreto. Quello di un dipendente pubblico, la cui indennità di buonuscita è alimentata da un contributo obbligatorio a carico del lavoratore nella misura del 2,5 per cento e da contributi a carico del datore di lavoro del 7,10, per un totale del 9,60 per cento. Il contributo pubblico del 7,10 per cento corrisponde al 73,96 del 9,60 per cento. Quindi al travet verrà tassato il 73,96 per cento della buonuscita. Non avviene così nel caso dei parlamentari. Disciplinando da soli il sistema di rappresentazione contabile della loro busta paga, gli onorevoli hanno creato un meccanismo perfetto, che rispetta formalmente la legge, ma consente di non pagare un euro bucato di tassazione separata sull’assegno di fine mandato. Il trucco è tanto banale quanto efficace: mentre per il dipendente pubblico, come abbiamo visto, il 73,96 per cento dell’accantonamento è a carico del datore di lavoro; nel caso del parlamentare la quota da accantonare per l’indennità di parlamentare è tutta figurativamente imputata a lui. E così non deve pagare. Non è certo da questi politici (a parte qualche lodevole eccezione) che ci si può aspettare una seria guerra ai ladri di tasse. Testo tratto dal saggio di Stefano Livadiotti “Ladri - Gli evasori e i politici che li proteggono” (Bompiani).
Finanziamento Pubblico. Staderini svela il bluff: si rischia la legge truffa. Il Disegno di legge elimina solo alcune norme mentre il finanziamento ai partiti resta pubblico, scrive Fabrizio Marino su “L’Inchiesta”. Il Consiglio dei ministri ha da poco approvato il disegno di legge sull’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, ma già scattano le prime polemiche. Tra i primi sulle barricate è salito il segretario dei radicali Mario Staderini, che dal suo profilo twitter ha commentato così la decisione del Cdm: «smettete di dire che il governo abolisce il finanziamento pubblico ai partiti. Cambia solo il modo di prendere i soldi dalle nostre tasche...».
Segretario perché questo tweet?
«Innanzitutto bisogna fare chiarezza sul significato di finanziamento pubblico. Questo avviene quando le tasse dei cittadini finiscono direttamente agli apparati di partito. In questo disegno di legge ci si è limitati soltanto ad abrogare le vecchie norme. E’ vero che il ministro Quagliarello ha detto che questo finanziamento va abolito, ma di fatto non è stata invertita la rotta rispetto a quando il sistema vincente era quello in cui le tasse dei cittadini finivano ai partiti. Si continua infatti su questa strada modificando soltanto alcune modalità che si è cercato di rendere, almeno nelle intenzioni, meno scandalose».
Cosa cambia quindi con questo disegno di legge?
«Cambiano la modalità del rimborso perché si passa da un fondo fisso calcolato in base ai voti, a un fondo in parte scelto dalle indicazioni dei contribuenti. Mettiamola così, questo finanziamento rimane un finanziamento pubblico perché comunque viene preso dal bilancio dello stato, solo che adesso i cittadini possono esprimere una loro preferenza. Se poi fosse, come sembra, simile al modello dell’8xmille - e cioè che anche chi non esprime una preferenza è costretto a finanziare i partiti - sarebbe una truffa clamorosa».
Secondo lei quale sarebbe la soluzione più adatta per riformare il sistema attuale?
«Noi siamo per un sistema in cui i partiti si fanno finanziare da donazioni private fatte esclusivamente dai cittadini, persone fisiche intendo, con tetto limitato e non dalle persone giuridiche o dalle società. L’unica cosa che deve garantire lo Stato sono i servizi alla politica e non solo ai partiti. Questo modello, che poi è quello che gli italiani avevano scelto con il referendum del 1993, non è stato scelto. Tuttavia si è optato comunque per un finanziamento pubblico che, si spera, abbia modalità meno scandalose».
Neppure la progressiva diminuzione dei finanziamenti nel tempo la convince?
«Non è serio mantenere per quattro anni il sistema attuale con piccole riduzioni. Noi siamo convinti che si debbano riconoscere solo le spese sostenute in campagna elettorale, perché possono essere rendicontate, il resto non deve essere dato. E non è tutto perché sono sicuro che il già debole disegno di legge verrà stravolto in parlamento. Proprio per questo domani ci incontreremo a Roma per un’assemblea referendaria, con il comitato cambiamonoi.it, in cui proporremo una serie di referendum tra cui quello che abolisce definitivamente il finanziamento pubblico ai partiti».
La truffa del finanziamento pubblico ai partiti. La notizia dell’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti è falsa. Con questa legge i partiti costeranno al contribuente da 30 a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora, scrive Roberto Perotti su “La Voce.info”. (Questo articolo è stato modificato alle ore 21:30 di sabato 14 dicembre 2013, un’ora dopo la prima pubblicazione. La modifica riflette un’ incertezza nell’ interpretazione della legge. Questa nuova versione assume che il decreto legge – che al momento di scrivere questo articolo non è disponibile su alcun sito ufficiale – abolisca il cofinanziamento del 50 percento delle elargizioni ai partiti. La versione precedente assumeva che il cofinanziamento sia ancora presente, e portava a una stima dei costi più alta).
GLI ANNUNCI DEL GOVERNO SONO UNA COSA LA REALTA’ UN’ALTRA.
Il governo ha annunciato che il finanziamento ai partiti sarà abolito interamente a partire dal 2017. La realtà è ben diversa: i partiti continueranno a pesare sul contribuente, da 30 milioni a 60 milioni, poco meno di quanto costano ora. Il motivo è nascosto tra le pieghe della legge approvata dalla Camera il 18 ottobre e riproposta nel decreto legge del governo del 13 dicembre. Con la legislazione vigente, i partiti avevano diritto a un massimo di 91 milioni di euro all’anno: 63,7 milioni come rimborso spese elettorali, e 27,3 milioni come cofinanziamento per quote associative ed erogazioni liberali ricevute. Inoltre, il 26 percento delle erogazioni liberali ai partiti erano detraibili dall’ imposta dovuta.
LE NOVITA’ PRINCIPALI DELLA LEGGE.
1) elimina i rimborsi delle spese elettorali dal 2017 (li riduce del 25 percento ogni anno fino ad arrivare a zero nel 2017).
2) innalza dal 26 al 37 percento la detrazione per le erogazioni liberali fino a 20.000 euro (la stragrande maggioranza).
3) consente al contribuente di destinare a un partito il 2 per mille della propria imposta.
L’ interpretazione universale è che, dal 2017, i partiti non prenderanno più un euro dallo Stato, e dovranno sopravvivere solo con contributi privati. Questa interpretazione è falsa: vediamo perché.
QUANTO RICEVERANNO ORA I PARTITI?
La prima cosa da notare è che i soldi ricevuti dai partiti attraverso il 2 per mille non sono un regalo deciso da privati: sono a carico di tutti i contribuenti. Il motivo è che il 2 per mille è di fatto una detrazione al 100 percento dall’ imposta dovuta. Se lo stato raccoglieva 10.000 euro in tasse per pagare sanità e pensioni, e ora un contribuente destina 1 euro a un partito attraverso il 2 per mille, tutti i contribuenti nel loro complesso dovranno pagare 1 euro di tasse in più per continuare a pagare pensioni e sanità.
L’ art. 12, comma 12 della legge autorizza una spesa massima per il 2 per mille ai partiti pari a 45 milioni dal 2017. E’ plausibile che venga toccato questo tetto? Gli iscritti totali ai partiti sono probabilmente circa 2 milioni (nel 2011 gli iscritti al PdL erano 1 milione, quelli al PD mezzo milione). Non tutti gli iscritti ai partiti pagano l’ Irpef, e non tutti sceglieranno il 2 per mille. Tuttavia, dall’ esperienza analoga dell’ 8 per mille sappiamo che, quando il costo è zero, una percentuale notevole dei contribuenti esercita la scelta. Una stima prudenziale suggerisce quindi che il gettito del 2 per mille potrebbe essere tra i 20 e i 30 milioni.
L’ art. 11 della legge, comma 9, prevede che le detrazioni per erogazioni liberali siano di circa 16 milioni a partire dal 2016. Si noti che la legge consente di detrarre anche il 75 percento (!) delle spese per partecipazioni a scuole o corsi di formazione politica. Nella colonna 1 della tabella sottostante assumo uno scenario prudenziale: le detrazioni saranno la metà del previsto, cioè solo 8 milioni, e il gettito del 2 per mille di 20 milioni. Il costo totale per il contribuente sarà di quasi 30 milioni. Nella colonna 2 assumo uno scenario intermedio: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 30 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 45 milioni. Nella colonna 3 assumo uno scenario normale: la previsione del governo sulle detrazioni, 16 milioni, è rispettata, e il gettito del 2 per mille è di 45 milioni. Il costo al contribuente è in questo caso è di circa 60 milioni!
IL TETTO MASSIMO DEL 2 PER MILLE.
C’è poi un meccanismo molto complicato, ed egualmente insensato (e quasi certamente non compreso neanche da chi ha scritto e votato la legge). Per il comma 11 dell’ art. 11, se le detrazioni per elargizioni liberali sono inferiori a 16 milioni, la differenza verrà aggiunta al tetto di spesa per il 2 per mille. Quindi di fatto in questo caso il tetto massimo del 2 per mille può arrivare a 61 milioni invece di 45. Poiché non sappiamo come reagiranno i contribuenti alla opzione del 2 per mille, questo è un modo per assicurarsi che, se c’è molta richiesta per il 2 per mille e poche elargizioni liberali, la richiesta del 2 per mille non vada “sprecata” dal tetto di 45 milioni.
Si noti infine che le detrazioni per erogazioni liberali sono pratica comune, ed esistono già anche in Italia. Ma i partiti si sono elargiti detrazioni quasi doppie di quelle consentite, per esempio, per le erogazioni a università e centri di ricerca (che sono al 19 anzichè al 37 percento). Inoltre questa legge, senza che questo sia stato notato da nessuno, innalza l’aliquota di detraibilità già presente nella legge Monti.
Secondo Wikipedia, nel 2007 il 43 percento dei contribuenti ha effettuato una scelta ed il 37 percento ha scelto la Chiesa Cattolica, anche se la percentuale di praticanti è molto inferiore; lo 0.89 percento dei contribuenti ha scelto la Chiesa Valdese, quindi presumibilmente quasi la totalità dei contribuenti valdesi. E’ quindi probabile che la quasi totalità degli iscritti sceglierebbe di destinare il 2 per mille al loro partito, visto che il costo è 0. Per prudenza, diciamo 1,7 milioni. Di questi, non tutti pagheranno l’ Irpef. Supponiamo dunque che 1,3 milioni di iscritti ai partiti paghino l’ Irpef e destinino il 2 per mille al partito. Supponiamo che 700.000 simpatizzanti non iscritti facciano lo stesso. Nel 2011 l’ imposta Irpef netta è stata di 152 miliardi, con 31,5 milioni di contribuenti. Se i 2 milioni di contribuenti che destinano il 2 per mille ai partiti hanno la stessa composizione media dell’ universo dei contribuenti, il gettito del 2 per mille sarebbe di quasi 20 milioni. Se a devolvere il 2 per mille saranno 3 milioni, il gettito sarà di circa 30 milioni.
"Questa legge è una presa in giro sfacciata e colossale, scrive sul suo blog Beppe Grillo. Passata sulla stampa di propaganda del governo come "Abolizione del finanziamento pubblico", significa invece: "Continuerete a pagare, come prima e persino più di prima".
Cosa ancora più grave, questa legge consegna ufficialmente la politica nelle mani dei grandi potentati economici, delle lobby e persino delle associazioni criminali che sono sempre alla ricerca di nuovi e più redditizi canali di riciclaggio del denaro sporco. Ecco come funziona:
1 - Non sono tutti uguali. Ci sono partiti che possono iscriversi nell'apposito registro e accedere al finanziamento e partiti o "movimenti politici" che non possono (indovinate chi? Per fortuna, dei soldi ce ne infischiamo).
2 - A pagare continua a essere lo Stato. Entrando in vigore nel 2014, i partiti continuano a ricevere dallo Stato 91 milioni di euro il prossimo anno; 54milioni 600mila nel 2015; 45milioni e mezzo nel 2016 e circa 36milioni 400mila nel 2017. A queste somme si aggiungono le donazioni dei cittadini così si fa "stecca para pé tutti".
3 - I cittadini possono devolvere il 2 per mille dell'Irpef ai partiti. Anche in questo caso pagano tutti, perché le minori entrate nelle casse dello Stato devono essere coperte da quelli che non "donano" con le solite tasse. Non solo: lo Stato istituirà un "fondo apposito" che coprirà tutte le "donazioni" che i cittadini si guarderanno bene dal fare. Sia mai che i partiti ci rimettano!
4 - Il Paese in mano alle lobby: 300mila euro all'anno per le persone fisiche e 200mila euro annui per le persone giuridiche sono i tetti per le donazioni liberali. Sanzioni se si supera tale limite? Una multa. Se non la si paga, il partito perde il gettito del 2 per mille per i tre anni a seguire (sai che danno...). I partiti possono donare quanto vogliono ad altri partiti, così le "coalizioni" diventano patti d'acciaio firmati sugli assegni.
5 - I benefici si allargano alla platea di partiti che si riferiscono a un gruppo parlamentare già costituito: così, chi fonda un partito oggi a elezioni avvenute (avete qualche idea? noi sì) o partitucoli di voltagabbana avranno comunque garantiti i vostri quattrini.
6 - Trasparenza e sanzioni per irregolarità? Dimenticate. Non presentano il bilancio? Succede nulla. Niente verbali e relazioni? Nulla. Dove vanno a finire i nostri soldi ai partiti? Ancora e sempre nel misterioso buco nero.
7 - Chi effettua donazioni ai partiti può beneficiare di sgravi fino al 52%. E chi copre queste minori entrate per le casse dello Stato? Cominciate a tirar fuori i portafogli." M5S Camera
"I finanziamenti ai partiti sono stati introdotti nel 1974. In 40 anni il contributo ha assunto decine di nomi differenti, ma la sostanza non è mai cambiata: si tratta sempre di soldi dei cittadini italiani andati a finire nelle tasche dei politici e nelle casse dei partiti! Si tratta sempre dei nostri soldi. In barba alla volontà popolare espressa con il referendum del 1993. Noi abbiamo chiesto l'abolizione totale del finanziamento pubblico ai partiti sin da subito e la restituzione integrale delle somme percepite dal '97 ad oggi, con possibilità di intervento, in caso di diniego, da parte della Magistratura tramite sequestri dei beni e delle liquidità appartenenti ai partiti. Tre semplici emendamenti che avrebbero portato immediatamente nelle casse dello Stato 2 miliardi e mezzo di euro! Sono stati tutti bocciati! I fatti parlano chiaro: il pd di Renzi è a favore del finanziamento pubblico ai partiti, così come Forza Italia e tutte le altre forze politiche. Restituite subito i 2 miliardi e mezzo di euro che avete rubato agli italiani!" Maurizio Santangelo, capogruppo M5S Senato
LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.
I parlamentari spendono ogni anno 7 milioni in carta. La voce più grande è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro, scrive Emanuele Bellano di inforeportime.it su “Il Corriere della Sera”.
Ottantottomila seicento euro: tanto ha speso nel 2013 la Camera dei Deputati per acquistare giornali e riviste per il collegio dei questori. Si tratta di un esercito di lettori, si potrebbe pensare. In realtà no, il collegio è composto da tre persone: Stefano Dambruoso di Scelta Civica, Paolo Fontanelli del Partito Democratico e Gregorio Fontana di Forza Italia. Sono 29.500 euro a testa ogni anno, ovvero 82 euro al giorno, solo in quotidiani e periodici. La cifra, nero su bianco, i tre questori l’avranno vista di sicuro dato che sono proprio loro a elaborare il bilancio della Camera e a controllare che alla fine non ci siano spese folli. Non stupisce quindi che non abbiano notato nemmeno quanto spende la Camera ogni anno per le letture dei loro colleghi parlamentari. A carico dei contribuenti ci sono infatti anche i quotidiani e le riviste che finiscono tutti i giorni sulle scrivanie degli altri deputati: in totale 165 mila euro. Forse la produttività del Parlamento è così scarsa perché gli onorevoli passano tutta la giornata a leggere giornali? Questa spesa tuttavia è poca cosa rispetto a quanto la Camera spende ogni anno per la carta. Sommando tutte le voci di bilancio la cifra nel 2013 arriva a 6 milioni di euro; dentro ci sono 388 mila euro per i vari tipi di carta e per materiali di cancelleria, e 30mila euro solo per consulenze su come stampare o rilegare i documenti. La voce più grande però è la spesa per la stampa degli atti parlamentari. Ogni anno mettere a disposizione dei deputati copie cartacee di leggi, decreti ed emendamenti ci costa oltre 5 milioni di euro. Eppure, per facilitare l’uso di documenti in formato digitale e ridurre le copie cartacee, il parlamento ha messo a disposizione di senatori e deputati un fondo per l’acquisto di tablet, computer e altre attrezzature informatiche: 2.500 euro a legislatura per ogni deputato, 4.000 euro per i senatori, in totale 2,7 milioni di euro. I parlamentari però non devono ancora avere grande dimestichezza tecnologica. Per Stefano Fassina del Partito Democratico, non si può lavorare senza carta e penna. “Non sono sicuro che siano completamente sostituibili perché a volte è necessario scrivere sui documenti. Io quando studio un provvedimento di legge prendo appunti, scrivo, metto in mezzo gli emendamenti. Non è proprio la stessa cosa”. In effetti, scrivere un appunto o un emendamento su un tablet è cosa diversa…bisognerebbe saperlo usare. Se Montecitorio spende, qualcuno ovviamente incassa. La stampa degli atti parlamentari è affidata dalla Camera dei Deputati agli Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo. Nel 2013 la Tipografia Colombo per questo servizio ha ricevuto 5 milioni 139 mila euro a cui si sono sommati altri 2 milioni 700 mila euro per il servizio di digitalizzazione degli stessi documenti. In totale la tipografia Colombo riceve ogni anno dalla Camera 7 milioni 800 mila euro. Ma come è stata scelta la società? “Abbiamo fatto una domanda scritta per capire come è stato assegnato l’appalto – ha detto Riccardo Fraccaro del Movimento 5 Stelle. Non ci hanno ancora risposto. Le posso dire che finora a queste domande relative ad altri ambiti ci hanno sempre detto che la gara è stata assegnata direttamente. Diciamo che al 90 per cento l’appalto è stato dato ad assegnazione diretta”. I rapporti tra la Tipografia Colombo e la Camera dei Deputati non si limitano alla stampa dei documenti. Tra gli immobili presi in affitto dalla Camera c’è l’edificio di via Uffici del Vicario dal numero 9 al numero 15 e un ufficio in via Campo Marzio al numero 69. Il primo è di proprietà della Cosarl Srl, il secondo della Immobiliare Centro Storico Srl. Entrambe le società appartengono alla famiglia Colombo che così ogni anno riceve dalla Camera altri 1,2 milioni di euro. Un legame che dura da più di vent’anni. Sul primo contratto di locazione risalente al 1987 viene puntualizzato: “la Cosarl ha ottenuto dal Comune di Roma l’autorizzazione per lavori di consolidamento, modifiche interne e manutenzione straordinaria” dell’edificio in via Uffici del Vicario. Chi ha pagato la mega ristrutturazione? Il gruppo Colombo proprietario dell’edificio? Ovviamente no, l’affittuario: la Camera dei Deputati.IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.
#Pendolando, il Paese delle stazioni fantasma. Progetti faraonici mai aperti, biglietterie chiuse, nemmeno i bagni. Mentre si spendono centinaia di milioni di euro per rilanciare gli scali delle metropoli con ristoranti, librerie e servizi, fuori dalle città le piccole e medie stazioni sono praticamente abbandonate. Ecco cosa risulta dalle vostre segnalazioni al nostro database, scrive Michele Sasso su “L’Espresso.
L’ABBANDONO DELLE STAZIONI. Oltre ai binari, l’incuria. Progetti faraonici per scali ad alta velocità mai aperti, biglietterie chiuse da anni, bagni rotti e zero servizi: le cattedrali nel deserto della mobilità sono lo specchio di come, per tagliare i costi, centinaia di stazioni sono destinate al lento degrado. Mentre si spendono centinaia di milioni di euro per rilanciare gli scali delle metropoli con ristoranti, librerie e servizi pensati per i viaggiatori, fuori dalle città è meglio non guardare. Dalla Campania a Padova è una discesa negli inferi di sale d’aspetto sbarrate, nessun confort per chi parte e arriva e senza tetto che trovano riparo.
L’ALTA VELOCITA' È UN MIRAGGIO. Il caso-limite è la stazione fantasma dell’alta velocità di Afragola, a Nord di Napoli. Faceva parte di un disegno strategico più ampio: era destinata a diventare una sorta di hub del trasporto ferroviario, il nodo cruciale del collegamenti fra Nord e Sud, con le evidenti ricadute sulla piccola cittadina. Disegnata dall’archistar Zaha Hadid, costata 170 milioni, posata la prima pietra nel 2010 dall’ex ministro azzurro Altero Matteoli con la promessa dell’entrata in servizio nel 2011, oggi è ancora un cantiere. Una carcassa di ferro, cemento e polvere, piloni che si perdono nel vuoto, strade sterrate e impalcature ovunque che lasciano intuire il destino dell’ennesima incompiuta napoletana. Il sogno di macinare treni e passeggeri avvicinando la sterminata periferia a Napoli e Roma è ancora lontano. Ora per arrivare nella capitale ci vogliono più di due ore. E i tempi di consegna dell’infrastruttura continuano ad allungarsi: un altro anno e mezzo, arrivando al 2015 per completare finalmente lo snodo, ha annunciato il sindaco a dicembre.
OLTRE IL GRA L’OBLIO. Edifici distrutti dal tempo, mancanza di parcheggi di scambio, scali diventati dormitori e ogni possibile disagio. Ecco la caduta nell’oblio della Capitale, appena superati i confini del Grande Raccordo Anulare, nel racconto di Patrizia: «I collegamenti con l’aeroporto di Fiumicino sono un disastro sotto tutti gli aspetti: le fermate sono diventate spesso un bivacco per senza tetto, pensiline corte e attese senza riparo dalla pioggia, annunci incomprensibili, cartelli inesistenti. Alla stazione poi non ci sono le panchine per i passeggeri, idem per l’orologio, annunci in un inglese risibile. E la presenza di due treni, uno per i ricchi (il Leonardo Express) e l'altro (il regionale) per i poveracci dove regna la confusione con gli stranieri sempre disorientati». L’elenco di quello che non funziona continua nelle altre fermate della città eterna: «Non ci sono biglietteria ed erogatrici, non ci sono servizi di ristoro, né tantomeno personale ferroviario e servizi igienici nella stazione Nomentana della linea locale, frequentatissima e situata in un'area densamente abitata della città». Ancora più degradata è la condizione della stazione Due Ponti, sulla linea gestita dall’Atac che porta a Viterbo. I pendolari che ogni giorno l’affollano meriterebbero rispetto, ma invece non sanno neanche quando quella nuova (ormai pronta) sarà aperta.
SENZA BIGLIETTERIA FIOCCANO LE MULTE. I paradossi di tanta incuria diventano evidenti. Come testimonia Rocco nel suo viaggio tra Eboli e Salerno: «In tutta la Regione Campania non esistono nelle stazioni le locandine con l'orario di apertura dei punti vendita nelle vicinanze, e nemmeno un distributore. Impossibile comprare il biglietto. Risultato? Salito sul treno il controllore mi ha multato pur avendo fatto diritto al rilascio del ticket a bordo, senza sovrapprezzo. Dopo mesi l’amara sorpresa: ho ricevuto una raccomandata da Trenitalia che mi ingiunge il pagamento di 107,37 entro 15 giorni. Ho presentato ricorso al Giudice di Pace». Spesso i controllori non vogliono sentire ragione. Di chi è la colpa? In Veneto stesso irragionevole disservizio. Alle porte di Padova, sulla traffica linea Milano-Venezia, è stata costruita la fermata ferroviaria di Ponte di Brenta invasa da centinaia di pendolari al giorno. C’è però un particolare: mettersi in regola con il biglietto è impossibile. Ecco come si presenta: «L’obliteratrice si trova in mezzo a una giungla, sotto le scale, dopo la casetta mezza distrutta dai vandali. Ovviamente non era non funzionante. Detto ciò non ho avuto modo di obliterare e non essendoci personale e nemmeno una biglietteria sono salita con due biglietti andata e ritorno. Fermata dal controllore sono stata multata di 50 euro con pagamento anticipato di 30. Durante il ritorno, oltre il danno la beffa: due clienti sono senza biglietto e il controllore lo oblitera e gli ricorda che dovevano farlo prima di salire. Perché queste differenze?».
LE TASSE, L’EVASIONE E LO STATO CHE CI PRENDE PER IL CULO.
Renzi ha le traveggole: "Tagliare le tasse è di sinistra". Dall'euro tassa di Prodi all'Irap di Visco, fino alla "rapina" di Amato: da sempre la sinistra fa il tifo per le tasse. Renzi ripassi la storia degli ultimi trent'anni...scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Forse si è dimenticato degli sfaceli fatti da Romano Prodi, Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Vincenzo Visco o Tommaso Padoa Schioppa. Eppure Matteo Renzi, che a destra dice di voler andare a pescare i voti, ha assicurato che in Italia è "di sinistra chiedere di abbassare le tasse". Sinistra e taglio della pressione fiscale è proprio un'equazione impossibile. Non è ancora andato al governo un amministratore di sinistra (o anche solo di centrosinistra) capace di non mettere mano sulla leva fiscale per ingrassare la pubblica amministrazione, aumentare il debito o oliare ben bene gli amici degli amici. Se mai il sindaco di Firenze dovesse riuscire non tanto a non fare alzare (ancora) le tasse, ma (quantomeno) a mantenere lo status quo, sarebbe già un passo avanti nella storia della sinistra post comunista. Renzi ha consegnato il compitino. Diciotto pagine di proclami per tratteggiare il Pd che vorrebbe. È il suo memoriale nella corsa alle primarie democratiche. C'è dentro un po' di tutto, gli stessi slogan ripetuti poi oggi al videoforum di Repubblica Tv. Il programma guarda più a destra che a sinistra, almeno a stare alle dichiarazioni confezionate ad hoc per la cavalcata alla segreteria del partito. "Vanno presi i voti anche di Grillo e del centrodestra - ha ribadito l'ex rottamatore - io, della sinistra con la puzza sotto il naso, non ne posso più, la sinistra che si crogiola nel com'è bello partecipare mi manda fuori di testa". E così, eccolo estrarre dal cappello magico il nodo delle tasse. Non lo fa a caso. Nelle stesse ore è, infatti, arrivata a Palazzo Madama la legge di Stabilità firmata dal premier Enrico Letta. Un testo infarcito di nuove imposte che andranno a gravare sui risparmi dei contribuenti e sui conti delle imprese. A preoccupare maggiormente il ritocco dell'imposta sul dossier titoli e il peso effettivo della Tasi. Eppure Renzi se ne esce fuori con una dichiarazione che fa quantomeno strabuzzare gli occhi: "Le tasse non sono di sinistra". Verrebbe, quasi, da imitare il Pibe de oro. "Abbassare le tasse è un valore fondamentale della sinistra". Fondamentale? Viene da ridere. nel ripensare il manifesto targato Rifondazione comunista "Anche i ricchi piangono" all'epoca del governo Prodi. Ridere per non piangere perché se si ricorda quando al dicastero di via XX Settembre era in cattedra Padoa Schioppa si alzavano imposte, gabelle e balzelli al grido di "pagare le tasse è bello". Al tempo, insieme al professore, negli uffici del Tesoro si aggirava anche Vincenzo Visco, poi soprannominato "Dracula" per essersi inventato una sfilza di tasse come l'odiatissima l'Irap che aveva infilato nella finanziaria del 1998. Che la dichiarazione di Renzi sia una contraddizione in termini lo dimostra il linciaggio mediatico a cui è stato sottoposto Stefano Fassina, responsabile Economia del Pd, quando aveva ammesso che in Italia ci sono imprenditori che sono costretti a evadere perché il carico fiscale è insostenibile. Insomma, un'evasione di sopravviveza generata da decenni di finanziarie rosso sangue firmate da governi di sinistra o di centrosinistra. Le amministrazioni "rosse" hanno, infatti un triste record. Se Fisco si è inventato una tasse che non si calcola sugli utili ma sul fatturato lordo (il che vuol dire che un'azienda può anche essere in perdita e l'imprenditore sul lastrico, ma il Fisco gli chiede comunque l'Irap), Romano Prodi è forse riuscito a fare peggio. Gli è bastato un un anno e mezzo (dal 2006 al 2008) per introdurre sessantasette nuove imposte facendo aumentare la pressione fiscale di un paio punti di circa 30 miliardi di euro. Che, a suo tempo, significavano 500 euro di tasse in più a testa. Tanto per citarne alcune: la tassa di successione sugli immobili a partire da 250mila euro di valore, la tassa "di scopo" che ha dato ai sindaci la possibilità di applicare sulle seconde case un'aliquota fiscale per cinque anni, l'aumento dell'addizionale sui diritti di imbarco in aeroporto, l'innalzamento della tariffa per il rilascio del passaporto, l'aumento al 20% dell'aliquota sul rendimento dei titoli, l'aumento del bollo per l'auto e per la moto e, soprattutto, il prelievo statale del Tfr. Già nel 1996, alla sua prima volta a Palazzo Chigi, Prodi aveva fatto dei pasticci approvando un contributo straordinario per l'Europa al fine di far rispettare i vincoli di Maastricht. Niente in confronto al prelievo forzoso del 6 per mille dai conti correnti bancari deciso nel 1992 dall'allora premier Giuliano Amato che, nottetempo, passò all'incasso. L'elenco è lungo. E non abbiamo voluto occuparci degli amministratori locali. Basti citare, uno per tutti, il sindaco Giuliano Pisapia il cui vento arancione sta facendo neri i milanesi. Spiace contraddire Renzi, ma abbassare le tasse non è affatto "un valore fondamentale della sinistra". Le tasse, sì, sono un valore per la sinistra. Tanto che ne vorrebbe sempre di più, e soprattutto per i più deboli.
Tre storie d’ordinaria presa in giro statalista, scrive Matteo Borghi su “L’Intraprendente”. Quelle che vi narriamo di seguito sono tre storie che dimostrano come lo Stato italiano ci prenda, quotidianamente, per i fondelli. Tre storie in cui, alla fine, la vittima è sempre il cittadino.
La prima storia arriva da Roma dove l’Istat, il nobile istituto di statistica, ha certificato per il 2014 la crescita della disoccupazione (+0,3%) e la riduzione del Pil rispetto alle previsioni del ministero dell’Economia (+0,7% contro un +1,1%). «Nei mesi estivi la caduta dell’occupazione che ha caratterizzato la prima parte dell’anno si è arrestata, ma la situazione del mercato del lavoro permane fortemente deteriorata» ha scritto l’Istat. Una dichiarazione che non è piaciuta a Saccomanni che accusato l’Istat di non tener conto delle «riforme strutturali e del rimborso dei debiti della Pa che stanno procedendo molto bene». Chissà se l’istituto guidato per anni dall’attuale ministro del Lavoro Enrico Giovannini li ha considerati. Di certo avrà valutato l’impatto negativo che l’aumento delle tasse ha sui consumi che determinano il Pil e – di conseguenza – l’occupazione.
La seconda storia arriva ancora da Roma dove il ministro della Funzione pubblica Graziano Delrio ha subito messo le mani sui risparmi del taglio delle Province. Trattasi, per la precisione, di 113,63 milioni di euro annui di gettoni e stipendi degli amministratori eletti (dai consiglieri fino ai presidenti). Delrio ha già fatto due conti ed è uscito con la sua proposta: con quei soldi ci si possono assumere 11.300 nuovi insegnanti d’asilo. Ecco che il taglio delle Province si rivela l’ennesima beffa per due ragioni. 1) Permetterà di risparmiare pochissimo (secondo l’Upi aggraverà addirittura i costi di gestione); 2) i pochi risparmi certi verranno subito destinati ad appesantire la struttura statale da un’altra parte. Soldi destinati a dare occupazioni certe e quindi, spesso, voti certi per i politici che le hanno garantite. Peraltro, nel calcolo di Delrio, c’è qualcosa che non va: se si dividono i 113,6 milioni per 11.300 assunzioni si ottengono 10.055 euro. Una cifra insufficiente a pagare un maestro, anche al netto delle tasse.
La terza storia, che arriva dal Piemonte, mette in luce tutti i limiti del centralismo italico. Qui, così come in altre regioni del Nord, i Comuni più piccoli – spesso virtuosi – ricevono solo una piccola parte del fondo di solidarietà per il rimborso dell’Imu: una tassa che va, in gran parte, allo Stato centrale e alle amministrazioni più grandi. Così – come riporta Lo Spiffero – il municipio di Elva (99 abitanti) e di Torresina (66 abitanti) ricevono, rispettivamente, 53 e 93 euro. Facendo i conti si tratta di 0,5 euro e 1,4 euro ad abitante. Meno dei 3,2 euro di Torino, i 4,10 di Milano e i 4,5 di Roma. Senza contare che Torino con 2,8 milioni può farci qualcosa mentre i piccoli Comuni, con qualche decina di euro, possono al massimo comprare due risme di carta e un toner per la fotocopiatrice, a patto di scegliere delle sottomarche.
Insomma anche oggi, leggendo fra le varie cronache, abbiamo ritrovato in pillole i mali dell’Italia: statalismo, centralismo, burocrazia e spesa pubblica. Oltre, ovviamente, alle tasse per mantenere il baraccone. Li abbiamo raccontati in tre brevi storie. Siamo certi che, ogni giorno, potremmo trovarne altrettante.
A cosa serve la caccia all'evasore? a mantenere i barbieri statali, risponde Gian Luigi Lombardi Cerri. Per distrarre l’attenzione dei cittadini dai reali problemi del paese (e non solo, come vedremo più avanti) si scatena la caccia all’evasore. Ad ogni piè sospinto la colpa dei nostri guai è degli evasori. Quanto è fondata questa teoria? Vediamolo attraverso un piccolo, ma significativo, esempio. Vado dal barbiere e mi faccio fare shampoo, barba e capelli. Alla fine pago il conto. Il barbiere mi chiede X. Se avessi pagato in nero avrei, come minimo, risparmiato il 21 %, il che significa che il rientro dall’evasione lo pago io, modesto cittadino di serie B. Completiamo l’esempio. Immaginiamo che il servizio di cui sopra venga reso dallo Stato, invece che dal privato. Questo porta subito a vedere che nel negozio del barbiere, invece di esserci una sola persona gli addetti diventano due (come succede in tutti gli uffici pubblici). I due sostituti del singolo privato, immediatamente, prevedono che il sottoscritto debba compilare una serie di moduli di domanda; uno per lo shampoo, uno per il taglio barba, uno per il taglio capelli corredando questi moduli con un certificato di nascita, un certificato antimafia (tra parentesi mi piacerebbe vedere un certificato antimafia compilato da un mafioso in cui il “correttissimo cittadino” dichiara di appartenere all’onorata società) e, come minimo, anche un certificato di residenza, il tutto a sportelli diversi, con impiegati diversi e in tempi diversi. Tutto questo con abbondanti perdite di tempo e di denaro. (ecco uno dei punti fondamentali dove tagliare i costi). Questo farebbe sì che il conto passerebbe dai 20-30 € a 250-300 €, come regolarmente avviene per tutti i servizi pubblici. A che cosa serve, quindi, il recupero dall’evasione? Semplice: a pagare e mantenere un numero crescente di “barbieri statali”. Perché? Perché i casi sono solamente due. O l’obbiettivo è quello di fare gli interessi dei cittadini “pagatori di tasse” , oppure quello di mantenere un’ampia casta di fancazzisti, oltretutto incapaci. Riteniamo che l’obbiettivo vigente sia il secondo. Il tutto funziona oggi secondo il seguente meccanismo:
1.- La casta ha in mano le armi (non solo metaforiche) e provvede, nel frattempo, a cercar di privare i pagatori di tasse anche del più piccolo temperino (non si sa mai).
2.- La casta ha la stessa convinzione di Luigi XVI quando chiese al suo ministro Neckar: “Aumentando le tasse i cittadini fanno la rivoluzione?”. E dopo una risposta incerta del Ministro rispose: “Allora aumenti”.
3.- La casta sa che, una volta aumentate le tasse, non tornerà più indietro per ridurle, ma solo a cambiarne la denominazione (vedasi la tassa sulla guerra di Etiopia).
4.- La casta sa che tra riorganizzare sé stessa riducendo i costi ed aumentare le tasse per mantenere le proprie crescenti spese, la seconda opzione le risulta infinitamente la più comoda.
5.- La casta, come diceva Longanesi , è “buona a nulla, ma capace di tutto” e, quindi mette in moto continuamente la sua fervida fantasia per inventare promesse (che non manterrà mai in base al dettame che si è preoccupata di inserire subito nella “più bella costituzione del mondo”) e giustificazioni fasulle.
6.- La casta, salvo poche eccezioni, è incapace di installare e gestire un accettabile livello di organizzazione (se non per beccare soldi), anche ( e soprattutto) perché non è mai stata istruita adeguatamente al proposito (posto che abbia la capacità di imparare).
Abbiamo più sopra detto che una delle giustificazioni ricorrenti, in questo periodo, è quella degli evasori, onde risolvere i problemi italici. Ed è una bella invenzione, poiché le possibilità di impiego del recupero dell’evasione sono solo:
a.- Se il maggior recupero viene utilizzato per ridurre le tasse vigenti, il bilancio generale dello Stato rimane immutato, quindi decolla l’economia, ma il debito rimane alto.
b.- Se il maggior recupero va a coprire le maggiori spese allora aumenta ulteriormente la già elevatissima pressione fiscale, evitando però alla casta il taglio delle spese superflue, cosa che la danneggerebbe non poco.
E’ stato quindi doveroso (ahimè data la situazione semi fallimentare in cui si trova da decenni l’Italia) aumentare il carico fiscale, ma ancora più doveroso (nonché utile) sarebbe il taglio delle spese inutili e insieme, di grandissimo rilievo, la totale riorganizzazione dello Stato, fatta tuttavia non dai burocrati, a causa della loro già più volte provata incapacità culturale. Vogliamo un esempio (scelto tra migliaia) della costosissima disorganizzazione dello Stato? Eccola! Quando il ministro Fornero ha chiesto all’INPS quanti pensionati (futuri esodati) sarebbero stati interessati dal suo provvedimento, gli è stata fornita una cifra. Il ministro sostiene che la cifra ammontava a 50.000 mentre il presidente INPS sostiene di aver comunicato 150.000. In entrambi i casi uno dei due personaggi (non essendo stato in gradi di fornire o di interpretare i dati) dovrebbe essere inviato all’agricoltura a spalare letame (e perché non tutti e due?). Guardate leggi e regolamenti. Sono il frutto di una mentalità a cavatappi dove le cose semplici vengono rese complicatissime, per cui non solo non riescono ad evitare le frodi, (anzi in molti casi le favoriscono), ma rendono impossibile e costosa la vita di chi le leggi vorrebbe rispettare. Questo perché? Semplicemente perché non vi è travaso di persone (e di esperienze) tra impiego pubblico ed impiego privato, e quindi i burocrati sono privi di un bagaglio di esperienza fondamentale: quello di dover quotidianamente (pena il licenziamento) rispondere delle conseguenze del proprio operare.
Se c’è una cosa che il Fisco riesce a fare con grande facilità, è cambiare i nomi delle tasse, scrivono Massimo Fracaro e Nicola Saldutti su “Il Corriere della Sera”. Così al posto dell’Imu e della Tares ne arrivano addirittura tre: Trise, Tari e Tasi. Il lettore abbia un po’ di pazienza e più sotto troverà svelato il mistero delle sigle, ma intanto fermiamoci al fatto che sono troppe. La fantasia, quando si tratta di imposte, è davvero al potere. Mentre, quando si deve decidere dove tagliare la spesa, la mente del governo, di qualsiasi governo, sembra per qualche strana ragione rattrappirsi. Rispetta questo vizio anche la bozza del decreto Stabilità da ieri in circolazione. Un provvedimento che, stando alle anticipazioni, contiene alcune cose buone come l’aumento delle detrazioni per i lavoratori dipendenti, gli sgravi Irap per chi assume. Il problema è che per finanziare le cose buone si finisce, spesso, per fare cose cattive. Come aumentare le tasse già esistenti. O peggio, inventarsene di nuove. E così per finanziare la miniriduzione del cuneo fiscale si è pensato di elevare l’aliquota che colpisce le rendite finanziarie (interessi sui depositi bancari, dividendi, cedole sulle obbligazioni, capital gain) portandola dal 20 al 22%. Aumenterà anche la minipatrimoniale sugli investimenti (dall’1,5 per mille all’1,65). Come dire: la vera riserva nazionale, il risparmio, in grado di far sopportare al Paese la grande crisi, è ancora presa di mira. Risultato: gli investitori, anziché avvicinarsi, potranno allontanarsi. Certo, che in Italia sia corretto tassare meno il lavoro, e un po’ di più le rendite improduttive è corretto: dal 2011, però, l’aliquota su interessi e dividendi è quasi raddoppiata passando dal 12,5% al 22%. Un incremento che va anche nella direzione delle richieste della Cgil di Susanna Camusso. E veniamo alla commedia Imu. Confermato che non si pagherà più sull’abitazione principale. Non verrà però sostituita dalla Service Tax, come sembrava, ma dalla Trise (Tassa sui rifiuti e sui servizi). Una tassa bicefala fatta dalla Tari - la ex Tares destinata a coprire i costi della raccolta rifiuti - e dalla neonata Tasi che servirà a finanziare i costi dei servizi indivisibili dei Comuni. I proprietari immobiliari per la Tasi non dovrebbero pagare, complessivamente, più di quanto avrebbero sborsato con l’Imu - ma attenzione con l’aliquota massima prevista dalla legislazione e non con quella applicata dal Comune - più un piccolo obolo dell’1 per mille. Una sorta di clausola di salvaguardia. Le seconde case torneranno a pagare l’Irpef al 50% sulla rendita catastale. Una misura inserita ad agosto, poi ritirata. Insomma il Fisco è fantasioso. E anche testardo. Troppo.
LETTERA AI FORCONI.
A scanso di equivoci, voglio essere chiaro. Chi mi conosce sa chi sono e come la penso. A provarlo ci sono i miei centinaia di migliaia di lettori e sostenitori. Da 20 anni studio il fenomeno italiano e le pecche del sistema di potere. Ma la responsabilità più grande è del popolo italiano. Oggi si è incazzato? Nonostante il problema sia collettivo, solo pochi hanno, ancora, il coraggio di ribellarsi e lo fanno in modo sbagliato. Io potrei offrire la mia collaborazione. Nel far aprire gli occhi, sicuramente. 20 anni fa, prima di mani pulite si stava male, certo, però, meglio di adesso. Si poteva ancora fare impresa e si pagavano meno tasse. Con l’avvento della sinistra in Italia, oggi, è tutto tartassato e vietato. Oggi conviene non fare niente e non avere niente. Solo, però, alla fine si muore di fame. 20 anni fa pagavamo meno tasse ed avevamo: l’ospedale, il Tribunale, le province e le vie di comunicazione. Qualcuno potrebbe dire: c’erano anche i ladri. Oggi, dopo 20 anni, con i vari Amato, Prodi, Berlusconi, Monti, ecc., ci troviamo, con le 20 finanziarie, a pagare 100 volte di più di tasse ed a non avere, oltre che il lavoro, l’ospedale, il Tribunale, le province e le vie di comunicazione. Oltretutto i ladri si son moltiplicati. Ed Allora, da vero incazzato, la domanda mi sorge spontanea: dove cazzo vanno a finire i nostri soldi? E credetemi, non è l’euro la causa di tutto. Noi potremmo avere una stamperia di lire sotto casa. Sono gli italiani che ci governano la causa della crisi. La verità è che a decidere per noi sono: caste, lobbies, mafie e massonerie. Naturalmente, questo scritto è stilato di getto. Giusto per farmi capire. Se poi, qualche saccente del sistema di potere ha qualcosa da dire, per lui sono pronti ben oltre 100 saggi di denuncia, che voi mai potrete vederli pubblicizzati. Uno per ogni tema sociale: quello che non si osa dire. Saggi che si possono leggere anche gratuitamente. Allora la mia collaborazione la offro, ma non per perdere tempo. Non pensiate che questa sia una mia promozione per farmi pubblicità. La lotta che voi avete appena iniziato, io la svolgo da 20 anni, quindi potrei benissimo continuare da solo. Approssimazione ed improvvisazione non porta da nessuna parte. Bisogna usare le loro stesse armi: tenacia, pazienza, giudizio e programmazione. Perché le vere rivoluzioni sono quelle pacifiche, con le armi della persuasione e non dei blocchi e della violenza. Infine vi dico: se i giornali e le tv non sono vostre alleate, allora createveli da voi, sulla rete, giornali e tv. Grillo insegna. La gente ha bisogno di sapere tutta la verità, perché, oggi, quando la stessa gente vi contesta: ma lo ha detto la televisione! vuol dire che quella gente non ha capito un cazzo e voi dovete spiegargli le cose.
LETTERA AI GRILLINI.
Lettera aperta. I Grillini in Parlamento e la restituzione del finanziamento Pubblico.
L’Italia è retta da un sistema di disinformazione e di discultura che rincoglionisce gli italiani. Le lobbies finanziano la politica e la politica finanzia le lobbies. In ogni caso i canali editoriali sono in mano loro. Informazione e cultura corrotta. Poi c’è un movimento politico ad ideologia indefinita che ha solo una fonte di informazione: quella del suo “Guru” e dei suoi “Paraguru”. Quel movimento è quello dei “5 Stelle” di Beppe Grillo. Un marasma di soggetti con pensieri indotti da teorie complottistiche dedotte dai siti web del loro Guru. Soggetti provenienti dalla Rete. E la Rete si sa, che dietro l’anonimato, nasconde menti contorte ed inconsistenti, propensi alla polemica fine a se stessa, ovvero, ove anonimato non vi sia, lì si dissimula lo spirito di protagonismo. Proprio il Movimento 5 Stelle, a detta dei loro detrattori, ha posto una lista di proscrizione per i giornalisti ostili e corrotti. Bene, detto questo, parliamo del finanziamento pubblico ai partiti che i penta stellati aborrono. Finanziamento pubblico e privato che serve altresì a sostenere censura e disinformazione a vantaggio del sistema politico esistente. Solo nel 2013 sono stati già spesi 120,45 milioni di cui 40 erogati da privati e circa 80 dai rimborsi. Pdl e Pd hanno ricevuto rispettivamente 37,16 milioni e 25,34 milioni, mentre il Movimento 5 Stelle ha rifiutato i 9,29 milioni di euro cui aveva diritto. Una domanda sorge spontanea. I Grillini in Parlamento anziché restituire il finanziamento pubblico a quello Stato che molti definiscono ladrone, ovvero a quelli italioti che sperperano e spandono a danno di altri italioti ignavi, perché con quei fondi non sostengono l’informazione e la cultura libera asfittica in modo che gli italiani non siano più i coglioni che sono stati fatti diventare? O il Guru non vuole che si finanzi altra fonte che sè?
LA RAPINA FISCALE.
Tasse, debito, inflazione: la reale misura della rapina fiscale, scrive Cristian Merlo. Lo Stato contemporaneo, nel quale i tax consumers prendono il sopravvento tramite le assemblee rappresentative…e considerano i produttori propri schiavi fiscali, cerca di seminare nebbie attorno al suo operato, camuffando trasferimenti di risorse da un gruppo di cittadini a un altro, vantaggi distribuiti (ai propri beneficiati) e danni arrecati (ai sottomessi sfruttati). Questi ultimi possono apparire, a coloro che li subiscono, (ignari tax payers), persino come vantaggi, dato che i mezzi differenti rispetto alla tassazione diretta si sono moltiplicati a dismisura, diventando sempre più fantasiosi ed efficaci. Diventa quasi impossibile sapere chi sia un tax payer netto e chi sia un tax consumer, anche perché favori, trasferimenti e sussidi vengono distribuiti a gruppi politicamente utili, indipendentemente dalla loro posizione ‘di classe’ (economico-sociale). Le estorsioni di ricchezza diventano così sempre più occulte (inflazione, debito pubblico, ‘trasferimenti’, sostegno pubblico ad aziende protette, dazi doganali e protezionismo, dilatazione dei posti pubblici) e quindi scarsamente percepibili.” Alessandro Vitale. Abbiamo già avuto modo di mettere in evidenza come l’affermarsi delle logiche interventiste vada di conserva con la ricerca e con l’adozione, da parte dell’organo che detiene il monopolio dell’uso della forza, di strumenti impositivi caratterizzati da forme tecniche sempre più sofisticate e micidiali, a livello di aggressività dell’intervento, e contestualmente sempre più subdole e surrettizie, in ordine alla percettibilità degli effetti. Difatti, l’efficacia del veicolo impositivo, dal punto di vista di chi lo adotta, dovrebbe misurarsi proprio nella sua propensione a colpire pesantemente senza lasciare tracce evidenti: quanto più lo strumento è invisibile e non percepito dalla gran massa dei contribuenti come pregiudizievole o deliberatamente pregiudizievole, tanto più i tax consumers potranno agire indisturbati, prevenendo qualsiasi opposizione da parte degli sfruttati, qualora questi ultimi si rendessero finalmente conto di quanto in realtà costi loro il “privilegio” di essere spolpati per comperare i benefici della civiltà. L’acquisizione di questa consapevolezza è però tanto più possibile laddove si operi in un contesto di procedure chiare, di regole certe e di meccanismi impositivi semplici, lineari e trasparenti: proprio l’esatto contrario di quello che si registra in Italia, tanto per intenderci. Del resto, ed in tutta onestà, chi, tra i cittadini produttivi, sarebbe in grado di stabilire, anche solo per sommi capi, quali e quante siano le tasse cui quotidianamente siamo sottoposti? Chi, a meno di non far parte del ristretto novero degli iniziati incaricati di stabilire la natura e l’entità del taglieggiamento, può dirsi effettivamente edotto circa la portata dell’oppressione fiscale e le modalità con cui si integrano le estorsioni predatorie? Il tax payer interessato e consapevole, continuamente vessato ed angariato, avverte a pelle che le tasse da cui è gravato sono troppe; intuisce d’istinto che quel troppo è insostenibile, sia a fronte della qualità dei servizi ricevuti in contropartita, che delle utilità latamente conseguibili da quanto in effetti ottenuto; realizza al volo che la discrepanza ravvisabile tra quanto versato e quanto acquisito è in gran parte riconducibile all’esistenza di onerosi costi impliciti, necessari a presidiare le vere ragioni che ispirano le logiche assistenzialistico – redistributive. Ma, ad ogni modo, molto difficilmente quello stesso tax payer sarà in grado di stabilire quanto, in realtà, tutto ciò gli costi, definendo espressamente e quantificando contabilmente i sacrifici cui ha dovuto forzosamente far fronte. A dispetto degli sforzi d’immaginazione e dei suoi ricorsi alla fantasia più sfrenata per venire a capo del “busillis”, la valutazione non potrà che essere sottostimata, assolutamente lontana dalla fotografia oggettiva di una realtà fosca ed inafferrabile. Per esagerati che possano essere quegli sforzi e quei ricorsi, la realtà andrà comunque al di là di qualsivoglia pessimistica previsione. L’estrema complessità e la farraginosità, unite alla opacità degli strumenti impiegati dai ceti parassitari per drenare risorse alla collettività, non possono che manomettere i meccanismi di lettura dei dati pratici, inficiandone la comprensione ai soggetti incisi. Tutti questi fattori si condensano in un modularsi ben preciso di asimmetrie informative, che concorrono parallelamente sia a favorire la stabilizzazione e la crescita incontrollata degli impulsi al tax and spend, sia ad alimentare il circuito vizioso del ricorso inarrestabile all’interventismo pubblico. Sulla scorta delle analisi degli economisti della “Public Choice”, possiamo individuare almeno quattro evidenti tipologie di asimmetrie che caratterizzano ed innervano le logiche di allocazione dei vantaggi e degli svantaggi, nell’ambito delle politiche di intervento e delle misure di redistribuzione; esse sono assolutamente funzionali ad intorbidare le acque relativamente a chi deve passare all’incasso (i reali beneficiari delle risorse “pubbliche” e dei programmi che sovraintendono alla loro intermediazione) e chi (i lavoratori autonomi e dipendenti del settore produttivo privato), al contrario, deve sostenerne il peso, sempre più intollerabile, per mantenere in vita tutto il baraccone.
1) Concentrazione versus dispersione: in primo luogo, il processo decisionale e deliberativo delle politiche e delle manovre tese all’espansione della spesa pubblica risulta tanto più premiante e pagante per i suoi promotori quanto più i vantaggi allocati si configurino come immediati, tangibili e concentrati per un ristretto gruppo di beneficiari e, di converso, gli svantaggi vengano invece avvertiti come diffusi, dispersi ed indolori per la gran massa del pubblico.
2) Trasparenza versus opacità: la visibilità immediata dei benefici per i vincitori si contrappone all’invisibilità e all’imponderabilità dei costi sottostanti per i vinti. È naturale che mentre una percezione diretta dei vantaggi stimoli, a favore dell’azione che li produrrà, il supporto e il sostegno organizzato dei beneficiari individuati, l’evanescenza dei costi non incoraggi di certo una presa di posizione netta e decisa da parte di tutti coloro che in realtà dovrebbero opporvisi.
3) Oggi versus domani: la terza asimmetria si avvale dell’ausilio dell’illusorietà temporale, incardinata su processi qualificati da un vero e proprio disallineamento delle tempistiche di intervento. I benefici tendono ad esplicare le loro utilità nell’ambito dell’orizzonte temporale che segna la vita politica del decisore politico, gli svantaggi, per quanto possibile, devono essere invece collocati e spalmati in una dimensione spaziale di là a venire, la più lontana possibile.
4) Gratuità versus coercizione: da ultimo, la natura e i costi del processo redistributivo si dissolvono, come impercettibili rumori di fondo, nelle nebbie dell’incertezza, allorquando è il cittadino produttivo ad essere assegnatario di uno specifico beneficio, che il più delle volte funge da mero specchietto per le allodole. Paradossalmente, ciò che campeggia, dominatore e solitario, è il solo valore del “regalo” ricevuto. Non si guarda a nient’altro. Gli immani sacrifici sottesi alla sua produzione, così come alla produzione della smisurata teoria di tutti gli altrui “regali”, si fanno improvvisamente evanescenti ed evaporano come acqua al sole.
È fin troppo palese, quindi, che se non ci si sofferma solamente a considerare “ciò che si vede” (guadagni immediati per individuate categorie di beneficiari; illusione collettiva circa la capacità taumaturgica dello Stato di assicurare comunque dei malintesi benefici sociali; difesa, più o meno consapevole, dell’attuale stato delle cose, anche a fronte dell’incapacità di concepire un ordine diverso), il conto “di ciò che non si vede”, recato dall’operare sinergico di queste asimmetrie informative, è pagato a carissimo prezzo: sia in termini di rinunce e privazioni attuali, che di limitazione alla vocazione “imprenditoriale” (latamente intesa); in termini di perdita di “chance da cooperazione e da scambio”, passibili di dispiegarsi se solo non si fossero distrutti ex ante gli incentivi, le risorse e le conoscenze fondamentali per la loro emersione, o ancora di frustrazione delle maggiori possibilità di scelta per gli attori economici, che ne sarebbero naturalmente scaturite.
Travolti da una valanga di imposte. Tutto ciò premesso, vediamo allora di fare un po’ di chiarezza, avvalendoci di una minuziosa ed accurata disamina che, ancorché formulata qualche anno fa, sulla base di dati e stime che devono essere purtroppo riviste al rialzo (a fronte, ad esempio, delle modifiche intervenute nell’applicazione delle aliquote d’imposta, di cui si darà opportuno rilievo nel prosieguo), resta ancora estremamente valida ed attualissima nella sua struttura di fondo e nella sua impostazione generale. Leggiamola con attenzione. Per quanto riguarda le tasse, le imposte e i balzelli che ogni lavoratore è obbligato a pagare allo Stato, alle Regioni, alle Province e ai Comuni le cose stanno molto diversamente da come la gente immagina. Dati alla mano, passiamo dimostrare che fra tasse, imposte, contributi e balzelli vari, lo Stato italiano, ormai diventato una sorta di rapinatore armato, viola il diritto naturale dei lavoratori-contribuenti prelevando illegittimamente dalle loro tasche ben oltre il settanta per cento del frutto del loro lavoro, per usarne buona parte per scopi illeciti e diversi dal bene comune. Vediamo adesso come stanno davvero le cose. Nel redigere questo breve articolo ci siamo riferiti a uno studio effettuato dall’economista Samuel Magiar- sulle imposte e sulle tasse pagate da un lavoratore dipendente, ma vale anche per gli artigiani e le imprese. [Pare fin quasi superfluo rimarcare il peso asfissiante, e sempre più insostenibile, che la tassazione esercita sul mondo delle imprese e dei produttori. Recentemente, alcuni studiosi si sono cimentati nel tentativo di misurare l’effettiva pressione fiscale sui produttori, imprese e partite iva, impiegando quale indicatore il cosiddetto TTR (Total Tax Rate), volto a rilevare l’incidenza delle tasse e dei contribuiti sociali sul profitto commerciale. Orbene, il TTR dell’Italia risulta esorbitante rispetto a quello di qualsiasi altro Paese OCSE, sopravanzando di gran lunga (quasi 15 punti) quello del secondo Paese in graduatoria (la Svezia): non potendo però nemmeno lontanamente vantare lo stesso livello di servizi pubblici]. I dati sono stati pubblicati sul «Duemila», numero di luglio-agosto 2003, e si riferiscono ai costi effettivi che un lavoratore doveva allora sostenere sotto forma di detrazioni fiscali e contributive. Negli anni successivi il prelievo è considerevolmente cresciuto; tuttavia citeremo ancora i dati di cinque anni orsono.
Prima voce: contributi INPS a carico del datore di lavoro e prima mistificazione totale. Ciò che l’azienda paga per il lavoro effettuato, indicato in busta paga come “lordo annuo” (supponiamo 1200 euro), non è affatto un “valore lordo” come indicato. Facciamo un esempio concreto: se un lavoratore percepisce uno stipendio lordo mettiamo di 100 euro mensili, i contributi definiti “a carico dell’impresa”, sostiene Magiar, ammontano a 53 euro che non appaiono in busta paga. Se il lavoratore costa al datore di lavoro 100 euro più 53 euro, è evidente che il “vero lordo” è 153 euro. Un terzo di questa prima voce (53 euro, che, lo ripetiamo, è denaro di “proprietà” del lavoratore), se ne va solo per questo contributo “garantito” da una “Promessa di pensione” fatta dall’INPS, un ente gestito da comitati di burocrati e sindacalisti, pagati profumatamente dai lavoratori stessi, che sanno benissimo che nelle attuali condizioni la “promessa” non potrà essere mantenuta né per tutti i lavoratori attuali né per le generazioni future.
La seconda voce del prelievo forzoso dallo stipendio del lavoratore dipendente è costituita dai contributi INPS a carico del lavoratore, definiti ironicamente «volontari», del 9 per cento pagati dall’impresa per conto del lavoratore (calcolati sul “falso” lordo di 100 euro). Come già riportato sopra, abbiamo chiamato “falso” il “lordo” perché il lavoratore non si rende esattamente conto di quanto viene prelevato dal reddito che produce; prelievo che fino ad ora corrisponde esattamente a 62 euro (53 più 9) sui 153 che costa all’azienda per il lavoro da lui svolto; dei 153 euro di sua proprietà adesso gliene restano 91.
La terza voce è l’IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche) che, come è noto, è una tassa calcolata per scaglioni di reddito con aliquote progressive e con una detrazione fissa per il lavoratore dipendente. Tra l’altro l’imposta diretta è pesantemente messa sotto accusa da più di uno studioso: il filosofo di Harward Robert Nozick, ritiene, senza mezzi termini, <<la tassazione del reddito da lavoro come una sorta di lavoro forzato». Secondo lui, infatti, lo Stato, prelevando al cittadino una parte di reddito equivalente al profitto di un certo numero di ore lavorative, lo costringe a lavorare “gratis” per quelle ore e, quindi, lo rende di fatto temporaneamente schiavo. Dunque la fiscalità determina un costo, in termini di libertà personale, che, se è accettabile quando è attinente ad attività propriamente pubbliche, risulta odioso quando è causato da un’inefficiente ingerenza dello Stato in ambiti in cui potrebbe operare con successo la società civile. L’aliquota più bassa è del 23 per cento; se il lavoratore possiede la prima casa, il suo reddito figurato, in sede di calcolo IRPEF, annulla, o quasi, la detrazione fissa. Il nostro lavoratore pagherà per questo 21 euro di IRPEF allo Stato per ogni 100 euro di “lordo”, oppure per ogni 153 euro del costo di lavoro. Riassumendo: fino ad ora abbiamo un prelievo di (53 più 9 più 21); 83 euro di prelievo sui 153 euro lordi iniziali, sono pari al 55 per cento di quanto “rapinato” dallo Stato. Al lavoratore sono rimasti in busta paga circa 70 euro del lordo effettivo da lui guadagnato.
La quarta voce è costituita dall’IVA, che è pari al 20 per cento sulla maggior parte dei beni di consumo e sui servizi [come tutti sappiamo, oggi tale aliquota è pari al 22 per cento]. Si può calcolare che, facendo una media fra le diverse aliquote IVA, altri 13 euro se ne vanno con questa “imposta” che colpisce tutti in modo eguale. Così il lavoratore dà allo Stato 96 (83 più 13) euro dei 153 che l’azienda, il ministero o l’ente spende per lui. In tasca al lavoratore restano 57 euro (70 meno 13) dei 153 che ha guadagnato col proprio sudore: quasi un terzo di quanto ha prodotto con il suo lavoro! In Italia, dunque, non ci sono “evasori totali” in quanto anche chi evade le tasse sul reddito paga l’IVA su tutto ciò che acquista.
La quinta voce è costituita dalla tassa sui carburanti, compresi quelli utilizzati per il riscaldamento. La spesa annua per il carburante per il riscaldamento è calcolata mediamente in 750 euro (stiamo parlando di medie relative al 2003); mentre la spesa annua per 10.000 chilometri di percorrenza media della macchina è di altri 800 euro. Complessivamente, la spesa per la quinta voce è di 1.550 euro … Le tasse pagate su questa voce ammontano a circa 1.050 euro, che corrispondono a circa 7 euro dei 100 “lordi”, che portano il totale prelevato sui 153 euro iniziali del costo del lavoratore per l’azienda a 103 euro (96 più 7); a lui ne restano 50 (57 meno 7) su 153 guadagnati. [Inutile dire che ai giorni nostri la spesa per questa specifica voce contabile è letteralmente esplosa: in dieci anni, la sola componente fiscale – iva + accise – gravante sul prezzo dei carburanti ha avuto un’impennata del 19%, rispetto al valore medio stimato nel 2003, per il gasolio da riscaldamento; del 44% per la benzina; del 65% per il gasolio da autotrazione. Fonte Ministero dello Sviluppo Economico, periodo di rilevazione gennaio 2013 su gennaio 2003].
La sesta voce è il bollo auto che aggiunge al prelievo un altro 0,5 per cento.
La settima voce era l’ICI … [nata come “imposta straordinaria sugli immobili” (ISI), ed introdotta nell’ordinamento italiano nel 1992, ad opera del governo Amato, l’imposta venne abrogata nel 2008 dal governo Berlusconi; questa venne poi sostituita nel 2012 dall' “imposta municipale propria” (IMU), come prevista nell'ambito della legislazione attuativa del federalismo fiscale dal IV governo Berlusconi, la cui applicazione, con modifiche, venne anticipata dal successivo governo Monti]… la tassa più ingiusta e assurda che ci sia mai stata, perché ha colpito soprattutto la prima casa (che non procura alcun reddito), un diritto naturale inviolabile, meno che in Italia vien da dire. Questa imposta illegittima e anticostituzionale è giustificata dal fatto di dover mantenere le altissime spese folli dei Comuni. L’ ICI non solo è stata definita incostituzionale, ma anche chiaramente “predatoria”, in quanto ha sempre colpito il patrimonio accumulato da una famiglia attraverso una vita di sacrifici: una vera e propria imposta su un reddito presunto. Nel nostro conteggio, un altro euro se ne andava, mediamente, per questa imposta. A margine, … val la pena ricordare che i cittadini costretti a pagarla nella maggior parte dei casi non erano ancora proprietari a pieno titolo della casa, dovendo ancora estinguere mutui pluridecennali per il suo acquisto. Ebbene, complessivamente al lavoratore restano 48,5 euro (153 meno 53 meno 9 meno 21 meno 13 meno 7 meno 0,5 meno 1) sui 153 guadagnati, mentre lo Stato ne preleva 104,5. Il calcolo fatto fino a questo punto corrisponde quasi al 70 per cento di quanto un lavoratore dipendente guadagna e che invece è costretto a devolvere allo Stato in imposte, tasse e contributi. Ma non è finita qui. Sebbene il dato sia accuratamente nascosto dai giornali e dalla televisione, … il dato appare drammaticamente diverso da quello percepito dai lavoratori, perché chiunque sa che ci sono ben altri balzelli che i cittadini sono costretti a pagare, direttamente o indirettamente, ai cosiddetti Enti pubblici. Basta chiedere un permesso al Comune, parcheggiare la macchina (quasi che le strade non fossero state fatte e mantenute col denaro dei contribuenti), avere bisogno di medicine e di cure non previste dal Servizio Sanitario Nazionale, iscrivere un giovane all’università, pagare le tasse scolastiche, usare le autostrade che abbiamo già profumatamente pagato con i nostri soldi, pagare le tasse sui rifiuti, il passo carrabile, l’addizionale provinciale sull’acqua e sul gas, l’addizionale regionale, l’addizionale comunale, l’imposta sulla pubblicità (che le imprese scaricano sui consumatori), l’occupazione del suolo pubblico, il canone Rai, le tasse sulle assicurazioni, le imposte indirette sugli atti amministrativi, di bollo e di registro, le concessioni governative, le tasse sull’ IVA del riscaldamento, dell’acqua eccetera eccetera, che ci si accorge che il totale di ciò che complessivamente lo Stato preleva da quanto guadagnato dal lavoratore, è circa 113,5 curo sui nostri 153 lordi: quasi tre quarti del reddito! Senza contare l’inflazione, una tassa occulta che erode il potere d’acquisto di ciascuno di noi! Ma quanto, cari lettori, siete ancora in grado di sopportare tale soverchia? Non è forse schiavitù questa? Non solo, ma ad abundantiam come potrebbero mai essere inquadrati i fenomeni di finanziamento della spesa pubblica attraverso il ricorso all’indebitamento, ovvero attraverso i meccanismi dell’inflazione monetaria? Non potremmo forse considerare entrambi, di fatto, come degli opalescenti veicoli di tassazione ed imposizione occulta, che differiscono da quelle solo per degli specifici e qualificanti requisiti formali? Da un lato, è di tutta evidenza che l’unica differenza tra il debito e le tasse è solo una questione di tempo: imposte presenti versus imposte differite. Per finanziare i propri programmi di spesa lo Stato può chiedere soldi in prestito, emettendo delle obbligazioni che conferiscono al loro portatore il diritto di ricevere una certa somma dopo un determinato numero di anni. In virtù di questa emissione, lo Stato accresce sicuramente la propria disponibilità di cassa nel presente, ma contrae al tempo stesso un “debito futuro”, producendo un passivo alle proprie entrate di domani. A prescindere dalla quota parte che deve essere corrisposta sin da subito (gli interessi), chi garantirà, in futuro, la restituzione del capitale messo a disposizione, a coloro che hanno deciso di finanziare lo Stato? Ovviamente i tax payers di domani, i quali saranno senza dubbio vessati anche per far sì che gli obbligazionisti possano essere onorati. Come in maniera molto efficace, anche se probabilmente non troppo politicamente corretta, ha chiarito l’economista Robert P. Murphy, lo schema del ricorso massivo e sistematico all’indebitamento si regge su un assunto ben preciso, che si declina in una promessa fatta dai governanti ai loro finanziatori: <<sosteneteci e useremo le nostre armi per estrarre denaro dalla plebaglia disorganizzata, in modo tale che ogni anno possiate ottenere la vostra fetta di bottino>>. Lo stesso Murphy ha inoltre ben messo in evidenza in cosa si sostanzi, tra le altre cose, il folle ed irresponsabile affidamento alla leva della tassazione differita: poiché si ingenera una sorta di effetto di evizione del risparmio spontaneo, non è azzardato parlare di una vera e propria compromissione del futuro delle generazioni a venire. E questo per una ragione piuttosto semplice: I disavanzi pubblici drenano i risparmi dal settore privato e quindi sottraggono risorse che avrebbero potuto essere utilizzate in impieghi alternativi ben più produttivi, anziché sprecate in attività del tutto inutili. Ciò postula che la struttura produttiva dei beni capitali, di cui potrà beneficiare la prossima generazione, sarà sicuramente meno ramificata di quanto si sarebbe realizzato in assenza degli interventi distorsivi del governo. In questo senso, i nostri discendenti saranno infatti materialmente più poveri, perché il loro lavoro e le altre risorse a loro disposizione sconteranno un minor grado di produttività (tali fattori produttivi, di fatto, saranno supportati da un minor numero di strumenti e di attrezzature). D’altro canto, è storicamente comprovato che quando lo Stato, per qualsivoglia motivo, non riesca a ricorrere agevolmente allo strumento impositivo – non importa che si tratti di tassazione presente o di tassazione futura – per finanziare la propria spesa, esso può sempre avvalersi della sponda offerta dalle banche centrali, organizzazioni a loro volta beneficiarie di una particolarissima “patente regia”: quella di emettere denaro dal nulla, stampando moneta legale in maniera illimitata. Come, senza troppi giri di parole, ha ben evidenziato Gary North in un suo scritto illuminante: Gli uomini in carica crearono l’illusione che il sistema fosse stato congegnato in favore del popolo per proteggerlo da due gruppi di potere: il Congresso spendaccione e i banchieri commerciali avidi. In realtà era tutto il contrario: il sistema era stato congegnato per difendere i primi due gruppi dal popolo! Chi ha progettato il sistema sapeva che, lasciando al Congresso la gestione degli affari monetari, esso avrebbe potuto usare il sistema bancario per finanziare le proprie operazioni, cioè per creare soldi dal nulla e spenderli in progetti clientelari. Questo è esattamente ciò che ogni Stato vorrebbe e ha sempre voluto fare. Ma è del tutto evidente che tanta più moneta vi è in circolazione (c.d. inflazione monetaria), tanto più l’unità monetaria subirà una perdita secca di valore (c.d. inflazione di prezzo). Ed ecco, in buona sostanza, dove sta il pesante inghippo: l’espansione della massa monetaria, anziché generare anche una pur minimale produzione di ricchezza, determina al contrario una mera redistribuzione della stessa, per mezzo della contraffazione, tra gli operatori coinvolti nel processo economico. Il fenomeno in parola tende invariabilmente ad avvantaggiare:
(i) coloro che avranno accesso per primi alla moneta di nuova creazione, potendosi così garantire un incremento del proprio potere d’acquisto, per procurarsi beni e servizi che ancora non scontano il conseguente aumento dei prezzi (c.d. effetto Cantillon);
(ii) i debitori nei confronti dei creditori/risparmiatori, i quali saranno così soggetti ad un vero e proprio esproprio forzoso: questi ultimi, di fatto, saranno costretti ad accettare il rimborso del capitale prestato con delle risorse del tutto svalutate, il cui valore reale risulta assai deprezzato rispetto al momento in cui il prestito è stato acceso (c.d. monetizzazione del debito).
Insomma, come ha efficacemente spiegato Giacomo Zucco in un suo recente intervento, <<quando uno Stato (o la relativa Banca Centrale) crea moneta per spenderla, trasferisce ricchezza a sé, ai suoi dipendenti, fornitori, assistiti e beneficiari, prelevandola tramite l’inflazione dai settori di mercato più lontani dall’intervento statale. Quando poi uno Stato è anche indebitato fino al collo, come nel caso dello Stato Italiano, creando moneta preleva ricchezza anche dai suoi creditori, ovvero dai detentori dei suoi titoli di debito. L’aumento di base monetaria in legal tender è, quindi, a tutti gli effetti, una tassa. Non una creazione di ricchezza, ma un trasferimento di ricchezza dai sudditi verso lo Stato>>. Ecco perché allora. L’argomento contro la contraffazione è in sostanza un argomento contro la ridistribuzione di ricchezza per mezzo della frode. I falsari non hanno offerto in vendita beni e servizi in modo tale da beneficiare la società. Non hanno fornito un maggior numero di scelte a disposizione dei consumatori. Hanno soltanto comprato della carta e dell’inchiostro e poi hanno prodotto dei pezzi di carta. L’offerta supplementare di ritratti di uomini politici stampati sulle banconote non ha apportato alcun beneficio netto alla società. Considerata anche l’influenza negativa esercitata dai politici, morti o vivi che siano, la società è sicuramente più povera di prima (questo è pertanto anche un argomento a favore della moneta digitale sulla quale non appare alcun ritratto!). Fungendo da complemento ai classici strumenti impositivi e regolamentatori, il ricorso all’indebitamento ed il ricorso all’inflazione costituiscono semplicemente delle differenti facce della medesima medaglia: una medaglia fatta di coercizione, di sottrazione forzata ed indiscriminata di risorse create da produttori spesso del tutto consapevoli, ma godute da parassiti al contrario ben informati ed estremamente organizzati. Tanto peggio per chi lavora, produce e paga imposte. Il gioco però dura soltanto finché [questi ultimi] non si accorgono della loro condizione; allora l’incantesimo si rompe: i tributari si ribellano e cessa la pacchia per i parassiti. Mi chiedo solo: ma non è forse giunto il tempo per spezzarlo, questo maledetto incantesimo?
Regalo di Natale di Letta agli italiani: 2,1 miliardi di tasse in più nel 2014. Da Palazzo Madama via libera definitivo alla manovra varata dal Governo: i sì sono stati 167, i no 110. Dalle tasse che aumentano al lavoro che non c'è, quello di Letta è il Governo degli impegni non rispettati. Matteoli (Fi): "Letta è come Houdini, prova a illudere gli italiani". Romani (Fi): "Prende in giro tutti", scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’aula del Senato ha detto sì alla fiducia posta dal Governo sulla legge di Stabilità con 167 voti favorevoli. Sono stati 110 i voti contrari (Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Sinistra Ecologia e Libertà e Lega). Via libera anche al ddl bilancio, con 158 voti favorevoli, un voto contrario e un astenuto. L’opposizione al momento delle votazioni ha lasciato l’assemblea. Con il sì del Senato in terza lettura, la manovra economica per il 2014 (che comprende il ddl stabilità e il ddl bilancio) diventa legge. Dopo tante chiacchiere il governo rifila un panettone decisamente amaro agli italiani. Fatto soprattutto di tasse, tagli alla spesa sulla carta e promesse, tante promesse per il futuro (vedi l'abolizione delle province e la nuova spending review). Intanto la seconda rata dell'Imu è scattata e il governo non è riuscito a evitare l'aumento dell'Iva. Ma torniamo alle tasse: aumenteranno di 2,1 miliardi. E' questo il saldo previsto dalla Legge di Stabilità, tra entrate che vengono aumentate (8,2 miliardi) e quelle che, invece, vengono tagliate (6,1 miliardi). Complessivamente la manovra vale 14,7 miliardi nel 2014, di cui 12,2 miliardi di coperture e circa 2,5 miliardi di interventi a deficit. Il provvedimento determina il prossimo anno un aumento netto delle entrate, quindi del prelievo fiscale e contributivo, pari a 2,1 miliardi nel 2014, a circa 600 milioni nel 2015 e a 1,9 miliardi nel 2016. Le misure sulla casa invece dovrebbero comportare parità di gettito, con un peso equivalente Imu-Tasi pari a oltre 3,7 miliardi. E pensare che il governo era nato per ridurre la pressione fiscale e "non far pagare i soliti noti". Quella varata dal Governo e ratificata dal Parlamento appare una manovra sbilanciata: il 67% delle coperture per il 2014 viene da maggiori entrate, per scendere al 59% nel 2015 e nel 2016. Il prelievo fiscale e contributivo aumenta: come dicevamo di 2,1 miliardi nel 2014, di 600 milioni nel 2015 e di 1,9 miliardi nel 2016. A fornire i calcoli definitivi, dopo l’iter parlamentare, è stato il relatore Giorgio Santini (Pd), nel suo intervento in aula a Palazzo Madama. Bontà sua il relatore parla in termini positivi della manovra, dicendo che "indubitabilmente con questa legge di stabilità si avvia in Italia, dopo molti anni, una riduzione della pressione fiscale". Poi però si fa subito l'esame di coscienza e ammette: "Lo si fa non nella misura che si poteva auspicare e che servirebbe a colmare il grave disagio che vivono le famiglie, le comunità e le imprese". "Non so se preso dal clima natalizio, che gli ha dato una spinta all’eccessivo ottimismo, o se diventato per due ore un novello Houdini, Letta oggi ha provato a illudere gli italiani. Ha dipinto il 2014 come l’anno della ripresa, della crescita, dei posti di lavoro, delle riforme, della diminuzione delle tasse, della ritrovata concordia nazionale". Lo dichiara Altero Matteoli (Fi-Pdl). "Molte di queste mirabolanti realizzazioni -aggiunge- si dovrebbero attuare addirittura tra gennaio e febbraio, durante i quali si discuterà di legge elettorale, di riforme costituzionali, di Bossi-Fini, del mercato del lavoro, di delega fiscale e chi ne ha più ne metta. Auguri Presidente! Purtroppo per gli italiani - conclude il senatore - la realtà è ben diversa. Se poi il governo, anche a gennaio proseguirà con l’improntitudine che ha caratterizzato l’approvazione della Legge di Stabilità, del decreto salva Roma, solo per fare due esempi significativi, la sua fine è scontata". "Il disegno di legge di stabilità - dichiara il presidente dei senatori di Forza Italia, Paolo Romani - è il provvedimento che per primo ci ha convinti a non concedere la fiducia al governo e che conferma tutte le buone ragioni che avevamo per lasciare questa maggioranza: nessuna strategia, nessuna scelta di sviluppo, nessun coraggio. Soldi distribuiti a pioggia agli amici e agli amici degli amici, come una qualsiasi legge finanziaria della prima Repubblica. Si tratta -continua- di un disegno di legge che prende in giro gli italiani su punti fondamentali, come la riduzione del cuneo fiscale. Sapete, signori ministri, quanto rimarrà per il taglio del cuneo fiscale? Non credo, ho l’impressione che non lo sappiate. Una legge che prende in giro gli italiani sulle tasse della casa: avete sostituito l’Imu con altre imposte non meno gravose, ma ancora più confuse, così da aggravare l’incertezza e la paura di chi ha investito nella casa i risparmi di una vita".
La pressione fiscale in Italia è al 44,0% sul Pil nel 2012, in crescita rispetto al 42,5% dell'anno precedente. E' quanto risulta dai dati diffusi dalla Banca d'Italia per i quali il nostro Paese si colloca al quarto posto in Eurolandia (i Paesi che hanno adottato la moneta unica), insieme alla Finlandia (pure al 44%), e al sesto posto nella Ue, scalando di un posto la classifica. I Paesi al top della classifica sulla pressione fiscale in Europa sono la Danimarca con il 49,0% sul Pil, il Belgio (47,3%), la Francia (46,9%), la Svezia (44,7%), l'Austria (44,6%), Italia e Finlandia con il 44,0%, entrambe quarte dunque per l'area euro. Il nostro Paese - sempre analizzando i dati diffusi da Bankitalia - ha una pressione fiscale superiore sia alla media Ue (40,5%) sia alla media dell'area euro (41,6%). Italia sempre top debito Ue, peggio di noi solo la Grecia. Dai dati diffusi dalla Banca d'Italia, il nostro Paese risulta sempre al top nella classifica Ue per la mole del debito in rapporto al prodotto interno lordo: nel 2012 il debito pubblico lordo si è attestato al 127,0%, in crescita rispetto al 120,7% dell'anno precedente. Peggio di noi solo la Grecia, che ha un rapporto debito-Pil nel 2012 al 156,9%. Debito a tre cifre in Europa anche per Portogallo (124,1%) e Irlanda (117,4%). La media Ue è 85,2%, nell'area euro 90,6%. Rapporto deficit/Pil, Italia tra i Paesi virtuosi. Con un deficit al 3% sul prodotto interno lordo nel 2012, l'Italia si colloca tra i pochi Paesi virtuosi sotto il profilo dell'indebitamento netto. Sono infatti 17, ovvero la maggior parte, i Paesi europei che hanno un deficit più alto, tanto che la media della Ue è al 3,9% mentre quella dell'area euro è al 3,7%.
EVASIONE COME DIRITTO DI DIFESA.
Evasione, Befera: "Non è compatibile con la democrazia". Ogni anno evasi 130 miliardi di euro. Befera: "Il contrasto è una questione di equità sociale", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. "C’è bisogno di dire una parola forte e certa, di affermare che l’elusione e l’evasione fiscale non sono compatibili con la nostra economia e con nessun sistema veramente democratico". Il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, ha rimesso al centro dell'azione di governo il contrasto all'evasione fiscale sottolineando che l’ammontare delle tasse evase è stimato dalla Corte dei Conti intorno ai 130 miliardi di euro all'anno. "Visto l’ordine di grandezza - ha spiegato - il rafforzamento della lotta contro la frode fiscale e l’evasione fiscale è non solo una questione di entrate, ma anche di equità sociale". Nel saluto inviato in occasione del convegno La legalità fiscale italiana, asimmetrie e convergenze con l’Europa all’Agenzia delle Entrate, il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni ha spiegato che per contrastare l’evasione fiscale sono necessarie "risposte coordinate a livello internazionale". "In un’economia globalizzata - ha osservato il titolare del dicastero di via XX Settembre - un’azione efficace di contrasto all’evasione fiscale internazionale non può limitarsi a misure domestiche unilaterali: si rendono necessarie anche risposte coordinate a livello internazionale". Saccomanni ha, quindi, fatto notareche l’evasione fiscale possiede una significativa dimensione internazionale: "L'ampia diffusione di strumenti che consentono l’agevole trasferimento crossborder di attività finanziarie, attraverso sistemi finanziari informatizzati, rende l’utilizzo del canale estero ai fini dell’evasione un’opzione percorribile da una platea di contribuenti più ampia rispetto al passato". Il numero uno del Tesoro ha, infatti, ricordato che, insieme a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, il governo italiano ha avviato, nell’aprile scorso, un progetto pilota per lo scambio automatico di informazioni fiscali basato su un modello di accordo che gli stessi Paesi hanno elaborato con gli Stati Uniti per l’implementazione del Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca) e migliorare la compliance fiscale internazionale. "L’Unione europea ha fatto propria questa impostazione - ha concluso il ministro - e sta svolgendo un ruolo di primaria importanza nel promuovere un sistema globale per lo scambio automatico di informazioni". In realtà, nonostante l’impegno e i grandi passi in avanti fatti negli ultimi anni, per Befera c’è "ancora molta strada da fare". Il fenomeno complessivo dell’economia sommersa, è l'allarme lanciato dal direttore dell'Agenzia delle Entrate, ha ricadute pesantissime sul sistema economico e sociale del Paese. "Tali ricadute si manifestano sia direttamente, sul versante delle entrate erariali, oltre che falsando la normale e corretta concorrenza tra le imprese, sia indirettamente, sul versante delle prestazioni sociali", ha fatto presente Befera evidenziando anche la mancata dichiarazione dei redditi conseguiti. Un fenomeno che determina "un accesso indebito a quelle prestazioni sociali a cui, in gran parte, si accede sulla base della dichiarazione Isee, generando iniquità e perpetuando aree di privilegio che non sono compatibili con un sistema civile e democratico". In questo periodo di crisi, è la preoccupazione di Befera, "l’effetto redistributivo derivante dall’azione dello Stato è sempre più importante". Secondo il direttore dell’Agenzia delle Entrate, la diseguaglianza reddituale, che si sta sempre più accentuandosi, è "la vera patologia della nostra epoca" dal momento che "minaccia il funzionamento della democrazia e il senso della coesione sociale". "Nella nuova fase di competizione globale e dovendo fare i conti con l’attuale fase recessiva - ha concluso Befera, - nessuna economia può sopportare livelli di evasione come quelli registrati in Italia".
“Incompatibili” con l’economia saranno le vostre tasse. Befera esterna: "l'evasione fiscale è incompatibile con la democrazia"; Saccomanni a rinforzo: Alimenta la corruzione. Carissimi burocrati di tato, e se fossero la pressione fiscale insostenibile e la spesa pubblica elefantiaca il problema? scrive Luciano Capone su “Il Giornale”. Il responsabile della tassazione e il responsabile della esazione, ovvero il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni e il direttore dell’Agenzia delle Entrate e presidente di Equitalia Attilio Befera, hanno sferrato un attacco frontale all’evasione fiscale. «C’è bisogno di dire una parola forte e certa – ha detto Attilio Befera – di affermare che l’elusione e l’evasione fiscale non sono compatibili con la nostra economia e con nessun sistema veramente democratico». E poi ancora: «Il rafforzamento della lotta contro la frode fiscale e l’evasione fiscale è non solo una questione di entrate, ma anche di equità sociale». Il ministro Saccomanni ha dichiarato che «l’evasione fiscale è sinergica alla corruzione, all’illegalità e alla criminalità organizzata, che pregiudicano il buon funzionamento dell’economia» ed inoltre ha «effetti distorsivi sull’allocazione delle risorse e interferisce con il corretto funzionamento della concorrenza nel mercato». Non vorremmo fare la parte di quelli che difendono chi non paga le tasse, ma la retorica sull’evasione fiscale sta diventando eccessiva, come se i problemi della nostra economica derivino dal fatto che lo Stato non abbia risorse a sufficienza, quando in realtà l’erario oltre a recuperare l’evasione continua ad aumentare le tasse. L’unica cosa concreta e intelligente che a riguardo Befera e Saccomanni avrebbero potuto dire è che da oggi in poi lo Stato non toccherà più un euro dei soldi recuperati dall’evasione e che, appunto, ogni euro recuperato andrà automaticamente a ridurre le tasse di chi le paga tutte. Invece succede che ogni anno Befera attraverso Age ed Equitalia recupera oltre 12 miliardi di euro di evasione e Saccomanni (o chi per lui negli anni precedenti) non solo non riduce di pari importo le tasse, ma addirittura le aumenta per alimentare una spesa pubblica intoccabile ed ormai fuori controllo. Se, come dice Befera, l’evasione non è compatibile con la crescita economica e la democrazia, c’è da dire che ancor di meno lo sono questo livello di pressione fiscale e i metodi di esazione che nel corso degli anni hanno fatto carta straccia dello Statuto del contribuente. E con una pressione fiscale così elevata ulteriori poteri di controllo e intromissione nella privacy serviranno a rendere più difficile l’attività economica e la produzione della ricchezza, ma non ad eliminare l’evasione. Senza voler fare similitudini azzardate con modelli economici e protagonisti molto distanti dai nostri, basta ricordare a che in Unione Sovietica il mercato nero esisteva già a partire dal 1918 e nemmeno le fucilazioni (altro che pignoramenti) sono servite a eliminare quell’economia frutto dell’evasione che paradossalmente ha prolungato la vita dell’Impero comunista. Quanto alle osservazioni di Saccomanni si potrebbe tranquillamente sostituire la parola “spesa pubblica” alla parola “evasione” e nessuno avrebbe nulla da ridire: «La spesa pubblica è sinergica alla corruzione, all’illegalità e alla criminalità organizzata, che pregiudicano il buon funzionamento dell’economia». Non c’è bisogno di scomodare papelli e patti tra Stato e mafia per comprendere che le mafie attingano gran parte delle proprie risorse dalla spesa di comuni, province, regioni e Stato centrale: appalti, formazione, concessioni, sussidi e incentivi. Solo per una questione semplicemente operativa, è più semplice per la criminalità eleggere un sindaco, assessore o parlamentare e farsi assegnare un appalto milionario piuttosto che estorcere il pizzo a migliaia di cittadini. Ed anche sul tema della concorrenza il ministro dice solo una parte della verità: è vero che l’evasione falsa la concorrenza tra aziende che dovrebbero pagare la stessa quantità di tasse, ma in un mercato globale il peso più grande sulla competitività delle nostre imprese è proprio la pressione fiscale molto più elevata. Quindi se Saccomanni avesse detto che “le tasse falsano la concorrenza”, non avrebbe detto una bugia. Insomma ci sarebbe piaciuto che sul tema dell’evasione Befera e Saccomanni avessero fatto un altro discorso che fa più o meno così: “Non serve recuperare l’evasione fiscale se contemporaneamente non diminuiamo le tasse. Proponiamo quindi un patto ai contribuenti italiani: per ogni euro recuperato dall’evasione fiscale lo Stato taglierà un euro di spesa pubblica e il totale andrà a ridurre la pressione fiscale”. Con le cifre attuali sarebbero circa 25 miliardi di tasse in meno, si potrebbe eliminare l’Irap sul settore privato e tagliare di 12 punti il cuneo fiscale. Se le istituzioni non propongono un patto del genere vuol dire che il loro vero obiettivo non è la riduzione dell’evasione fiscale ma la ricerca di ulteriori risorse per alimentare la spesa pubblica e il potere delle strutture che dirigono.
Tasse, ogni anno 162 giorni di lavoro sono divorati dal fisco. Studio choc della Confesercenti: "Siamo il Paese delle tasse". Ogni anno 162 giorni di lavoro sono divorati dal fisco, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”.Tasse, imposte, balzelli. E ancora: balzelli, imposte, tasse. È un cappio che, da quando si inizia a pagare l'obolo allo Stato, continua a stringersi sempre più forte. Fino a lasciare senza fiato. Sono infatti lievitati a 162 i giorni di lavoro divorati dal fisco in un anno. Mentre il governo dei tecnici s'inventavano nuove tasse per accontentare le richieste di rigore avanzate dalla cancelliera tedesca Angela Merkel e dai tecnocrati di Bruxelles, la pressione fiscale lievitava oltre la soglia drammatica del 55% spingendo migliaia di imprese a chiudere i battenti e centinaia di imprenditori a togliersi la vita. "Comparando il nostro peso fiscale con gli altri Paesi emerge l’insostenibilità di quello italiano", spiega lo studio della Confesercenti sulla situazione della pressione fiscale. L’abbassamento della pressione fiscale è più che mai una priorità che non può essere risolta con qualche misura tampone. Le risorse vanno trovate tagliando la spesa pubblica. A certificarlo è stato lo stesso governo nel recente Documento di economia e finanza. "Il nostro è il paese delle tasse, delle troppe tasse - sottolinea la Confesercenti - abbiamo appena segnato il record della pressione fiscale, con il 44% del 2012, e già siamo pronti a superarlo di slancio con l’ulteriore aumento atteso per il 2013 (44,4%)". E il futuro, sempre stando alle valutazioni ufficiali, non promette nulla di buono: le previsioni "tendenziali", quelle cioè che diventeranno realtà se non si farà nulla, ci dicono che la maledizione del 44% ci accompagnerà - decimo più, decimo meno - almeno fino al 2017. Lo studio della Confesercenti ricorda che l’Italia è al primo posto in Europa nel total tax rate (somma delle imposte sul lavoro, sui redditi d’impresa e sui consumi), con un 68,3% che ci vede quasi doppiare i livelli di Spagna e Regno Unito e ci colloca bel oltre quello della Germania (46,8%); ai più alti livelli europei quanto a numero di ore necessarie per adempiere agli obblighi fiscali (269), 2,5 volte il Regno Unito, il doppio dei paesi nordici (Svezia, Olanda e Danimarca) e della Francia, un terzo in più rispetto al Germania. In coda, fra i paesi Ocse, nella graduatoria di efficienza della Pubblica Amministrazione, con un valore (0,4) pari a un quarto di quello misurato per la Germania e il Regno Unito. La crisi e la pressione fiscale spingono le imprese a evadere
Corte dei Conti: "L’aggravarsi della crisi ha trasformato l'evasione in una sorta di finanziamento improprio", scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Tasse, tasse e ancora tasse. Mentre il governo è al lavoro per abolire l'Imu sulla prima casa ed evitare l'aumento dell'aliquota Iva dal 21 al 22%, il presidente della Corte dei Conti Luigi Giampolino, in audizione presso le commissione Finanze e Bilancio della Camera, ha detto chiaramente che la pressione fiscale "effettiva", ottenuta depurando il prodotto interno lordo dell’ammontare stimato dei redditi evasi, ha raggiunto il 53%. Dieci punti oltre quella "apparente". Una percentuale da capogiro che azzoppa gli imprenditori e fa fallire le imprese che, in un momento di forte crisi economica, non riescono a far fronte al salasso fiscale. Oltre all'eccessiva tassazione, la Corte dei Conti ha rilevato anche i problemi connessi all'eccessiva evasione fiscale che, come ha spiegato Giampaolino, continua a essere "un problema molto grave" che causa difficoltà al sistema produttivo, aggrava l’elevato costo del lavoro, mina l'equilibrio dei conti pubblici e crea malessere sociale. La magistratura contabile ha, quindi, rilevato che la lotta all’evasione fiscale è stata caratterizzata da "andamenti ondivaghi e contraddittori" che "denotano l’esistenza di divisioni su un tema che, per sua natura, dovrebbe costituire elemento di piena condivisione e concordanza". Giampaolino ha, quindi, spiegato che l'aggravarsi della crisi economica ha reso "evidente e clamoroso" un fenomeno già noto da tempo: "il ricorso a una sorta di finanziamento improprio delle attività economiche attraverso il mancato pagamento di tributi e contributi".
Adesso lo ammette pure Befera: "C'è chi evade per sopravvivere". Befera: "C'è chi evade per sopravvivenza". E assicura: "Con meno tasse ci sarebbe meno evasione". Un'ovvietà che, però, Letta & Co. non colgono, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Che l’evasore sia un parassita nella società rispetto a chi paga le imposte è un dato di fatto". Nelle certezze granitiche di Attilio Befera sembra aprirsi un minimo spiraglio di umanità. Come era già accaduto nel viceministro dell'Economia Stefano Fassina anche il direttore dell’Agenzia delle Entrate sembra, infatti essersi reso conto che, guarda un po', la pressione fiscale è "un po' troppo alta". Ma non solo. Ai microfoni di Radio 24 è arrivato pure a concedere che non tutti evadono per fare i furbi e nascondere ricchezze nei paradisi fiscali. È arrivato addirittura ad ammettere che in Italia esiste un’evasione di sopravvivenza. "Indubbiamente, con una minore pressione fiscale - ha spiegato - ci sarebbe meno evasione per carenze di liquidità". In un Paese normale, dove non si lavora gran parte dell'anno per mantenere un Fisco famelico, come invece avviene in Italia, le dichiarazioni di Befera verrebbero prese come un'ovvietà, come un dogma che sta alla base del rapporto tra il contribuente e lo Stato. Nel Belpaese, invece, la pressione fiscale ha largamente superato la soglia psicologica del 50% mettendo in ginocchio industrie, pmi e artigiani. Con l'aggravarsi della crisi economica, anche la sinistra è arrivata ad ammettere che molti sono costretti ad evadere. Qualche mese fa se ne era accorto anche Fassina sollevando un polverone tra i vertici del Pd e della Cgil. "C'è chi evade per non morire", aveva detto il numero due del ministero dell'Economia. Insomma, per dirla con le parole di Antonio Martino, "chi froda il fisco e mette via soldi che il pubblico sperpererebbe senza pietà è un patriota". Oggi sembra accorgersene anche Befera che, pur non ammettendo alcuna marcia indietro sul redditometro, ha riaperto il dibattito su una pressione fiscale tanto eccessiva da frenare la crescita del Paese. "Ci sono vari tipi di evasione, noi cerchiamo di combatterli tutti con la massima intensità - ha spiegato - in Italia bisogna pagare le imposte e se non ci fosse Equitalia non le pagherebbe nessuno". Fa fatica a non bollare l'evasore come "un parassita della società". Lo considera "un dato di fatto". "L'evasione fa ancora parte della cultura italiana, bisogna cambiarla - continua - evadere non è furbizia, bisogna insegnarlo alle nuove generazioni. Siamo un Belpaese di evasori, speriamo di cambiare". Eppure sa bene che c'è chi è spinto a frodare il Fisco dal Fisco stesso. In ogni caso il direttore dell'Agenzia delle Entrate, il cui mandato scadrà a giugno del 2014, vuole che tutti gli italiani capiscano che bisogna pagare le imposte: "Al di là dell’aumento del gettito, è di insegnare che le imposte vanno pagate, per due motivi: sia per dare i servizi sia per redistribuire il reddito". Questo è l'obiettivo che dice essersi dato in vista della scadenza del mandato. Che un taglio della pressione fiscale possa comportare un maggior gettito alle casse pubbliche è un assioma tutto sommato facile da capire. Quando il Fisco è equo, i contribuenti pagano le tasse senza sentirsene oppressi. Proprio per questo il punto focale del piano economico che il Pdl ha portato al governo c'è una sforbiciata concreta delle tasse, a partire dall'abolizione dell'Imu sulla prima casa e dell'aumento dell'aliquota Iva dal 21 al 22%. Su questi punti, però, sia il premier Enrico Letta sia la compagine piddina che siede all'esecutivo sembrano non voler sentir ragioni. Proprio per questo, settimana scorsa, si è andati a un passo dalla crisi di governo. Ora che la ripresa inizia a farsi sentire sui principali indicatori economici, sarebbe infatti opportuno che il ministro Fabrizio Saccomanni e il collega Flavio Zanonato lavorino a un piano per ridurre sensibilmente la pressione fiscale.
Ecco le cento tasse che gravano sugli italiani. Addizionali, imposte, ritenute, tasse e tributi: ecco le cento scadenze che gravano sui italiani. Ma i servizi restano scarsi, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Mentre il governo lavora per cancellare definitivamente l'Imu sulla prima casa, la Cgia di Mestre si è presa la briga di andare a spulciare l'interminabile lista di "pedaggi" obbligati che gli italiani devono pagare ogni anno. L’elenco delle tasse che gravano annualmente sugli italiani annovera un centinaio di voci tra addizionali, imposte, ritenute, tasse e tributi. All'incirca una ogni tre giorni. Per farla breve: si lavora per mantenere il carrozzone pubblico. D'altra parte l'Italia nella top ten della classifica Ocse sul carico fiscale che pesa sul costo del lavoro. Nonostante il nostro sistema tributario sia così frammentato, il gettito risulta molto concentrato. Come emerge dallo studio pubblicato dagli artigiani di Mestre, gli incassi assicurati dalle prime dieci imposte valgono quasi 58,8 miliardi di euro. A fronte di un ammontare complessivo di oltre 472 miliardi di euro di entrate tributarie, l’incidenza percentuale del gettito prodotto da queste prime dieci voci è pari all’87,5% del totale. Le imposte che pesano maggiormente sulle tasche dei cittadini italiani sono principalmente due: l’Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche) e l’Iva (imposta generale sui consumi). La prima garantisce un gettito nelle casse dello Stato che sfiora i 164 miliardi di euro all’anno, la seconda poco più di 93 miliardi di euro. "Messe assieme queste due imposte incidono per oltre il 54% sul totale delle entrate tributarie", spiegano gli analisti della Cgia. Basta guardare i dati sui consumi che non ripartono nemmeno in seguito alla frenata dell'inflazione. Le vendite di prodotti alimentari sono crollate dall’inizio dell’anno dell’1,8% in quantità e del 3,7% in valore. "L'aumento dell’Iva dal 21 al 22%, scattato il primo ottobre, non farà che rendere tutto più difficile per famiglie e imprese", ha spiegato nei giorni scorsi la Confederazione italiana agricoltori. Secondo il report della Cgia di Mestre, a gravare maggiormente sui bilanci delle aziende sono l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive), che assicura 33,2 miliardi di gettito all’anno, e l’Ires (imposta sul reddito delle società), che consente all’erario di incassare 32,9 miliardi di euro. "Quest’anno - sottolinea il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi - ciascun italiano pagherà mediamente 11.800 euro di imposte, tasse e contributi previdenziali. E in questo conto sono compresi tutti i cittadini, anche i bambini e gli ultra centenari". Tuttavia, il dato disarmante è che gli italiani non usufruiscono di servizi adeguati. Molto spesso, nel momento del bisogno, il cittadino è costretto a rivolgersi al privato, anziché utilizzare il servizio pubblico. Questa situazione si traduce in un concetto molto semplice: spesso siamo costretti a pagare due volte lo stesso servizio. "Gli esempi che si possono fare sono moltissimi - conclude Bortolussi - succede se dobbiamo inviare un pacco, se abbiamo bisogno di un esame medico o di una visita specialistica, di spostarci, ma anche nel momento in cui vogliamo che la giustizia faccia il suo corso in tempi ragionevoli con quelli richiesti da una società moderna". Nel 2012 la somma di tasse e contributi ha raggiunto il 47,6% del reddito percepito dai lavoratori dipendenti, dodici punti in più rispetto al 35,6% della media dei 34 paesi. Un prelievo più alto si è registrato solo in altri 5 paesi: Belgio, Francia, Germania, Ungheria e Austria. E, secondo le elaborazioni dell’Adnkronos, nel periodo della crisi è aumentato ancora: dal 2007, infatti, si è registrato un incremento di 1,2 punti percentuali del peso degli oneri a carico di lavoratori e imprese sul totale del reddito. Nel dettaglio, le tasse che gravano sulle buste paga dei singoli lavoratori ammontano al 16,1% del reddito, mentre i contributi pagati dai lavoratori pesano per un altro 7,2% e la quota dei datori di lavoro ammonta al 24,3%. Il confronto con la media Ocse dimostra che il prelievo fiscale è di tre punti inferiore (13,1%), mentre i contributi versati dai lavoratori sono di un punto al di sopra del dato italiano (8,2%) e il versamento effettuato dal datore di lavoro è di 10 punti inferiore (14,4%). Un confronto con i paesi più industrializzati dal mondo evidenzia che Francia e Germania sono vicine all’Italia. Nel primo caso il peso di tasse e contributi ammonta al 50,2% del totale, mentre sui lavoratori tedeschi grava un prelievo del 49,7%. Lontano dalla vetta si posizionano, invece, gli altri membri del G7, con la Gran Bretagna che ha un’incidenza sul costo del lavoro del 32,3%, il Giappone subito dietro con il 31,2%, seguiti dal Canada con il 30,8%. A chiudere il gruppo ci sono gli Stati Uniti, con un peso di tasse e contributi che si ferma al 29,6%, cioè 18 punti inferiore all’Italia. La classifica dei salari lordi fa invece slittare di parecchie posizioni il Belpaese, facendolo fermare alla ventesima fila.
Cristo non aveva la partita Iva. Ieri ho pubblicato questo status sul mio profilo Facebook. Citavo un amico – che per ovvie ragioni rimarrà anonimo – che fa un lavoro simile al mio, nel mondo dell’informazione. Purtroppo i suoi introiti da precario non gli permettono di vivere una vita tranquilla: “Ogni volta che compra qualcosa alla cassa ha il terrore di venire umiliato se gli respingono la carta”. Sono tanti come lui che vivono davvero con pochissimo, senza tutele, sindacati o ammortizzatori sociali. E non lo danno a vedere: il senso della vergogna è più forte della necessità di denuncia. Voglio ringraziarlo, quindi, per aver accettato di pubblicare questo post su L’isola dei cassintegrati. A cura di Michele Azzu. Ieri ho fatto la spesa per i giorni di Natale, non la facevo per bene da due o tre settimane. Anche perché pure cercando tutte le offerte nei discount, come ho sempre fatto, spendi 50 euro e non compri quasi nulla: ti ritrovi con due buste piene, le svuoti sul tavolo di casa. Ti rendi conto che durerà davvero poco. Il momento peggiore ogni volta è alla cassa: il terrore che la mia carta (non di credito, per carità, e chi me la concederebbe) venga respinta. E pensare che non prelevo al bancomat prima di entrare al supermercato proprio perché il pensiero di togliere altri soldi dal conto mi fa stare male. È già successo altre volte che alla cassa non mi accettassero il pagamento: alcune è semplicemente la connessione della mia banca a non funzionare. Ho scelto una banca da due soldi e un conto online gratuito per non avere spese, non potrei permettermelo e quindi non posso aspettarmi granché. Sono anche andato in banca a spiegare la situazione: mi hanno trattato come l’ultimo dei pezzenti, facendomi capire che con un conto gratuito non avevo alcun diritto. “E cambia banca”, direte voi. Non ce l’ho fatta. Presentarmi a un altro impiegato, spiegargli quanto prendo, rifare tutto da capo…. l’umiliazione, una volta di più. Non ce la faccio. Altre volte la carta non ha funzionato perché erano finiti i soldi. Non mi avevano pagato delle fatture, nonostante avessi passato ore e giorni al telefono da un ufficio all’altro, per cercare di capire una buona volta quando sarei stato pagato (e quanto). Alla fine impari a non pensare più a nulla, a fregartene di tutto. Da quanti giorni mangi solo pasta? Non importa. Cosa avranno pensato di te le persone in fila alla cassa, o la cassiera? Non importa. Non è successo. Torno a casa e faccio il mio lavoro, il peggio possibile, tanto non mi pagheranno, tanto non mi importa più di nulla. Ormai ho tagliato tutto quello che potevo: non viaggio mai, esco solo per una birra con gli amici il weekend, non faccio vacanze, non compro nulla. Non riesco a “mettere da parte” nulla. Ho 33 anni e la partita iva: di quella miseria che guadagno pago il 33 per cento di tasse allo Stato, che in realtà diventa un 50 per cento se conti l’anticipo sulle tasse del prossimo anno. E i mille euro che si prende il commercialista. La maggior parte dei miei soldi se li prende l’Inps, eppure non posso sapere neanche quanto prenderò di pensione da vecchio, anche se sembrano tutti concordi nel dire che sarà una cifra ridicola. E se domani al lavoro mi danno un calcio in culo, per qualsiasi ragione, non ho alcun sussidio. Una volta sono andato a un sindacato importante a spiegare la mia situazione, mi hanno detto che non possono farci nulla. E hanno ragione, è tutto in regola. Mi sento in trappola, in prigione, ho la claustrofobia, e non c’è nulla che possa fare per uscirne. Non sono precario, sono povero, povero in canna. A forza di fare economie sulla mia vita e di cercare di lavorare il più possibile, correndo da una parte all’altra per risolvere tutti quei problemi che capitano sempre quando non hai un soldo… alla fine non so più cosa è rimasto della persona che ero. Nulla, quasi nulla. Io non so chi sono. Continuo a lavorare un giorno dopo l’altro come un fantasma, e quando passo davanti alle vetrine di natale, io, continuo a guardare dritto. Andrò a dormire e domani mi alzerò, indosserò la camicia e la giacca buona e fingerò un’altra volta di essere una persona normale, con una vita normale. Proprio come voi.
Quando un lavoro non basta più. Hanno un'occupazione fissa e uno stipendio. Eppure non riescono a pagare l'affitto, gli alimenti e le spese di un'auto. Affollano con vergogna le mense gestite dalle associazioni caritatevoli. Sono i nuovi poveri. Un fenomeno in continua crescita, diffuso in tutte le aree del Paese, scrive Paola Bacchiddusu “L’Espresso”. Qualcuno li chiama "i cartoneros italiani", mutuando la definizione dalla recente storia del collasso finanziario in Argentina. Quando, nei primi anni del Duemila, la crisi spazzò certezze e risparmi della classe media del paese, partorendo nuovi, drammatici fenomeni sociali. All'epoca, per reinventarsi un lavoro dopo aver perso l'impiego, intere famiglie raccoglievano, per rivenderlo, materiale rinvenuto nei sacchetti dell'immondizia, abbandonati sui marciapiedi di Buenos Aires: cartone, legno, plastica, vetro, metallo. Oggi il fenomeno italiano non è identico, ma un ibrido forse perfino più preoccupante. Perché da qualche anno, nelle nostre città, vive e si muove, piuttosto in silenzio, una nicchia di povertà di cui gli stessi protagonisti a stento riescono a parlare. Sono i poveri con un lavoro e uno stipendio. A volte fisso, altre volte precario. La fotografia dell'Istat, elaborata in collaborazione con il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, la Caritas e la Federazione italiana organismi per le persone senza fissa dimora, restituisce quote che si aggirano sul 24,5 per cento del totale dei senza tetto, e una fascia d'età compresa tra i 35 e i 45 anni, con un livello d'istruzione media. Una popolazione che vive in uno "stato di deprivazione": cioè, tecnicamente, nonostante possa contare su una busta paga, non è in grado di sostenere spese impreviste, ha arretrati nei pagamenti quotidiani, non riesce a garantirsi un pasto adeguato almeno ogni due giorni e, in alcuni casi, non è più capace di sostenere le spese per un mutuo o per un affitto. La casistica più frequente è quella del padre che, in seguito alla separazione, deve garantire l'assegno di mantenimento per la propria famiglia, e una sistemazione dignitosa anche per sé. Secondo l'Eurispes si tratta di 4 milioni di individui, di cui l'80 per cento non riesce a sopravvivere con il proprio stipendio. Le segnalazioni sono geograficamente trasversali. Provengono dalle grandi città distribuite sull'intero territorio: Milano, Firenze, Roma, Napoli, Cagliari. I "poveri con impiego" dormono per strada, negli androni dei palazzi, nei centri di accoglienza, in macchina, da qualcuno che li ospita, perfino sui terrazzi. Si lavano nei bagni dei bar, delle strutture sociali, fanno le docce a casa di amici. E poi si recano regolarmente al lavoro. In silenzio. Perché rivelare la condizione in cui vivono, in questi casi, non è solo una questione di dignità e pudore. Ma si rischia di recidere anche l'ultimo laccio che li tiene miracolosamente collegati al contesto sociale: il lavoro. Carlo (il nome è di fantasia per rispettarne la privacy) ha 36 anni. Dopo 2 anni di lavoro in Canada è rientrato in Italia. I genitori non gli hanno offerto accoglienza. Ha un lavoro come restauratore e artigiano, ma da 5 mesi vive per strada perché non riesce a pagarsi un affitto. Qualcuno gli ha offerto un locale dove utilizzare un pc e depositare alcune sue cose. Emilio ha 46 anni. È un insegnante elementare precario, lavora a Roma. Si è separato dalla moglie e ha due figli che vivono in Calabria. È sempre riuscito a pagare 500 euro d'affitto per un posto letto, ma quando non gli è stata restituita la caparra da alcuni proprietari delle stanze che occupava, la sua condizione è precipitata. Ha bruciato i pochi risparmi e si è indebitato. Non ha un luogo fisico dove trascorrere la notte. Sono solo alcuni dei casi registrati nell'ultimo anno dalla Comunità di Sant'Egidio di Roma, che si occupa di offrire assistenza anche ai nuovi "poveri retribuiti". Francesca Zuccari, responsabile dei centri d'accoglienza della comunità, parla di una preoccupante impennata di casi simili, negli ultimi tempi: "In 5 anni queste condizioni si sono moltiplicate. La fascia d'età di chi ha un reddito ma non riesce più ad affrontare le spese che comporta una casa è tra i 40 e i 60 anni. Al principio si trattava perlopiù di anziani in situazioni di solitudine. Oggi l'età si è sensibilmente abbassata. A Roma il problema della sofferenza economica è determinato dal costo esoso dell'alloggio. Molti di coloro che hanno un lavoro vivono per strada. Possiamo ospitarne solo alcuni, mentre riusciamo a tamponare quasi interamente, per ora, il problema dei pasti distribuiti in mensa". Nel 2011 si sono rivolte al centro circa 1500 persone di cui poco più della metà maschi. Coloro che vivono per strada sono il 25 per cento. Di questi gli italiani sono il 18, 5 per cento. E parte di loro hanno un lavoro regolare. Nel rapporto di Sant'Egidio sulla povertà a Roma e nel Lazio, pubblicato nel 2012, la regione si colloca al terzo posto per numero di sfratti. La sola capitale, nel 2011, ne ha registrati duemila, collocandosi al vertice delle città italiane più colpite dal fenomeno. Nel 24% dei casi la causa è da ascriversi alla perdita del lavoro, mentre nel 21% si tratta di lavoratori che ancora percepiscono un'entrata, sebbene non sufficiente: ad esempio i cassaintegrati. Anche la Lombardia, che pure rappresenta il traino della produzione del pil nazionale, non fa eccezione. Anzi, nelle città più grandi, come Milano, il costo della vita è così alto che la conseguenza più dolorosa è proprio la perdita della casa. Don Roberto Davanzo, direttore della Caritas ambrosiana, solleva una preoccupazione che negli ultimi anni si è fatta più pressante: la progressiva incapacità, da parte delle amministrazioni locali, di offrire un aiuto concreto. Un po' per il drastico taglio dei fondi, causato anche da politiche centrali, un po' per il moltiplicarsi dei casi, rispetto al passato: "Bisogna lavorare in sinergia", dichiara all'Espresso. "La rete assistenziale privata, cattolica e laica, sul tessuto lombardo è ancora forte, ma non è più sufficiente. Milano dispone di circa tremila posti letto, tra prima e seconda accoglienza. Ma i senza fissa dimora si aggirano attorno ai 5-6mila casi. Abbiamo fatto richiesta al comune di gestire, almeno in parte, i 2mila appartamenti lastrati (cioè blindati) e sfitti dell'Aler (le case popolari). Potremmo riqualificarli e metterli a disposizione di chi ha necessità. Alcuni li abbiamo già ristrutturati a nostre spese. Il problema è che, ultimamente, sono gli stessi enti pubblici a rimandarci indietro famiglie in difficoltà, perché non riescono più a sostenerne i costi". Lo slogan concepito dal direttore è "Meno posti letto ma più di qualità". Perché l'obiettivo, proprio per coloro che hanno ancora un lavoro, è di renderli di nuovo autonomi, con meccanismi che li sgancino dalla povertà. "Sa quanti dipendenti del terziario vengono in mensa dall'ufficio, in giacca e cravatta? Alcuni ci chiedono un aiuto economico, altri ricevono mensilmente le borse della spesa dalle parrocchie. Con un solo stipendio, ormai, a Milano non si riesce più a pagare l'affitto, gli alimenti e le spese di un'auto. Il problema è che ci muoviamo sempre nel circuito della logica emergenziale, senza piani lungimiranti. Il welfare del domani, invece, deve ricevere dall'ente pubblico una funzione di regia che non deleghi soltanto, ma interloquisca con noi e altre realtà associative assistenziali dentro meccanismi di co-progettazione. Non vogliamo essere meri esecutori, ma coprogettisti. Questo, spesso, crea un problema alle amministrazioni". L'ultimo rapporto sull'esclusione sociale in Lombardia, pubblicato da Eupolis (l'istituto superiore lombardo per la ricerca, la statistica e la formazione), fotografa il fenomeno, analizzando i dati del 2011. Si è assistito a un un progressivo incremento della povertà relativa degli italiani (passati dal 33,7% del 2008 al 37,3% del 2011), a causa delle crescenti difficoltà occupazionali derivanti dalla crisi in corso. Il 41, 6 per cento sono adulti, di cui quasi la metà italiani. Tra le maggiori cause di eventi critici che hanno determinato la condizione di indigenza, al primo posto si colloca la perdita del lavoro (34% degli enti sentiti) e al secondo il reddito insufficiente (25%). Il 14 per cento degli assistiti sono "occupati regolari". Il reddito medio di coloro che sono impiegati è di 724 euro: una cifra irrisoria e assolutamente sproporzionata rispetto al costo medio di un alloggio, in Lombardia e a Milano in particolare. Anche la Toscana non si sottrae al fenomeno. Il Cesvot, Centro Servizi Volontariato Toscana, è gestito da 29 realtà regionali di volontariato. Prezioso è il suo lavoro di ricerca, documentazione e informazione per oltre 3mila associazioni toscane. Nell'ultimo rapporto sulla crisi economica e la vulnerabilità sociale, pubblicato nel 2012, emerge anche un fenomeno collaterale alla perdita della casa di famiglie o singoli che dispongono ancora di un reddito e di un'occupazione: il ricorso all'indebitamento, spesso causato dall' affidarsi a figure che praticano l'usura. A volte si tratta di famiglie in cui entrambi i coniugi lavoravano e uno dei due ha perso l'impiego che riusciva a coprire il costo di un mutuo o di un affitto. In altri casi chi viene strangolato nelle maglie degli strozzini è un padre separato che non è più in grado di corrispondere l'assegno di mantenimento familiare e, al contempo, di sostenere le proprie spese. È schizzata persino la percentuale delle imprese artigiane o commerciali che, per proseguire l'attività, è annegata nell'indebitamento folle: dal 5 per cento del 2000 fino al 40 per cento di oggi. Spesso si tratta di artigiani che lavorano nei tomaifici o nel settore calzaturiero. L'allarme è soprattutto nei confronti della classe media, che costituisce un'utenza nuova per le strutture di assistenzialismo. Da casi episodici si è infatti passati a una certa regolare frequenza che potrebbe aggravarsi con il perpetrarsi della crisi, come denuncia il report. "A Lucca – racconta il segretario del vescovo nel report – alcuni antiquari che risiedono in abitazioni antiche e di prestigio, all'interno delle mura (zona residenziale alta), hanno accusato l'arresto quasi totale dell'attività. Alcuni di essi non sono più in grado di pagare le bollette e le spese di mantenimento di appartamenti così costosi. È un fenomeno del tutto nuovo e assai preoccupante perché non colpisce la classe operaia, ma il ceto benestante". Se ne parla di rado, riferisce il parrocco, perché la condizione psicologica di chi è colpito è di estremo imbarazzo. Spesso, secondo quanto riporta il centro d'ascolto della Caritas locale, si chiede alla Chiesa se sia possibile un aiuto per trovare un'occupazione per sé o per la propria moglie, che non ha mai lavorato. L'associazione Misericordia di Firenze, uno dei più antichi enti assistenziali cattolici che opera in sinergia col comune, registra un incremento, da fine 2011, di richieste di contributi sul pagamento delle bollette. I nuclei familiari assistiti sono circa 500 e spesso in essi almeno uno dei due coniugi ha un lavoro fisso. L'ente distribuisce pacchi di generi alimentari sulla base di un paniere o tramite l'attribuzione di tessere a punti che consente ai titolari di effettuare una spesa agevolata in uno dei punti alimentari convenzionati con la Misericordia. Soluzioni tampone, che tentano di arginare l'emorragia sociale sempre più forte. Ma è possibile uscire dalla logica emergenziale e predisporre dei piani assistenziali più strutturati? Il rapporto lombardo di Eupolis sembra dare una risposta in questo senso e fornisce un primo indirizzo nelle misure da adottare per contrastare la "nuova povertà". "La moltiplicazione delle occasioni lavorative attraverso processi di formazione e riqualificazione; il sostegno al reddito mediante bonus, voucher, erogazioni liberali, microcredito; l'avvio di forme di sostegno anti-usura; la messa a disposizione di alloggi economici temporanei o di lunga durata". Il reale ostacolo, però, come sottolineava il direttore di Caritas Ambrosiana Roberto Davanzo, è l'eterogeneità delle sfide - tanto più difficili da gestire quanto più compromessa è la situazione di partenza. È impossibile per un singolo ente non profit effettuare interventi risolutivi (in questo senso, anche i dati statistici scoraggiano). La soluzione sarebbe proprio quella, per una volta, di unire gli sforzi con altri partner pubblici o privati.
QUOTE LATTE E TESORETTO NON RISCOSSO.
Quote latte, il tesoretto nascosto che lo Stato non richiede. Lo Stato potrebbe recuperare due miliardi e mezzo dai produttori che hanno sforato la soglia loro assegnata. Invece nell’ultimo anno ha incassato appena 40 milioni. Intanto il debito viene occultato nel bilancio e adesso rischiamo anche una condanna dell’Unione europea, scrive Paolo Fantauzzisu “L’Espresso”. Nell’Italia delle mancate coperture finanziarie e dei conti sballati per poche centinaia di milioni, c’è una partita a nove zeri che proprio non sembra interessare a chi ci governa: il recupero delle multe pagate per l’inosservanza delle quote latte. Una vicenda che - fra minori trasferimenti dell’Unione europea e anticipi dello Stato - è già costata ai contribuenti quattro miliardi e mezzo, come denunciò esattamente un anno fa la Corte dei conti. In quell’occasione partiti e governo si stracciarono le vesti, promettendo il loro impegno a incassare le somme. Non proprio una sciocchezza, visto che sul piatto c’è un tesoretto da due miliardi e mezzo che potrebbe essere incamerato facendo pagare le sanzioni ai produttori che dal 1995 al 2009 hanno sforato la quantità loro assegnata. Eppure nulla si è mosso: negli ultimi 12 mesi, fotografano i magistrati della Sezione centrale di controllo in una nuova relazione depositata nei giorni scorsi, sono stati riscossi appena 40 milioni. Lo 0,02 per cento. E dire che nel corso del 2013 sono divenuti esigibili altri 100 milioni per fine contenzioso. Invece, scrive la Corte, resta il paradosso che “per somme ingenti, alcune delle quali recuperabili già dal 1996, non si è pervenuti ancora oggi all’effettivo introito”. In questo modo non solo “la perdita, che avrebbe dovuto gravare sui produttori di latte eccedentari, è stata finora finanziata in gran parte con fondi pubblici e quindi posta a carico della generalità dei contribuenti italiani”, ma il passare del tempo “comporta un rilevante incremento della probabilità che questo non sia più recuperabile”. Giornata di tirata d'orecchie per l'Italia a Bruxelles. La Commissione europea mette chiede al governo il corrispettivo per gli sforamenti delle quantità assegnate tra il 1995 e il 2009. "L'infrazione - commenta i vertici Ue - riguarda un investimento pubblico fatto dal governo che riguarda 1980 casi illegali, quindi tocca alle autorità recuperare il denaro". UNA STORIA ITALIANA. Quella delle quote latte è una vicenda tutta italiana, che assomma la confusione normativa a una burocrazia letargica e l’inosservanza delle regole alla volontà politica di non farle rispettare per convenienze elettorali. Basta pensare alle proteste - con tanto di blocchi autostradali e lanci di letame - quando il primo governo Prodi cercò di far pagare le multe ai produttori, come prevedeva una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Coccolati e blanditi, soprattutto dal centrodestra e dalla Lega, poche migliaia di produttori scorretti sono riusciti (e riescono tuttora) a tenere in scacco un intero Paese, nonostante le infinite proroghe per i pagamenti e le offerte di rateizzazione che si sono succedute nel tempo. Le cause? “Inerzia amministrativa” e “comportamenti non tempestivi che accompagnano e forniscono linfa alle aspettative dei produttori inadempienti”, scrivono i giudici contabili. Ma anche scelte apparentemente assurde, come la decisione del governo Monti di affidare l’onere della riscossione all’Agea, scalzando Equitalia. Peccato che l’agenzia ministeriale per le erogazioni in agricoltura, decimata proprio dalla spending review dell’esecutivo tecnico, abbia un organico insufficiente e sia afflitta da una pesante crisi finanziaria. Ciononostante ha dovuto spendere oltre due milioni per attrezzarsi per il nuovo compito. Mentre Equitalia, ormai tagliata fuori, non può più proseguire nessuna riscossione delle pendenze per carenza di legittimazione. Nemmeno quelle ormai giunte quasi a conclusione. BILANCIO CON TRUCCO. In questa situazione c’è perfino l’assurdità di uno Stato che nasconde il lento dissanguamento dovuto da questa condotta sterile e dissennata. Per la Ue il fatto che lo Stato anticipi i soldi dei produttori, facendosi poi carico di farseli restituire, configura un illegittimo aiuto di Stato che viola la concorrenza. La Commissione europea ha così deciso di stornare parte del denaro erogato mensilmente all’Italia per gli aiuti all’agricoltura. Il più classico dei circoli viziosi, perché con meno fondi a disposizione l’Agea non è più stata in grado di concedere tutti i sussidi previsti. Risultato: la Tesoreria è stata costretta a mettere a disposizione le risorse mancanti. Di fatto, una sorta di espediente contabile, visto che “questo modo di procedere consente di mantenere sommerso un debito a carico del bilancio statale”, denunciano i giudici. Integrazione dopo integrazione, lo Stato ci ha rimesso finora 1 miliardo e 693 milioni. PER COLPA DI CHI? Se l’Italia resta ferma, chi si muove nel frattempo è proprio l’Europa. Lo scorso 20 giugno Bruxelles ha inviato una lettera di messa in mora esortando a darci una mossa nell’attività di recupero, pena il rischio di sanzioni. Noncurante di tutto ciò, il ministero delle Politiche agricole (Mipaaf) aveva già optato per una nuova rateizzazione delle multe, “pur essendo a conoscenza che sulla vicenda era già in corso l’avvio di una procedura d’infrazione”. Esemplare è anche la vicenda del commissario straordinario per le quote latte, istituito proprio per riuscire a ottenere le somme dovute: scaduto a fine 2012 e prorogato per un semestre, è stato sostituito ad aprile. Il nuovo, che doveva durare due mesi soltanto, è stato a sua volta prorogato dal governo Letta, sempre “con molte settimane di ritardo rispetto alla scadenza”. Risultato: “discontinuità amministrativa” e “ulteriore rallentamento delle attività” di riscossione. Ma gravi responsabilità, in base agli atti depositati e citati nella relazione della Corte, sembrano emergere soprattutto nei confronti del comando carabinieri Politiche agricole. Nel 2010 l’allora ministro, il leghista Luca Zaia, affidò loro una ricognizione generale sullo stato dell’arte. Dalla documento finale emerse la presenza di errori di calcolo di Agea tali da vanificare molte contestazioni ai produttori. Quelle conclusioni, tuttavia, oggi il Mipaaf le respinge fermamente: in una memoria depositata il ministero fa riferimento a “errori di impostazione talmente gravi (contenuti nel dossier) da far apparire il tutto solo come un esercizio finalizzato a generare inutile confusione”. Inoltre il documento venne diffuso proprio mentre iniziavano le prime richieste di rateizzare i debiti, che il governo Berlusconi aveva concesso. In questo modo dai 1.500 produttori che avevano chiesto di poter percorrere questa strada, alla fine solo 300 alla fine hanno firmato l’accordo. E solo 127 hanno poi tenuto fede agli impegni assunti. “La conseguenza pratica della relazione dei carabinieri è stata una interruzione dei pagamenti”, la laconica conclusione dell’Agea.
ITALIA. PAESE DELLE 100 TASSE E DEI DISSERVIZI, RITARDI E SPRECHI SOTTO GLI OCCHI DI TUTTI.
L'Italia fatica a uscire dalla crisi economica globale, zavorrata da un livello di competitività globale non al passo con quello dei maggiori Paesi, scrive “La Stampa”. Secondo il World Economic Forum, quanto a competitività, il nostro Paese sarebbe il quarantaseiesimo al mondo, su livelli ben distanti da quelli di Germania (sesta), Francia (sedicesima), Regno Unito (diciottesimo) e Spagna (trentottesima). Da cosa è resa ancora più complicata la corsa contro le difficoltà economiche degli italiani? Secondo una ricerca dell'Ufficio studi della Cgia di Mestre (Associazione artigiani piccole imprese) dal carico fiscale eccessivo a dotazioni infrastrutturali carenti che comportano, per il nostro sistema economico, spese per 120 miliardi di euro l'anno che si potrebbero evitare. La pressione fiscale che manda a fondo. Secondo l'indagine della Cgia, le nostre imprese devono confrontarsi con i competitori europei sostenendo - al contempo - un pressione fiscale che non ha eguali nell'area euro. In particolare, tra imposte, tasse e tributi, le nostre imprese spendono 68,3 miliardi di euro l'anno. Se il sistema tributario italiano si adeguasse a quello tedesco, le aziende arriverebbero a risparmiare 82 miliardi di euro. In Italia, infatti, la pressione tributaria in Italia vale infatti ben il 29,1% del Pil, 4,5 punti percentuali in più della media dei Paesi dell'area euro (24,6%) e il 5,4% in più della Germania (23,7%). Scendendo nel dettaglio, si scopre che il gettito fiscale proveniente dalle imprese in Italia è pari al 17,4%, dunque più elevato rispetto a quello delle imprese spagnole (14,3%), inglesi (13,5%), tedesche (13%) e francesi (9,9%). Infrastrutture ed energia: altre zavorre. Ma sono anche altri i fattori che rendono più difficile la vita delle aziende italiane. Dopo le tasse, altra nota dolente sono infatti le carenze infrastrutturali: stando all'indagine di Cgia, ammonterebbero a circa 40 miliardi di euro le perdite annuali stimabili a danno del sistema imprenditoriale a causa dell'inefficienza complessiva del settore della logistica. Se i ritardi della giustizia civile in Italia costano alle imprese circa 2,7 miliardi di imprese, i problemi legati all'energia pesano per 7 miliardi di euro sul tessuto produttivo del Belpaese: tale è il maggior costo annuo sostenuto dalle imprese italiane per l'approvvigionamento energetico per effetto del gap tariffario rispetto alla media dei nostri diretti concorrenti europei. I problemi, inoltre, arrivano anche dal rapporto tra le imprese e lo Stato, con le aziende italiane costrette a scontare un ritardo medio dei pagamenti della Pubblica Amministrazione pari a 86 giorni, a fronte degli 11 giorni della Germania, ai 19 del Regno Unito e ai 22 della Francia. Non può mancare, inoltre, un accenno ai maggiori costi dei conti correnti - stimabili in 4,2 miliardi di euro - che famiglie e imprese italiane devono sostenere rispetto alla media europea. In Italia il costo annuo per un conto corrente è infatti pari a 295 euro, a fronte di una media europea di appena 114 euro.
Italia il Paese delle 100 tasse. Tutte le imposte che paghiamo, scrive “Affari Italiani”, in collaborazione con professionisti.it. Torniamo a parlare di Tasse e Imposte italiane, l’argomento più discusso, tormentato e, soprattutto, sofferto dai cittadini. Ricordiamolo ancora una volta: nel nostro Bel Paese, abbiamo una pressione fiscale fra le più alte d’Europa. Ma se dovessimo dirlo, precisamente, attraverso i numeri: quante tasse gravano sullo sfortunato popolo dei contribuenti italiani? Ci ha pensato uno studio condotto dall’Associazione Artigiani piccole Imprese di Mestre (CGIA) contare una per una tutte le Tasse e le Imposte che gli Italiani sono costretti a pagare. Il risultato? Numero tondo: un bel 100. È questo esattamente il numero di balzelli vari attualmente in vigore nel nostro Paese (tasse, addizionali e ritenute). Se vogliamo farci ancora del male, è possibile andare a quantificare precisamente il valore monetario per le casse dello Stato di ognuna di queste 100 meraviglie tricolore? La somma è 472 miliardi di gettito annuo per i forzieri del Fisco, mentre per le tasche dei cittadini significano un esborso medio pro capite di 11.800 euro. Cifre vertiginose, non c’è che dire. Le tasse più pesanti. Lo studio della CGIA di Mestre ha anche stilato una sorta di classifica delle tasse che pesano maggiormente sui poveri contribuenti italiani. Il quadro è il seguente. L’IRPEF è al primo posto, col suo gettito contributivo di 164 miliardi l’anno. Segue l’Iva, che porta nelle casse del sistema fiscale statale ben 93 miliardi di euro l’anno. Già le prime due posizioni spiegano agevolmente la ragione di tanta discussione su queste due imposte e rendono palese perché i Governi non facciano che metter mano – mai al ribasso! – sempre su queste due voci tributarie: IRPEF e Iva messe insieme rappresentano il 54% del gettito tributario annuale. La CGIA di Mestre ha anche considerato l’evoluzione al rialzo delle imposizioni fiscali. È risultato che dal 1986 a oggi, la pressione fiscale è aumentata addirittura del 9% che è pari a circa 140 miliardi di gettito fiscale in più.
E i servizi? “Quest’anno", ha spiegato in merito Giuseppe Bortolussi, il segretario della Cgia, "ciascun italiano pagherà mediamente 11.800 euro di imposte, tasse e contributi previdenziali. E in questo conto sono compresi tutti i cittadini, anche i bambini e gli ultra centenari." "Tuttavia", aggiunge, "il dato disarmante è che gli italiani non usufruiscono di servizi adeguati. Molto spesso", infatti, "nel momento del bisogno, il cittadino è costretto a rivolgersi al privato, anzichè utilizzare il servizio pubblico. Questa situazione si traduce in un concetto molto semplice: spesso siamo costretti a pagare due volte lo stesso servizio." "Gli esempi che si possono fare sono moltissimi", ha illustrato. "Succede se dobbiamo inviare un pacco, se abbiamo bisogno di un esame medico o di una visita specialistica, di spostarci, ma anche nel momento in cui vogliamo che la giustizia faccia il suo corso in tempi ragionevoli con quelli richiesti da una società moderna". Queste le cifre viste dalla prospettiva dei contabili di Stato. Dal punto di vista dei cittadini restano ancora molte considerazioni da fare. Se da Nord a Sud le tasse aumentano per tutti, a unire la penisola (con punte maggiormente evidenti al meridione) è la mancanza cronica di servizi, che dovrebbero essere il giusto contraltare ai fondi ingenti raccolti dal fisco statale. All’aumentare della pressione fiscale nell’ultimo trentennio, infatti, non è corrisposto un miglioramento progressivo dei servizi al cittadino, grave pecca che ci rende spesso molto lontani dall’essere una nazione evoluta e sviluppata. Cresce allora il ruolo dei privati capaci di offrire, con ulteriore esborso, tali servizi, spesso insostituibili come una sanità di qualità, assistenza all’infanzia e ai disabili, ai trasporti e all’istruzione.
Le 100 tasse che paghiamo, scrive Davide Boni su “L’Inkiesta”.
1 Addizionale comunale sui diritti d'imbarco di passeggeri sulle aeromobili
2 Addizionale comunale sull'Irpef
3 Addizionale erariale tassa automobilistica per auto di potenza sup 185 kw
4 Addizionale IRES imprese settore energetico
5 Addizionale provinciale all'accisa su energia elettrica
6 Addizionale regionale all'accisa sul gas naturale
7 Addizionale regionale sull'Irpef
8 Bollo auto
9 Canoni su telecomunicazioni e Rai Tv
10 Cedolare secca sugli affitti
11 Concessioni governative
12 Contributi concessioni edilizie
13 Contributi consortili
14 Contributo al SSN sui premi RC auto
15 Contributo di perequazione pensioni elevate
16 Contributo solidarietà sui redditi elevati
17 Contributo unificato di iscrizione a ruolo
18 Contributo unificato processo tributario
19 Diritti catastali
20 Diritti delle Camere di commercio
21 Diritti di magazzinaggio
22 Diritti erariali su pubblici spettacoli
23 Diritti per contrassegni apposti alle merci
24 Imposta catastale
25 Imposta di bollo
26 Imposta di bollo sui capitali all'estero
27 Imposta di bollo sulla secretazione dei capitali scudati
28 Imposta di registro e sostitutiva
29 Imposta di scopo
30 Imposta di soggiorno
31 Imposta erariale sui aeromobili privati
32 Imposta erariale sui voli passeggeri aerotaxi
33 Imposta ipotecaria
34 Imposta municipale propria (Imu)
35 Imposta per l'adeguamento dei principi contabili (Ias)
36 Imposta plusvalenze cessioni azioni (capital gain)
37 Imposta provinciale di trascrizione
38 Imposta regionale sulla benzina per autotrazione
39 Imposta regionale sulle attività produttive (Irap)
40 Imposta regionale sulle emissioni sonore degli aeromobili
41 Imposta sulla sigaretta elettronica
42 Imposta sostitutiva contribuenti minimi e regime vantaggio
43 Imposta sostitutiva sui premi e vincite
44 Imposta su consumi carbone
45 Imposta su immobili all'estero
46 Imposta sugli oli minerali e derivati
47 Imposta sugli spiriti
48 Imposta sui gas in condensabili
49 Imposta sui giuochi, abilità e concorsi pronostici
50 Imposta sui tabacchi
51 Imposta sul gas metano
52 Imposta sul gioco del Totocalcio e dell' Enalotto
53 Imposta sul gioco Totip e sulle scommesse Unire
54 Imposta sul lotto e le lotterie
55 Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef)
56 Imposta sul valore aggiunto (Iva)
57 Imposta sulla birra
58 Imposta sulle assicurazioni
59 Imposta sulle assicurazioni Rc auto
60 Imposta sulle concessioni statali dei beni del demanio e patrimonio indisponibile
61 Imposta sulle patenti
62 Imposta sulle riserve matematiche di assicurazione
63 Imposta sulle transazioni finanziarie (Tobin Tax)
64 Imposta sull'energia elettrica
65 Imposte giochi abilità e concorsi pronostici
66 Imposte comunali sulla pubblicità e sulle affissioni
67 Imposte sostitutive su risparmio gestito
68 Imposte su assicurazione vita e previdenza complementare
69 Imposte sul reddito delle società (Ires)
70 Imposte sulle successioni e donazioni
71 Maggiorazione IRES Società di comodo
72 Maggiorazione TARES
73 Nuova imposta sostitutiva rivalutazione beni aziendali
74 Proventi dei Casinò
75 Ritenuta acconto (Tfr)
76 Ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale
77 Ritenute sugli utili distribuiti dalle società
78 Sovraimposta di confine su gas incondensabili
79 Sovraimposta di
confine su gas metano
80 Sovraimposta di confine sugli spiriti
81 Sovraimposta di confine sui fiammiferi
82 Sovraimposta di confine sui sacchetti di plastica non biodegradabili
83 Sovraimposta di confine sulla birra
84 Sovrimposta di confine sugli oli minerali
85 Tassa annuale sulla numerazione e bollatura di libri e registri contabili
86 Tassa annuale unità da diporto
87 Tassa di ancoraggio nei porti, rade o spiagge dello Stato
88 Tassa emissione di anidride solforosa e di ossidi di azoto
89 Tassa occupazione di spazi e aree pubbliche TOSAP (comunale)
90 Tassa portuale sulle merci imbarcate e sbarcate nei porti, rade o spiagge dello Stato
91 Tassa regionale di abilitazione all'esercizio professionale
92 Tassa regionale di occupazione di spazi e aree pubbliche regionali
93 Tassa regionale per il diritto allo studio universitario
94 Tassa smaltimento rifiuti (TIA, TARSU, TARES)
95 Tassa sulle concessioni regionali
96 Tassazione addizionale stock option settore finanziario
97 Tasse e contributi universitari
98 Tasse scolastiche (iscrizione, frequenza, tassa esame, tassa diploma)
99 Tributo provinciale per la tutela ambientale
100 Tributo speciale discarica
Cgia: "Le 100 tasse degli italiani valgono 472 miliardi di entrate".L'associazione degli artigiani di Mestre spiega che "nonostante il nostro sistema tributario sia così frammentato, il gettito è invece molto concentrato: gli incassi assicurati dalle prime dieci imposte valgono quasi 58,8 miliardi di euro", scrive “La Repubblica”. Sono cento le tasse che gravano annualmente sugli italiani tra addizionali, imposte, ritenute, tasse e tributi. Lo rileva la Cgia secondo la quale nonostante il nostro sistema tributario sia così frammentato, il gettito è invece molto concentrato: gli incassi assicurati dalle prime 10 imposte valgono quasi 58,8 miliardi di euro. A fronte di un ammontare complessivo di oltre 472 miliardi di euro di entrate tributarie, l'incidenza percentuale del gettito prodotto da queste prime 10 voci è pari all'87,5% del totale. Le imposte che pesano maggiormente sulle tasche degli italiani sono principalmente due: l'Irpef (imposta sui redditi delle persone fisiche) e l'Iva. La prima garantisce un gettito nelle casse dello Stato che sfiora i 164 miliardi all'anno, la seconda poco più di 93 miliardi euro. Messe assieme queste due imposte incidono per oltre il 54% sul totale delle entrate tributarie. A gravare maggiormente sui bilanci delle aziende, invece, sono l'Irap (Imposta regionale sulle attività produttive), che dà 33,2 miliardi di gettito annuo, e l'Ires (Imposta sul reddito delle società), che consente all'erario di incassare 32,9 miliardi di euro. "Quest'anno - sottolinea Giuseppe Bortolussi, segretario Cgia - ogni italiano pagherà mediamente 11.800 euro di imposte, tasse e contributi previdenziali: in questo conto sono compresi tutti i cittadini, anche i bambini e gli ultra centenari. Tuttavia, il dato disarmante è che gli italiani non usufruiscono di servizi adeguati. Molto spesso, nel momento del bisogno, il cittadino è costretto a rivolgersi al privato, anzichè utilizzare il servizio pubblico. Questa situazione si traduce - spiega - in un concetto molto semplice: spesso siamo costretti a pagare due volte lo stesso servizio. Gli esempi sono moltissimi: succede se dobbiamo inviare un pacco, se abbiamo bisogno di un esame medico o di una visita specialistica, di spostarci, ma anche nel momento in cui vogliamo che la giustizia faccia il suo corso in tempi ragionevoli con quelli richiesti da una società moderna". L'imposta più curiosa è sicuramente quella applicata dalle Regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili, quella più odiata è, molto probabilmente, l'Imu che da quest'anno paghiamo solo sulle seconde e terze case e sugli immobili ad uso produttivo/commerciale: "Rispetto a 25 anni fa, gli italiani si ritrovano con lo stesso numero di tasse da pagare, la fisionomia del nostro sistema tributario è comunque cambiata. Da allora, però, la pressione tributaria è aumentata di 9 punti. Se nel 1986 era pari al 21,3%, quest'anno dovrebbe attestarsi al 30,3%: 9 punti di differenza corrispondono a 140 miliardi di euro di tasse che gli italiani pagano in più rispetto al 1986".Le 100 tasse che costano di più agli italiani.
La Cgia di Mestre ha stilato una classifica che vede al comando Irpef, Iva, Irap e Ires, scrive Giuseppe Cordasco su “Panorama”. In attesa che il Consiglio dei ministri in programma oggi faccia entrare negli annali della storia fiscale del nostro Paese il nome di una nuova tassa (si parla della Trise, che dovrebbe cumulare Imu e Tares), la Cgia di Mestre ha provato a contare quanti siano attualmente i balzelli erariali a cui sono sottoposti gli italiani. Una conta che è stata decisamente lunga, visto che si è fermata a quota cento. Tante sono appunto le tasse a cui ogni anno noi cittadini siamo chiamati a fare fronte. Una vera e propria giungla tributaria che per le tasche dei contribuenti rappresenta un vero macigno: basti pensare che le prime dieci imposte prese in considerazione in base alla loro entità finanziaria, producono un esborso complessivo pari a 413,3 miliardi di euro, una somma che incide per l’87,5% sul totale delle entrate tributarie. Le imposte che pesano maggiormente sulle tasche dei cittadini italiani sono principalmente due: l’Irpef (l’imposta sui redditi delle persone fisiche) e l’Iva. La prima garantisce un gettito nelle casse dello Stato che sfiora i 164 miliardi di euro all’anno, la seconda poco più di 93 miliardi di euro. Messe assieme queste due imposte incidono per oltre il 54% sul totale delle entrate tributarie. A gravare maggiormente sui bilanci delle aziende, invece, sono l’Irap (Imposta regionale sulle attività produttive), che assicura 33,2 miliardi di gettito all’anno, e l’Ires (Imposta sul reddito delle società), che consente all’erario di incassare 32,9 miliardi di euro. A seguire in questa poco invidiabile classifica, troviamo al quinto posto l’imposta sugli oli minerali e derivati, e poi l’Imu, l’Imposta sui tabacchi, e ancora l’addizionale regionale sull’Irpef o le ritenute sugli interessi e su altri redditi da capitale. La Cgia si è anche divertita, si fa per dire, a rilevare quale possa essere l’imposta più stravagante imposta ai contribuenti e quale invece quella meno amata. E’ stato così rilevato che la tassa più curiosa è sicuramente quella applicata dalle Regioni sulle emissioni sonore degli aeromobili, mentre quella più odiata dagli italiani è, molto probabilmente, l’Imu che, come accennato in precedenza, si appresta però a lasciare campo libero a quella che dovrà essere la nuova imposta comunale per immobili e immondizia. Un’ultima notazione riguarda poi il peso economico che questa sistema fiscale infernale produce per ogni singolo cittadino. Ebbene, quest’anno, sempre secondo la Cgia, ciascun italiano pagherà mediamente 11.800 euro di imposte, tasse e contributi previdenziali. E in questo conto sono compresi tutti i cittadini, anche i bambini e gli ultra centenari. Un dato certamente poco confortante.
DANNO DA DISSERVIZIO E DISORGANIZZAZIONE NELL'AMMINISTRAZIONE.
Danno da disservizio e disorganizzazione nell’amministrazione, di Massimo Perin (Consigliere della Corte dei conti). Tra le diverse figure di costruzione pretoria della giurisprudenza della Corte dei conti (lesione all’immagine, danno da tangente, lesione alla concorrenza, ecc…), in questo momento storico, merita una riflessione il danno da disservizio, figura legata tanto a profili di illegittimità, quanto alla disorganizzazione interna all’amministrazione. Già la dottrina amministrativista metteva in relazione la disorganizzazione dell’apparato e della gestione amministrativa con i comportamenti dei funzionari scorretti. Infatti, innanzi a comportamenti illeciti di dipendenti pubblici che avevano prodotto pregiudizi economici per le persone e/o imprese entrate in contatto con l’amministrazione, la giustizia amministrativa riteneva che sussisteva una colpa chiamata “colpa d’apparato”, la quale comportava il diritto al risarcimento per il danneggiato. Quest’orientamento non è consolidato nella giurisprudenza amministrativa, poiché è stato ritenuto che, quando il comportamento del dipendente pubblico è caratterizzato dal fine egoistico e strettamente personale, tipico dei reati contro l’amministrazione, esso non è riconducibile agli scopi dell’ente. Pertanto, con il fine egoistico si spezza il rapporto organico esistente tra datore di lavoro P.A. e il dipendente, con la conseguenza che le attività illegittime e/o illecite non possono ricadere sull’amministrazione. In tali vicende, il richiamo all’art. 28 della Costituzione è necessario, perché ai sensi di questa norma costituzionale i funzionari e i dipendenti dello Stato sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti, in tali casi la responsabilità si estende allo Stato. Qui l’indicazione congiunta dei “funzionari e dipendenti” evidenzia che il Costituente aveva collegato la responsabilità non “al rapporto di servizio”, ma “all'esercizio della funzione”. Dal punto di vista della norma costituzionale, lo Stato e gli enti pubblici sono tenuti a rispondere non solo negli stessi limiti in cui è responsabile il funzionario o il dipendente, ma anche per gli stessi fatti, così come emerge dall'espressione «in tali casi la responsabilità si estende allo Stato». Soltanto che la responsabilità sussidiaria dello Stato viene meno quando si spezza il c.d. rapporto organico, restando così il pregiudizio a carico del singolo. Orbene, siffatta tipologia di danno consentirà solamente le iniziative risarcitorie avviate di persona dal danneggiato contro il dipendente infedele, sulla cui effettività restano molti dubbi legati sia ai tempi lunghi della giustizia civile, sia all’esito delle decisioni del giudice penale, spesso “ingabbiato” nella legislazione di “favor” per gli autori dei reati, legislazione evergreen alla quale assistiamo ormai da molto tempo. In questo contesto normativo; per la giurisprudenza della Cassazione, l’amministrazione pubblica risponde del fatto illecito dei propri dipendenti solo quando tra la condotta causativa del danno e le funzioni esercitate dal dipendente esiste un nesso di occasionalità necessaria. Quest'ultimo sussiste quando il pubblico dipendente non agisce come semplice privato per fini esclusivamente personali ed estranei all'amministrazione, ma abbia tenuto una condotta anche solo indirettamente ricollegabile alle attribuzioni proprie dell'agente. Ebbene, davanti a comportamenti illegittimi e/o scorretti del dipendente pubblico, emerge, comunque, un profilo di disorganizzazione dell’amministrazione, perché determinati comportamenti non sono solo l’esito di improvvisazioni personali, ma anche il frutto dell’assenza di controlli efficienti in grado di prevenire o contenere i comportamenti illeciti. La disorganizzazione dell’amministrazione è sicuramente un fatto oggettivamente dannoso, sia per lo spreco delle risorse pubbliche, sia per i disagi subiti dall’utenza e dai cittadini. La disorganizzazione crea disservizi e questi ultimi hanno un costo per la collettività, poiché l’amministrazione ai sensi dell’art. 97 della Costituzione deve essere efficiente e deve usare le risorse economiche in maniera corretta evitando sia gli sprechi, sia profitti privati ingiustificati a carico della collettività. In quest’ottica la giurisprudenza della Corte dei conti ha formulato la voce di danno erariale collegata al disservizio nell’amministrazione. Il danno da disservizio è una figura elaborata in base alla circostanza accertata che l’amministrazione sostiene spese, ma non consegue risultati utili. Ovviamente, si tratta di un pregiudizio sempre collegato a una determinata fattispecie dannosa esaminata e trattata da un’istruttoria della Procura contabile. La voce “danno da disservizio” fa comunemente riferimento o alla mancata prestazione del servizio oppure allo svolgimento del servizio in modo tale che all’accertato impiego di risorse non corrisponda alcuna utilità. Pertanto, si è in presenza di un “servizio apparente”, perché manca il collegamento teleologico tra l’utilità connessa al servizio ed il bene che ne sarebbe dovuto derivare. L’esistenza del danno da disservizio emerge sicuramente in caso di condotte, sotto il profilo causale, intenzionalmente dannose e/o dolose, perché l’art. 13 del D.P.R. 3/1957, che impone il preciso obbligo, promanante dal rapporto di servizio di agire in conformità delle leggi, con diligenza, così da curare l’interesse dell’amministrazione per il bene pubblico. Infatti, l'impiegato è tenuto a prestare tutta la sua opera nelle mansioni affidate curando, in conformità delle leggi, con la diligenza e nel miglior modo, l'interesse dell'amministrazione per il pubblico bene. In sostanza, la predetta norma poneva in pratica i principi di buon andamento nello svolgimento del lavoro pubblico che il Costituente aveva perseguito con l’art. 97. L’obbligo di agire per il bene pubblico e, quindi, nell’interesse della collettività, oggi più che mai, non è solamente limitato al rapporto di servizio in senso stretto, ma è indispensabile nello svolgimento da parte di tutti coloro che sono investiti di una funzione pubblica, comprese le parti private quando sono affidatarie di pubblici finanziamenti erogati per il raggiungimento di pubbliche finalità. Il danno da disservizio emerge come autonoma figura di danno erariale a contenuto patrimoniale in correlazione allo svolgimento del pubblico servizio, questo pregiudizio esprime una mancanza qualitativa particolarmente grave del servizio pubblico, esprimendo una prestazione lavorativa che esiste solo formalmente, come servizio apparente. A questo punto la giurisprudenza nell’accertare tale voce di danno tiene conto, di regola, delle spese sostenute dall’amministrazione per lo svolgimento del lavoro carente di utilità, ma dovrebbe fare un ulteriore sforzo perché dovrebbe poter essere pienamente ristorato anche il pregiudizio per le conseguenze create dal disservizio. La struttura di questo pregiudizio presenta almeno due lati: l’inutilità della spesa pubblica, per il mancato raggiungimento delle finalità pubbliche e le spese affrontate per ripristinare i disservizi prodotti. Infatti, il ragionamento non può non richiamare una fattispecie come quella conseguente ad attività illegale nell’amministrazione, perché è sicuramente inutile la spesa sostenuta per la retribuzione del dipendente che commette reati contro la p.a., ma è anche pregiudizievole per il bilancio pubblico la spesa sostenuta per verificare e ricostruire tutta l’attività compiuta dal dipendente infedele (ispezioni, rivisitazione dei procedimenti, spostamento di altri dipendenti presso l’ufficio oggetto delle condotte illecite, ecc…). Questi sono i motivi per cui il disservizio è un pregiudizio che presenta profili che sono di là del mero mancato raggiungimento degli scopi dell’amministrazione. È sempre vero che il disservizio si realizza per una violazione dei parametri della corretta e sana gestione, perché, in sostanza, all’ammontare delle somme destinate a una determinata finalità, non corrisponde un valido risultato, con la negativa alterazione nel rapporto tra risorse pubbliche impiegate ed effetti ottenuti. La recente giurisprudenza, infatti, è pervenuta alla conclusione che il danno da disservizio richiede la necessaria attività di ripristino dell’ordine legale violato per mezzo di procedure in autotutela. Tutto ciò rappresenta una spesa la cui responsabilità del danno deve essere addebitata ai responsabili dello stesso, perché il danno alla finanza pubblica ammonta all’importo della retribuzione percepita dal dipendente nel periodo di attività illecita, nei costi per l’accertamento delle responsabilità degli illeciti, nei benefici pensionistici connessi a retribuzioni erogate con causa illecita, ma anche nelle conseguenza dell’attività illecita e/o illegittima. Inoltre, si aggiunge lo sviamento nell’uso delle risorse pubbliche, il disservizio creato all’utenza, che comportano spese per il ripristino della legalità violata. Ebbene, altra attenta giurisprudenza afferma che l'illecita appropriazione e lo sviamento dei contributi pubblici dalla finalità del sostegno all'economia è pregiudizio che comporta anche la vanificazione delle risorse pubbliche dedicate alla gestione delle pratiche di finanziamento, con la conseguenza che il danno per l'amministrazione non si esaurisce nel solo importo del contributo fraudolentemente ottenuto, ma ricomprenda anche i costi sopportati e le risorse vanamente impiegate nell'ambito complessivo dell'istruzione, dell'erogazione, della gestione, della revoca e del recupero del contributo stesso. Nelle fattispecie concernenti l’illecita apprensione di fondi pubblici è certo il danno patrimoniale conseguente alla perdita delle risorse intercettate fraudolentemente, ma è certo anche il danno da disservizio da liquidare equitativamente ex art. 1226 c.c. Il danno da disservizio consiste nel pregiudizio ulteriore rispetto al “danno patrimoniale diretto” arrecato al corretto funzionamento dell’apparato pubblico, e si concreta nel mancato conseguimento della legalità, della efficienza, della efficacia, della economicità e della produttività dell’azione e della attività di una pubblica amministrazione. Ebbene, il pregiudizio conseguente al disservizio nell’amministrazione, dovrà tenere conto, appunto, della violazione dell’efficienza, dell’economicità e dell’efficacia dell’azione amministrativa e, dunque, del buon andamento, con la conseguenza che possono aprirsi nuove strade per contrastare la disorganizzazione della p.a. La disorganizzazione è un concetto che rivela confusione, disordine, sfacelo amministrativo e inefficienza e il suo esatto contrario si chiama buon andamento, organizzazione, produttività e rendimento. Contro la disorganizzazione nell’amministrazione questa voce di danno può essere di contrasto alle negatività presenti negli apparati pubblici, anche se si dovrà tenere pure conto (come esimente) degli elementi negativi portati dalla legislazione caotica e raffazzonata degli ultimi anni che ha fornito un contributo “disorganizzativo” certamente rilevante. Di certo, sarà importante che negli scenari futuri sia avviato un percorso virtuoso verso forme e comportamenti organizzativi efficienti, la collettività vuole essere partecipe di un’amministrazione che funziona e non di un’amministrazione (come gli ultimi anni hanno dimostrato) impantanata in uno stato di abbandono, dove i particolarismi e le illegalità vivevano alla grande. In un momento di crisi come quella in corso è indispensabile avviare azioni che siano oltre i localismi e gli interessi privati e di gruppo in danno del bene comune, organizzare bene “la cosa pubblica”, senza disservizi per gli utenti, significa utilizzare al meglio le risorse disponibili che non sono eccessive (o infinite) e non potranno più essere alimentati dal facile ricorso all’indebitamento, tra l’altro consentito solo per investimenti importanti e per opere destinate a durare nel tempo (art. 119 della Costituzione). In definitiva per superare la disorganizzazione e non produrre danni da disservizio è necessario operare bene e con efficienza. Per fare questo è utile il richiamo al pensiero di un’attenta dottrina, la quale ha sostenuto che il significato del “buon andamento” si è spostato da quello di andamento formalmente corretto a quello di andamento sostanzialmente buono. L’affermazione esplicita di ciò è contenuta nell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 e successive modifiche, secondo cui l’attività amministrativa è retta dai principi generali di economicità e di efficacia, oggi correntemente ritenuti principi di costituzione materiale economica, con la conseguenza che la giurisprudenza deve proiettarsi verso posizioni che abbandonano la concezione di buon andamento inteso solo come «comportamento dell’amministrazione non macchiato da incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere». Sarà sempre di più necessario verificare gli effettivi risultati ottenuti da chi ha la responsabilità della gestione delle risorse pubbliche, ma questa verifica non può essere lasciata a forme auto celebrative se non di auto assoluzione da parte di chi ha amministrato e spesso l’ha fatto anche male. Per questi motivi è sempre più importante il rispetto dell’economicità, dell’efficacia, della legalità, della pubblicità e, in particolar modo della trasparenza, perché le decisioni pubbliche non possono essere un “affare di poche persone” che poi si muovono soltanto per fini di potere personale che con il buon andamento e il rispetto del bene collettivo non hanno nulla a che fare.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
LA SAGRA GASTRONOMICA. LA MADRE DI TUTTE LE ILLEGALITA’.
«Mancanza di sicurezza, scarsa igiene ed evasione fiscale minacciano le sagre italiane.»
Questo è l’allarme lanciato con quest’articolo da Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele web Italia, nonché noto autore di libri d’inchiesta pubblicati su Amazon.it.
Sagre e feste popolari sono eventi importanti, ma va garantito il rispetto delle fondamentali regole di sicurezza e di igiene e di fiscalità. A lanciare il grido d'allarme sono anche le pro loco italiane. «Siamo seriamente preoccupati - dice a Labitalia Claudio Nardocci, presidente dell'Unione nazionale delle pro loco (Unpli) - per l'esplosione del numero di sagre senza controlli di sicurezza e igiene, organizzate da comitati improvvisati, veri e propri gruppi di rapina, che ha caratterizzato la scorsa stagione estiva e durante la quale, secondo gli ultimi rilevamenti, un italiano su due ha frequentato le tradizionali feste dei tanti campanili italiani. Dati alla mano - fa notare Claudio Nardocci - abbiamo calcolato circa 25 milioni di persone fra italiani e stranieri che ogni anno partecipano a sagre e manifestazioni analoghe. Tutte persone che però hanno il diritto di essere tutelate». La Coldiretti stima in 350 milioni di euro il volume d'affari delle sagre, scaturito da circa 18 mila eventi sul territorio nazionale, pari a una media di 250 appuntamenti al giorno, cifra che sale a quasi mille nel periodo estivo. Sagre e feste sono sicuramente momenti di ritrovo e svago per la collettività e spesso sono uno strumento per promuovere la conoscenza del territorio, ma, considerato che queste iniziative spesso si affiancano all’offerta garantita da bar e ristoranti dei quartieri e dei paesi, bisogna quanto meno mettere tutti sullo stesso piano, soprattutto sul fronte della sicurezza. Invece si crea troppe volte una concorrenza che diventa sleale, poiché si basa su una sostanziale differenza di trattamento tra chi fa questa attività per professione, e deve attenersi a regole molto severe, e chi lo fa per “volontariato”, pensando di essere esente da qualsiasi obbligo. In verità la sicurezza va garantita in tutti i casi. La necessità, anche in caso di spettacoli e intrattenimenti organizzati da circoli privati, di ottenere l’autorizzazione di agibilità, con parere della competente Commissione di Vigilanza. Quindi l’obbligo, a cui sono chiamati gli organizzatori di questi eventi, di predisporre uno specifico piano di emergenza. Ci sono poi spettacoli e intrattenimenti, per i quali, si ritiene opportuno prevedere l’obbligo del rilascio della licenza di cui all’articolo 68 del TUPLS e le necessarie verifiche della Commissione di vigilanza, visti i rischi potenziali per il pubblico in termini di sicurezza ed indipendentemente dalla presenza o meno di strutture destinate agli spettatori. Infine il capitolo “Prevenzione incendi”, la cui normativa in alcuni casi si può applicare anche a sagre e feste. Si tratta in sostanza di garantire gli stessi standard di sicurezza ad attività che per certi versi ricalcano quelle di un ristorante e di un bar. E se poi vogliamo affrontare la questione in tutte le sue sfaccettature dovremmo parlare anche di tassazione, perché è indubbio che i vantaggi riservati dal fisco a questi eventi stanno alla base del proliferare di feste organizzate dalle associazioni più indefinite e che in molti casi nulla hanno a che fare con la tradizione popolare e gastronomica del territorio. Insomma, troppe volte la festa diventa un modo per “fare cassa” in barba al fisco. Invece anche qui si dovrebbe intervenire con una norma specifica. Basti pensare che, secondo uno studio della Federazione pubblici esercizi nazionale, eliminando le esenzioni fiscali di cui beneficiano sagre, feste di partiti politici, circoli privati, circoli sportivi e quant’altro si recupererebbero le risorse sufficienti per evitare l’aumento dell’Iva previsto ad ottobre 2013. Come dire: togliendo un privilegio di pochi, ne avremmo un vantaggio tutti, senza disparità di trattamenti. Perché alle sagre è permesso far lavorare minorenni, non avere indumenti idonei, non fare scontrini, mentre in un ristorante dobbiamo applicare ogni norma di legge? Domanda in cui vengono toccati punti importanti: il lavoro minorile, i costi del personale, gli orari di lavoro, tutti i vincoli sanitari, i problemi fiscali e di evasione e non ultima l’igiene. Se questi obblighi sono veramente necessari, come crediamo, devono essere imposti a tutti. Senza alcuna intermittenza o benevolenza. La legge deve essere uguale per tutti. Invece, mentre di giorno gli italioti si spellano le mani sulle frasi pro o contro Silvio Berlusconi, fresco del titolo di “Pregiudicato”, inneggiando tutti, comunque, in favore alle manette ai polsi altrui, gli stessi italioti, appunto, la sera organizzano o partecipano ad insalubri ed illegali feste tradizionali e sagre gastronomiche di paese. A centinaia in tutta l’italica penisola sono presenti le fonti di tutte le illegalità. La sagra si connota infatti innanzitutto per la dimensione religiosa; le sagre erano innanzitutto dei momenti di comunione tra uomini e sacro. Le feste popolari dell'antichità venivano celebrate davanti ai templi o, in epoca cristiana, alle chiese (da cui deriva il termine sagrato delle chiese). I vari momenti dell'anno (l'inverno, la primavera, la mietitura, la vendemmia) venivano celebrati con feste religiose, ad esempio, per ringraziare la divinità o per propiziarsi la bella stagione. Durante le feste dell'antichità venivano spesso effettuati sacrifici animali, oppure offerte di prodotti della terra, che venivano poi consumati dalla comunità intera. Questo rito simbolico originario rimane come traccia anche oggi nelle diverse sagre gastronomiche che ruotano attorno ad un piatto tradizionale regionale o locale. L'Italia è costellata ancora oggi di feste tradizionali e sagre in ogni periodo dell'anno.
Queste manifestazioni più che essere festa per i turisti, è una speculazione illegale per fare la festa ai turisti. Non si ha nessuna fiducia sulla qualità delle pietanze servite in queste sagre vendute al prezzo del pranzo in un ristorante, o appena qualcosa meno. E non si riesce nemmeno a vedere l’utilità di queste manifestazioni, spesso sfoggio delle amministrazioni, passerella per le Pro Loco e più sì che no, turibolo di ogni nefandezza. Con il termine tecnico di "feste temporanee" si individuano tutti quei festeggiamenti, manifestazioni, fiere, sagre o simili, organizzati da parte di associazioni varie, pro loco, comitati, ecc...in modo estemporaneo e saltuario, per un periodo breve (da alcune ore ad alcuni giorni) senza una sede fissa, in cui in genere si ha il culmine nella preparazione e somministrazione estemporanea di pasti più o meno ricchi. Tali manifestazioni, seppur da considerarsi di alto valore sociale e culturale, proprio per la loro occasionalità ed elevata promiscuità di cose e persone, rappresentano un potenziale rischio per la salute pubblica; il rischio può derivare dalla inosservanza delle più elementari norme igieniche: l’autorità sanitaria competente per territorio (il sindaco), avvalendosi della consulenza professionale del Servizio Igiene Alimenti e Nutrizione dell’ASL, dovrebbe cercare di assicurare e pretendere degli standard minimi di accettabilità igienica da rispettare per il corretto svolgimento della manifestazione. Al fine di consentire tale garanzia ogni festa temporanea dovrebbe quindi essere autorizzata mediante la presentazione di alcuni documenti. Le attività di preparazione somministrazione di alimenti presenti nelle manifestazioni temporanee sono soggette a segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) da inviare alla ASL competente (anche in formato cartaceo) e per conoscenza al Comune dove si tiene la manifestazione, almeno 10 (dieci) giorni prima dell'inizio della stessa. Alla segnalazione (SCIA) occorre allegare copia della ricevuta del versamento attestante il pagamento dei diritti sanitari. La Segnalazione certificata dell'inizio attività per manifestazione temporanea (SCIA) da presentare all'ASL con il rispetto dei requisiti igienico sanitari previsti dalla Regione di riferimento al fine di garantire un elevato livello di tutela dei consumatori con riguardo alla sicurezza degli alimenti. Invece spesso e volentieri queste sagre non solo non sono autorizzate, ma non sono nemmeno comunicate. Per ovviare a questa discrepanza sindaci e comandanti dei vigili urbani si danno alla macchia, per non essere accusati di sapere e di non intervenire e quindi da considerare complici della illegalità.
FAR LA CRESTA SULLE SPESE SANITARIE.
La cresta sulla sanità, scrive “Libero Quotidiano”. Prezzo di un sondaggio gastrico in Campania: 6,02 euro. In Piemonte: 125,60. Una colonscopia in Campania: 82,63 euro. Stesso esame in Valle d’Aosta e il prezzo sale a 175 euro e 60 centesimi. Una terapia alla luce ultravioletta costa 1,55 euro in Toscana e 42 ad Aosta. Un esame di aortografia con liquido di contrasto a un cittadino di Genova o Perugia costa 283 euro mentre a uno di Torino ben 650. Sono le tariffe così come vengono fotografate dall’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Age.Na.S); differenziate per singola Regione al fine di calcolare i prezzi minimi e massimi che gravano sul sistema nazionale. Il punto di partenza per arrivare a poter imporre a tutte le strutture un costo standard per risparmiare miliardi, almeno una trentina, ogni anno. L’anno scorso il Tar del Lazio ha dato un primo stop al tentativo del governo Monti di applicare la spending review in tema sanitario. Poi ci sono le pressioni che arrivano da lobby e da interessi incrociati a rallentare un iter che però non sembra avere alternative. Il ministero ha recentemente individuato le cinque Regioni (Umbria, Emilia Romagna, Marche, Lombardia e Veneto) che dovranno concorrere alla definizione dei benchmark per i costi. Chiaramente ci vorrà tempo. E al momento solo pochissimi Enti, tra cui il Veneto, si sono autoimposti l’utilizzo dei parametri. Così continua ad accadere che una amniocentesi tardiva costi 61,95 euro in Toscana e quasi novanta in molte altre Regioni. Altri esempi? Per una visita ginecologica le donne che risiedono in Umbria se la cavano con poco più di 16 euro, mentre in Piemonte la tariffa subisce una vera e propria impennata e balza a 30 euro (82% in più). Anche Altroconsumo nel 2010 si era cimentata nell’analisi delle prestazioni e aveva puntato il dito sui prelievi del sangue con discrasie fino al 1000%: si va dai 52 centesimi del Lazio ai 6 euro e 20 centesimi delle Marche, mentre in tutte le regioni costa tra i 2,06 euro e 3,25 euro. L’emocromo va da 2,9 euro a Trento fino a 5,3 euro nel Friuli. Cercare il sangue occulto nelle feci richiede una tariffa di 79 centesimi in Campania e di 5,16 euro in Abruzzo. Trenta euro di differenza anche per una otturazione a un dente. Meno di 19 euro in Liguria e 48 in Emilia Romagna. «La Sanità è il nodo più aggrovigliato che il federalismo deve tentare di sciogliere perché è molto complicato razionalizzare il funzionamento di strutture complesse», ha più volte ribadito Luca Antonini, presidente della commissione paritetica sul federalismo fiscale e attento osservatore delle dinamiche dei costi standard, « Federalismo vuol dire evitare che in ognuno dei cinque complessi ci sia la radiologia e non il posto per accogliere la gente che sta male».
L'inchiesta su Libero di Claudio Antonelli. Sanità, gli sprechi sui ricoveri: mensa, rifiuti, bucato. L'anarchia delle spese sanitarie: i pasti in Lazio costano da 24 euro a 200 al dì. A Napoli la lavanderia costa di 550 euro. Ci rimettiamo 1 miliardo l'anno. La sanità non smette mai di stupire. Abbiamo spulciato le enormi differenze di costo per prestazione che separano il Veneto dalla Campania e Bolzano da Aosta. Andando a setacciare le spese non sanitarie (per un pasto o per la lavanderia dei pazienti) si scopre che anche all’interno della stessa Regione ci sono Asl o strutture ospedaliere che spendono per lo stesso servizio anche 8 volte tanto. Con una forbice abissale e ingiustificata. Prendiamo la spesa media per nutrire un degente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) negli ospedali del Lazio. La media si avvicina ai 140 euro, ma ci sono strutture che ne spendono 200 e altre 24. Senza uscire dai confini della regione. Il Piemonte viaggia sulla stessa onda spendendo da un minimo di 55 euro a un massimo di 200. L’Emilia Romagna stringe di poco la forbice: da 49 a 175. Il Veneto per lo stesso servizio spende una media di 70 euro con picchi compresi tra i 25 e i 100. La Regione più virtuosa nel fare economia di scala per l’alimentazione dei degenti è in assoluto la Basilicata. Spesa media 45 euro e pochissima fluttuazione: non più di 50 euro e non meno di 37. Prendendo tutti i valori di spesa e facendo una semplice media nazionale il risultato sarebbe un bel 96 euro, ma il compito dei costi standard è ben diverso. Si tratta di far emergere comportamenti come quelli della Basilicata e spezzare le dinamiche della Campania che pur avendo sbalzi inferiori al Lazio chiude la classifica con una media di poco inferiore ai 150 euro. Se il nutrimento dei pazienti vi ha stupito, le differenze di costi per lo smaltimento dei rifiuti appaiono stratosferiche tanto da lasciare senza parole. Le Asl in Valle d’Aosta sborsano (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) sei euro e mezzo, quelle lombarde circa 20 centesimi. Entrambe le Regioni non hanno picchi. Al contrario dell’Abruzzo che non solo si piazza con una spesa elevata media (quasi 4 euro) ma anche con sbalzi che viaggiano tra i 2,3 euro e i 7,5. Se prendiamo la stessa tipologia di spesa ma applicata agli ospedali (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006), Milano smette di essere la più virtuosa (media di circa 20 euro e picchi compresi tra gli 8 e i 45 euro) e lascia il podio alla Sardegna che si attesta su una media di 8 euro e un massimo inferiore ai 20. Se invece si torna a valutare le Asl, quelle sarde spendono di media 2 euro (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno). Esattamente dieci volte tanto quello che spendono le Asl lombarde. Non da meno appare il capitolo pulizia e lavanderia. Per le strutture ospedaliere (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) è possibile identificare un valore di riferimento su base nazionale di circa 196 euro. Ma è quasi teoria. A Napoli la media è di 250 euro. In alcune strutture se ne spendono 50 e in altre addirittura 550. Il Friuli Venezia Giulia e il Veneto spendono invece 200 e 220 euro senza picchi. Il Lazio risulta sostenere i costi più elevati nella media con massimi fino a 450 euro. La Puglia ha una media di 140 euro e una forbice compresa tra 130 e 150. Quasi la Regione migliore. Se poi si passa alle Asl (valore calcolato per singolo cittadino residente in un anno) la classifica cambia di nuovo. La Puglia scende a metà graduatoria. Spende 15 euro di media per residente, 25 come punta massima e 8 come cifra minima. Le Asl lombarde, le più virtuose, battono tutte le altre con 2 euro per residente, senza alcun particolare sbalzo. Spendendo di fatto addirittura 68 euro in meno rispetto all’Asl di Bolzano che paga di più per smaltire i rifiuti. Evidentemente in Lombardia si fa economia di scala, a Bolzano tutte le Asl in ordine sparso. Uno spreco assurdo. Che secondo uno studio di due anni fa (su dati del 2006) dal titolo “Analisi del Trend delle spesa sanitaria” redatto dalla Cattolica di Roma e dall’Università di Tor Vergata vale complessivamente circa 900 milioni di euro all’anno. Intervenendo con una spending review sulle sette micro aree di spese prese in considerazione (dalle pulizie al costo dei pasti) che pesano non più del 4,5% del budget sanitario totale si potrebbe risparmiare tra il 27% e il 33% dei costi messi a budget. Stando ai numeri dello stesso studio dagli sprechi sembra salvarsi solo la spesa per i farmaci. Calcolando il costo delle strutture ospedaliere per paziente (valore calcolato per singolo paziente sulla media dei giorni di degenza nell’anno 2006) il valore nazionale è di 500 euro. E gli sbalzi sono contenuti, a parte il Friuli che ha dei picchi di 3.500 euro. Mantenendo però una media ponderata di circa 550 euro. Di altra natura la tabella che può essere considerata riassuntiva. Per l’acquisto di beni e servizi da parte delle Asl (valore calcolato per giornata di degenza pesata sulla media della popolazione residente) la Regione Lazio spende mediamente 400 euro, il Veneto 350 e la Basilicata 470. E anche qui l’anomalia è nei picchi. Il Lazio spazia da un minimo di 150 a un massimo di ben 1000 euro, il 150% in più della media regionale. Lo stesso la Basilicata, che viaggia tra i 320 e i 600 euro. La Lombardia si attesta su una media di 320 euro, ma con oscillazioni tra i 200 e i 500. Comunque poco se si considera che tra il massimo lombardo e quello laziale c’è esattamente il 100% in più. Non è dunque difficile capire che con una gestione oculata dei prezzi in poco tempo si risparmierebbero l’equivalente di mezze leggi Finanziarie. Il vantaggio é ancora più evidente se si considera che la spesa complessiva (e non solo quella delle micro aree analizzate dallo studio) delle Asl alla voce “servizi non sanitari” ammonta a 4 miliardi e 436 milioni in un anno. Ogni giorno di degenza (giornata di degenza pesata) comporta per un’Asl una spesa di oltre 800 euro a paziente. Su questa somma i servizi non sanitari - dati forniti da Altroconsumo - incidono mediamente per 63 euro al giorno. Ma in media. In Lombardia tale spesa si limita a 22 euro e in Umbria è quattro volte tanto (92 euro). Alla Ulss di Pieve di Soligo (Treviso) le utenze telefoniche costano 580.000 euro all’anno, pari a 3,27 euro per giorno di degenza. All’Asl H di Roma la stessa bolletta pesa per quasi 2 milioni di euro all’anno, pari a 5,91 euro per ogni giorno di degenza. Applicando lo stesso sistema di calcolo dello studio della Cattolica e di Tor Vergata, il risparmio complessivo solo nelle Asl sarebbe di circa 1,2 miliardi. Ma non è finita. Se tutte le strutture regionali fossero allineate ai costi standard - ha spiegato uno studio del Cerm del 2010) nel 2009 avremmo potuto risparmiare ben 4,3 miliardi di euro.
MENZOGNE DI STATO. DOVE VANNO A FINIRE I NOSTRI SOLDI?
Quello che la Stampa di regime non dirà mai.
Non è ora di dire basta a questo sistema politico istituzionale che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri? (art, 416 bis c.p.).
Siamo abituati ad ascoltare parole come “la corruzione ci costa 60 miliardi”, “l’evasione fiscale ci costa 120 miliardi”. Numeri aleatori impossibili da verificare ma che gettano fumo negli occhi alla massa credulona. In realtà i 620 miliardi di avanzo di bilancio 1992-2012 sono veritieri ed è il risultato di una precisa scelta politica: sono soldi sottratti veramente ai cittadini e scomparsi dalla circolazione.
La domanda che viene spontanea è: dove cazzo vanno a finire i nostri soldi? Una cosa è certa. In questa Italia di m…… le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992.
Eppure nessuno si incazza. Dal 1992 al 2012 gli italiani hanno versato 620 miliardi di tasse superiori all’ammontare della spesa dello Stato: 620 miliardi di avanzo primario (o anche saldo primario). L’obiettivo di tanto sadismo? Entrare nei parametri di Maastricht (1992) ed essere dentro l’eurozona. Eppure, nonostante l’immane sforzo, il Debito Pubblico, è passato da 958 a 2 mila miliardi di euro.
Se in questi 20 anni non si fossero “rubati” 620 miliardi dalle tasche dei cittadini, avremmo un debito pubblico di 2.600 miliardi, quindi nel 2012 avremmo pagato circa 115 miliardi di interesse anziché una novantina. Tuttavia, va detto, in tutti questi anni avremmo avuto consumi superiori per 620 mld, che equivalgono ad un centinaio di miliardi di Iva, e poi Irpef, Irpeg, nuovi assunti, imprese che non avrebbero chiuso. Capitolo lungo, ad ogni modo si tratta di una base tra l’1 o al 2% del Pil, più l’effetto moltiplicatore, sottratta alla ricchezza degli italiani.
I 620 miliardi rubati agli italiani sono andati per il 43% all’estero (quasi tutte banche estere), quindi circa 250 miliardi sono espatriati; il 3,7% alla Banca d’Italia; il 26,8% ad istituzioni finanziarie (banche, assicurazioni) italiane; il 13% (circa 80 miliardi) sono tornati direttamente nella disponibilità di privati cittadini italiani, ovviamente per lo più delle classi medio-alte.
La cronistoria di un'estorsione:
Nel 1992 gli italiani hanno pagato 14,5 miliardi di euro più di quanto lo Stato abbia speso per servizi. C’era il governo Amato, la super-finanziaria, della Dc e del Psi e Tangentopoli, tutte insieme.
Nel 1993, la cifra è salita a 21,5 miliardi, con Ciampi;
Nel 1994, con il primo governo Berlusconi 20,1 miliardi;
Quasi 40 miliardi nel 1995 con l’altro tecnico Lamberto Dini;
46 miliardi nel 1996 con l’Ulivo di Prodi;
Nel 1997: c’era da entrare in Europa coi conti in ordine, e gli italiani pagarono 69 miliardi di euro più di quanto lo Stato avesse loro concesso con i servizi (strade, sanità, scuole, giustizia, ordine pubblico, finanziamenti alle imprese, pensioni…);
Nel 1998, arriva da sinistra Massimo D’Alema con 55,6 miliardi a vantaggio dello Stato;
Nel 1999 torna Amato e si supera, altri 55 miliardi;
Nel 2000, altri 65,5 miliardi che dal settore privato nazionale entrano nelle tasche dello Stato;
Nel 2001, l’ultimo anno della lira con il Governo Amato, vede ancora 40 miliardi scomparsi dai portafogli di operai, imprenditori e studenti e finire nelle casse pubbliche;
Arriva l’euro: 35 miliardi “del nuovo conio” con il secondo governo Berlusconi nel 2002, 21,4 nel 2003, 16,7 nel 2004, 4,3 nel 2005;
Nel 2006 con il governo di sinistra Prodi: 19,3 miliardi nel 2006, ben 54 nel 2007;
37,7 miliardi 2008, con il terzo governo di Silvio Berlusconi. Nel 2009 11,8 miliardi. Nel 2010 356 milioni dallo Stato a favore dei cittadini. Nel 2011: altri 15,6 miliardi di euro. 44,9 previsti nel 2012.
Co il governo Monti previsti 63,8 nel 2013 e 71,8 nel 2014.
I Numeri dati sono il “Saldo Primario” dello Stato italiano dal 1992 al 2012, e la somma complessiva è di circa 620 miliardi di euro (escluse le previsioni future: si arriverebbe a 750 circa).
I numeri sono una cosa. Le cose tangibili sono un’altra.
Ognuno di noi, anche se non ha reddito, quando compra una cosa o un servizio, versa una parte di somma allo Stato. Raffrontate quello che pagate, sempre e comunque, con l’ospedale vicino che non avete più; con il Tribunale vicino che non avete più e con le tasse giudiziarie duplicate che vi inibiscono di accedere alla giustizia, anche se ingiusta e lontana. Guardate treni e strade e il rispetto che le istituzioni dedicano ai cittadini e poi fatevi una rendicontazione.
Siamo abituati ad ascoltare parole come “la corruzione ci costa 60 miliardi”, “l’evasione fiscale ci costa 120 miliardi”. Bene. 620 miliardi di euro non vi sembrano un “pizzo”, ossia una estorsione di Stato?
RISCOPRIAMO LA CAMBIALE.
Riscopriamo l'Italia anni 50 delle cambiali. Torna in voga il vecchio «pagherò»del Dopoguerra: più 10 per cento nell’ultimo anno. Sembra il peggior sintomo della crisi. Ma se (come allora) fosse l’inizio della ripresa? Scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. La cambiale. Molti giovani non sanno neppure che cosa sia, ma lo scopriranno presto se la crisi continuerà ad avanzare. I segnali di un ritorno prepotente di questo strumento del credito non mancano. Dalla Riviera romagnola giunge la notizia che nei primi mesi dell’anno in corso, rispetto allo stesso periodo del 2012, la circolazione dei cosiddetti pagherò ha avuto un incremento del 10 per cento. Nel Paese, dal 2009 a oggi, si registra addirittura un aumento del 40 per cento delle «farfalle», come le cambiali erano definite negli anni Cinquanta, quando il popolo ne faceva largo uso per acquistare a rate ciò che non poteva permettersi di saldare subito per mancanza di liquidi. Gli italiani erano appena usciti dalla guerra mondiale, il livello della disoccupazione era altissimo, le ferrovie erano a pezzi e si viaggiava spesso su vagoni merci; i bombardamenti avevano distrutto case e stabilimenti: urgeva ricostruire. Nonostante il disastro, tuttavia, la gente, riassaporato il piacere della pace e della libertà, era animata da un grande ottimismo, addirittura euforica, vogliosa di vivere. Aveva fiducia nel futuro e nessuna paura dei debiti; si lanciava negli acquisti anche se non aveva in tasca una lira. Fu il trionfo delle cambiali. Ne firmavi un pacco e finalmente ti motorizzavi. Il sogno era la Vespa o la Lambretta, scooter a cui qualcuno con famiglia numerosa agganciava il sidecar. Chi aveva uno stipendio non esitava a impegnarne una parte, per molti mesi, allo scopo di partecipare alla festa del consumismo secondo uno stile di importazione americana, ma reinterpretato su scala minima, commisurata alle nostre scarse possibilità. E giù cambiali a raffica: per sostituire la vecchia ghiacciaia di zinco col frigorifero, per regalarsi il televisore e ammirare i protagonisti di Lascia o raddoppia? (programma cult di Mike Bongiorno), per comprare lo scaldabagno elettrico e rottamare quello a legna. Perfino i vestiti erano accessibili a chi non aveva contanti a sufficienza. Bastava recarsi alla Confital, agenzia che in cambio di «farfalle» ti consegnava dei buoni da spendere in negozi convenzionati di confezioni, tessuti e scarpe. Inutile dire che i sarti dell’epoca accettavano i pagherò. L’economia nazionale si resse per alcuni lustri su montagne di cambiali, pezzi di carta sui quali era scritto che il signor Rossi, alla data fissata, sarebbe andato in banca a ritirarli, ovviamente versando il dovuto. Guai a non onorare l’impegno. La persona che non fosse stata in grado di farlo, avrebbe perso la faccia: il suo nome veniva pubblicato sul bollettino dei protesti curato dalla Camera di commercio, una specie di lista di proscrizione che ogni venditore compulsava per sapere quali fossero i clienti dai quali stare alla larga. Un protestato era come un reietto. In quegli anni ruggenti era motivo di vanto essere puntuali nel ripianare i debiti, una medaglia col valore di una garanzia di solvibilità buona per ottenere altro credito. Il consumismo galoppò e aprì la strada al boom che coincise con l’avvento della Fiat 600, l’utilitaria per eccellenza, alla portata della piccola borghesia. Costava 640mila lire, circa otto stipendi di un bancario. Inutile sottolineare che 9 vetturette su 10 venivano ritirate in concessionaria previa apposizione di 24 firme su altrettanti pagherò. A chi sgarrava, la macchina era confiscata. Con la Fiat 600 l’Italia decollò. Divenne un Paese moderno o almeno si avviò a esserlo. Chi riuscisse ad assicurarsi la mitica utilitaria, «farfalle» o no, si considerava ed era considerato un uomo arrivato. Il progresso era praticamente una religione. La gente amava tutto ciò che era nuovo e si sbarazzava con sollievo degli oggetti del passato, che rammentavano e simboleggiavano la detestata civiltà contadina. Le cucine tradizionali, con tanto di credenze, cassettoni della legna e tavoli ottocenteschi furono ridotti in tocchi e rimpiazzati da mobiletti di metallo, laccati di bianco secondo la moda statunitense e completati da ripiani di orrenda formica, molto amata dalle signore il cui gusto era educato (o maleducato) dagli spot di Carosello. Quegli anni furono caratterizzati da una smania collettiva: non solo occorreva attrezzarsi in modo compulsivo di elettrodomestici (lavatrici, lucidatrici, aspirapolveri, frullatori eccetera), ma anche eliminare qualsiasi arredo della nonna rievocativo di tempi duri, fatiche, fame, cappotti rivoltati, patimenti. Nella foga di ripulire le case da qualsiasi anticaglia, gli italiani svuotarono anche la memoria e gettarono nella pattumiera pure le sane abitudini ereditate dagli avi: il decoro, le buone maniere. Quasi una ribellione; si cominciò a parlare di gioventù bruciata, e non si smise più di dire: chissà dove andremo a finire. Ed eccoci qua a rimpiangere non tanto le cambiali, che comunque ci travolgeranno a breve perché non ci sono più euro, quanto lo spirito che risollevò l’Italia dalle rovine belliche. I nostri padri avevano poco o niente, ma non erano sprovvisti della voglia di lavorare e della capacità di inventarsi un mestiere per far studiare i figli. Noi abbiamo studiato e guardate un po’ come siamo conciati. D'altronde in Italia sempre meno prestiti e sempre più cari, le banche strozzano le imprese.
LE BANCHE FANNO MENO PRESTITI ED ADOTTANO TASSI PIU' ALTI.
Le banche fanno sempre meno prestiti alle piccole imprese. E, quando li fanno, applicano tassi altissimi, scrive Nico Di Giuseppe su “Il Giornale”. Un paese strozzato dalle banche, dai ritardi dei pagamenti della Pubblica Amministrazione e dal lavoro nero. Una crisi economica che stenta a mollare la presa sugli imprenditori. "La situazione creditizia delle imprese, soprattutto quelle di piccola dimensione, è molto critica. Quel che è più grave e paradossale è che gli imprenditori sono costretti a indebitarsi con le banche per compensare i mancati pagamenti da parte della Pubblica amministrazione di altre aziende". A lanciare l'allarme è Giorgio Merletti, presidente di Confartigianato. L'associazione ha raccolto ed elaborati dati non proprio entusiasmanti: tra maggio 2012 e maggio 2013 i prestiti bancari alle aziende sono diminuiti di 41,5 miliardi di euro, pari a un calo del 4,2%. Allo stesso tempo, il debito accumulato dalla Pubblica amministrazione verso le imprese si attesta attorno ai 91 miliardi di euro. Come se non bastasse, il tutto è accompagnato da un aumento dei tassi di interesse: a maggio 2013 il tasso medio per i prestiti fino a 1 milione di euro è del 4,36% ma sale al 4,85% per i prestiti fino a 250.000 euro. In base a questi numeri, l’Italia è seconda solo alla Spagna per i tassi più alti d’Europa: la differenza rispetto alla media Ue è di 84 punti base in più, ma lo spread sale a 148 punti base nel confronto con i tassi medi pagati dalle imprese in Germania. Le più penalizzate sul fronte dei tassi di interesse sono le piccole imprese con meno di 20 addetti. Per quanto concerne i debiti della Pubblica amministrazione verso le imprese fornitrici di beni e servizi, Confartigianato ha rilevato che nel 2012 l'Italia è il Paese europeo con la somma più alta: 91 miliardi. Una cifra che rispetto al 2009 è aumentata di 0,3 punti di Pil, a fronte del calo registrato in Francia, Regno Unito e Spagna. A rendere più cupo il quadro economico ci si mette pure il lavoro nero. Secondo uno studio della Cgia di Mestre, i quasi 3 milioni di lavoratori in nero presenti in Italia producono, con le loro prestazioni, 102,5 miliardi di Pil irregolare all’anno (pari al 6,5% del Pil nazionale), "sottraendo" alle casse dello Stato 43,7 miliardi di euro di gettito. "Con la crisi, l’economia sommersa ha subito una forte impennata. In questi ultimi anni chi ha perso il lavoro non ha avuto alternative: per mandare avanti la famiglia ha dovuto ricorrere a piccoli lavoretti per portare a casa qualcosa. Una situazione che ha coinvolto molti lavoratori del Sud espulsi dai luoghi di lavoro", ha spiegato il segretario Giuseppe Bortolussi. «Esiste anche un’evasione di sopravvivenza»: non passa inosservata l’uscita di Stefano Fassina al convegno della Confcommercio. E non poteva essere diversamente: è forse la prima volta, almeno in questi termini, che un esponente del centrosinistra, per di più viceministro dell’Economia, parla di mancato pagamento delle tassa come di una necessità. «Senza voler strizzare l’occhio a nessuno e senza ambiguità nel voler contrastare l’evasione - ha sostenuto Fassina commentando il balzo record della pressione al 54% - ci sono ragioni profonde che spingono molti soggetti verso comportamenti di cui farebbero a meno». Per il viceministro, insomma, «esiste una connessione stretta tra pressione fiscale, spesa ed evasione». Quanto basta per scatenare la bufera a sinistra.
TASSE ALTE, MAGGIORE EVASIONE.
I moralisti delle tasse che difendono il fisco oppressivo. Fassina ha solo fatto notare la differenza tra evasori accaniti e imprenditori in crisi: una verità che il Pd non riesce a vedere, scrive Giuliano Ferrara su “Il Giornale”. Stefano Fassina si è permesso di dire che non ogni artigiano in lite con il fisco è un avido e un ladro, e lo ha detto da ministro di sinistra e da capocorrente «comunista » nel suo partito, facendo nascere un «caso Fassina». Si conferma così una variazione nella famosa regola stabilita tanti anni fa da Ignazio Silone, scrittore cristiano e capo comunista dissidente nell’era di Stalin e di Togliatti (anni Trenta del Novecento). Diceva Silone: «La battaglia finale sarà tra comunisti ed ex comunisti». Non è da tempo più così. Oggi bisogna riformulare e modificare: «La battaglia finale sarà tra realisti e moralisti». Lo dimostra anche la chiamata alla responsabilità di Giorgio Napolitano, per formazione personale un comunista italiano doc; lo ricorderete,è l’appello al principio di realtà che ha reso possibile la fine degli equivoci nel Partito democratico e la nascita di un governo di larga coalizione tra il centrosinistra e i berlusconiani dopo le politiche, quel governo che è la bestia nera di Carlo De Benedetti e della sua grossa lobby politico editoriale. Quel governo che, per quanto debole e deficitario, è potuto nascere solo perché Napolitano appena rieletto, per puro spirito di realismo politico, ha avuto il coraggio di presentarsi alle Camere, sculacciare i lobbisti antiberlusconiani travestiti da utopisti e da moralisti, e dare infine ragione platealmente all’Arcinemico dei moralisti pazzi contro bersanismi e prodismi o rodotarismi o grillismi di ogni tipo. Renato Brunetta, il cui attivismo anche un pochino sconclusionato è sempre più simpatico, premiato com’è dall’agenzia delle comunicazioni che ha finalmente scoperto come le trasmissioni Raitre siano faziosette (atto di realismo minimalista ma apprezzabile), ha detto a Fassina: benvenuto nel club. Il che è giusto. E anche sbagliato. Giusto perché la critica del fisco oppressivo, invadente e incapacitante è un tratto distintivo di tutte le sfumature del pensiero liberale e conservatore. Fassina con quella dichiarazione fatale si è in effetti iscritto a un club che considera comunisti e laburisti degli eccentrici. Ma quel benvenuto è in certo senso sbagliato perché alla radice della rivolta del viceministro dell’Economia contro gli ortodossi del partito e del sindacato, in prima linea la tremenda Susanna Camusso della Cgil,non c’è una conversione al sapido realismo dei conservatori liberali (se lo Stato si prende quasi tutto, l’imprenditore non farà quasi niente), bensì un riflesso, appunto «realista», della vecchia cultura industriale del movimento operaio. Ho sempre sostenuto, in buona compagnia, che per riscuotere le tasse occorrono tre condizioni: ridurle a una quota accettabile del reddito delle persone e delle imprese, rendere conveniente il pagarle in una catena dell’opportunità che è virtuosa solo per il suo benefico effetto e non per bontà d’animo, promuovere un senso della comunità che ha inevitabilmente un carisma politico, civile e perfino religioso (repressione fiscale compresa). Da noi mancano tutte e tre le condizioni. Siamo scettici e individualisti, pagare le tasse non appare quasi mai un gesto fruttifero e incisivo che sia conveniente, le tasse sono bestialmente alte in relazione alla capacità di crescita dell’economia reale. In compenso stiamo diventando anche il Paese in cui la polemica moralistica sulle tasse arriva a invocare lo stato di polizia, investe pericolosamente la mentalità e le abitudini libere delle persone, induce chi ha un’auto costosa o una barca costosa a girare e navigare sempre in presenza della sua dichiarazione dei redditi, stiamo diventando un mondo alla rovescia, stupidamente moraleggiante, francamente grottesco, in cui chi abbia successo e riesca a guadagnare deve giustificarsi, non con la fede, come pretende comprensibilmente il Papa, ma con l’adesione all’etica di Stato, ciò che è meno comprensibile e meno commendevole. Anche un laburista di formazione comunista come Fassina lo ha capito, e vuole giustamente e scandalosamente distinguere tra l’evasore accanito e fraudolento, lo sleale verso la comunità, e il lavoratoreimprenditore oppresso e ingabbiato da tasse inaudite, che mettono in pericolo il suo profitto, e con esso il lavoro suo e di chi gli sta attorno. E questo in nome dei suoi stessi principi di efficacia del welfare state. Giustamente e scandalosamente: è lo stato dell’arte al quale si debbono rifare tutti i «realisti» nella battaglia contro i faciloni «moralisti», perché è sempre più facile e gratificante spiegare al pubblico che cosa si «deve» fare, piuttosto che cercare di capire che cosa si «può» onestamente fare per realizzare il principio senza tradire la realtà.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011. Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
I BIG E L'EVASIONE FISCALE. E GLI ALTRI?
La replica di Dolce e Gabbana in un’intervista resa ad Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
Valeva la pena di piantare tutto questo casino?
«Tante briciole, dice il proverbio, fanno una panetteria»,
ribatte Domenico Dolce, «Era tutto un vocio fastidiosissimo...».
«Ma scusi: come potevamo accettare di essere bollati come evasori? - irrompe Stefano Gabbana -. Noi siamo delle persone perbene. Viviamo in Italia, paghiamo le tasse in Italia, non facciamo finta di vivere all'estero...».
State dicendo che la vostra è una storia tutta diversa da quella di Valentino Rossi o altri?
Gabbana «Noi parliamo per noi. Ci limitiamo a chiedere: vi pare possibile che per gli stessi identici fatti, sulle stesse identiche carte, possiamo essere assolti nei processi penali e condannati in quello tributario? Noi sappiamo fare vestiti. Vogliamo fare vestiti. E invece siamo stati tirati in mezzo in una storia complicatissima di commi e codicilli».
Gli avvocati sanno di questo vostro sfogo?
G. «Sanno che
noi siamo dei pazzi. Lo mettono in conto. Ma al di là dell'aspetto legale (non
vogliamo neanche parlarne: siamo convinti di non avere fatto niente di
scorretto) non ci rassegniamo a essere crocifissi come dei ladroni. Perché non
lo siamo».
Dolce «Calunnia calunnia, qualcosa resta. Non ci va bene. Non è solo per
noi. È per l'azienda. Parliamo di migliaia di persone, con l'indotto. L'altro
giorno ho dovuto incoraggiare io delle sartine. Erano sconvolte. "Ma come! Noi!
Noi!" Io dico: guardate la nostra vita...»
Cioè?
G. «Per esempio io ho una barca, si chiama "Regina d'Italia": non la porto mica in Francia o in Croazia! Non la intesto mica a una società! Non batte mica bandiera delle Cayman! Io sono italiano e la barca la tengo in un porto italiano. E batte bandiera italiana».
D. «Vale anche per me. Anni fa Stefano mi regalò un motoscafo Riva. Lo uso pochissimo, ma lo tengo a Portofino e batte bandiera italiana».
Le case in cui vivete? Appartengono a qualche società oppure...
D. «No, guardi. Casa mia è intestata a me, Dolce Domenico, nato a Polizzi Generosa, residente eccetera... Mica fingo di vivere in Svizzera o a Montecarlo. Le mie residenze sono sempre state quelle: Polizzi Generosa, Palermo, Milano».
Eppure in casi come il vostro...
G. «Ma che ci importa di eludere il fisco? Noi vogliamo solo starcene tranquilli a fare vestiti. Punto. D'altra parte, vuole una dimostrazione di quanto siamo ossessionati dal denaro? Fino al 2004 avevamo tutto, diciamo così, "in comunione dei beni».
E allora?
G. «Ma non stiamo insieme, come fidanzati, dal 2000! Se fossimo attaccati ai soldi lei pensa che avremmo tenuto i conti e l'azienda insieme per quattro anni dopo la nostra separazione? Eppure per quattro anni siamo rimasti così, metà a testa: 50 e 50. Con tutti che ci dicevano: chiaritevi, non potete lasciare le cose così, ci va di mezzo l'azienda».
D. «Ci siamo decisi quando cominciammo a ricevere offerte da Vuitton, Gucci, Hdp... Dovevamo darci una struttura aziendale all'altezza di quanto eravamo cresciuti».
E così avete venduto il marchio, cioè il vostro tesoro, alla «Gado».
D. «Esatto».
Ma perché in Lussemburgo?
G. «Scusi, ma noi siamo un marchio mondiale. Non è che possiamo aprire in Cina o in Brasile appoggiandoci, faccio per dire, alla Cassa Rurale di Rogoredo. Una azienda che opera a livello internazionale ha delle società internazionali. Ovvio. Mica era una operazione illegale! Era tutto trasparente».
Niente scatole cinesi?
G. «Macché scatole cinesi! Ecco qua la nostra "Annual Revue 2004-2005". Pagina 27: c'è tutto, sulla nascita della "Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l. cui fanno capo la neonata Gado S.a.r.l., titolare dei due marchi, e la Dolce & Gabbana Srl, realtà operativa che integra le realtà produttive..." Non abbiamo mica fatto le cose di notte! Tutto alla luce del sole».
D. «Tanto è vero che né la guardia di finanza né i magistrati ce l'hanno mai contestato».
Dicono però che 360 milioni per quel marchio celeberrimo nel mondo erano pochi.
G. «Ma cosa vuole che ne sapessimo, noi! Avevamo cominciato girando per la pianura padana come consulenti delle aziende di abbigliamento e battendo gli autogrill della Bauli per farci un pandorino o della Fini per mangiarci i tortellini! Ci era scoppiata in mano una cosa più grande di noi. Non eravamo neanche in grado di valutarne il valore. Infatti...».
...Chiedeste una stima a Price Waterhouse Coopers.
D. «Esattamente. Che disse: 360 milioni».
Centottanta a testa: come li avete spesi?
D. «Come vuole che li abbiamo spesi? In azienda. L'azienda è la nostra creatura. La nostra figlia. Tutto va a finire là».
G. «Cosa vuole che ne facciamo dei soldi? Che li mettiamo via per quando saremo morti?»
E qui nasce la grana: la finanza dice che la stima era bassa... Che valeva molto di più e si presume...
G. «Si presume, si presume... "Si presume che Domenico e Stefano si droghino". "Si presume che lavorino in ufficio completamente nudi". Cosa significa, scusi? E poi "chi" lo presume? Noi non ce la siamo fatta in casa: abbiamo chiesto alla Pwc. Loro quante aziende mondiali hanno monitorato per "presumere"? Non si lanciano accuse così su supposizioni».
D. «Tanto più che per l'infedele dichiarazione dei redditi nel penale siamo stati assolti perché "il fatto non sussiste". Lo stesso giudizio del gup per l'omessa dichiarazione: il fatto non sussiste».
Fatto sta che secondo i magistrati il valore del marchio era oltre il triplo: 1.190 milioni. Una stima poi ribassata a 730 milioni ...
G. «Un miliardo! Ma chi l'ha mai visto, un miliardo! È chiaro che, a distanza di anni, dopo che eravamo ulteriormente cresciuti, ci hanno sopravvalutato. Ma noi? Mica potevamo decidere facendoci leggere le carte dalla maga Cloris!».
E se vi confermano la condanna a 400 milioni di multa?
D. «Chiudiamo. Cosa vuole che facciamo? Chiudiamo. Non saremmo in grado di resistere. Impossibile».
G. «Chi immagina un ricatto morale sui dipendenti sbaglia. Se ci meritassimo la condanna, niente da dire. Ma non la meritiamo. E comunque sì, purtroppo dovremmo chiudere».
Avete messo in conto anche di andarvene?
D. «Si fanno tanti pensieri...»
G. «Ma li ha visti i titoloni sui giornali?».
Voi stessi, decidendo di chiudere i negozi per tre giorni, avete forse amplificato quella battuta polemica...
D. «Amen. Ma non potevamo tacere. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo mesi e mesi di sgocciolio...».
G. «Vedesse certi blog... "Boicottiamo Dolce & Gabbana, non compriamo più i loro prodotti!" Per carità, moltissimi sono anche da parte nostra, però...».
D. «Io, meno male, i blog non li guardo proprio. Occhio non vede, cuore non duole».
G. «Per quanto te ne freghi, sono cose che ti feriscono se sei uno che ha sempre pagato le tasse. Così, quando quell'assessore ha detto che non avrebbe concesso spazi "a degli evasori" mi è venuto di getto di twittare: fate schifo. Chi se l'immaginava che venisse fuori tutto quel casino?».
Pentito?
G. «No».
D. «Magari io non avrei scritto "fate schifo" scegliendo parole diverse. Ognuno ha il suo temperamento. Ma sulla decisione di chiudere per indignazione, pagando regolarmente i dipendenti, sia chiaro, siamo stati d'accordissimo. Non ne potevamo più».
G. «Sono andato due giorni al mare e stavo così male che mi sono ustionato anche con la protezione 50! Ci chiamavano dall'America: "Ma fate lo stesso la sfilata o è annullata perché andate in prigione?" E noi a spiegare, spiegare, spiegare... Io domando: chi ti sbatte sulle prime pagine con accuse come queste smentite dalle sentenze penali ha idea del danno che fa?».
Se avete violato la legge...
G. «Ripeto: dall'accusa di infedele dichiarazione dei redditi, per quella contestazione tributaria sul reale valore del marchio, siamo stati assolti, nel penale. E questo addirittura "dopo" che il reato era stato prescritto. Più di così!».
E adesso, col Comune di Milano?
G. «Ma mica ce l'abbiamo col Comune di Milano. Ce la siamo presa con l'assessore. Chi mai gli aveva chiesto qualcosa? Che motivo aveva per tirarci in ballo?».
D. «Il fatto è che non abbiamo mai avvertito intorno l'orgoglio delle istituzioni per quello che rappresenta Dolce & Gabbana nel mondo. Come se la moda fosse una cosa secondaria. Sentiamo l'orgoglio dei milanesi e degli italiani, sì. Ma mai abbiamo avvertito questo orgoglio delle istituzioni. Mai».
G. «Una donna mi ha fermato per strada: "Non ho mai comprato un vostro vestito e non mi piace il vostro stile ma sono con voi". Sia chiaro, non siamo Giovanna d'Arco. E non vogliamo proporci come paladini di una rivolta contro il fisco. Per carità! Ma viviamo questa storia come una ingiustizia».
Che Giuliano Pisapia abbia liquidato la battuta del suo assessore come infelice e abbia ricordato che lui è sempre stato un garantista ha chiuso la ferita?
D. «Mai stati in guerra con lui».
Quindi lo incontrerete?
D. «Al mio paese si dice: ogni fuoco cenere diventa».
A tutto ciò si aggiunge la vicenda “Cortina”. Io, sindaco di Cortina mandato in esilio: pago per aver detto no al blitz del Fisco. Il primo cittadino e l'operazione dell'agenzia delle Entrate del Capodanno 2011: "Un'azione da Stato di polizia che ha umiliato un territorio virtuoso", scrive Andrea Franceschi su “Il Giornale”. Andrea Franceschi, sindaco di Cortina d'Ampezzo, nel 2011 subì il celebre «blitz di Capodanno» dell'agenzia delle Entrate. Nel libro Un sindaco in esilio (Marsilio), di cui pubblichiamo ampi stralci, racconta quei giorni e la propria vicenda giudiziaria. Facile immaginare che il 30 dicembre sia, per ogni località di alta montagna, una delle giornate più intense dell'anno. E fu proprio il 30 dicembre 2011 che ottanta membri dell'agenzia delle Entrate piombarono a Cortina per un'azione che io definii da Stato di polizia. Prima di tutto, mi preme sottolineare che Cortina d'Ampezzo non è un territorio in lotta con la legge come è stato dipinto da qualcuno. Anzi, è un territorio (...) virtuoso, come la stessa agenzia delle Entrate avrebbe potuto testimoniare se avesse pubblicizzato gli esiti del blitz con la stessa veemenza e aggressività con le quali si era impegnata a sbandierarne ai quattro venti l'esecuzione. Lo dico perché è bene si sappia che su oltre mille partite Iva gli ispettori dell'agenzia ne individuarono trentacinque definite «le più a rischio», tra le quali solo una manciata risultarono poi essere effettivamente anomale. Un risultato assolutamente fisiologico, che non avrebbe, però, giustificato lo spiegamento di forze, l'approccio terroristico e i danni d'immagine che fecero scappare molti clienti da Cortina (...) che mal sopportavano di venire in vacanza solo per essere circondati da agenti in borghese e posti di blocco che ti facevano rovesciare il contenuto della spesa nel bagagliaio. La verità, ovviamente, non venne mai a galla ufficialmente, perché ufficialmente non si poteva ammettere che il vero fine del raid non era combattere l'evasione, ma mandare un segnale. Un segnale di guerra rivolto dal governo Monti al suo stesso paese, da lì a poco chiamato a un salasso generale dal quale non sarebbero, però, stati esclusi quelli con il Suv. Anzi, dimostrare che «i primi a pagare saranno i ricchi» fu la ragione alla base del raid: un'operazione solo e unicamente mediatica (...). Molto avevamo investito per far conoscere la vera Cortina, legata alla montagna, alla cultura e allo sport. Ora il blitz dell'agenzia ci aveva dipinti come la Gomorra delle Dolomiti: così titolò uno dei principali quotidiani italiani. Fu una vera violenza e fu molto triste pensare che a infliggere questo colpo gravissimo a un territorio produttivo e onesto fosse stato proprio l'intervento dello Stato italiano. (...) Cortina fu vittima, non colpevole, e io avevo non solo il diritto, ma anche il dovere di difenderla con forza e coraggio. Il calvario della giustizia: la Procura della Repubblica di Belluno dà credito alle accuse di una dipendente scontenta e un intero paese viene investito dalla bufera. Ho passato ventun giorni agli arresti domiciliari, oggi ho il divieto assoluto di mettere piede nel territorio di Cortina e affronto un lungo processo. Il 22 maggio 2012 oltre venti uomini della Guardia di finanza arrivano da Belluno all'alba. Suonano a casa e, poi, iniziano la perquisizione. Stessa scena in Comune. L'impianto accusatorio parte dalle dichiarazioni di una dipendente comunale scontenta, Emilia Tosi (...) Viene sentito dai magistrati anche l'ex comandante dei vigili urbani Nicola Salvato, in qualità di parte lesa, perché, nelle intercettazioni durate per ben sei mesi, sarebbe stato vittima di pressioni da parte mia e di alcuni assessori affinché smettesse di tartassare i cittadini con multe e autovelox. (...) Ad aprile 2013 la svolta. Il 24 del mese mi vengono notificati gli arresti domiciliari. L'accusa è di abuso d'ufficio, turbativa d'asta e violenza privata relativamente all'assegnazione del servizio di monitoraggio della raccolta dei rifiuti. Da notare che la stessa Procura riconosce che dai miei comportamenti non ho tratto alcun beneficio personale (...) I domiciliari rappresentano, per me, un colpo fortissimo. Visto che secondo l'accusa ho debordato nel mio ruolo di sindaco, era probabile che, prima o poi, lo facessi ancora. E quindi mi è stata data una limitazione della libertà personale molto più pesante, per ottenere lo stesso risultato: impedirmi di continuare a fare il sindaco. Il tutto con il messaggio, neppure troppo implicito: «Se ti dimetti, torni libero». Ma, anche se questa sarebbe la scelta più comoda, non lo farò.
Ma non è tutto.
Pizza servita al tavolo, multa di 5mila euro, scrive Giovanni Vaccaro sul “Secolo XIX”. Ad Albisola Superiore (SV) cinquemila euro di multa per due pezzi di pizza. Con la campagna di controlli sui pubblici esercizi sono fioccate anche multe salate per le attività commerciali scoperte a esercitare servizi non previsti dalle licenze. Il caso più eclatante ha colpito “Benvenuti al Sud”, un locale “pizza al taglio” in via IV Novembre, che si è visto elevare un verbale da cinquemila euro per aver portato due pezzi di pizza ai clienti seduti al tavolino esterno come se fosse una normale pizzeria. Una sanzione severa, ma imposta dalle normative e sulla quale gli agenti non hanno margini discrezionali. Il titolare, Massimo Abategiovanni, pur ammettendo l’errore, ha sottolineato la mancanza di tolleranza ed ha stigmatizzato il pugno di ferro usato dai vigili pubblicando su Facebook la notifica e “ringraziando” polemicamente i vigili. L’uscita sul popolare social network ha scatenato i commenti a favore o contro l’operato degli agenti, oltre settanta in poche ore, e fra questi anche qualche privato cittadino che è passato dal semplice commento all’offesa esplicita verso la polizia municipale. Ed ora partiranno i provvedimenti di conseguenza. Il comando albisolese ha già salvato e stampato la pagina con i commenti al fine di presentare alla procura della Repubblica una querela per diffamazione contro gli autori dei singoli post offensivi. Tutto è nato qualche giorno fa, quando due clienti si sono seduti al tavolino davanti a “Benvenuti al Sud”, attività aperta all’inizio di aprile da Massimo, Luciano e Nunzia Abategiovanni, che pensavano di offrire ad Albisola la vera pizza napoletana approfittando del flusso turistico dell’estate e della movida notturna. Ma, oltre alla crisi che ha deluso le aspettative, è arrivata la maximulta per aver servito al tavolo la pizza. «Abbiamo fatto un consistente investimento per affittare il locale, rimetterlo a posto e avviare l’attività – spiega Massimo Abategiovanni -. Ora non siamo in condizione di pagare, rischiamo di finire in ginocchio. Parleremo con il commercialista per valutare cosa si può fare». Luciano Abategiovanni aveva già in una pizzeria a Savona, nella speranza di “intercettare” i turisti ha proposto al fratello Massimo, che lavorava a Nizza, di aprire una nuova attività ad Albisola. E con l’occasione hanno chiamato anche la sorella Nunzia, appena diplomata a Napoli. «Abbiamo sbagliato – ammettono i titolari -, perché la nostra licenza non permette di servire al tavolo. Il cliente può sedersi, ma deve prendersi la pizza dal banco. Il nostro errore è stato di aver fatto una gentilezza agli unici due clienti di quel pomeriggio. Mai avremmo pensato di incorrere in una sanzione del genere. Tra l’altro la crisi si sente, il flusso di persone che speravamo di trovare non c’è affatto». Dal comando della polizia municipale, però, sottolineano che tutte le nuove attività erano state avvisate all’apertura. «Abbiamo fatto il giro delle attività e fatto presente che devono ottemperare a tutte le prescrizioni, dall’esposizione del cartello degli orari al loro rispetto, fino alle disposizioni a seconda del tipo di attività». Anche il sindaco Franco Orsi è intervenuto sulla questione: «Le attività come bar, ristoranti e pizzerie, devono avere locali giudicati idonei e dotati di bagno, inoltre l’Asl verifica le attrezzature compresi piatti, lavastoviglie d frigoriferi. L’attività di pizza al taglio, invece, può essere svolta da un semplice artigiano e gode di diverse agevolazioni: ad esempio non paga la spazzatura nel laboratorio e gode di regimi semplificati verso il fisco e nell’inquadramento dei dipendenti. Ma non può svolgere attività di somministrazione, cioè servire ai tavoli. Sono regole a tutela della concorrenza e dei consumatori, per questo le sanzioni sono molto salate. Con qualche intervento limitato, anche quel locale potrebbe essere gestito come bar o pizzeria».
PROVINCE SPECULATIVE.
Tic. Tic. Tic. Dal rubinetto delle Province, nelle gole arse degli imprenditori, escono poche gocce: un undicesimo dei soldi destinati allo sviluppo economico, scrivono Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Tutto il resto lo trattiene per le spese vive (un miliardo!) il rubinetto burocratico. Lo dicono i dati in possesso al governo. Che cerca di trovare uno sbocco al tormentone sul destino di questi enti per alcuni (presidenti, assessori, galoppini...) «indispensabili», per altri del tutto superflui.
Pesa otto miliardi e 633 milioni la spesa
«corrente» delle Province, vale a dire i soldi per il personale, gli affitti, le
bollette, la benzina nelle macchine, gli stipendi degli assessori, i gettoni dei
consiglieri... L'equivalente dei soldi necessari per eliminare l'Imu sulla prima
casa ed evitare l'aumento dell'Iva, e avanzerebbe ancora qualcosa. La cifra è
contenuta in una tabella che sta sul tavolo del ministro degli Affari regionali,
l'ex sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio. Certo, non sparirebbe d'incanto,
quel costo, se le Province dovessero scomparire dall'oggi al domani. Ma una
bella fetta sì. Eppure il ritornello del Ptpt, il Partito Trasversale delle
Province in Trincea che comprende uomini della sinistra e della destra e
soprattutto della Lega Nord, non cambia mai: dall'eliminazione delle Province si
risparmierebbero solo poche briciole. C'è perfino chi argomenta, dati alla mano,
che la spesa aumenterebbe per parte di quei 56 mila dipendenti provinciali
eventualmente trasferiti alle Regioni, dove le buste paga sono più pesanti. Dopo
aver gioito per la decisione con cui la Corte costituzionale ha cassato la norma
del salva Italia che privava di funzioni e di rango elettivo le Province,
contestando il veicolo usato per farla passare (il decreto legge d'urgenza), il
presidente dell'Upi Antonio Saitta, del Pd, esulta per la sentenza del Tar del
Lazio che ha giudicato eccessivi i tagli imposti con la spending review dal
governo Monti. Ossia, 500 milioni per il 2012 e 1,2 miliardi per il 2013. «Tagli
palesemente iniqui e sproporzionati, a danno dei servizi ai cittadini. Per colpa
loro molte Province sono andate in predissesto, con ricadute sul personale, sui
servizi erogati e sulle imprese...» E a sentire lui e i suoi colleghi, pare
quasi che l'Italia intera si regga su questi enti di lignaggio antico la cui
abolizione fu discussa, in previsione della nascita delle Regioni, addirittura
alla Costituente. Ma è davvero così?
Entriamo nei numeri della tabella sul tavolo di Delrio. Per scoprire che forse,
rispetto a quel grido di dolore, qualcosa non torna. Nel 2011 le entrate delle
Province sono state pari a 11 miliardi 289 milioni, le spese a 10 miliardi 963
milioni. Avanzo: 326 milioni. Tolti gli 8,6 miliardi di spese correnti, ne
restano per le spese in conto capitale solo 2 e 330 milioni. Traduzione: per
ogni euro di investimenti nei vari settori di competenza addirittura 3,7 se ne
vanno solo per mantenere in vita le strutture. Quasi il quadruplo! Ma questa è
la media. Se poi si scende nelle pieghe dei conti si hanno sorprese che lasciano
di stucco. Sostiene ad esempio lo stesso Saitta, in un voluminoso rapporto
concepito come «un muro di faldoni» eretto «per dimostrare quanto lavoro ha
fatto e quanto è utile» l'ente di cui è presidente, che «ogni euro stanziato
dalla Provincia ha un effetto moltiplicatore pari a 2,8». Sarà... Ma al di là
delle perplessità sul fatto che anche le Province spendano soldi per cose di cui
normalmente si occupano, oltre allo Stato, sia i Comuni sia le Regioni, restano
i numeri di cui dicevamo. Gli interventi a favore dello sviluppo economico, per
dire, sono una funzione tipicamente regionale. Eppure le Province hanno un
budget di un miliardo e 43 milioni. Peccato che le spese correnti, per questo
capitolo, siano di 948 milioni: il 91% del totale. Un quarto del gettito
dell'Imu sulla prima casa. Gli investimenti per lo «sviluppo», però, non
superano i 95 milioni. Il nove percento! E non si tratta dell'unico fiume di
denaro che via via, di ufficio in ufficio, di firma in firma, di timbro in
timbro, si riduce a un rigagnolo. Dei 213 milioni che dovrebbero soccorrere la
cultura e i beni culturali, quelli che se ne vanno in spese correnti sono 183:
l'85%. Dei 192 per il turismo e lo sport, la «macchina» ne beve 161: l'84%. Per
non dire degli interventi nel sociale: 248 milioni di spese correnti, 10 milioni
di investimenti. Un venticinquesimo. Quanto ai trasporti locali, una delle
funzioni più importanti attribuite alle Province, le cifre sono ancora più
sconcertanti: un miliardo e 375 milioni di spese correnti, 28 milioni di
investimenti. Cioè un quattordicesimo. La stessa tabella elaborata dai tecnici
per il ministro democratico, avviato a un durissimo braccio di ferro con il
presidente dell'Upi (l'unione delle Province italiane) nonostante appartengano
entrambi al Partito democratico, afferma che le sole spese correnti per il
mantenimento delle strutture provinciali sono pari a 2 miliardi 325 milioni.
Più, ovviamente, le spese per le elezioni: 400 milioni ogni cinque anni. Davvero
i risparmi risulterebbero irrisori nel caso in cui le Province svanissero? La
partita, però, non si gioca solo sui soldi. In ballo c'è l'azzeramento di un
intero livello di potere. La riduzione, nel calvario di ogni pratica
burocratica, di un timbro, un parere, un pedaggio da pagare in tempo e denaro
alla proliferazione di amministrazioni autorizzate a mettersi di traverso a ogni
progetto. Ed è qui che si sta consumando un durissimo braccio di ferro dentro lo
stesso governo. Dopo la sentenza della Consulta, il premier Enrico Letta ha
avviato l'iter di una legge costituzionale che, passo indispensabile per fare il
resto, dovrebbe togliere la parola «Province» dalla Carta fondamentale. Una
svolta: solo due anni fa il Pd («Non si vota una cosa sbagliata e demagogica per
mandare un segnale», disse Dario Franceschini) aveva aggiunto la sua astensione
alla valanga di «no» della destra e della Lega che aveva sepolto la stessa
iniziativa proposta dai dipietristi. Ma i tempi, ahinoi, rischiano di essere
biblici. Soprattutto perché quel provvedimento, dopo il rituale doppio passaggio
fra Camera e Senato, dovrà essere seguito anche da una legge ordinaria con
chissà quanti altri passaggi fra Montecitorio e Palazzo Madama. Campa cavallo.
Per evitare che tutto finisca ancora una volta in una gigantesca bolla di
sapone, Delrio ha preparato un grimaldello con l'obiettivo di eliminare di fatto
le Province senza attendere i tempi della modifica costituzionale, che comunque
andrebbe avanti per la propria strada. È un disegno di legge che dovrebbe essere
approvato dal prossimo Consiglio dei ministri. La bozza è composta da 23
articoli, che seguono una traccia simile a quella del salva Italia: questa volta
apparentemente inattaccabile dalla Consulta, perché non si tratta di un
provvedimento d'urgenza. L'idea (non nuovissima ma finalmente, forse,
realizzabile), è quella di trasformare le Province in assemblee di sindaci
autoregolate, senza più organi elettivi, per di più incentivando la costituzione
di Unioni dei Comuni per razionalizzare quanto più possibile i servizi
municipali. Ridotte a qualcosa di simile a semplici agenzie per le cosiddette
aree vaste, resterebbero loro poche competenze nelle strade, nel trasporti,
nell'ambiente e nella «programmazione della rete scolastica». Dal primo gennaio
del 2014, inoltre, le Province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna,
Firenze, Roma, Napoli, Bari e Reggio Calabria diventeranno aree metropolitane,
con un consiglio formato dai sindaci dei Comuni presieduto dal sindaco del
capoluogo. Siccome il disegno di legge non rimanda a decreti o regolamenti
attuativi, come invece avviene di solito nei nostri bizantini meccanismi
legislativi, le norme sarebbero immediatamente applicabili. Entro venti giorni
dalle elezioni comunali successive all'approvazione del provvedimento, il
presidente della Provincia o il suo commissario, prorogati fino a quel momento,
dovrebbero convocare l'assemblea dei sindaci per l'elezione del presidente della
Provincia. Incarico, è specificato, a titolo gratuito come quello dei
partecipanti all'assemblea provinciale. E qui comincia la corsa contro il tempo.
Messo in allarme soprattutto da questa nuova mossa di Delrio, il Partito
Trasversale delle Province in Trincea sta studiando le contromisure con un
obiettivo preciso. Impedire che la legge vada in porto prima della primavera
2014, quando scadranno ben 53 Province: dalla A di Alessandria alla V di Verona.
La rivendicazione per andare a votare è già pronta. Le pressioni sono fortissime
anche nelle 21 Province nel frattempo già scadute e commissariate, in molti casi
con gli ex presidenti. Alcune delle quali avrebbero preteso addirittura il voto
immediato, dopo la sentenza della Consulta a loro favorevole. Sentenza ottenuta
schierando un esercito di legali. Tra i quali Beniamino Caravita di Toritto,
Massimo Luciani e Giandomenico Falcon. Tre principi del Foro che fanno parte
anche della commissione di saggi incaricata di riformare la Costituzione.
Coerenze italiane...
RINCARI SPECULATIVI: CARBURANTI ED RCA.
Ripartono gli aumenti dei carburanti, con la benzina che arriva fino a 1 euro e 834 centesimi al litro e il diesel a 1 euro e 764 negli impianti Tamoil. Secondo Coldiretti nel 2012 i prezzi della benzina e del gasolio sono stati quelli che hanno fatto registrare il maggior aumento: sono cresciuti del 14,2%. Assopetroli chiede che il prossimo governo sterilizzi l'Iva sui carburanti e tagli le accise per allineare il peso fiscale sul prezzo della benzina alla media europea soprattutto considerando che in Italia l'86% delle merci viaggia su strada. Secondo l'associazione i margini per diminuire la tassazione sui carburanti ci sono visto che in Italia tra accise e Iva si supera il 60% del prezzo finale. Le vendite di carburante in un solo anno, nel 2012, sono crollate del 10,5%. Nessuna eccezione, dunque. Si ripete anche quest'anno il solito scenario del rincaro dei carburanti, neanche a farlo apposta proprio a ridosso della partenza degli italiani per le ferie estive. E la causa è da attribuire alla sempre più pesante incidenza delle accise sul prezzo finale. Non sono, quindi, i petrolieri la causa degli ultimi aumenti, i quali scaricano interamente al Governo la patata bollente. Il Ministro dello Sviluppo Economico del Governo Letta, Flavio Zanonato, ha lanciato un richiamo ai petrolieri, che non ha prodotto nessun effetto dato che i rincari hanno comunque avuto luogo. Dal canto suo l'Unione petrolifera, per bocca del direttore generale Pietro De Simone, afferma che gli ultimi aumenti non presentano alcuna anomalia e sottolinea che il prezzo medio si attesta su valori inferiori rispetto a quelli del 2012. Infine, lo stesso De Simone invita il Governo a farsi un esame di coscienza e dichiara "anche se mi rendo conto che c'è un problema di cassa. Noi abbiamo margini nulli di intervento". Di parere contrario è, invece il Presidente nazionale dell'Adiconsum Pietro Giordano, che denuncia la ben nota anomalia del rincaro dei prezzi dei carburanti proprio in concomitanza con la partenza per le ferie. E le ripercussioni non si avvertono soltanto per quanto riguarda il costo per il rifornimento, ma gli aumenti incidono anche sul carrello della spesa dato che, in Italia, il 90% delle merci viaggia su gomma. "Le polemiche sui prezzi dei carburanti sono del tutto pretestuose e infondate dal momento che non c'e' nessuna anomalia nei recenti aumenti, che sono la conseguenza di un generalizzato incremento delle quotazioni internazionali sia del greggio che dei prodotti, al pari di quanto accade nel resto d'Europa come testimoniato dall'andamento più che favorevole del cosiddetto stacco Italia che si mantiene su livelli decisamente bassi". E' quanto ha dichiarato il presidente dell'Unione Petrolifera, Alessandro Gilotti. "In questa fase i prezzi hanno riflesso in maniera del tutto parziale e contenuta gli aumenti internazionali che scontano anche un indebolimento dell'euro nei confronti del dollaro. Il vero problema - ha proseguito Gilotti – è l'elevato carico fiscale che per la benzina è superiore a 1,03 euro/litro, il 60% del prezzo totale. Inoltre, non abbiamo superato nessun record dal momento che i prezzi attuali sono assolutamente inferiori rispetto al prezzo medio del 2012". "Quanto allo sciopero dei gestori, visto che si è creata confusione ed apprensione tra gli automobilisti, è importante precisare che esso riguarda solo la rete autostradale. Va inoltre detto chiaramente che non c'entra nulla con l'andamento dei prezzi, come in molti hanno scritto, ma riflette una situazione di grave crisi sia per le Gestioni che per le Società Petrolifere, derivante dal crollo dei consumi e da royalties elevatissime che vengono corrisposte ai concessionari autostradali". "L'unica soluzione per rilanciare il settore della distribuzione carburanti - ha concluso Gilotti – è quello di un serio impegno sulla razionalizzazione del settore distributivo. Le aziende petrolifere sono pronte a fare la loro parte e da tempo hanno proposto soluzioni in linea con quanto suggerito in merito anche dalla stessa Antitrust".
E per quanto riguarda gli aumenti assicurativi della RCA, secondo l’Istat, gli unici due settori che si mantengono stabili malgrado il periodo di crisi sono quello della finanza e quello delle assicurazioni italiane. Non si può dire lo stesso per i settori del lavoro, dei consumi, dei risparmi e del potere d’acquisto delle famiglie italiane, che hanno riportato un ulteriore crollo, confermando così il trend negativo in atto già da alcuni mesi precedenti. La performance positiva delle compagnie di assicurazioni online e tradizionali si spiega con i continui aumenti riportati dalle polizze e con la diminuzione del numero dei sinistri. Grazie alla sentenza n. 97/113, gli unici “fortunati” in Italia a non aver dovuto subire i rincari sulle tariffe Rca sono stati gli automobilisti residenti nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome. Dal rapporto Istat emerge, invece, una situazione tutt’altro che positiva per il lavoro. In particolare, tra il 2008 e il 2012 sono stati persi 506 mila posti di lavoro e oltre un milione di persone si sono ritrovate disoccupate. Un altro dato che deve far riflettere è che, alla fine del 2012, 15 milioni circa di persone (il 25% della popolazione e ben il 40% al Sud) vivevano in condizioni di disagio economico, ai limiti della povertà. Sempre nello stesso periodo, il potere di acquisto delle famiglie è diminuito di quasi cinque punti percentuali, mentre il reddito del 2,2%, con conseguente contrazione dei consumi (gli acquisti di In 18 anni, dal 1994 al 2012, le tariffe delle polizze obbligatorie Rc Auto hanno raggiunto aumenti del 245% per le auto e fino al 480% per le due ruote. Sono i calcoli di Adusbef-Federconsumatori che rimarcano come la spirale dei rialzi abbia fatto salire a 4,5 milioni il numero dei veicoli non assicurati. ”In Italia – si legge in un rapporto delle associazioni dei consumatori – la Rc Auto si mangia il 6,5% dello stipendio, il doppio della media Ocse e il triplo dell’Inghilterra”beni e servizi sono calati del 4,3%).
Il prezzo dell’assicurazione auto continua a crescere: questo è un dato di fatto. A far discutere, però, sono le cause di questi rincari. Da una parte, le compagnie assicurative danno la colpa agli automobilisti e alla loro guida poco “virtuosa”; dall’altra, i consumatori si lamentano dei costi troppo elevati dei premi assicurativi e della discriminazione che, spesso, colpisce i guidatori del Sud Italia, costretti a pagare delle cifre molto più alte rispetto a quelli del Nord. In realtà, la maggior rischiosità di un neopatentato o un automobilista nelle aree meridionali è ancora da dimostrare. Il fenomeno che invece sembra influire di più nell’aumento dei premi assicurativi è quello dei veicoli non assicurati. Gli aumenti dei premi dell’assicurazione auto, uniti ai sempre più frequenti raggiri delle cosiddette “compagnie fantasma” che offrono, anche se non autorizzate, assicurazioni auto a prezzi stracciati, hanno portato molti automobilisti a non voler più sottoscriver il contratto di assicurazione auto. L’incremento di questi due atteggiamenti illegali si ripercuote sul mercato dell’assicurazione auto, con un ulteriore rincaro sui premi assicurativi di tutti gli effettivi paganti.
Un ulteriore problema che è necessario risolvere e che appare di interesse soprattutto in questi giorni, inoltre, è costituito dalla troppa fissità del mercato dell’assicurazione auto. Nonostante i dati Istat rilevino che i comportamenti imprudenti e fraudolenti degli automobilisti assicurati non siano molti e siano in linea con quelli registrati negli altri Paesi europei, i premi di assicurazione auto in Italia sono molto più alti che nel resto d’Europa. Le compagnie che operano nel nostro Paese, infatti, non crescono di numero e questa stabilità non permette una libera concorrenza nel mercato dell’assicurazione auto. Come in tanti settori, dunque, anche in quello dell’assicurazione auto sono necessari dei provvedimenti per favorire la liberalizzazione e per permettere agli automobilisti di scegliere tra prezzi veramente competitivi per la loro Rca.
BANKITALIA E LE (QUASI) VERITA’ SULLE BANCHE.
Gravissime rivelazioni al Convegno sull’ignobile depredazione del Banco di Napoli, scrive Giovanni Cervero il 27 ottobre 2017 su su "Positanonews.it". Lo scorso 16 ottobre si è svolto a Napoli, nella sede dell’Associazione Mediterranea in via Carlo De Cesare 60 (a due passi dalla centralissima Galleria Umberto) l’atteso Convegno sul tema “La vicenda del Banco di Napoli”. Cioè sulla serie di raggiri con i quali il Banco di Napoli è stato ignobilmente sottratto agli interessi ed allo sviluppo dell’Italia meridionale. Il Convegno è stato organizzato da Paolo Pantani, delegato per Napoli del Partito Secessionista dell’Italia Meridionale e già presidente dell’ACLI beni culturali, che ha anche effettuato l’introduzione. E i relatori sono stati, come annunciato:
Stefano Surace, il celebre asso internazionale del giornalismo d’inchiesta e presidente del Partito Secessionista dell’Italia Meridionale, che ha ricostruito la vicenda Banco Napoli nei dettagli, compresi quelli che si tiene assolutamente ad occultare.
Adriano Giannola, presidente di SVIMEZ (l’Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno) sul tema dell’assorbimento della bad bank SGA da parte del ministero del tesoro, fondo Atlante.
Francesco Fimmanò, ordinario di diritto commerciale e direttore scientifico dell’Universitas Mercatorum, sul tema crisi del capitalismo finanziario e fondazioni bancarie.
E’ poi intervenuto Leonardo Impegno, deputato, che intende rappresentare, alla presidenza della Commissione parlamentare di indagine sulle banche, le conclusioni espresse dal convegno.
Che si è concluso con i saluti della coordinatrice Luisa Menniti. Fra i partecipanti al convegno abbiamo notato fra gli altri Amedeo Lepore, assessore della regione Campania alle attività produttive.
Le relazioni.
Interesse particolarmente vivo ha suscitato la relazione di Stefano Surace, rigorosamente tecnica ma espressa con un linguaggio accessibile a chiunque, con la quale ha dettagliato la serie di abusi con i quali si è sottratto al Sud la sua di gran lunga principale banca, facendola divenire proprietà della torinese San Paolo-Imi (poi divenuta Intesa San Paolo), con gravissimo danno per gli interessi del territorio meridionale e della sua popolazione. Fra gli abusi dettagliati da Surace proprio quelli che finora si era avuto estrema cura ad occultare da parte degli ambienti bancari, finanziari ed ad essi collegati. E a conclusione c’è stata una generale richiesta di avere copie del testo della relazione di Surace.
Il secondo relatore, Adriano Giannola, presidente di SVIMEZ, si è espresso come sua abitudine in maniera particolarmente dotta, ma con un linguaggio strettamente accademico, accessibile praticamente solo a certi esperti.
Il terzo relatore, Francesco Fimmanò dell’Universitas Mercatorum, ha indicato fra l’altro una serie di gravi irregolarità dell’attuale presidente della Fondazione Banco di Napoli Daniele Marrama, sul quale sta del resto indagando la giustizia.
Ha ricordato fra l’altro di essere stato designato dal governatore della regione Campania Vincenzo De Luca a far parte del Consiglio generale di detta fondazione, ma il Marrama e i membri presenti alla relativa seduta di detto consiglio avevano rigettato illegittimamente la sua designazione.
Bene, a questo punto, visto l’interesse particolarmente vivo suscitato dalla relazione di Surace, riteniamo interessante aderire alle moltissime richieste di riportarne il testo, cosa che facciamo qui di seguito.
Le rivelazioni di Stefano Surace. Avevo sentito parlare spesso del fatto che il Banco di Napoli è stato sottratto al Sud in modo ignobile, ma non trovavo mai una spiegazione che ne dettagliasse tutti gli aspetti e fasi con cui ciò era stato realizzato. Sicché a un certo punto, nel quadro della mia campagna di stampa che ho sentito il dovere di effettuare per il Sud, mi sono deciso ad approfondire anche questo aspetto. Ed ho costatato che effettivamente la sottrazione del Banco di Napoli era stata realizzata in modo davvero orripilante, con una serie di abusi i cui autori e certi ambienti ad essi collegati hanno un assoluto interesse ad occultare. Vediamo dunque.
Intorno al 1980 la Cassa per il Mezzogiorno ebbe ad assegnare numerosi lavori a molte aziende, impegnandosi a versare loro i finanziamenti corrispondenti. Nel frattempo incaricò tuttavia il Banco di Napoli di anticipare esso quei finanziamenti a quelle aziende, a titolo di prestiti che gli sarebbero stati comunque rimborsati non appena la Cassa per il Mezzogiorno avrebbe versato materialmente alle aziende i finanziamenti cui si era impegnata. E in effetti il Banco di Napoli erogò a quelle imprese ben 7 miliardi di lire per una quarantina di pratiche di credito. Sennonché a questo punto si provvide a sopprimere di colpo la Cassa per il Mezzogiorno (il 6 agosto 1984) che quindi non erogò a quelle aziende i finanziamenti previsti…Sicché quelle aziende si vennero a trovare nella situazione di dover rimborsare esse stesse, coi propri mezzi, quei crediti che avevano ricevuti dal Banco di Napoli. Ma comunque erano perfettamente in grado di farlo, come in effetti confermato in seguito in modo inoppugnabile, come vedremo.
Crediti esigibili fatti passare per inesigibili. Si trattava dunque di crediti ben esigibili, sennonché il governatore della Banca d’Italia all’epoca, Antonio Fazio e il ministro del tesoro Carlo Azeglio Ciampi li fecero invece passare sbrigativamente per inesigibili, contro ogni evidenza. E di conseguenza affermarono che il Banco di Napoli, non potendoli recuperare, rischiava un immediato fallimento. Sicché la fondazione Banco Napoli – che aveva il controllo del Banco poiché ne possedeva il 60% delle azioni – doveva vendere questo suo 60% per procurare i fondi assolutamente necessari ad evitare il fallimento. Ovviamente il presidente della fondazione, Gustavo Minervini, si oppose stupefatto osservando appunto che quei crediti, con ogni evidenza, erano in realtà ben esigibili… ma le pressioni perentorie anche se infondate del governatore della Banca d’Italia e del ministro del tesoro vanificarono la sua più che legittima opposizione. E così il ministro del tesoro Ciampi a un certo punto organizzò un’asta pubblica per la vendita appunto di questo 60% del capitale del Banco. Ebbene in quest’asta vennero presentate due offerte di acquisto (OPA), l’una per 400 miliardi di lire da parte del Mediocredito Centrale, e un’altra di molto inferiore, per soli 61 miliardi, dalla Banca Nazionale del Lavoro e dall’INA (l’Istituto Nazionale Assicurazioni) congiuntamente. La vendita doveva essere dunque aggiudicata ovviamente al Mediocredito per quei 400 miliardi, appunto molto superiori ai 61 miliardi offerti da BNL e INA. E invece si verificò il fatto incredibile che il ministero del tesoro (cioè appunto Ciampi) l’aggiudicò proprio alla BNL e all’INA, per quei 61 miliardi, bloccando l’offerta del Mediocredito Centrale col pretesto di una sua mancata formalità alla quale invece sarebbe stato facilissimo rimediare. E così quel 60% del capitale del Banco di Napoli venne svenduto scandalosamente per 61 miliardi invece che per 400 miliardi, con grave danno ovviamente per la Fondazione. Per la precisione di quei 61 miliardi il 49% (cioè 28,82 miliardi) vennero versati dalla BNL e il 51% (cioè 33,11 miliardi) dall’INA. Mediocredito ebbe allora a protestare più che legittimamente, ma fonti autorevoli riferiscono che il Ciampi intervenne personalmente dichiarando per telefono ai responsabili di Mediocredito “se intervenite vi distruggo!”.
Come si spiega? Ebbene come si spiegano questi comportamenti del Ciampi?
Bisogna innanzitutto considerare che detto ministro era direttamente interessato nella faccenda, poiché la BNL era proprietà proprio del ministero del tesoro, ed era in condizioni finanziarie particolarmente gravi. In effetti la sua filiale di Atlanta (USA) diretta dal figlio del Ciampi, Claudio, aveva fornito all’iracheno Saddam Hussein fondi per l’acquisto di armi che tuttavia non erano stati poi rimborsati a causa della caduta di costui. E a seguito di ciò l’intera BNL rischiava di fallire. E così il fatto che la BNL aveva acquistato quelle azioni della Fondazione Banco Napoli per quella cifra irrisoria di 28,89 miliardi, dava al Ciampi la possibilità di rivenderla, in un’asta successiva, per una cifra molto superiore, con ben cospicuo guadagno, e conseguente salvataggio della BNL dal fallimento e salvezza del suo suddetto figlio. Il Ciampi era dunque fortemente e personalmente interessato in tutto ciò, al punto d’aver organizzato e manipolato sfrontatamente quell’asta, della quale oltretutto veniva ad essere al tempo stesso l’organizzatore e il proprietario di una delle concorrenti, appunto la BNL con un vistoso quindi conflitto di interessi. E il seguito si svolse in perfetta linea con tutto ciò: in un’asta effettuata due anni dopo, nel 1999, una banca torinese, la San Paolo-Imi, presentò un’OPA di 6000 miliardi di lire per l’acquisto di BNL e INA ma anche di quel resto di capitale del Banco di Napoli, quel 40% che era di proprietà dei rimanenti azionisti. OPA che venne puntualmente accolta e così tutte le azioni che erano appartenute al Banco di Napoli (quelle già passate a BNL e INA e il rimanente ora aggiunto) passarono alla San Paolo-Imi. E in questa vendita 1746 miliardi andarono appunto alla BNL, 1836 miliardi all’ INA e 2400 miliardi dovevano andare ai rimanenti azionisti, ma a questi ultimi in realtà non furono versati. In tal modo venne realizzato l’exploit da un lato di vendere per… 1746 miliardi (!!!) le azioni che la BNL aveva acquistato per 29,89 miliardi, guadagnando quindi una cifra ben… 58 volte superiore !!! E così salvando la BNL dal fallimento e il figlio di Ciampi, Claudio, che l’aveva esposta a quel disastro. E per di più si otteneva di far cadere il Banco di Napoli – la sola grande banca del Mezzogiorno – nelle mani della torinese San Paolo-Imi (poi divenuta Intesa San Paolo) privando il Mezzogiorno della sua unica grande banca e così sferrando un colpo mortale all’economia meridionale. In tutto questo nel frattempo la SGA (Società per la Gestione di Attività) aveva recuperato praticamente tutti i crediti che il Banco di Napoli aveva erogato a quelle aziende, il che costituiva un’ulteriore, lampante conferma che si trattava di crediti esigibili, ad onta del Fazio e Ciampi che li avevano imposti sbrigativamente come inesigibili. Crediti recuperati che dunque dovevano essere assegnati di diritto alla Fondazione Banco di Napoli, e invece il ministero del tesoro se li è tenuti e li ha utilizzati per salvare delle banche del centro-nord a rischio fallimento: come Monte dei Paschi di Siena, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Carige, Banca Etruria e così via…
Una serie sconvolgente di abusi. In sostanza dunque gli abusi salienti commessi in questa faccenda furono:
1) Indurre il Banco di Napoli a versare come crediti i finanziamenti che la Cassa per il Mezzogiorno risultava aver destinato a quelle aziende, con l’intesa che sarebbero stati rimborsati al Banco appena la Cassa per il Mezzogiorno li avrebbe effettivamente versati a quelle aziende.
2) Soppressione come per caso di colpo della Cassa per il Mezzogiorno (il 6 agosto 1984) che quindi non erogò i finanziamenti previsti a quelle aziende, le quali dovevano dunque rimborsare coi propri mezzi i crediti ricevuti dal Banco di Napoli. Cosa che comunque erano perfettamente in grado di fare, come rilevato osservato subito dal Minervini (e come poi confermato in modo inoppugnabile poiché li rimborseranno in modo praticamente totale attraverso la SGA, la Società per la Gestione di Attività).
3) Far passare invece quei crediti ben esigibili per crediti inesigibili, con conseguente preteso rischio immediato di fallimento per il Banco di Napoli.
4) Indurre quindi la Fondazione Banco di Napoli, che controllava detto Banco detenendone il 60% delle azioni, a vendere questo suo 60% di azioni per evitare quel preteso rischio immediato di fallimento del Banco.
5) Organizzare da parte del il ministero del tesoro un’asta pubblica per la vendita appunto di questo 60% del capitale del Banco, nel corso della quale invece di attribuire la vendita alla Mediocredito Centrale che aveva offerto 400 miliardi di lire, l’attribuirono alla Banca Nazionale del Lavoro e dall’INA che avevano offerto congiuntamente un cifra molto inferiore, cioè 61 miliardi. Per la precisione di quei 61 miliardi il 49%, cioè 28,82 miliardi, vennero versati dalla BNL e il 51%, cioè 33,11 miliardi, dall’INA. Fra l’altro quell’asta era stata organizzata appunto dal ministero del tesoro che però era anche proprietario di una delle concorrenti, la BNL, per cui c’era un vistoso conflitto di interessi. E il Banco di Napoli passa alla torinese San Paolo Imi…
6) Con una successiva asta una banca torinese, la San Paolo-Imi acquistò per 6000 miliardi di lire sia BNL e INA e sia quel resto di capitale del Banco di Napoli, quel 40% che era rimasto di proprietà dei rimanenti azionisti.
Per la precisione, in questa vendita 1746 miliardi andarono alla BNL, 1836 miliardi all’ INA e 2400 miliardi dovevano andare ai rimanenti azionisti, ai quali tuttavia in realtà non furono versati.
7) In tal modo venne realizzato l’exploit da un lato di vendere per… 1746 miliardi le azioni che la BNL aveva acquistato per 29,89 miliardi, guadagnando quindi una cifra ben… 58 volte superiore !!! E così salvando la BNL dal fallimento e il figlio di Ciampi, Claudio, che l’aveva esposta a quel disastro. E d’altro canto si otteneva di far cadere il Banco di Napoli – la sola grande banca del Mezzogiorno – nelle mani della torinese San Paolo-Imi (poi divenuta Intesa San Paolo) privando il Mezzogiorno della sua unica grande banca e così sferrando un colpo mortale all’economia meridionale.
8) nel frattempo la SGA (Società per la Gestione di Attività) aveva recuperato praticamente tutti i crediti che il Banco di Napoli aveva erogato a quelle aziende, il che confermava in modo lampante che si era trattato trattava di crediti esigibili. E il ministero del tesoro si è tenute queste somme recuperate le ha utilizzate per salvare delle banche del centro-nord a rischio fallimento.
Metter fine alla spoliazione del Sud. Insomma, in questa mia ricerca ho potuto rilevare questa impressionante serie di abusi di cui quelli fondamentali erano stati finora sistematicamente occultati all’opinione pubblica. Abusi con i quali oltretutto il Banco di Napoli è stato fatto appunto passare alla torinese San Paolo-IMI. Sicché ho ora ritenuto doveroso renderli pubblici in questo convegno, in modo che tutti i cittadini ai vari livelli possano finalmente vederci chiaro e regolarsi di conseguenza. In effetti sono faccende come queste che hanno ormai diffuso in larga parte della popolazione meridionale la convinzione che la sola soluzione – per metter fine alla spoliazione massiccia e sistematica delle risorse del Sud perpetrata costantemente da 154 anni fino all’attuale situazione del tutto insostenibile – è che l’Italia del Sud si riappropri della propria indipendenza, delle proprie risorse, riprendendo il proprio congeniale cammino di efficace progresso economico e culturale che è stato stravolto dalla cosiddetta “unità”. Cosa a cui a quanto pare ci si sta fatalmente (e fortunatamente) avviando…Questo dunque il testo della relazione di Stefano Surace al convegno sul Banco di Napoli, che ha fatto finalmente crollare il muro di silenzio con cui si occultavano i fatti abominevoli sopra dettagliati. E così i cittadini ai vari livelli possono ormai finalmente vederci chiaro e regolarsi di conseguenza. Stefano Surace
Domande alle banche solo con il sì di Casini, scrive Alessandro Di Matteo il 06/10/2017 su "La Stampa". I lavori veri e propri non sono ancora iniziati, ma è già polemica sulla commissione parlamentare d’inchiesta incaricata di indagare sulle banche italiane. L’organismo, nato per far luce sui fallimenti del sistema creditizio, parte con uno scontro tra maggioranza e opposizioni già sulle regole del gioco e, in particolare, sulla norma che affida al presidente della commissione Pier Ferdinando Casini il potere di decidere quali domande si potranno fare ai testimoni che verranno chiamati. Norma passata con il sì di Pd e Fi con l’opposizione di M5s, Scelta civica e Fratelli d’Italia. Già la nomina di Casini a presidente era stata letta da molti come un modo per garantire una gestione prudente di un organismo che rischia di aprire molti vasi di Pandora. Basti pensare che solo pochi giorni fa Matteo Orfini (Pd) aveva chiesto che la commissione partisse dall’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps, operazione avvenuta quando alla guida di Bankitalia c’era Mario Draghi. Senza contare le tensioni sul rinnovo del governatore di Banca d’Italia. Il rischio che la commissione diventi una rissa tutti contro tutti è temuto da molti, anche dal Quirinale, e ora la norma che affida a Casini l’ultima parola sulle domande è per molti la conferma che si vuole che la situazione non sfugga di mano. Non solo, ma anche la secretazione o meno degli atti verrà decisa dal solo ufficio di presidenza composto da Casini, dai suoi due vice Renato Brunetta (Fi) e Mauro Maria Marino (Pd) e dai segretari Paolo Tosato (Ln) e Karl Zeller (Autonomie). Secondo Enrico Zanetti di Scelta civica, questa norma «è la cartina di tornasole del perché è stato voluto in quel ruolo chi (Casini, ndr) pensava che la commissione d’inchiesta sulle banche fosse addirittura meglio non farla». Giovanni Paglia, di Sinistra italiana, attacca dicendo che «il patto del Nazareno è ancora vivo». Per M5s «è evidente l’intento della maggioranza di insabbiare tutto». Giorgia Meloni, poi, si dice «pessimista» sulla commissione e parla di un «gioco delle tre carte». Il Pd respinge le critiche, Gian Carlo Sangalli parla di obiezioni «pretestuose» e Renato Brunetta rivendica: «Ricordo all’amica Giorgia che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche l’ho chiesta io per primo, quasi tre anni fa». In serata il clima sembra tuttavia distendersi, tanto che viene approvata all’unanimità la delibera sul regime di classificazione degli atti.
Commissione banche, sarà Casini a decidere quali domande fare. Approvato il Regolamento. Pd e Forza Italia blindano i poteri di inchiesta. E potranno secretare gli atti a piacimento, scrive Massimo Franchi su “Il Manifesto il 6 ottobre 2017. L’uomo secondo cui la commissione d’inchiesta sulle banche sarebbe stata un «impasto di demagogia e pressappochismo» ora deciderà a suo insindacabile giudizio sulle domande da porre ai testimoni. E c’è da scommettere che respingerà le più delicate. Ad esempio quelle sulle pressioni di Maria Elena Boschi su Banca Intesa per salvare la Banca Etruria di cui era vicepresidente suo padre. Il presidente Pier Ferdinando Casini è stato investito di questo enorme potere dall’ufficio di presidenza, formato dai suoi due vice – Renato Brunetta (Forza Italia) e Mauro Maria Marino (Pd) – e dai segretari Paolo Tosato (Lega) e Karl Zeller (Autonomie). Sono loro ad aver messo a punto il regolamento approvato ieri nella prima riunione della commissione bicamerale. La maggioranza qui è formata da Pd, centristi e Forza Italia, con Brunetta che solo in rari casi si è distinto dalle posizioni del Pd. La proposta del Movimento 5 Stelle di eliminare questa procedura di ammissibilità è stata infatti respinta e il regolamento di commissione è rimasto così come era già stato scritto. Nonostante le critiche di uno come Enrico Zanetti, lungamente viceministro all’Economia: «È la cartina di tornasole del perché come presidente sia stato nominato presidente», attacca. Con questo sistema di ammissibilità delle domande, il presidente Casini potrà autorizzare un testimone a non rispondere a questioni poste da un commissario «impedendo di fatto la ricerca della verità», fa notare il deputato di Sinistra Italiana-Possibile, Giovanni Paglia, aggiungendo che sulle banche il Pd «ritrova un vecchio alleato: Forza Italia che vota sistematicamente con la maggioranza. Sulle cose serie, per loro, il Patto del Nazareno non esce mai di scena». Critiche «pretestuose» secondo Gian Carlo Sangalli (Pd) che invece ricorda come «il vaglio sulle domande ci sia in tutte le commissioni d’inchiesta al mondo». «Il problema va visto nell’insieme – gli risponde Maurizio Migliavacca di Mdp –. E, a parte il potere del presidente sulla legittimità delle domande, quello che viene fuori dal regolamento approvato è un atteggiamento di chiusura da parte del Pd. Danno l’idea di aver paura di quello che potrà uscire», conclude Migliavacca. Che cita ad ulteriore esempio la bocciatura di tutti gli emendamenti che riguardavano l’imposizione del segreto su atti e documenti. «È logico che in alcuni casi la secretazione è giusta e opportuna – spiega Migliavacca – ma il Pd ha votato contro la possibilità di motivarla e di allargare la decisione dal solo Ufficio di presidenza ai rappresentati dei vari gruppi». La commissione che doveva «procedere spedita», insomma, non è ancora partita. Nei prossimi giorni, probabilmente già entro martedì, i rappresentanti dei gruppi forniranno alla presidenza una proposta di metodo di lavoro (quali casi trattare) che comprenderà anche una possibile lista di «auditi». Sulla base di queste proposte, il presidente Pier Ferdinando Casini costruirà uno schema di sintesi su cui poi far partire i lavori della commissione. Il M5s è già partito alla carica. E punta a chiamare a testimoniare sia il presidente della Bce Mario Draghi che il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Per non parlare dei casi più spinosi su banche popolari, con la richiesta di ascoltare Federico Ghizzoni, l’ad di Unicredit citato da Ferruccio De Bortoli come persona su cui Maria Elena Boschi fece pressioni per salvare Banca Etruria. Ma ad oggi è molto probabile che tutte le audizioni più scottanti verranno bocciate. Come implicitamente ammette anche Brunetta: «Non si sa ancora da dove si partirà e chi sarà audito per primo». Insomma, i primi passi della commissione banche confermano quanto già si sapeva: non porterà da nessuna parte. Pessimista è anche il procuratore di Milano Francesco Greco, il magistrato che in Italia ha più indagato sui reati bancari: «Penso che una Commissione dovrebbe evitare di fare del gossip, ma deve pensare al problema delle norme finanziarie e intervenire sul sistema bancario. Alcune leggi sono assurde e altre mancano, ad esempio, nel rapporto tra banche e centrale rischi con i grandi gruppi che non vengono mai segnalati», spiega Greco.
Da Bankitalia alla Commissione oltre 4200 fascicoli, una mole sterminata di pagine: le prime anomalie della Vigilanza su BPVi, scrive VicenzaPiù il 21 ottobre 2017. L'elenco definitivo dei documenti di Bankitalia, scrive Gianluca Paolucci su la Stampa che riprendiamo parzialmente per i contenuti che riportava sempre ieri anche CorSera a firma di Fiorenza Sarzanini, arriverà (alla Commissione d'inchiesta parlamentare sulle banche, ndr) solo lunedì. Poi passerà ancora qualche giorno prima che i tutti i documenti arrivino a palazzo San Macuto, sede della commissione d'inchiesta sul sistema bancario. Giorni necessari per catalogare, in via Nazionale la grande mole di documenti - oltre 4200 fascicoli, una mole sterminata di pagine - che saranno messi a disposizione dei parlamentari. I documenti, si spiega, saranno classificati secondo tre categorie: consultabili, riservati (protetti dal segreto bancario) e secretati (perché riguardanti indagini in corso e dunque coperti da segreto istruttorio). Questi ultimi saranno consultabili dai componenti della commissione secondo una procedura di sicurezza e alla presenza degli uomini della Guardia di finanza. Solo una volta terminata la consultazione dei documenti ci sarà l'audizione del governatore, Ignazio Visco. I fascicoli conterranno tutta la corrispondenza intrattenuta con le sette banche oggetto dell'esame della commissione, le segnalazioni alle procure competenti, la corrispondenza con Bce e la Consob. Una mole sterminata, che dovrebbe dimostrare come Banca d'Italia ha fatto sempre il proprio dovere, mentre le eventuali mancanze sono avvenute da altre parti...Ma con il clima attuale, con le critiche nei confronti dell'operato di via Nazionale che arrivano praticamente dall'intero arco costituzionale, non è escluso che qualcosa possa ritorcersi contro la stessa Bankitalia (e la sua... Vigilanza gestita da Carmelo Barbagallo - nella foto -, ndr). Ad esempio, le comunicazioni con la Banca Popolare di Vicenza della primavera del 2013, relative all'operazione di aumento di capitale da oltre 500 milioni di euro che l'istituto guidato da Gianni Zonin si apprestava a lanciare. Bankitalia approva l'operazione, in parte destinata dichiaratamente ad «ampliare la base sociale» anche finanziando i promessi soci con soldi della banca. Via Nazionale ricorda però che le azioni comprate con i soldi della banca vanno scomputate dal patrimonio. Esattamente quello che Vicenza non farà, che non aveva fatto per anni e che è alla base del disastro dell'istituto. Controllerà Bankitalia che a Vicenza abbiano seguito le sue indicazioni? Sì certo. Due anni dopo, quando il cappello del controllare passa alla Bce ed esplode il bubbone. Solo che ormai è troppo tardi. Sempre nel 2013, Bankitalia segnala a Vicenza come il fondo per l'acquisto di azioni proprie fosse troppo «pieno», malgrado le regole imponessero l'autorizzazione di via Nazionale per superare il 5% del capitale e questo limite fosse superato. Cosa succede poi non si sa. Si sa solo che il fondo azioni proprie veniva riempito con gli acquisti dai soci che chiedevano sempre più numerosi di uscire e svuotato per comunicare i dati a Bankitalia. Una pratica talmente consolidata da avere anche un nome commerciale nelle mail interne dei manager: «Campagna svuotafondo». Ma anche questo si saprà solo due anni dopo quella lettera di Bankitalia.
Commissione banche, Padoan: "Non ho autorizzato i ministri a occuparsi di Etruria". Il ministro in audizione: "In alcuni casi vigilanza insufficiente". E cita il caso delle venete. Poi puntualizza: "Vi nazionale ostacolata da istituti", scrive il 18 Dicembre 2017 "La Repubblica". "Io non ho autorizzato nessuno e nessuno mi ha chiesto un'autorizzazione, la responsabilità" del settore bancario "è in capo al Ministro delle finanze che d'abitudine ne parla con il Presidente del Consiglio". Così il ministro dell'economia Pier Carlo Padoan, in audizione alla Commissione d'inchiesta sulle banche, ha risposto al senatore Andrea Augello che gli chiedeva dei colloqui tenuti dai ministri Maria Elena Boschi e Graziano Delrio sulla vicenda Banca Etruria. Parole che irrompono nel polverone sollevato dal caso della banca toscana, mandata in risoluzione insieme ad altri tre istituti con la polemica sul potenziale conflitto d'interessi dell'allora ministra (il cui padre era vicepresidente dell'istituto) "Mi risulta che la nostra normativa sul conflitto di interessi sia una buona normativa. Si tratterebbe forse di applicarla con decisione", ha sottolineato il Ministro, spiegando di avere comunque appreso dai giornali dell'incontro tra Boschi e gli altri banchieri o esponenti della vigilanza. Padoan ha anche ricordato che "le discussioni a livello di governo sulle questioni relative a banche in situazioni di difficoltà avvenivano in modo molto continuo tra presidente del Consiglio e me, poi ci sono state altre rare occasioni in cui queste cose venivano discusse in gruppi più ampi di governo ma essenzialmente la discussione sui casi bancari è stata tra il presidente del Consiglio e il sottoscritto". Parlando delle crisi ha ricordato che le autorità di vigilanza bancaria si sono trovate ad "affrontare una fase di transizione che ha spostato a livello europeo le competenze. Malgrado la difficoltà c'è stata una sostanziale capacita di gestione del sistema. Al netto delle modifiche delle regole", ha ammesso Padoan, "non si possono escludere casi in cui responsabilità importanti a livello di singoli istituti" sono possibili. La decisione di confermare il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, ha proseguito il ministro, è stata ispirata "essenzialmente alla continuità istituzionale in un contesto in cui seppure in fase di miglioramento dell'economia l'andamento dell'Italia continua a essere importante. Si è voluto dare un segnale ai mercati. Pur riconoscendo che in alcuni singoli casi la vigilanza poteva fare meglio, ciò avveniva in contesto di cambiamento delle norme europee e di crisi economica". Alla domanda su quali fossero i casi di Vigilanza insufficiente, Padoan ha citato le banche venete. "Ci sono casi sotto gli occhi tutti, per esempio nelle banche venete dove i fenomeni non sono spiegabili solo con gravità della crisi e il cambiamento delle regole". Poco dopo il ministro ha però precisato: "Quello che avevo in mente è che ci possono essere stati ostacoli nella vigilanza" e "quello delle banche venete è un esempio nel quale la vigilanza non si è potuta esperire completamente. Negli altri casi non sono in grado di dire cosa sia successo in ognuno di essi". La relazione di Padoan era iniziata con la rivendicazione di quanto fatto dal governo in tema di credito in difficoltà. "Il volume dei crediti deteriorati ha continuato ad aumentare fino a raggiungere il picco tra il 2015 e il 2016 e, invece, ora si sta osservando un'inversione di tendenza a velocità sostenuta. La strategia per smaltire i non performing loans (i crediti deteriorati, ndr) sta funzionando", ha rimarcato. Nella quale sua audizione ha ripercorso lungamente la parabola del credito in Italia negli anni della crisi e le misure adottate dal governo per - tra le altre cose - cercare di disciplinare le crisi degli istituti, agevolare il recupero dei crediti e puntellare le banche popolari. Anni nei quali, ha ricordato il ministro, "la lunga recessione ha pesato sul sistema". Padoan si è poi soffermato sullo spiegare le ragioni che hanno portato il governo - via Bankitalia - a mettere in risoluzione le quattro banche (CariFerrara, Chieti, Etruria e Banca Marche) con uno schema di intervento che escludesse il Fondo interbancario di tutela dei depositi, che non sarebbe stata un'opzione percorribile per Commissione europea e Bce. Parimenti ha ripercorso le note vicende di Mps e delle banche venete. L'audizione di Padoan ha avviato una settimana cruciale dei lavori della Commissione, che culmineranno con l'audizione dell'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni. Proprio dal banchiere si attendono chiarimenti sulla presunta pressione dell'allora ministra Boschi perché l'istituto milanese si facesse carico della situazione difficile di Banca Etruria. Pressioni e conflitto d'interesse sempre smentiti dalla diretta interessata, ma tornate al centro della polemica dopo che il capo della Consob, Giuseppe Vegas, ha confermato l'esistenza di "uno, forse due" incontri con Boschi sul caso Etruria. Anch'egli ha in ogni caso smentito "pressioni". Tra gli altri nomi di spicco, nell'agenda dei lavori c'è quello del governatore confermato Ignazio Visco.
E la Commissione divenne un plotone d’esecuzione, scrive Paolo Delgado il 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Proprio in finale di partita nella commissione d’inchiesta sulle banche è spuntato il nome di Matteo Renzi e probabilmente non è un caso che a pronunciarlo sia stato il governatore di Bankitalia Ignazio Visco, che con l’ex premier ha un conto in sospeso dopo la mozione del Pd dettata da Renzi nel tentativo di impedire la sua riconferma alla guida di palazzo Koch. Renzi, racconta Visco, aveva chiesto informazioni su Etruria solo per sentirsi rispondere che il governatore parla di queste faccende riservate solo col ministro dell’Economia. Quindi ha confermato che l’allora ministra Boschi si informò a sua volta col numero due di palazzo Koch Panetta, e almeno in un’occasione dopo che le ispezioni su Banca Etruria erano cominciate. Visco, come tutti prima di lui, ha confermato che non c’è stata nessuna pressione da parte della Boschi o di Matteo Renzi. Il Pd, come fa da giorni, impugna la parola ‘ pressioni’ e ripete che la ‘ deposizione’ del governatore ha scagionato la sottosegretaria Boschi. Le opposizioni sostengono il contrario. E’ repertorio nell’uno come nell’altro caso. Se si trattasse di un vero processo, quella paroletta, ‘ pressioni’, farebbe la differenza a favore del leader del Pd. Ma dal punto di vista politico e propagandistico Visco si è unito ieri al plotone d’esecuzione che ha trasformato la commissione in una via crucis per Maria Elena Boschi e di conseguenza per Renzi e l’intero Pd. Oggi starà all’ex ad Unicredit Federico Ghizzoni dare o meno il colpo di grazia. Se confermerà quanto affermato da Ferruccio De Bortoli, cioè che pur senza pressioni di sorta l’allora ministra delle Riforme si informò su un eventuale acquisto di Banca Etruria da parte di Unicredit per il pd, sul piano politico, sarà una rotta totale. Sul quanto di tutto questo sia davvero rilevante è lecito avanzare dubbi in quantità industriale. Il problema è che il compito di questa commissione non era sin dall’inizio mettere in chiaro le insufficienze reali al fine di risolverle. Era, per quasi tutti, solo campagna elettorale. In sé un’inchiesta parlamentare sulle banche e sul funzionamento, anzi sul mancato funzionamento della vigilanza era più che giustificata. La convocazione a un passo dallo scioglimento delle camere, in compenso, è stata una scelta dissennata. Il solo ruolo della commissione, a urne già quasi aperte, poteva essere fornire armi letali per la campagna elettorale. Così è stato, così è e così sarà nei prossimi mesi. Il Pd mirava a inchiodare le istituzioni di vigilanza, Bankitalia e Consob, per scrollarsi di dosso l’immagine negativa che a partire dalla vicenda delle prime quattro banche (tra cui Banca Etruria) salvate ha costituito la vera pietra al collo del Pd renziano. A questo fine bisognava dimostrare che alle origini del disastro c’è stata una falla nella vigilanza, alla quale il governo Renzi ha posto riparo come possibile in quel momento. M5S e i gruppi di Liberi e Uguali perseguivano obiettivo opposto: rispolverare proprio il caso di quelle quattro banche, e in particolare il ruolo della Boschi, per affondare definitivamente le azioni del Nazareno. Il centrodestra, per diversi motivi, ha scelto invece una posizione più defilata. Berlusconi non aveva interesse a bersagliare troppo un leader col quale progetta, se i risultati elettorali lo consentiranno, di stringere tra pochi mesi un’alleanza di governo e in più deve difendere l’immagine di vero capo del moderatismo italiano che si è pazientemente cucito addosso negli ultimi anni. Di fatto in commissione, come spesso nella traballante aula del Senato, Fi è stata più un sostegno che una minaccia per il Pd. La lega non aveva di queste preoccupazioni, però aveva tutto da perdere nel sollevare troppa polvere intorno alla vicenda delle banche venete. Quindi anche il ruggente Matteo Salvini ha optato per una per lui inusuale compostezza. Per Renzi, più che per ogni altro, si è trattato di un azzardo estremo: una mossa politicamente quasi suicida. Tra tutti i partiti era quello che più rischiava riportando la questione delle banche sotto i riflettori. Dall’altro doveva mettere nel conto che, sia pure con tutta l’ipocrisia del caso, si sarebbe trovato contro non solo i partiti d’opposizione ma anche le istituzioni di vigilanza che prendeva di mira. In realtà quegli istituti sono usciti a pezzi dai lavori della commissione. Bankitalia e Consob, prima di capire che dovevano muoversi in sintonia, erano cadute nella trappola rinfacciandosi a vicenda la responsabilità della mancata vigilanza, con risultati devastanti. Ma inevitabilmente il caso Boschi è tornato in primo piano, ed è stato lo stesso Pd a riesumarlo quando la sottosegretaria ha deciso di chiedere a De Bortoli il risarcimento civile rendendo così inevitabile riaprire il capitolo. Il bilancio, non ancora definitivo, è sconfortante. I guasti della vigilanza sono emersi, ma coperti e camuffati dal carrozzone propagandistico. Da questo punto di vista la cosiddetta ‘ inchiesta’ non porterà miglioramenti nella situazione. Lo scontro tra forze politiche si è ulteriormente imbarbarito, sino a minacciare la residua stabilità del sistema. Il Pd di Renzi ha dato prova, se non di corruzione, certo di una clamorosa imperizia politica, costruendo un autogol potenzialmente esiziale.
Banca Etruria: tutte le tappe della vicenda nelle frasi dei protagonisti. Banca Etruria, Boschi, Ghizzoni (e Carrai): le cose da sapere. L’ex n.1 di UniCredit testimonia davanti alla commissione d’inchiesta sulle banche. E rivela particolari finora inediti, scrive Andrea Telara il 20 dicembre 2017 su Panorama. Gli incontri con il ministro Boschi e un’email inviata da Marco Carrai, manager fiorentino assai vicino all’ex premier Matteo Renzi. È su questi due particolari che ha ruotato quasi per intero la deposizione di Federico Ghizzoni, ex numero uno di UniCredit, che mercoledì 20 dicembre ha testimoniato di fronte alla Commissione parlamentare che indaga sui dissesti bancari degli ultimi anni.
Cosa c’entra UniCredit. Di fronte ai deputati e senatori della commissione d’inchiesta, Ghizzoni ha parlato ben poco di UniCredit, la banca che ha lasciato nella primavera del 2016 e che, nonostante qualche problema in passato e nonostante un faticoso aumento di capitale da 13 miliardi di euro, non è mai stata seriamente nei guai. Ghizzoni è stato in realtà convocato soprattutto per parlare dell’ormai famigerata Banca Etruria, istituto popolare di Arezzo finito in dissesto tra il 2014 e il 2015.
Che c’entra l’ex capo di UniCredit con Banca Etruria? La risposta l’ha data nei mesi scorsi Ferruccio De Bortoli, già direttore del Sole 24Ore e del Corriere della Sera. Nel suo libro intitolato Poteri Forti, De Bortoli è stato il primo a raccontare che Maria Elena Boschi, attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio ed ex ministro per le riforme istituzionali nel governo Renzi, incontrò Ghizzoni per caldeggiare l’acquisto di Banca Etruria da parte di UniCredit.
La versione di Ghizzoni. Boschi aveva più di un interesse al salvataggio della banca, visto che è di Arezzo e soprattutto è figlia di Pierluigi, ex vicepresidente dell’istituto toscano poco prima del commissariamento. Dunque, una sua pressione a favore dell’acquisizione da parte UniCredit era quanto meno inopportuna per due motivi: innanzitutto, la ministra aveva un conflitto di interessi personale; in secondo luogo, si trattava di un’interferenza sulla vita di una banca privata, per giunta quotata in borsa, da parte di una delle donne allora più potenti d’Italia. Ecco perché la deposizione di Ghizzoni era considerata così importante dai componenti della commissione parlamentare sulle banche. Parlando di fronte deputati e senatori, l’ex n.1 di UniCredit ha confermato quanto scritto nel libro di De Bortoli, cioè che la Boschi chiese di valutare la fattibilità dell’operazione Banca Etruria. Tuttavia, l’ex n.1 di UniCredit ha detto che l’incontro fu cordiale e non ci fu alcuna pressione. La Boschi si mostrava interessata a Banca Etruria perché, ha detto Ghizzoni, in qualità di deputata toscana era preoccupata per il rischio di una stretta creditizia nella sua regione, soprattutto ai danni degli imprenditori. Non va dimenticato infatti che a pochi chilometri da Arezzo c’era un’altra banca già pesantemente inguaiata, il Monte dei Paschi di Siena, per il cui salvataggio è stato poi necessario l’intervento dello Stato.
Quella mail da Firenze. Niente pressioni, insomma, ma un interessamento un po’ particolare. Ma c’è un altro dettaglio rivelato da Ghizzoni che è stato oggetto di ripetute domande da parte dei parlamentari della Commissione sulle banche. Oltre a incontrare la Boschi, l’ex n.1 di UniCredit ha ricevuto anche una mail da parte di Marco Carrai, uno dei migliori amici di Renzi (probabilmente il migliore), suo testimone di nozze. Nel gennaio del 2015 Carrai inviò un messaggio di posta elettronica a Ghizzoni (il cui testo è stato messo agli atti) in cui scriveva: “mi è stato chiesto su Etruria di sollecitarti, nel rispetto dei ruoli, per dare una risposta".
Che titolo aveva Carrai per occuparsi di UniCredit visto che era semplicemente un manager degli Aeroporti di Firenze? Chi è stato a sollecitarlo? Ghizzoni ha detto di non averglielo chiesto, per non “aprire nuovi canali di comunicazione” poiché dell’acquisizione doveva parlare soltanto con i suoi interlocutori naturali, cioè i manager di Banca Etruria. Come dire: meglio non domandare da chi arriva la richiesta, non si sa mai si tratti di qualche nome imbarazzante.
Accusa e difesa di Maria Elena. Dopo la deposizione dell’ex-manager di UniCredit, si è ripetuto il solito copione già visto in occasione di ogni testimonianza importante di fronte alla commissione d’inchiesta, come quelle del ministro Padoan, del presidente della Consob Vegas e dell’ex-governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco. Le opposizioni hanno chiesto nuovamente in coro le dimissioni della Boschi mentre lei, dal canto suo, si è difesa su Twitter dicendo che le parole di Ghizzoni confermano la correttezza del suo operato: non fece alcuna pressione e non fu certo lei a spingere per una proposta di acquisizione che era già stata avanzata in precedenza dai vertici della stessa Banca Etruria, con la consulenza di Mediobanca.
E Carrai? Anche lui si è difeso rivendicando la correttezza del suo operato. In qualità di consulente, l’amico di Renzi era interessato a conoscere gli obiettivi di Unicredit riguardo a Banca Etruria perché un suo cliente stava verificando il dossier di Banca Federico Del Vecchio, istituto di Firenze controllato dalla stessa Popolare dell'Etruria. Tutto regolare, tutto trasparente, insomma, almeno nella versione di Carrai. Etruria, ora la Boschi accusa: "Si sta trasformando in una caccia alla donna".
Nel Pd crescono i dubbi. La Boschi accerchiata prova a difendersi: "Non farò il capro espiatorio". E accusa: "Sulle banche errori di altri", scrive Sergio Rame, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". "Il tentativo è quello di trovare un ottimo capro espiatorio per non discutere delle vere vicende che hanno riguardato il sistema bancario italiano. Io non mi faccio utilizzare come foglia di fico per coprire chi ha sbagliato in questi anni". Mentre in commissione Banche, lo scandalo Etruria torna a esplodere in tutta la sua portata, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, torna a rivendicare la correttezza del suo operato. "Parlare con gli amministratori delegati e ascoltare gli amministratori delegati - ha spiegato in una intervista alla Stampa -è una delle attività di chi sta al governo: chi non lo capisce è totalmente in malafede o è vittima della demagogia qualunquista". Adesso la Boschi è accerchiata. E con lei anche Matteo Renzi che rimane comunque al suo fianco senza se e senza ma. Ieri l'ex amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, ha confermato i contatti per una possibile acquisizione di Banca Etruria da parte di Unicredit. L'incontro sarebbe avvenuto il 12 dicembre del 2014. Così, per quanto siano state escluse pressioni, l'allora ministro per i Rapporti con il Parlamento finisce di nuovo sotto assedio. I renziani fanno quadrato ("Ghizzoni non parla di pressioni, Boschi ha già vinto la causa contro De Bortoli", si affrettano a dichiarare, mentre Matteo Orfini accusa il Corriere di "diffondere fake news") ma, in vista dell'ormai imminente turno elettorale, crescono i dubbi. "Speriamo che la legislatura si chiuda al più presto - confida un deputato dem - così da mettere fine a questo stillicidio in commissione banche, altrimenti altro che 40%... nemmeno il 20 prendiamo". E non sono pochi quanti, al Nazareno, cominciano a sperare che la Boschi non si ricandidi "per mettere il partito al riparo". Nell'intervista alla Stampa, però, la Boschi ha messo nuovamente in chiaro di non voler "fare il capro espiatorio". "Io darò la disponibilità a correre in qualsiasi collegio con l'entusiasmo e la forza di chi non ha niente da temere - ha spiegato - perché la verità è più forte delle strumentalizzazioni. La decisione però spetta al Pd e ai cittadini: nel frattempo io lavoro e vado avanti". Quindi è tornata a contestare la ricostruzione offerta nel libro di Ferruccio de Bortoli sui suoi contatti con Ghizzoni per l'acquisizione di Banca Etruria: "Non ho fatto pressioni - insiste - non ci sono stati favoritismi, mio padre è stato commissariato, mio fratello si è licenziato per non creare difficoltà ad altri dipendenti. Se qualcuno mi dimostra che ho favorito i miei, tolgo il disturbo domattina". Quindi la stoccata finale: "Noi siamo quelli della trasparenza, sempre. Qualcuno ha trasformato il racconto di questa Commissione in una caccia all'uomo, anzi alla donna".
Si indaga sul bisnonno della Boschi, scrive Piero Sansonetti il 7 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". “Fatto” e “Verità” scatenati. L’ordine è quello: affondare la Boschi. E i giornali che più organicamente rappresentano i 5 Stelle e la Lega lo eseguono anche in modo fantasioso. Mancano le notizie ma questo non è assolutamente un problema per loro. I giornali in questione, lo avete già capito, hanno un nome quasi uguale (e un po’ arrogante) e da diverso tempo marciano a braccetto: Il Fatto di Travaglio e La Verità di Belpietro. Ieri Il Fatto prendeva di mira, come è solito fare da diverso tempo, il papà della Boschi, e la Verità si concentrava invece sul fratello. Clamoroso: si indaga sul bisnonno della Boschi! Il Fatto aveva uno scoop: circa un anno fa i magistrati hanno iniziato a indagare su banca Etruria, e il papà della Boschi faceva parte del Cda di banca Etruria. Sì, sì, certo, la notizia è un po’ vecchia, ma per ora questa c’è e di questa bisogna accontentarsi. Travaglio è nettissimo: la Boschi ha mentito e dunque deve dimettersi. E siccome hanno mentito anche Renzi e Orfini, devono dimettersi anche loro, sebbene non siano ministri però è bene che si dimettano lo stesso. Quale sia la menzogna della Boschi non si sa. Figuratevi poi se possiamo immaginare dove abbiano mentito Renzi o Orfini. Volete sapere, allora, perché devono dimettersi? Perché il papà della Boschi non ha dichiarato di essere indagato. E loro in qualche modo sono tutti responsabili di questo. E’ vero, il Papà della Boschi non ha dichiarato neanche il contrario, visto che nessuno glielo ha chiesto, e lui non ha dichiarato proprio niente, ed è vero anche che non è stato nemmeno rinviato a giudizio, così come è vero che il papà della Boschi non è la Boschi, e non è neppure ministro, né sottosegretario, né assessore, né dipendente comunale… però a Roma la giunta dei 5 stelle fu messa in croce l’estate scorsa per quella storia che gli avevano arrestato Marra, e pare che la Raggi non disse tutta la verità, e un sacco di gente chiese che la Raggi si dimettesse. Quindi ora è giusto che si dimetta la Boschi. Ma la Raggi poi si dimise? No, ma questo è un dettaglio. E il Pd, o qualcun altro, chiese mai le dimissioni della Raggi per motivi giudiziari? No, ma è un dettaglio anche questo. E’ inutile che vi stupiate, cari amici: le frontiere del giornalismo ormai sono queste. Vastissime. Il rapporto tra giornalismo e informazione si è del tutto dissolto. L’obbligo di rispettare in qualche modo ( o almeno di dare l’impressione di rispettare) lo svolgimento reale delle cose, è completamente svanito. È considerato un’anticaglia, buona per vecchi barbosi. Così, mentre Il Fatto se la prende con la Boschi per via del padre, La Verità ( che ormai anche a informazioni che filtrano dalla Procure dà dei punti al giornale di Travaglio) scopre che c’è un altro scandalo che riguarda la Boschi. Suo fratello ha effettuato, o forse ricevuto, tempo fa, una telefonata da un signore che probabilmente è iscritto alla massoneria, o comunque è vicino alle Logge. Non si sa se questo signore abbia commesso dei reati, ma forse sì. Comunque maneggiava parecchi soldi. Sì, si, avete caito bene: in questo caso non si indaga né sulla Boschi e nemmeno sul padre o sul fratello della Boschi, ma su una persona che ha avuto un contatto telefonico con il fratello della Boschi. E per via di questo contatto telefonico La Verità chiede che la Boschi si dimetta. L’altro giorno su questo giornale, scherzando un po’, avevamo parlato della “caccia ai papà” – ai papà dei politici – lanciata dai giornalisti. E, paradossalmente, avevamo ipotizzato che poi la caccia si sarebbe estesa anche ai fratelli e alle mamme. Paradossalmente? Macché! Neanche 48 ore e zac: ecco il fratello sulla graticola. Oggi proviamo ad avanzare un’altra ipotesi bislacca: che si apra una inchiesta su irregolarità edilizie commesse dal bisnonno della sottosegretaria. Chissà che nel giro di qualche giorno non arrivi uno scoop anche su questo…P. S. Poi c’è tutto il capitolo Berlusconi. Perché ieri Il Fatto non si è limitato allo scoop sul padre della Boschi, ma ne ha fatto un altro. Ha scoperto che a Berlusconi piacciono le ragazze. E per dare sostanza a questa intuizione ha dedicato due pagine intere (non sto scherzando, eh) anzi, le prime due pagine, ad un racconto bellissimo di un ragazzo che sostiene che qualche anno fa Berlusconi fece lo scemetto con una sua amica. La sua amica considerò quelle di Berlusconi delle molestie e lo denunciò? No, la sua amica giudicò un’idiozia il racconto del ragazzo e querelò Il Fatto (che lo aveva pubblicato). Ora pare che un giudice abbia detto che sì, probabilmente il racconto del Fatto non corrispondeva a verità (come peraltro succede spesso) ma questo non è reato e perciò ha assolto Travaglio. Su tutto ciò Il Fatto ha calato l’asso: Marco Lillo. Il quale, a secco con le informazioni su Consip (del tutto casualmente da quando l’inchiesta è stata avocata a Roma e sottratta al Pm Woodcock), ha trovato quest’altra bella storia. E ancora non è iniziata la campagna elettorale. Che dobbiamo aspettarci per dopo Natale? Mamma mia!
Dall'audizione di Maria Elena Boschi in Parlamento alle dichiarazioni dell'ex Ad di Unicredit Federico Ghizzoni, scrive il 20 dicembre 2017 Panorama. L'autodifesa di Maria Elena Boschi in Parlamento, il libro di Ferruccio de Bortoli, i post di chiarimento della sottosegretaria, fino all'audizione dell'ex Ad di Unicredit Federico Ghizzoni in commissione d'inchiesta sulle banche. Ecco i passaggi principali della vicenda Etruria, secondo le frasi dei principali protagonisti.
La ministra in Parlamento. Il 18 dicembre 2015 Maria Elena Boschi si difende in Parlamento dopo la mozione di sfiducia del M5s sul caso Etruria (respinta con 373 no): "Io sono dalla parte delle istituzioni e non ho mai favorito familiari o amici, non c'è nessun conflitto di interessi", afferma, aggiungendo: "Sono orgogliosa di far parte di un governo che esprime un concetto molto semplice: chi sbaglia deve pagare, chiunque sia, senza differenze e favoritismi. Se mio padre ha sbagliato deve pagare. Non c'è spazio per doppie misure e favoritismi".
Il libro di De Bortoli. Il 9 maggio 2017 viene diffusa un'anticipazione del libro di Ferruccio de Bortoli Poteri forti, nel quale l'ex direttore del Corriere della Sera scrive: "L'allora ministra delle Riforme, nel 2015 (oggi corretta dallo stesso de Bortoli con 'fine 2014', ndr), non ebbe problemi a rivolgersi direttamente all'amministratore delegato di Unicredit. Maria Elena Boschi chiese quindi a Federico Ghizzoni di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria. La domanda era inusuale da parte di un membro del governo all'amministratore delegato di una banca quotata. Ghizzoni, comunque, incaricò un suo collaboratore di fare le opportune valutazioni patrimoniali, poi decise di lasciar perdere".
La replica di Boschi. Lo stesso giorno la sottosegretaria replica su Facebook, annunciando il ricorso ai legali per tutelare "il proprio nome e il proprio onore": "La storia di Banca Etruria viene ciclicamente chiamata in ballo per alimentare polemiche. Vediamo di essere chiari: non ho mai chiesto all'ex Ad di Unicredit Ghizzoni né ad altri di acquistare Banca Etruria. Ho incontrato Ghizzoni come tante altre personalità del mondo economico e del lavoro ma non ho mai avanzato una richiesta di questo genere".
Le risposte di Vegas e Visco. Secondo un'indiscrezione del Corriere della Sera, nel 2014, quando era ministra per le Riforme, Maria Elena Boschi ha incontrato anche Fabio Panetta, il vicedirettore di Bankitalia. Ma la vera bufera sulla controversa vicenda della sottosegretaria e delle sue presunte incursioni nelle sorti di Banca Etruria è scoppiata quando Giuseppe Vegas che, ormai alle sue ultime ore sulla poltrona di presidente della Consob, ha rivelato a deputati e senatori della bicamerale di aver incontrato a suo tempo l'allora ministra per parlare di Banca Etruria. "Il ministro Boschi - rivela - mi ha illustrato una situazione che riteneva inadeguata rispetto al possibile matrimonio di Etruria con Vicenza, ma non mi ha chiesto nessun intervento, né avrebbe potuto chiedermelo". E in un'occasione Boschi fece sapere a Vegas che il padre sarebbe diventato vice presidente di Banca Etruria. Sulla stessa linea il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco che dichiara: "Non c’è stata alcuna spinta da parte della Boschi all’aggregazione tra la Popolare di Vicenza e Banca Etruria".
L'audizione di Ghizzoni di oggi. L'ex Ad interviene davanti alla commissione banche e dice che il 12 dicembre 2014 l'allora ministra Boschi gli chiese "se era pensabile per Unicredit valutare un'acquisizione o un intervento su Etruria". Il colloquio fu "cordiale, non avvertii pressioni da parte della ministra". Poi, prosegue Ghizzoni, "le risposi che per le richieste di questo genere non ero in grado di dare risposta positiva e negativa", e "le dissi che avrebbe valutato la banca: l'analisi fu fatta da tecnici in totale indipendenza".
L'ultima replica di Boschi. Ancora su Facebook, Boschi sottolinea che "dopo le audizioni di Vegas, Visco e Ghizzoni, tutti confermano che non c'è stata nessuna pressione. E viene integralmente confermato il mio discorso in Parlamento del dicembre 2015". E poi aggiunge: "Per me le parole di Ghizzoni sono molto preziose per la causa civile nei confronti del dottor de Bortoli. Che gode della solidarietà professionale di molti colleghi giornalisti ma per lanciare il suo libro ha raccontato il fatto in modo volutamente distorto".
De Bortoli su Facebook. "Ringrazio Federico Ghizzoni per aver confermato la richiesta dell'allora ministra Maria Elena Boschi di valutare una possibile acquisizione di Banca Etruria", scrive sul suo profilo, spiegando di aspettare "che sia il Tribunale a dire l'ultima parola; credo che la penultima l'abbia già detta Ghizzoni" e sottolinea che nel suo libro "non si parla mai di pressioni".
Caso Banche, tutti gli incontri (e le richieste) per evitare multe milionarie. Da Boschi a Carrai, i tentativi fatti dopo i due no di Unicredit e quello di Bper, scrivono Federico Fubini e Fiorenza Sarzanini il 20 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Quando la ministra per le Riforme Maria Elena Boschi si rivolse all’amministratore delegato Federico Ghizzoni, Unicredit aveva già espresso un completo disinteresse per l’acquisizione di Banca Etruria. Non una, ma due volte nel giro di pochi mesi. Non sulla base di interventi diretti di questo o quel politico su un banchiere, ma sempre attraverso i canali formali di comunicazione fra aziende. Agli inizi del 2014 i vertici di Unicredit erano stati contattati da due advisor, Rothschild e Lazard, che cercavano un partner di «elevato standing» per conto dell’istituto di Arezzo. Ai due era stata affidata una missione di una certa urgenza, perché il 13 dicembre 2013 la Banca d’Italia aveva concluso una prima ispezione ad Arezzo con una multa agli amministratori e la richiesta di trovare un compratore entro la primavera 2014.
La ricerca degli advisor. È allora che Etruria arruola Rothschild e Lazard, che scrivono subito a 28 banche per sondarne l’interesse. Unicredit e altre 25 cortesemente declinano, senza neanche chiedere l’accesso ai dati di Etruria. A loro è bastato leggere il bilancio. Rispondono solo in due, la Popolare di Vicenza e la Banca Popolare dell’Emilia-Romagna (Bper). Quest’ultima avvia riservatamente un approfondimento su Etruria durante febbraio e marzo 2014, ma avendo visto i libri si tira indietro: l’istituto di Arezzo avrebbe chiuso l’anno con 42,5 euro in default ogni 100 di prestiti fatti, non proprio un record di sana e prudente gestione. Resta dunque solo un’altra banca interessata, la Popolare di Vicenza sulla quale già si addensano ombre. Si tratta di una potenziale offerta che «preoccupa» Maria Elena Boschi, come racconta il presidente di Consob Giuseppe Vegas che la vede a pranzo nella primavera 2014. La ministra teme il predominio del distretto dell’oro di Vicenza sui concorrenti di Arezzo, spiega. I vertici di Etruria rifiutano le condizioni offerte. Il 19 giugno 2014 Popolare Vicenza si tira indietro e diventa necessario riprendere una ricerca sempre più affannosa. A fine agosto la banca di Arezzo nomina un nuovo advisor, questa volta Mediobanca (la ricerca di aiuto è così affannosa che a fine anno Etruria pagherà solo in consulenze 9,5 milioni, pur valendone in Borsa appena 88). Anche Mediobanca si mette subito al lavoro e scrive a 86 possibili acquirenti, 33 banche e 53 fondi italiani e esteri. Fra questi ci sono Unicredit e Bper, che declinano prima della fine di ottobre. Solo la banca israeliana Hapoalim brevemente si interessa, poi lascia cadere dopo aver controllato i conti. Non sembra dunque corretta la ricostruzione di ieri di Maria Elena Boschi, quando afferma di non essere stata lei «ma Mediobanca» a chiedere l’acquisizione. Quando l’allora ministra parla a Ghizzoni della possibile operazione, nel dicembre 2014, la questione per Unicredit era chiusa da mesi perché aveva già declinato l’invito degli advisor due volte. E senz’altro Pierluigi Boschi, vicepresidente di Etruria e padre della ministra, doveva averlo capito da tempo.
Gli amici di Renzi. Tra fine 2014 e inizio 2015, andati a vuoto i tentativi nei normali canali di business, sono dunque i politici e le persone ad essi vicine che scendono in campo per Etruria. Graziano Del Rio, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Renzi premier, torna a bussare alla porta di Bper. Senza esito. Marco Carrai, uomo d’affari e amico personale di Renzi, sollecita di nuovo Ghizzoni il 13 gennaio 2014. Nulla di fatto. Boschi a inizio dicembre 2014 e di nuovo a inizio gennaio 2015 va in visita da Fabio Panetta, vicedirettore generale di Banca d’Italia con le deleghe alla Vigilanza. Ma la ministra non può chiedere niente, sarebbe reato. Renzi stesso aveva già posto domande su Etruria al governatore Ignazio Visco nella primavera precedente, senza averne risposte. A inizio febbraio Davide Serra, gestore finanziario amico di Renzi, ipotizza di intervenire con il suo fondo Algebris acquistando almeno una parte dei crediti deteriorati (lo fa in realtà anche per altre banche italiane). Ma la proposta di Serra «di cooperazione, risanamento e rilancio di Etruria» arriva il 19 febbraio, una settimana dopo il commissariamento.
La posta in gioco. Perché tutto questo interesse? Dopo le prime sanzioni da 2,54 milioni di euro, assegnate agli amministratori il 3 ottobre 2014 dopo l’ispezione di Bankitalia del 2013, un salvataggio avrebbe risolto molti problemi. Magari avrebbe risparmiato al consiglio di Etruria nuove multe — più pesanti — erogate da Consob e Bankitalia contro gli amministratori, compreso Pierluigi Boschi. L’11 novembre 2014 era infatti partita una seconda ispezione di Bankitalia, proprio mentre il consiglio chiedeva all’advisor di cercare ancora. Un acquirente avrebbe soprattutto scongiurato il commissariamento, già prevedibile da novembre 2014 e esecutivo l’11 febbraio 2015. Con quello salta il consiglio di Etruria e resta la voragine nei conti che ha poi innescato l’inchiesta per bancarotta. Ora i vertici, incluso il padre di Maria Elena Boschi, sono esposti a pesantissime richieste pecuniarie da parte del liquidatore.
Le trame del Giglio magico e quella bugia di Carrai. L'imprenditore renziano giustifica la mail a Unicredit: «Era per la Del Vecchio». Ma nel 2015 diceva: non c'entro, scrive Fabrizio Boschi, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". Pareva strano che in tutta questa losca storia non fosse ancora venuto fuori il nome dell'anima nera del giglio magico, Marco Carrai. Puntualmente, ieri in commissione banche, l'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, fa il suo nome. «Il 13 gennaio 2015 mi arrivò una mail da Carrai solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti se possibile per una risposta su Etruria». La parola Etruria due volte in una riga. Una mail che la dice lunga sulla spregiudicatezza dei renziani in quegli anni, nel seguire questioni personali, se si pensa con quale disinvoltura uno sconosciuto imprenditore di Greve in Chianti (formalmente solo presidente di Aeroporto di Firenze Spa), si rivolga a uno dei banchieri più potenti d'Italia, a cui dà del tu («ciao Federico»). E questo era colui al quale Matteo Renzi, nel gennaio 2016, promise un posto da consulente nel Dipartimento informazione per la sicurezza di Palazzo Chigi. Il chiarimento di Carrai su quella mail è comico: «Ero interessato a capire gli intendimenti di Unicredit riguardo Banca Etruria perché un mio cliente stava verificando il dossier di Banca Federico Del Vecchio, di proprietà di Etruria. Tutto assolutamente trasparente». A prescindere dal fatto che quando si parla di Carrai di trasparente c'è sempre molto poco, sappiamo che questo fantomatico cliente è un «fondo israeliano». Tra le decine di società con le quali Carrai è in affari, ci sono anche soci a Tel Aviv. Ma la cosa buffa è che in un articolo del Corriere del 14 febbraio 2015, un mese dopo quella mail, Carrai replicava seccamente sui suoi presunti interessi per Banca Del Vecchio: «Mi infilano sempre da ogni parte, ma io non ho fatto alcuna manifestazione d'interesse e non ho chiamato alcun advisor». A volte a forza di raccontarne tante si rischia di smentire pure se stessi. L'audizione di ieri chiude il cerchio (magico): nel corso del 2014 c'è grande fermento attorno a Etruria. Renzi, Boschi, Delrio, Carrai, Bonifazi, Lotti, tutto il giglio magico al completo si muove per la causa di Arezzo (mai una parola per le altre tre banche fallite). Riavvolgiamo il nastro. Anno domini 2014. Il renzismo era all'apice del suo potere. Chi stava con Renzi poteva fare e disfare tutto (e tutti). Il 21 febbraio Maria Elena Boschi diventa ministro. A marzo incontra a casa sua a Laterina l'ad di Veneto Banca, Vincenzo Consoli. Ad aprile il padre, Pier Luigi Boschi, incontra a Roma, Flavio Carboni (che rivede a luglio): cerca soldi per la banca, già sull'orlo del burrone, e un nome come nuovo direttore generale. Sapeva già che, qualche giorno dopo, sarebbe stato nominato vicepresidente. Sempre ad aprile «la Mary» incontra a Milano il presidente della Consob Giuseppe Vegas, al quale anticipa che suo padre sarebbe diventato vicepresidente dell'istituto e gli esprime «preoccupazione» sulla fusione di Etruria con la Popolare di Vicenza («avrebbe creato problemi»). Ancora in aprile Renzi convoca a Palazzo Chigi il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e gli chiede «perché la Popolare di Vicenza si voleva comprare questi di Arezzo, e parlò degli orafi». Negli stessi giorni la Boschi incontrò Fabio Panetta, vicedirettore di Bankitalia. Il 24 settembre l'allora direttore del Corriere, Ferruccio de Bortoli scrive un editoriale durissimo contro il presidente del Consiglio: «Renzi non mi convince. Non tanto per le idee (...) quanto per come gestisce il potere». Sacrosanto. Il 4 novembre la Boschi vede Ghizzoni a Milano per le celebrazioni dei 15 anni di Unicredit. Il giorno dopo il tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, entrato beffardamente in commissione Banche, alla cena di finanziamento del Pd che ha organizzato sempre a Milano alla presenza di numerosi banchieri, indaga sulla fusione di Popolare di Vicenza ed Etruria. Il 12 dicembre Ghizzoni incontrò a Palazzo Chigi, «da solo», la ministra Boschi che gli chiese se fosse possibile per Unicredit acquisire Etruria. Delrio, allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il 1° gennaio 2015 chiama Ettore Caselli, ex presidente della Popolare dell'Emilia-Romagna, per chiedere informazioni sulla acquisizione di Etruria. E il 3 marzo 2015 il nome Luca Lotti spunta in un sms inviato all'ex direttore generale della Popolare di Vicenza, Samuele Sorato. I renziani, che oggi tanto si affannano per difendere la loro mascotte, possono chiamare tutta questa operosità attorno a Etruria col termine che preferiscono. Il fatto è che ci sono state svariate interferenze su Etruria (il cui vicepresidente era il padre di un ministro) fatte da cariche istituzionali che nulla c'entravano con le banche. Pertanto risulta chiaro che quando il 18 dicembre 2015 ha detto in Parlamento che non ci sono stati «favoritismi» né «corsie preferenziali», la Boschi ha mentito agli italiani, omettendo fatti molto gravi. In un Paese serio la sua carriera politica finirebbe qui.
Banche, Tremonti al Pd: "Nel 2011 avete fatto schifoso colpo di Stato". Giulio Tremonti contro Franco Mirabelli (Pd) a La7 discutono sul tema delle banche. L'affondo del piddino e la risposta dell'ex ministro, scrive Rachele Nenzi, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Uno scontro sulle banche tra Giulio Tremonti e Franco Mirabelli del Pd. Mentre il piddino cercava di riversare sui governi precedenti le colpe delle scelte di Renzi&co, l'ex ministro difende le scelte dell'allora governo Berlusconi e attacca contro il "colpo di stato" messo a segno "da voi" insieme a "Monti e Napolitano". In studio a La7 a condurre la puntata c'è Gaia Tortora. "Non ci sono solo le responsabilità politiche di chi ha fatto ora, ma anche quelle di chi ha previsto la crisi perà non ha fatto", dice Mirabelli. "Ma che cavolo dici?", ribatte Tremonti. La Tortora prova a chiedere "cosa doveva fare" per evitare la crisi bancaria e Mirabelli si lascia andare ad un "non fare le conferenze stampa a fianco del presidente del Consiglio dicendo che i ristoranti sono pieni e tutto va bene...". A questa risposta anche la conduttrice rimane di sasso. E Tremonti allora attacca: "Questo è il tipico intervento suicida - dice l'ex ministro - Considerazioni finali 2011 Governatore della Banca d'Italia: il disavanzo pubblico è inferiore a quello medio dell'area Euro, appropriati sono l'obiettivo di pareggio di bilancio al 2014, la gestione e la spesa durante la crisi è stata prudente, lo sforzo che ci è richiesto è minore che in altri Paesi avanzati". Mirabelli allora provoca un po' l'ex ministro ("Tremonti non c'entra nulla con la crisi..."), che risponde: "No, io non c'entro con lo schifoso colpo di Stato che avete fatto voi, da agosto in poi, con Napolitano e Monti al servizio delle banche tedesche...".
Tremonti diserta l'audizione e manda una memoria I dubbi sulla commissione: «Lavori polemici», scrive Gian Maria De Francesco, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". L'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti (nella foto) ha declinato l'invito a presentarsi in audizione dinanzi alla commissione Banche inviando al presidente Casini una memoria scritta. Nell'incipit si esprimono dubbi sulla validità e sull'opportunità dei lavori della commissione che stanno seguendo «un corso che è stato prima accidentale e polemico, poi caotico e cinico e folkloristico, caratterizzato da attenzione o relativa disattenzione nella scelta dei temi e dei personaggi verso cui si svolge l'attività, selezione a volte casuale, ma a volte anche strumentalmente ed evidentemente compiacente o codarda». Le venti pagine della memoria sono suddivise in due capitoli. Nel primo si affronta la crisi economica globale rispetto alla quale Tremonti rivendica che «non ha colpito l'Italia». La politica rigorosa di bilancio seguita dal 2008 al 2011 ha tenuto il nostro Paese al riparo ma, osserva l'ex ministro, «la crisi italiana doveva essere inventata per trovare un colpevole e così per mascherare ben più gravi e reali stati di crisi, a partire da quelli in essere all'interno delle banche tedesche e francesi». Di qui il «dolce colpo di Stato» contro Berlusconi del 2011 a colpi di lettere della Bce e di spread fatto salire ad arte. Crisi rientrata quando il governo Monti accettò la contribuzione pro quota di Pil al Fondo salva-Stati che tolse dagli impicci gli istituti tedeschi. Per quanto riguarda la crisi bancaria, l'ex titolare del Tesoro ne ha imputato l'esplosione alle politiche recessive del governo Monti e all'introduzione del bail in. Tremonti ha lamentato la mancata applicazione della legge sul risparmio che avrebbe imposto un maggiore coordinamento politico tra Autorità che non si parlano come Bankitalia e Consob.
L'indagine "segreta" sulle banche tra segnali in codice e omissioni. I sospetti di Renzi sull'audizione di Vegas: «Un giochino confezionato da Bankitalia e Zoggia, fedelissimo di Bersani», scrive Yoda, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". Qualche giorno fa a chi gli chiedeva, nel tradizionale giochino di fine anno, tre cose che si augurava cambiassero nel 2018, Matteo Renzi, tra il serio e il faceto, aveva risposto: «Bankitalia. Bankitalia. Bankitalia». Probabilmente oggi, dopo la tregua «armata» siglata con il governatore Visco, l'ex premier non esprimerebbe più quel desiderio. Nessuna sorpresa: nei giochi di potere le opinioni cambiano velocemente, per «realpolitik». Ieri l'ottovolante dei sentimenti e dello stato d'animo del segretario del Pd, determinati dai coup de théâtre che vanno in scena nella commissione d'inchiesta sulle banche, ha avuto degli alti e bassi ancora più repentini. Federico Ghizzoni, l'ex capo di Unicredit, che con le sue rilevazioni sull'interessamento di Maria Elena Boschi sulle vicende di Banca Etruria nel libro di Ferruccio De Bortoli, aveva dato inizio alle tribolazioni della pupilla del segretario del Pd, prima ha fatto sorridere Renzi e, poi, gli ha dato un dispiacere. Sulla diatriba tra la Boschi e De Bortoli il banchiere ha sposato una versione che non ha penalizzato la prima. Tant'è che Renzi si è lasciato andare ad una battuta di spirito: «Oggi De Bortoli ha perso la causa!». Poi, però, rispondendo in maniera impacciata ad alcune domande dei commissari, Ghizzoni ha tirato fuori la storia di una e-mail ricevuta dall'amico e confidente dell'ex premier, Marco Carrai, che non si sa a quale titolo, sollecitava nei giorni caldi delle crisi bancarie una risposta dal vertice di Unicredit sull'ipotesi di acquisizione di Banca Etruria. Un'uscita, inutile dirlo, che preannuncia nuovi giorni di polemiche: «Ora ripartiranno speculazioni - ha sospirato il segretario del Pd, tuffandosi nelle congetture - Tutto è cominciato con lo scherzetto inaspettato di Vegas. Un giochino confezionato con Banca d'Italia e Zoggia, l'uomo di Bersani. Studiato nei dettagli. Magari anche con la complicità di Forza Italia Ora c'è la puntata di Ghizzoni». Già, la commissione d'inchiesta sul sistema bancario si è consumata in un tourbillon di allusioni, omissioni, attacchi e tregue tra pezzi dell'establishment politico e finanziario italiano, che ha lasciato intatti segreti scabrosi e pericolosi della Storia del Paese (dalla voragine del Monte dei Paschi di Siena, con annesso il giallo di un suicidio-omicidio di uno dei suoi dirigenti, alle ombre sulla crisi del governo Berlusconi nel 2011), occupandosi, quasi esclusivamente, degli uomini del Giglio Magico: prima della Boschi e ora di Carrai. Anche solo questa constatazione segnala un fallimento. Innanzitutto, perché i limiti e la vulnerabilità di un sistema di credito che ha ridotto ai minimi termini l'economia italiana negli anni della crisi, non possono essere letti solo alla luce delle vicende e dei protagonisti che hanno portato al fallimento di una banca toscana, che valeva un trentesimo di Mps. In secondo luogo perché segnala un decadimento dell'intero establishment del Paese, tra dilettantismo e rancori. Basta pensare al comportamento di Ghizzoni, che per un anno ha tenuto tutti con il fiato sospeso per le indiscrezioni sul comportamento della Boschi affidate all'abile penna di De Bortoli e, ieri, in zona Cesarini, ha tirato in ballo un altro uomo ombra di Renzi, Carrai. Sollevando degli interrogativi legittimi nel Palazzo: perché lo ha fatto? Perchè solo ora? Un comportamento singolare che ha suscitato in molti la nostalgia dei tempi antichi. «Cuccia - è il commento laconico del senatore di Forza Italia, Franco Carraro - diceva che il peggior peccato per un banchiere non è fuggire con la cassa, ma parlare del proprio cliente. A paragone di Cuccia, Ghizzoni sembra un megafono». Un concetto su cui ha ironizzato anche il presidente della commissione, Casini: «Non telefonate e non scrivete a Ghizzoni - ha scherzato - perché lo sapranno tutti». Dilettantismo, però, lo ritrovi anche negli uomini del Giglio Magico. «Io - rammenta Nicola Latorre, un tempo eminenza grigia di Massimo D'Alema - portai Cuccia in incognito da Massimo, a Palazzo Chigi. Senza che se ne accorgesse nessuno. E dopo aver trascorsi 40 minuti con lui, io che ero stato comunista, scoprii che se fossi rinato avrei voluto essere come Cuccia». Certo il cerchio stretto del renzismo ha commesso peccati più che altro di forma, di etichetta. Perché nessuno di quei colloqui, di quelle supposte «pressioni» ha portato a nulla, visto che Banca Etruria è fallita. Ma a volte la superficialità, rischia - o offre a qualcuno l'occasione - di trasformare la «forma» in «sostanza». «Il problema è che questi sono dei furbi di paese - osserva Massimo Mucchetti, da mesi in rotta con il vertice Pd - Tentano di fare affari, non li fanno e si sputtanano come se li avessero fatti. Dando ragione a D'Alema che gli predice una brutta fine». Che l'intera vicenda sia stata gestita con un'eccessiva dose di pressappochismo lo ammette anche un renziano doc come il sottosegretario, Angelo Rughetti. «Corriamo - ammette - verso il suicidio. Dilettanti allo sbaraglio. Dovevamo mettere al centro Bankitalia o Mps. Invece, c'è finito in mezzo il giglio magico». Dilettantismo, pressappochismo, superficialità non spiegano, però, tutto. La verità è che su questa vicenda sono cominciate le manovre sugli equilibri politici del dopo elezioni: lo scontro tra i partiti e, in parallelo, le mosse di pezzi establishment che cercano di ricollocarsi (Vegas), o di difendere il proprio ruolo (Visco). Uno assedio al potere declinante, quello renziano, che probabilmente sfocerà in una tregua in attesa delle politiche. Ma quanto è avvenuto ha lasciato ferite profonde. Soprattutto, Renzi si è sentito solo. «Non so - confessa Renzi - se Berlusconi sta partecipando al gioco contro di me. Ma rischia. Se vince amen, ma se finisce pari, come io penso, è più facile che i miei buttino fuori me e vadano con Grillo. Mi è passata anche la voglia di tornare a Palazzo Chigi. Non mi preoccupa il risultato delle politiche. Sarà meglio dei sondaggi. Sono amareggiato. Berlusconi mi ha deluso anche sul piano umano. Così riavrà i suoi amati comunisti. Se la veda lui. Secondo me faranno un accordo con i 5 Stelle». Inutile dire che ad Arcore non la pensano così. Giurano che l'ex-presidente della Consob, Vegas, non è più di casa. E raccontano che il Cav sulle banche ha predicato prudenza. «Non dobbiamo affondare la lama - è l'indicazione che ha dato ai suoi-, neppure sulla Boschi». Resta, però, la fotografia di un grande disorientamento. Tutti si guardano in giro, perché ancora non sanno che epilogo avrà quella roulette russa che sono le prossime elezioni. A molti è rimasto impressa nella mente l'immagine del calore con cui l'altro giorno alla cerimonia degli auguri natalizi al Quirinale l'ex premier, Mario Monti, ha salutato il candidato dei grillini, Luigi Di Maio. Per non parlare del riscontro che i ragionamenti di Renzi, trovano nelle parole di una delle teste d'uovo di Bersani, Alfredo D'Attorre: «Se vince il centrodestra governerà, ma se avranno un successo i grillini punteremo su un'alleanza tra noi e loro che coinvolga anche il Pd. L'unico ostacolo sarà il segretario pro-tempore del Pd». Tutti segnali che consigliano prudenza anche al Cav.
Crack in banca, tutti i conflitti di interesse dei politici che dovrebbero indagare. L'inchiesta parlamentare se la prende con Bankitalia e Consob: ma anni di ritardi e omissioni da parte dei partiti hanno spianato la strada ai disinvolti affari dei banchieri. E molti onorevoli membri della Commissione hanno avuto rapporti stretti con gli istituti ora sotto accusa, scrive Vittorio Malagutti l'1 dicembre 2017 su "L'Espresso". Anni di ritardi, omissioni e leggi sbagliate. Così la politica ha creato le condizioni che hanno portato ai crack a catena e al falò miliardari del pubblico risparmio. E adesso gli stessi partiti che hanno contribuito al disastro pretendono di accertare colpe e responsabili delle crisi bancarie. Nella commissione d'inchiesta parlamentare istituita per indagare sui dissesti sono numerosi i deputati e i senatori in conflitto d'interessi, perché in passato hanno avuto rapporti con le istituzioni che ora sono al centro delle accuse. L'Espresso in edicola domenica 3 dicembre con Repubblica ricostruisce le relazioni pericolose dei membri della commissione con il mondo bancario e racconta le scelte della politica che hanno finito per favorire i banchieri corrotti. Esemplare il caso del deputato Pd Franco Vazio, già membro del consiglio di amministrazione di Carisa, la banca di Savona controllata dalla Carige, travolta da perdite e costretta a chiedere 700 milioni in Borsa per evitare il crack. Vazio nel 2013 si era speso in un pubblico attestato di stima per Giovanni Berneschi, il presidente di Carige arrestato nel 2014 e di recente condannato per truffa e riciclaggio. La lista dei membri della commissione in potenziale conflitto d'interessi comprende molti altri nomi, tra cui Francesco Bonifazi, il deputato toscano del Pd amico di Maria Elena Boschi, e il senatore siciliano di Forza Italia, Antonio D'Alì, legato a uno degli avvocati di Giovanni Zonin, l'ex patron della Popolare di Vicenza. Come ricostruisce l'inchiesta dell'Espresso, le crisi bancarie che hanno bruciato risparmi per miliardi potevano essere evitate se il Parlamento non avesse rinviato per anni riforme decisive come quella delle Popolari, imposta per decreto solo nel 2015, o delle fondazioni bancarie, varata anche questa due anni fa. Troppo tardi per evitare i crack. Nel caso del Monte dei Paschi, la fondazione che controllava l'istituto è arrivata a indebitarsi per centinaia di milioni pur di non perdere il controllo sulla banca senese. Era il governo a possedere le chiavi d'accesso per metter fine alla corse verso il disastro. Per legge infatti la vigilanza sulle fondazioni spetta al ministero dell'Economia. Ma gli esecutivi che si sono succeduti per una quindicina d'anni, quelli di centrosinistra come quelli a guida berlusconiana, si sono ben guardati dall'intervenire a Siena.
Popolare Vicenza, il capo della vigilanza di Bankitalia tifava per Zonin: lo provano gli sms. Ecco i messaggi tra il direttore generale dell'istituto veneto e il numero uno dei controllori. I vertici della banca hanno goduto per anni di un filo diretto con via Nazionale, scrive Vittorio Malagutti il 18 dicembre 2017 su "L'Espresso". Ottobre 2014: allarme rosso alla Popolare di Vicenza. In quei giorni la banca guidata da Gianni Zonin rischiava seriamente la bocciatura ai test di bilancio della Bce di Francoforte. Sarebbe stato un colpo pesante alla credibilità di un istituto che già allora, come si scoprirà soltanto molti mesi dopo, aveva serie difficoltà a far quadrare i conti. Nella città del Palladio devono correre ai ripari, metterci una pezza in qualche modo prima che la bocciatura diventi di dominio pubblico, con tutte le conseguenze del caso. Ed ecco che, come L'Espresso è in grado di rivelare sulla base di documenti inediti, dal telefono di Samuele Sorato, il direttore generale della banca veneta, di fatto il braccio destro di Zonin, parte una richiesta d'aiuto: «Gentile dottore, avrei necessità di sentirla, come saprà la nostra richiesta è stata rigettata dalla Bce». Questo il testo dell'sms inviato da Sorato alle 12 e 22 minuti del 7 ottobre 2014. La sorpresa è il destinatario di quella richiesta. Il messaggio parte verso un numero di cellulare intestato a Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza della Banca d'Italia. Il quale, a giudicare dagli scambi successivi di sms, si mette subito in moto per dare una mano al manager. E infatti alle sette di sera Sorato scrive ancora all'alto dirigente di Banca d'Italia: «Vorrei ringraziarla per i suggerimenti ricevuti. (…) Gradirei sentirla per i prossimi passi da intraprendere». A questo punto Barbagallo non riesce proprio a fare a meno di sbilanciarsi e scrive: “Ok. In bocca al lupo!”, con tanto di punto esclamativo che vorrebbe rinforzare la personale solidarietà dell'alto dirigente di Bankitalia nei confronti del direttore generale della Popolare vicentina. Quei messaggi, e molto altro ancora, sono agli atti dell'inchiesta giudiziaria della procura di Vicenza sulla fallimentare gestione della Popolare per vent'anni presieduta da Zonin. Un'inchiesta che proprio in questi giorni è arrivata all'udienza preliminare che dovrà decidere quali degli indagati, tra cui lo stesso Sorato, finiranno a processo. Per la cronaca, alla fine Vicenza riuscì a superare per il rotto della cuffia i test della Bce, grazie alla conversione di un prestito obbligazionario. Potremmo chiederci se è normale che il massimo dirigente della Vigilanza bancaria dia una mano a un suo vigilato per superare gli esami dei controllori europei. E se è opportuno che lo faccia attraverso scambi di sms, a testimonianza di una consuetudine di rapporti che appare ormai consolidata nel tempo. Da mesi al centro delle polemiche, la Banca d'Italia si è sempre difesa sostenendo che la Vigilanza ha sempre fatto tutto quanto in suo potere, così come previsto dalle leggi vigenti, per marcare stretto Zonin e gli altri. È un fatto però che i vertici della Popolare di Vicenza potessero godere di una corsia preferenziale per accedere alla Vigilanza di Bankitalia. A volte, come dimostrano i documenti esaminati da L'Espresso, a fare da tramite verso Roma erano ex dirigenti della stessa Banca d'Italia assunti da Vicenza. Per esempio Mario Lio, ex funzionario della Vigilanza passato alla Banca Nuova di Palermo, controllata dalla Popolare di Zonin. “Ho parlato adesso con Barbagallo, è stato affettuoso. Speriamo bene...”, scrive Lio a Sorato il 18 febbraio del 2012. Il 4 settembre del 2013 tocca invece a Gianandrea Falchi, ingaggiato da Zonin dopo essere stato in staff dell'ex governatore Mario Draghi. “Lunedì vedo Barbagallo – scrive Falchi a Sorato – vi sono altre cose di cui parlare oltre a quelle che ci siamo dette lunedì?”. A gennaio del 2014, invece, lo stesso Falchi ci tiene a far sapere a Sorato di aver informato Barbagallo “di quanto ci eravamo detti”. E aggiunge un particolare curioso: “Ho scoperto che Visco e Consoli sono nati lo stesso giorno e anno”. Consoli era il numero uno di Veneto banca, l'altra Popolare in difficoltà che nei progetti della Vigilanza avrebbe dovuto fondersi con Vicenza. Solo che nel gennaio del 2014, Consoli era sotto pressing costante dei controllori di Bankitalia, mentre Zonin, che aveva bilanci ancora più disastrati, tesseva la trama di nuove acquisizioni. La creazione della grande Popolare del Nordest resta sulla carta e da Vicenza si mettono alla ricerca di alternative. Banca Etruria è la prima della lista. E infatti in primavera l'interesse del possibile acquirente viene formalizzato con un'offerta nero su bianco. In quei giorni Sorato torna a contattare via sms Barbagallo. “Buonasera dottore posso disturbarla?”. Questo il testo dell'sms datato 11 giugno 2014. La risposta arriva nel giro di pochi minuti: “Sono a Francoforte, se mi lascia un recapito la chiamo tra mezz'ora”. Giorni delicati, quelli, perché il consiglio di amministrazione di Banca Etruria deve riunirsi per decidere se accettare l'offerta di Vicenza. E l'arbitro della partita era proprio Banca d'Italia. Alla fine Arezzo dice no e l'affare salta. Entrambe le banche vanno incontro al proprio destino: dissesto e liquidazione. A maggio del 2015 anche Sorato arriva a fine corsa. Il manager viene messo alla porta da Zonin, che tentava di salvare la poltrona scaricando sui manager la colpa del disastro. Ma prima di farsi da parte, il direttore generale della Popolare di Vicenza scrive ancora a Barbagallo via sms. “Mi scusi se la disturbo di domenica. Ci terrei a comunicarle alcune decisioni che stiamo prendendo”. Era il 10 maggio 2015. Due giorni dopo Sorato ha perso il posto di lavoro.
I 12 mesi che sconvolsero le banche. I ritardi del Parlamento nell’applicare le nuove norme europee sulle banche sono un ingrediente del pasticcio che il 22 novembre 2015 portò al fallimento dei primi 4 istituti, scrive Federico Fubini il 18 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Concentrati sugli incontri segreti, i parlamentari della commissione sulle banche rischiano di perdersi un passaggio: anche loro, gli inquisitori, meritano un posticino al banco degli imputati nell’inchiesta sui dodici mesi che hanno cambiato il mondo del credito. Dopo gli eventi fra il novembre 2014 e il novembre 2015, niente tornerà come prima. Ma i deputati e senatori che ora cercano il colpevole potrebbero incalzare, fra i tanti, se stessi: i loro ritardi nell’applicare le nuove norme europee sulle banche sono un ingrediente del pasticcio che il 22 novembre 2015 portò al fallimento di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Furono dodici mesi densi. Furono la storia di come un cambio d’epoca, dai poteri romani all’Unione bancaria europea, può portare alla luce impreparazione e terribili malintesi. Quell’anno che cambiò l’Italia si apre l’11 novembre 2014 ad Arezzo con due episodi: il consiglio di Banca Etruria «comunica il proseguimento» - si legge in bilancio - della caccia a un acquirente; la banca aveva appena respinto l’offerta della Popolare di Vicenza, ma cercava un compratore disperatamente e invano. Il suo capitale è già sotto i minimi di legge. Per questo poche ore dopo la Banca d’Italia si presenta e avvia la seconda ispezione in due anni. I vertici di Etruria rischiano nuove sanzioni pecuniarie, dopo averne pagate per 2,5 milioni mesi prima. Sul secondo snodo di quella fase si agitano molti sospetti: il 20 gennaio 2015 il governo di Matteo Renzi, con Maria Elena Boschi ministro delle Riforme, vara il decreto che prevede la trasformazione in società per azioni delle 10 banche popolari con attivi in bilancio oltre gli 8 miliardi. Molti pensano che quella soglia venga fissata proprio per includervi (come penultima) Etruria, di cui è vicepresidente il padre della Boschi. Ciò poteva salvare l’istituto, aprendo il capitale. Però quest’accusa è fuori luogo. Il limite degli 8 miliardi, indicato dal Tesoro, è la soglia naturale che separa le 10 grandi popolari dalle 50 più piccole (l’undicesima, Cividale, risulta già molto staccata con attivi per 4,1 miliardi). Quel decreto comunque non salverà i manager di Etruria. Senza avvertire in anticipo il governo - sarebbe stato un reato per chi dà e per chi riceve la notizia - Banca d’Italia commissaria l’istituto di Arezzo l’11 febbraio. Le strutture di Palazzo Chigi, Tesoro e Via Nazionale continuano a cooperare come prima, ma sembra molto probabile che il fastidio di Renzi verso i vertici di Bankitalia inizi a emergere allora. Non c’è però tempo il rancore, perché la sabbia scorre nella clessidra. Etruria è la quarta banca commissariata dopo Carife, Marche e Chieti. Nessuna di loro tiene e il Tesoro pensa a una soluzione che solo a fine ottobre si sarebbe dimostrata impraticabile: ricapitalizzarle con il Fondo di garanzia e tutela dei depositi, una dotazione che 150 banche italiane devono obbligatoriamente versare a titolo di mutua assicurazione. Si parte con Carife, la banca di Ferrara, che ha bisogno di 300 milioni (contro i 500 di Etruria, 1,2 miliardi di Marche); l’assemblea dei soci si tiene a luglio e a inizio settembre il Fondo di garanzia invia alla Banca centrale europea la richiesta di autorizzazione, che però si arena. La Bce non risponderà mai. Qui servono due passi indietro. Ciò che il Tesoro non dice, allora, è che nel caso di intervento del Fondo le banche non sarebbero fallite ma le nuove norme Ue sugli aiuti di Stato impongono che le obbligazioni subordinate siano convertite in azioni. Non cancellate, ma il loro valore si sarebbe diluito. Non solo, la Commissione Ue fra settembre e ottobre chiarisce definitivamente che il Fondo può solo indennizzare i depositanti. Ma non può ricapitalizzare le banche. L’altro tassello mancante mette il parlamento sul banco degli imputati: accidiosamente, adotta in Italia le nuove norme Ue sulle banche solo fra agosto e metà novembre, con quasi un anno di ritardo. Così governo e Bankitalia perdono mesi e credibilità a Bruxelles, perché mancano loro gli strumenti legali per gestire il dissesto. Quando saranno pronti, dopo metà novembre 2015, non c’è altro tempo per organizzare un intervento diverso e «volontario» del Fondo di garanzia - sarebbe stato legale per Bruxelles - perché le quattro banche non possono resistere un solo giorno di più: Etruria si è già dissanguata del 28% dei depositi (1,4 miliardi), le altre per cifre simili. Le famiglie nel panico corrono agli sportelli. I ritardi di Camera e Senato nell’adottare in Italia la nuova direttiva Ue sulle banche non saranno il solo fattore decisivo, ma pesano eccome. Altrettanto pesa il silenzio di Bruxelles sull’opzione, che esisteva, di annunciare subito rimborsi ai piccoli risparmiatori raggirati (e l’ignoranza in Italia su questa possibilità). Si arriva così ai fallimenti brutali del 22 novembre 2015. È all’azzeramento del pubblico risparmio per circa 700 milioni, per il quale la resa dei conti fra istituzioni è ancora aperta.
Banche: tutti i grandi nomi che stanno dietro al dissesto, scrive il 12 dicembre 2017 Francesco Puppato "Wallstreet Italia". L’inchiesta condotta da La Stampa porta alla luce tutti i nomi e i numeri che stanno dietro al dissesto bancario di MPS, Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza. Si tratta circa di cinquecento nomi che con le loro operazioni sono costati 10,6 miliardi di euro ai contribuenti per via delle operazioni di salvataggio a opera del governo. A spiccare all’occhio sono i componenti del mondo più popolare, ovvero quello calcistico; tra tutti, Roberto Bettega debitore nei confronti di Veneto Banca e Sebastian Giovinco e Vincenzo Iaquinta, soci di una partecipata esposta verso la Banca Popolare di Vicenza. Seguono poi la famiglia Sensi, all’epoca in possesso della Italpetroli ora nelle mani di Unicredit, che si espose per 73 milioni di euro per sostenere la Roma, e Maurizio Zamparini, ex presidente di Venezia, Palermo e Pordenone, che tramite due società si indebitò per un totale circa pari a 120 milioni di euro: 60 per mezzo della Mare Monte grado nei confronti della Popolare di Vicenza ed altri 60 con la Gasda, questa volta verso la MPS. Sempre con la MPS, si erano indebitati anche i Mezzaroma, costruttori e proprietari dello stadio del Siena quando militava in serie A (in questo caso si parla di 27 milioni di euro); altro buco di 31,7 milioni è stato quello effettuato dal presidnete del Manotva, Fabrizio Lori, attraverso la società Nuova Pansac. La lista dei debitori prosegue poi con nomi di enti locali: è il caso di Riscossione Sicilia, che deve 237 milioni di euro sempre alla MPS, piuttosto che della romana Atac, esposta per 49,5 milioni. Ancora, la Bagnolifutura, che fa capo a Comune di Napoli e Regione Campania ed era incaricata della riqualificazione dell’area, deve 85 milioni di euro alla banca senese. Arrivano poi anche le Coop, con il colosso edile Unieco e la holding Holmo (che controlla Unipol): il debito totale è di 183 milioni di euro. Chiude la Saia di Verbania, che era incaricata di rilanciare il polo industriale piemontese ma che, oltre ad aver avuto uno scarso esito, deve 5,3 milioni a Veneto Banca. Una mala gestione a 360 gradi che, come sempre, finisce per ricadere sui cittadini.
Banche, quello che la politica tace. Non solo Bankitalia e Consob. Le crisi hanno anche altri responsabili su cui la commissione d’inchiesta non farà luce. Ecco chi sono, scrive Vittorio Malagutti il 4 dicembre 2017 su "L'Espresso". Franco Vazio è un avvocato ligure eletto alla Camera con il Pd. Ha un passato da amministratore di banca e forse anche per questo il partito di Matteo Renzi lo ha scelto tra i 40 componenti della commissione d’inchiesta sui crack del credito. Ben vengano gli esperti, se non fosse che Vazio ha navigato a lungo nel mare inquinato di uno dei peggiori scandali della storia finanziaria recente, quello del gruppo Carige. «Far parte dello stesso consiglio di amministrazione in cui c’è un personaggio come Giovanni Berneschi, uno dei non molti banchieri che ci sono in Italia, mi ha molto aiutato nella comprensione dei meccanismi economici». Nel marzo del 2013 il neodeputato Vazio, intervistato dal quotidiano genovese “Il Secolo XIX”, si congedò con queste parole dal suo incarico di amministratore della Cassa di Savona (Carisa). Un anno dopo quell’improvvida dichiarazione, Berneschi è stato arrestato e nel febbraio scorso è arrivata la sentenza di primo grado: l’ex presidente del gruppo Carige, la vecchia Cassa di Genova di cui faceva parte anche Carisa, è stato condannato a otto anni e due mesi per truffa e riciclaggio. Nel frattempo la banca ligure è stata travolta da centinaia di milioni di perdite, eredità della gestione Berneschi, e si trova da mesi sull’orlo del dissesto. Vazio non è in alcun modo coinvolto nelle indagini, ma la sua vicenda personale illustra alla perfezione il deficit di credibilità che fa da zavorra ai lavori e ai risultati della commissione d’inchiesta sul sistema bancario e finanziario. Partita con grave ritardo e a soli sei mesi dalla fine della legislatura, l’indagine parlamentare, calata nel clima della campagna elettorale, sembra studiata apposta per fare da grancassa alle reciproche accuse tra i partiti. Per comprendere i meccanismi che hanno azzerato i risparmi di centinaia di migliaia di famiglie, per delineare le responsabilità che hanno reso possibile un simile falò miliardario servirebbe l’inchiesta di un organo davvero neutrale, super partes. E invece le crisi che in rapida successione hanno messo al tappeto colossi come il Monte dei Paschi, insieme a Popolari fortissime sui rispettivi territori come Vicenza, Veneto Banca e l’Etruria, si sono lasciate alle spalle un esercito di scheletri ora ben custoditi negli armadi della politica, nazionale e locale. Se si tiene presente questo fatto, risulta più facile comprendere per quale motivo i membri della commissione presieduta da Pier Ferdinando Casini (proprio lui che nell’aprile scorso l’aveva definita «un impasto di demagogia e pressappochismo») hanno fin qui concentrato la loro attenzione sulle responsabilità degli organi di Vigilanza, dalla Consob a Banca d’Italia. Resta invece sullo sfondo, a far da tappezzeria alle deposizioni dei controllori gabbati, la lunga catena di omissioni e di ritardi della classe politica che nell’ultimo decennio ha spianato la strada ai disinvolti affari della cricca dei banchieri. Certo, la semplice lettura della cronologia dei fatti basta e avanza per autorizzare i peggiori sospetti sul comportamento degli organi di controllo, a cominciare da Bankitalia, che per anni non si è accorta di malversazioni e affari sporchi. Difficile non notare, però, che la bolla del Monte dei Paschi si è gonfiata sotto gli occhi della Fondazione che controllava la banca, tra prestiti a perdere e favori agli amici degli amici. In spregio alle regole e alla logica, l’ente con base a Siena, infarcito di uomini di partito, il Pd in primo luogo, è arrivata a indebitarsi per centinaia di milioni pur di mantenere la presa sull’istituto di credito toscano. Lo stesso copione è andato in scena anche a Genova, dove la locale Fondazione si è dissanguata per non essere costretta a tagliare i ponti con Carige, la banca della città, centro di potere e crocevia strategico tra affari e politica. In Liguria come a Siena, era il governo a possedere le chiavi d’accesso per metter fine alla folle corsa verso il crack. Per legge, infatti, spetta al ministero dell’Economia la vigilanza sulle Fondazioni. E invece niente. Gli esecutivi che si sono succeduti nell’arco di una quindicina d’anni, quelli a guida berlusconiana e quelli targati centrosinistra, hanno ogni volta rimandato a data da destinarsi uno stop che appariva sempre più urgente. Nel frattempo, i partiti hanno puntato fino all’ultimo a salvaguardare la rete di influenze e complicità cresciuta negli anni all’ombra di quei potentati locali. La riforma, datata 2015, è infine arrivata, ma fuori tempo massimo. Le nuove norme fissano regole ben più stringenti per la gestione degli enti nati quasi 30 anni fa dalla trasformazione delle vecchie casse di risparmio. Intanto però il Monte dei Paschi era già al capolinea, mentre Carige andava verso il tracollo. Tra i 40 commissari c’è chi ha vissuto in prima persona queste vicende. È il caso di Camilla Fabbri, senatrice marchigiana del Pd, che dopo una lunga militanza al vertice della Confederazione degli artigiani (Cna), nel 2012 è stata cooptata nel consiglio di amministrazione della Fondazione Cassa di Pesaro, che insieme a quelle di Jesi e di Macerata formava il gruppo dei soci di riferimento di Banca Marche. Nell’ottobre 2013 il commissario inviato da Bankitalia ha bussato anche alla porta dell’istituto marchigiano, spolpato da una gestione fallimentare senza che le tre fondazioni azioniste, ora sul lastrico, battessero ciglio. Due anni dopo, a novembre 2015, anche Banca Marche è arrivata a fine corsa, insieme a Popolare Etruria, CariFerrara e Cassa di Chieti, per effetto del decreto di risoluzione emanato dal governo Renzi. Lasciato l’incarico di consigliere nel marzo del 2013, subito dopo l’elezione in Parlamento, Camilla Fabbri ancora nel 2015 figurava nell’elenco dei soci, alcune decine in tutto, della Fondazione pesarese. E così, ora che la commissione parlamentare si appresta ad aprire anche il capitolo marchigiano, la senatrice Pd si trova nella scomoda posizione di contribuire a un’indagine che riguarda, tra l’altro, quello stesso sistema di potere da cui era stata cooptata. Se poi ci si sposta ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, un filo rosso conduce fino al renzianissimo deputato Francesco Bonifazi, avvocato a Firenze e tesoriere del Pd, vecchio amico e collega del sottosegretario Maria Elena Boschi, nonché socio di studio del fratello di lei, Emanuele. Ebbene, come membro della commissione d’inchiesta, ora Bonifazi è chiamato a indagare, tra l’altro, anche sul crack di Etruria, che quando venne commissariata, nel febbraio del 2015, aveva come vicepresidente Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena e di Emanuele, legati a doppio filo allo stesso Bonifazi. A proposito della crisi delle Popolari, analisti e investigatori concordano almeno su un punto: a innescare i dissesti è stata da una parte la crisi econo mica generale che ha moltiplicato le perdite sui crediti. Questo contesto sfavorevole si è sommato alla gestione spericolata (a dir poco) da parte di una classe dirigente autoreferenziale, che per decenni è riuscita a gestire il consenso attraverso il meccanismo del voto capitario, che vuol dire un voto per ogni socio in assemblea, a prescindere dal numero di azioni possedute. I campioni indiscussi della categoria sono stati banchieri come Gianni Zonin, per 19 anni al comando della Popolare Vicenza e Vincenzo Consoli, dominus di Veneto Banca dal 1997 al 2015. Per dare una scossa al sistema e favorire il ricambio al vertice, da più parti negli anni scorsi era stato proposto di abolire, o almeno di rivedere, il sistema “una testa un voto”. In Parlamento però, tutte le proposte di riforma si sono fatalmente arenate di fronte allo sbarramento di una lobby potente e ramificata in tutti gli schieramenti politici, a destra come a sinistra. Tutto bloccato, quindi, per un decennio e più, anche se il sistema delle banche cooperative, ancor prima dei disastri veneti, aveva già dato pessima prova di sé. Difficile non ricordare, per esempio, l’avventura di Gianpiero Fiorani e della sua Popolare di Lodi, finita nella polvere, tra perdite e inchieste giudiziarie, dopo una velocissima ascesa nei primi anni del nuovo secolo. I rapporti amichevoli con l’allora governatore di Bankitalia, Antonio Fazio (dimissionario nel 2005 dopo lo scandalo) favorirono l’ascesa di Fiorani, che trovò molti tifosi anche nelle file della politica, soprattutto nella Lega Nord. La vicenda si chiuse tra schiamazzi, polemiche e sentenze di tribunale, ma il Parlamento si guardò bene dal metter mano a un sistema di governo societario, quello delle banche cooperative, che senza dubbio alcuno aveva reso più agevole la scalata al potere di Fiorani da Lodi. Nel frattempo, poche decine di chilometri più a Est, nel Veneto dei capannoni e della microimprenditoria diffusa, Zonin e Consoli avevano già messo sotto chiave il controllo delle rispettive banche, entrambi corteggiati e sostenuti dalla politica locale e, all’occorrenza, anche da Roma. Il sindaco di Verona Flavio Tosi, all’epoca esponente di punta della Lega Nord, era gradito ospite alle battute di caccia nelle tenute di Zonin. E nell’ottobre del 2011 riuscì perfino a impallinare non un fagiano, ma uno sfortunato ragazzo che si trovava a passare da quella parti. Consoli, nel 2012 si era invece guadagnato l’imperitura gratitudine di Denis Verdini, beneficiato con un prestito di 7,6 milioni proprio mentre l’allora coordinatore del Pdl, poi alleato del Pd, era assediato dai debiti e sotto inchiesta della magistratura. Ad aprile 2014, quando Bankitalia cominciò finalmente a marcare stretta Veneto Banca, fu il governatore Luca Zaia a insorgere a difesa del “territorio” contro la (parole sue) «dittatura finanziaria dettata dal governo di Roma». Eppure, le prime crepe erano già allora evidenti nel bilancio delle Popolari venete. Senza contare che centinaia di piccoli soci da tempo protestavano perché non riuscivano a vendere le loro azioni nel mercatino ad hoc gestito dalla banca. Alla fine, la riforma è arrivata, ma con un atto di forza, un decreto legge del governo Renzi che nel gennaio 2015 ha imposto a tutte le banche cooperative con più di 8 miliardi di attivo di trasformarsi in società per azioni. L’iniziativa ha avuto il merito di dare un taglio netto con il passato, innescando tra l’altro riorganizzazioni e fusioni tra banche (Banco Popolare-Popolare Milano) che hanno rafforzato il sistema nel suo complesso. Gestire una riforma di questa portata senza che i contenuti siano condivisi e discussi in anticipo anche dalle parti interessate, si sta però rivelando, com’era prevedibile, piuttosto complicato. A quasi tre anni dal blitz di Renzi, ci sono banche, la Popolare di Sondrio e quella di Bari, che dopo aver fatto ricorso contro il provvedimento governativo, attendono ancora una pronuncia della Corte Costituzionale, e poi del Consiglio di Stato, prima di adeguarsi alla legge. Se ne parlerà la prossima primavera, forse. E intanto gli orfani del modello cooperativo si schierano a difesa dei banchieri che puntano i piedi. Nel Pd, il deputato pugliese Francesco Boccia è sceso in campo evocando il pericolo di «squali stranieri» che potrebbero approfittare della riforma per scalare la Popolare di Bari, che è anche al centro di un’indagine della magistratura. Un argomento non proprio originale, quello usato da Boccia. Negli ultimi vent’anni, e anche prima, i difensori a oltranza delle banche del territorio, anche quelle con i conti disastrati, hanno spesso evocato i barbari alle porte per opporsi alle riforme. A ben guardare, poi, si scopre che anche tra i membri della commissione d’inchiesta non mancano tifosi del modello cooperativo come l’economista Carlo Dell’Aringa, deputato Pd, già sottosegretario al Lavoro nel governo Letta e per tre anni, (2010 - 2013), consigliere di amministrazione della Popolare di Milano (Bpm). Nel maggio 2013, poco dopo essere stato eletto in Parlamento, Dell’Aringa sottolineò che la «trasformazione in società per azioni non gli sembrava la soluzione giusta per mettere a posto» la grande banca cooperativa milanese, che era reduce dai disastri della gestione dell’ex presidente Massimo Ponzellini, attualmente sotto processo. Secondo il pm milanese Mauro Clerici che ha chiesto la condanna dell’ex banchiere a sei anni di reclusione, la gestione della Popolare da parte di Ponzellini è stata «politica e infarcita di interessi personali». Come detto, l’istituto milanese ha messo fine alla sua storia di banca cooperativa e alcuni mesi fa si è unito al Banco Popolare con sede a Verona. Dell’Aringa, già amministratore di Bpm, è invece approdato alla commissione parlamentare per indagare, tra l’altro, sui disastri di quel modello cooperativo di cui è stato convinto sostenitore. Questione di punti di vista, di opinioni. Molto diversa invece è la storia di Antonio D’Alì, senatore di Forza Italia, esponente di una famiglia ricca e potente del trapanese, pure lui designato dal suo partito tra i membri della commissione d’inchiesta. In effetti i D’Alì hanno un passato da banchieri: fino al 1991 possedevano la Banca Sicula, poi ceduta alla Comit. Il loro nome però ricorre nelle cronache recenti soprattutto per i rapporti con la famiglia del superlatitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Lo stesso Antonio D’Alì è finito in tribunale con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I processi, in primo grado e in appello, si sono conclusi con un’assoluzione nel merito per i fatti successivi al 1994, mentre per il periodo precedente è scattata la prescrizione. A quanto pare, sospetti e indagini non hanno ostacolato la carriera politica del senatore forzista, sostenitore di Berlusconi sin dalla discesa in campo del Cavaliere nel 1994. Poi ci sono gli affari e in questo campo la rotta di Antonio D’Alì ha finito per sfiorare quella del banchiere Zonin, che in Sicilia è sempre stato molto attivo. La Popolare di Vicenza controllava la palermitana Banca Nuova, molto legata alla politica locale nonché cassaforte per i conti riservati dei servizi segreti, come è emerso in questi giorni. Nell’isola, il banchiere veneto poteva contare su un avvocato di fiducia come Paolo Angius, a cui ha affidato molti dossier delicati. Angius è stato, tra l’altro, a lungo vicepresidente di Banca Nuova. Ebbene, il professionista preferito di Zonin è legato da rapporti personali e d’affari anche alla famiglia di Antonio D’Alì. Proprio lui, quello che ora, in veste di senatore, deve indagare sul banchiere del crack di Vicenza.
Caso Boschi e il giornalismo fondato sulla balla, scrive Piero Sansonetti il 16 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Maria Elena Boschi non ha mai mentito al Parlamento (Vegas lo ha confermato) e non ha mai preso tangenti. Eppure… «La Boschi ha mentito al Parlamento». «La Boschi ha un conflitto di interessi come lo ebbe Berlusconi». «La Boschi ha aperto una corsia preferenziale per la Banca di suo padre». Il giornalismo fondato sulla balla. Poi: «La Boschi è il Mario Chiesa della seconda Repubblica» (cioè ha preso delle tangenti pagate in contanti, ndr). Ancora, «La Boschi ha confessato». Vogliamo andare avanti? Massì, citiamo pure qualche grido su Consip, tipo: «Renzi ha mentito», «Il papà di Renzi ha incontrato Bocchino», «Alcuni 007 hanno cercato di bloccare le indagini su Renzi». Beh, insomma, ce n’è abbastanza per mandare a casa Boschi, per cacciare Renzi dal Pd, e poi per aprire indagini su indagini, da parte della magistratura, firmare avvisi di garanzia a raffica, arrestare qualcuno, e infine chiedere i conti al Pd per tante nequizie, e naturalmente per mandare a casa il governo. Giusto? Giusto, però tutte le affermazioni che abbiamo riportato tra virgolette sono false. Tutte. Completamente false. Sono affermazioni che ho ripreso da vari giornali, soprattutto dal Fatto ma non solo, oppure sono frasi pronunciate da diversi leader politici, a partire da Di Maio e dallo stesso Travaglio (che ormai è considerato il vero capo del partito populista, cioè del partito trans– partito che sta ottenendo grandi successi, grazie anche ai due vice di Travaglio: Grillo e Salvini…). Vediamole una ad una, visto che sono in questi giorni al centro della polemica politica.
1) Maria Elena Boschi non ha mentito al Parlamento. Ieri su questo giornale abbiamo pubblicato il testo dell’intervento che pronunciò a Montecitorio nel dicembre di due anni fa e nessuna delle cose che disse in quell’occasione è stata smentita. Né da Vegas né da nessun altro. Anzi, l’altro ieri Giuseppe Vegas (presidente di Consob e persona che ha avuto parecchie polemiche in passato col governo Renzi del quale la Boschi ha fatto parte) ha confermato di non aver mai ricevuto pressioni da lei su Banca Etruria. Pare invece che fu lui a fare qualche pressione sulla Boschi invitandola a casa sua, da sola, alle otto di mattina. La Boschi non ci andò: ma questa è un’altra storia…
2) Sostenere (come ha fatto con aria anche piuttosto solenne, in Tv, Marco Travaglio) che la Boschi ha un conflitto di interessi simile a quello che aveva Berlusconi, è una affermazione che rasenta la trovata comica (non intenzionale, però). Berlusconi, quando gli si rimproverò il conflitto di interessi, controllava personalmente tutte le televisioni private nazionali, cioè circa il 50 per cento delle televisioni italiane. E diversi giornali. Maria Elena Boschi invece possedeva 1500 euro di azioni di Banca Etruria. 1500 euro, capite? E per di più li ha persi quasi tutti. Ora, per paragonare il conflitto di interessi della Boschi e quello di Berlusconi, beh ci vuole o una dose massiccia di malafede, oppure una dose molto molto molto piccola di capacità intellettive. Propendo per la prima ipotesi.
3) La Boschi non ha aperto nessuna corsia preferenziale per suo padre. Tranne quella – diciamo così – che ha porta al licenziamento. Il governo del quale faceva parte la Boschi ha commissariato banca Etruria e mandato a casa il consiglio di amministrazione del quale il padre della Boschi faceva parte. Esempio raro, mi pare, di limpidezza. Possibile che questo nessuno lo dica? L’altra sera, in Tv, la Boschi ha chiesto tre volte a Travaglio: «Mi dice di quali favoritismi avrebbe goduto mio padre?». Silenzio. Totale silenzio di Travaglio.
4) La Boschi come Mario Chiesa? L’accusa l’ha lanciata Di Maio, è una accusa gravissima. Mario Chiesa era un amministratore milanese che fu beccato mentre intascava una tangente, e da lì poi partì tutta l’inchiesta su “Tangentopoli”. Maria Elena Boschi non è sospettata da nessuno, neppure lontanamente, di avere preso una tangente. È del tutto incensurata, non ha nessun avviso di garanzia (a differenza di tanti amministratori del partito di Travaglio). Nemmeno nei momenti più cupi della lotta politica qualcuno aveva fatto ricorso a menzogne e accuse così platealmente false verso un avversario. L’unica scusante, per Di Maio, è che probabilmente non ha capito bene neanche lui cosa stesse dicendo. Ma questo non toglie nulla alla gravità di questo passo ulteriore verso l’imbarbarimento della politica.
5) «La Boschi ha confessato».
È il titolo che occupa l’intera prima pagina del Fatto di ieri. Ovvio che per confessare bisogna aver commesso un reato, se no come fai a confessarlo? Dunque il Fatto sostiene che la Boschi ha commesso un reato e poi lo ha confessato. Naturalmente entrambe le cose sono false. Valgono le stesse osservazioni fatte per Di Maio. E la stessa, eventuale, scusante: se Di Maio, come è noto, non conosce bene la geografia né la storia, è possibile che al Fatto zoppichino con l’italiano… 6) Infine il caso Consip, uno degli infortuni giornalistici più gravi degli ultimi trent’anni, e che tuttavia ancora viene usato – in spregio assoluto della verità – per attaccare il Pd. Le affermazioni che abbiamo riportato, all’inizio di questo articolo, su Renzi, come è noto, sono quelle contenute in una informativa dei carabinieri rivelatasi poi del tutto falsa, ma fatta filtrare, illegalmente, nelle redazioni di alcuni giornali (in particolare il solito Fatto) e usata per una campagna di stampa contro Renzi e altri. Non solo quando si è scoperto che le notizie erano false non c’è stato un passo indietro dei giornali e dei giornalisti colpevoli di avere costruito una campagna di stampa su notizie illegali e false. Non solo non è scattato un moto di indignazione per le probabili trame di pezzi dello Stato (settori dei carabinieri e forse della magistratura) contro il partito di maggioranza. Ma la campagna contro il Pd è proseguita, come se nulla fosse, ignorando totalmente la falsità delle notizie. Ecco, quando si parla di fake news si parla esattamente di tutto questo. Della costruzione di vere e proprie “realtà parallele”, false, ma che riescono, grazie alla potenza dell’apparato informativo del quale dispongono – stampa, Tv, rete – a tenere a bada la “realtà reale” e talvolta a cancellarla del tutto, a farla sparire. Naturalmente questo è possibile solo in un clima politico particolare. Cioè l’attuale clima politico, dove non solo il populismo reazionario si espande e cresce, conquistando fette grandi dell’opinione pubblica e dell’intellettualità, ma riesce a condizionare e ad assoggettare settori ormai vastissimi dell’informazione tradizionale. L’inseguimento del populismo è diventato una specie di carta d’identità del giornalismo italiano. Lontano le mille miglia dalle tradizioni del grande giornalismo liberale occidentale. E chi fa le spese di questo ciclone in primo luogo è il sistema democratico, fiaccato dalla assenza di una corretta informazione, e poi sono alcune migliaia di giornalisti, che hanno una considerazione alta della propria professione, e che non possono più esercitarla. Non trovano spazio. Non vengono più nemmeno presi in considerazioni da chi comanda, da chi ha in mano il timone, dagli editori. Gli editori sembrano disinteressati ad avere giornalisti. Vogliono esecutori. Certo, se un giorno i giornalisti si ribellassero…
LE SPECULAZIONI ELITARIE.
Inquisizione medievale su Maria Elena, scrive Vittorio Emanuele Falsitta, Domenica 17/12/2017 su "Il Giornale". Continuo a pensare che nella vicenda Banca Etruria: a) la cosa più rilevante sia risarcire chi ha sofferto il danno patrimoniale; b) che sopra gli aspetti giuridici procederà la magistratura e farà quanto è formalmente giusto; c) che la politica debba ricercare un impianto rigoroso di diritto penale bancario e consentire al magistrato di intervenire con efficacia così da evitare in futuro quanto accaduto; d) che ogni questione fuori da tale contesto sia teatro. Teatro, dunque, anche l'inquisizione di Maria Elena Boschi. L'Italia e gli Stati sono attraversati da una rapida metamorfosi sociale che porta con sé effetti ancora sconosciuti; vi sono problemi alti come le montagne, oscurano il Sole e chiedono autorevolezza nell'agire. E allora tre domande: sono così significativi i colloqui di Maria Elena Boschi, a margine della vicenda Etruria, da preferirli al dibattito sopra ciò che condizionerà nei prossimi anni la nostra vita? È davvero più importante stabilire se ha mentito su sfumature e pieghe sottili che, in concreto, risulterebbero comunque prive di peso? Non basta il buon senso a convincersi che, nel caso, avrebbe discusso come un diligente sottosegretario - su quale soluzione vi fosse in campo per aiutare chi ha subito il torto piuttosto che su come infierire? Eppure no. Torniamo a scansare le cose grandi per abbracciare quelle piccole, la nanopolitica. Quasi tutte le Tv e i giornali, tirati in ballo, impongono la faccenda fin dalle loro introduzioni con vistosi titoloni, interviste e primi piani cinematografici. Una eruzione pompeiana: l'esplosione rumorosa e bollente di quanto cresceva e si agitava da lunghi mesi nei sottosuoli bui e negli ambulacri viscidi della politica corta, appunto, quella che ha occhi sui piedi. Ciò a cui assistiamo, tuttavia, non deve meravigliare; se osserviamo il fenomeno da vicino, senza suggestione, non è un dibattito ma una sassaiola: calca e sudore, polvere alzata da terra, urla, dita puntate e tanta bava alla bocca. Non può meravigliare alcuno perché ciò che vediamo è l'immagine di noi stessi. Di quanto siamo divenuti. E l'avere messo da parte, in questa campagna elettorale, i gravi temi per dare luogo privilegiato alla tribale sassaiola e ai suoi corollari, la dicono lunga su quale nazione siamo oggi. Forse, unico autentico motivo d'indignazione. Che sulle parole specifiche di Maria Elena Boschi, le sue pause, le pieghe del viso, la posizione delle mani e altri segni forse usati durante i colloqui con amministratori e politici (dai quali segni, poi, dedurne - come tanti riediti Hercule Poirot - le cose non dette) fosse sceso il buon senso. Giudicare non su prove ma su indizi e per di più, ricavati da interpretazioni che trasudano l'influenza di un animo di parte, è uno spettacolo medievale. E ulteriore segno di inciviltà che non vorremmo vedere esibito proprio dai pochi che, per contro, dovrebbero dare esempio ai molti. La politica, per favore, si dia il colpo d'ala!
Le solite (false) affermazioni di Travaglio sul commissariamento di Banca Etruria, scrive il 17 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". L’ AGI-Agenzia Italia ha verificato le dichiarazioni della sottosegretaria alla presidenza del Consiglio rese a Otto e Mezzo durante il confronto col direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, che ancora una volta ha detto delle inesattezze. Il commissariamento l’ha fatto il governo perché, come sa, è un decreto che firma il ministro dell’Economia. Quindi è inutile dire che non è un atto del governo. Lo scorso 14 dicembre nel programma Otto e Mezzo condotto da Lilli Gruber sul La7 è andato in onda un duro scontro tra il poco elegante ed arrogante direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, a proposito della questione Banca Etruria. Travaglio ha attaccato la Boschi (min. -15.52): “È ora che la finiate di raccontare balle, a commissariare Banca Etruria è stata Banca d’Italia e il suo governo ha avallato una decisione della Banca d’Italia”. La Boschi, rispondendo sul punto, gli ha replicato: “Il commissariamento l’ha fatto il Governo perché, come sa, è un decreto che firma il ministro dell’Economia. Quindi è inutile dire che non è un atto del governo”. E Marco Travaglio manifestando una evidente carenza ed ignoranza di come funzionano le istituzioni, ha nuovamente ribadito: “Certo, recependo un ordine di Banca d’Italia”. Cerchiamo dunque di fare la necessaria chiarezza su di chi sia la reale responsabilità decisionale per il commissariamento di Banca Etruria.
L’atto di commissariamento di Banca Etruria. Come ampiamente già raccontato, è vero che il vicepresidente di Banca Etruria – Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena –, e con lui tutto il consiglio di amministrazione, sia stato commissariato dal Governo Renzi. Per la dovuta corretta informazione è bene ricordare che l’atto di commissariamento è contenuto nel decreto n. 45 del 10 febbraio 2015 del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Come si legge nel comunicato diBanca Etruria, il ministero dell’Economia ha disposto il commissariamento soltanto “su proposta della Banca d’Italia” e, in particolare, ai sensi dell’art. 70 co. 1 lett. B) del Testo Unico Bancario. Quindi contrariamente a quanto sosteneva il “travagliato” direttore del Fatto Quotidiano, nessun ordine è stato mai impartito da Banca Italia al Governo. Infatti il commissariamento viene disposto congiuntamente dalla Banca d’Italia, che lo propone, e dal Governo, che di fatto decide ed emette il necessario decreto. Per capire, meglio tuttavia, su chi gravi la responsabilità è necessario verificare se l’indicazione di Banca d’Italia sia vincolante – come affermava lo stesso Travaglio, quando parlava di “un ordine” – oppure no.
La sentenza del Consiglio di Stato. Con la sentenza 9 febbraio 2015, n. 657 il Consiglio di Stato, organo di ultima istanza della giustizia amministrativa, emanata quindi prima che entrasse in vigore la nuova disciplina dell’art. 70 TUB, ha fatto chiarezza sulla questione. In sentenza riguardo all’art. 70 TUB (testo unico bancario) si legge, : “Ruolo primario viene conferito alla Banca d’Italia, la quale propone al Ministro dell’Economia e delle Finanze lo scioglimento degli organi di amministrazione e controllo di una banca al ricorrere di tassative condizioni. Ricevuta la proposta, il Ministro dell’Economia e delle Finanze “può disporre” con decreto detto scioglimento: questa facoltà di scelta implica una valutazione discrezionale – o, meglio, di opportunità – che il Ministro è tenuto ad effettuare sulla base della proposta avanzata dall’autorità di vigilanza”. Quindi è evidente che i giudici amministrativi attribuiscono al Governo una facoltà discrezionale rispetto a quanto proposto da Banca d’Italia. Così proseguono i giudici amministrativi: “L’obbligatorietà della proposta della Banca d’Italia non impone al Ministero dell’Economia e delle Finanze di accettarne in modo acritico e dogmatico il contenuto, in quanto l’ordinamento gli attribuisce la facoltà di discostarsi dalla proposta stessa qualora non ritenga sussistenti i presupposti per disporre l’amministrazione straordinaria”. Detenendo il potere esecutivo questa facoltà secondo i giudici è suo dovere condurre una istruttoria autonoma sulla questione se commissariare o meno la banca, non potendo fare integralmente affidamento su quanto accertato da Banca d’Italia. Nel caso in questione, relativo alla Banca Popolare di Spoleto il ministero aveva visto bocciare il proprio decreto di amministrazione straordinaria proprio perché aveva semplicemente accolto l’istanza di Banca d’Italia senza condurre una propria indagine autonoma.
Conclusione. Il commissariamento di Banca Etruria è stato disposto in base alla normativa che era in vigore all’epoca, dal Ministero dell’Economia su proposta della Banca d’Italia. Come abbiamo visto, la giurisprudenza del Consiglio di Stato (oggi obsoleta, ma ancora valida all’epoca dei fatti) è molto netta nel sottolineare il carattere discrezionale del potere esecutivo del Governo, che anzi è tenuto a condurre indagini proprie al preciso scopo di potersi – eventualmente – discostare dalle proposte formulate da Banca d’Italia. Quindi ha assolutamente ragione Maria Elena Boschi a rivendicare al Governo il merito di aver commissariato Banca Etruria, in quanto in proposito la proposta di Banca d’Italia non era vincolante e la decisione finale è ricaduta sull’esecutivo. Non risulta che ci sia stato “un ordine” di Banca d’Italia, né che si possa attribuire esclusivamente all’istituto di Palazzo Koch la responsabilità del commissariamento.
Boschi: «La mia verità sulle banche. Fu Gentiloni a chiedermi di restare», scrive Barbara Jerkov Lunedì 18 Dicembre 2017 su “Il Messaggero".
Sottosegretaria Boschi, lei ha sempre amato parlar chiaro. Partiamo proprio da qui, allora: lei è diventata il problema del Pd?
«Il Pd ha molti problemi, come tutti i partiti democratici europei. Ma continuo a pensare che sia l’unica speranza per il futuro del Paese contro gli estremismi M5S e della destra. E ancora oggi siamo, persino nei sondaggi negativi, il primo gruppo parlamentare della prossima legislatura. Quanto a me: vogliono far credere che il problema delle banche sia io. Ma è una strumentalizzazione tanto meschina quanto evidente. Sono un volto facile da colpire. Ma dopo due anni di ricerca ossessiva nessuno ha potuto smentire ciò che dissi in Parlamento sulle banche. E nessuno parla più di pressioni o favoritismi. La verità arriva, basta non avere fretta».
Premier e segretario hanno detto che lei verrà ricandidata senza se e senza ma. Nel Pd però tanti non sono dello stesso parere e tifano, dietro le quinte, per un suo passo indietro. Per il ministro Orlando sulla sua candidatura bisogna ragionare. Ha deciso cosa farà e dove correre?
«Sarà il Pd a decidere se e dove candidarmi. E’ una regola che vale per tutti nel nostro partito che, a differenza degli altri, decide le candidature democraticamente nei propri organi statutari».
Quella che si apre oggi è una settimana chiave per la Commissione banche. Alla luce di queste ultime settimane, pensa sia stato un errore da parte del Pd insistere perché questa commissione si svolgesse, tanto più così a ridosso della campagna elettorale?
«Il Pd per primo ha chiesto che venisse istituita la Commissione di inchiesta già alla fine del 2015. I tempi parlamentari hanno portato ad insediare la Commissione a ridosso della campagna elettorale. La Commissione sta offrendo però spaccati della storia del sistema bancario italiano degli ultimi 15 anni molto interessanti. Certo il clima da campagna elettorale rischia di far perdere ai cittadini un’occasione preziosa per fare chiarezza perché le opposizioni stanno usando la Commissione per una sorta di regolamento dei conti politico. Viene usato il mio nome, e la vicenda di Etruria, come paravento per non andare ad indagare sui veri scandali. Ma le persone perbene non hanno paura della verità. Il governo a guida Pd ha penalizzato la mia famiglia, non l’ha aiutata: mio padre è stato commissariato e mandato a casa, mio fratello si è licenziato. Dov’è il favoritismo? Ma così facendo abbiamo salvato i risparmi di migliaia di correntisti: giusto così».
L’opposizione chiede che anche lei venga chiamata a rispondere. Cosa replica?
«Deciderà il presidente della Commissione. Se riaprono le audizioni, io sono a disposizione. A me la verità non fa paura, mai».
Vegas ha parlato di un suo interessamento diretto per Etruria.
«I ricordi di Vegas mi sono sembrati stranamente selettivi. Chi ha seguito la sua audizione potrebbe stupirsi davanti a certi “Non ricordo” anche su episodi molto recenti. Ma è stupefacente che l’azione del capo della Consob di questi sette anni faccia notizia per il pranzo che mi ha offerto al ristorante a Milano e non per tutto il resto. Sette anni alla Consob e quali anni: di tutto pare restare soltanto qualche incontro con la Boschi. Chissà perché...».
Lei ha detto di avere degli sms in cui Vegas le proponeva di incontrarsi in orari e luoghi, come dire, poco istituzionali. Come mai li ha conservati tutto questo tempo? E cosa pensò, all’epoca di questo tipo di invito?
«Non cancello spesso gli sms. Ne ho quindi molti in memoria, anche con altri esponenti del mondo del credito e del giornalismo. Non solo quelli con Vegas. Dal momento che mi sembrò insolita la richiesta di vederci a casa sua alle 8 del mattino, chiesi che l’incontro si svolgesse al ministero o in Consob. Non sta a me dire perché Vegas lo propose, certo io non accettai. Quanto alla serietà istituzionale di Vegas ricordo che già indicato come capo dell’Autorità di vigilanza partecipò al voto di fiducia al governo Berlusconi. E non aggiungo altro».
Domani in Commissione verrà sentito il governatore di Bankitalia Visco: è vero che lei incontrò che il vicedirettore generale di Bankitalia Panetta? Avete parlato anche di Etruria?
«Sì, certo. Come ho parlato con Panetta più volte delle crisi di altre banche. Da MPS alle popolari venete, sia nel mio precedente ruolo che in quello attuale con il governo Gentiloni. Non so dirle con quanti altri ministri Panetta abbia parlato oltre a me, sicuramente con Renzi e con Padoan, forse con altri. Con me è sempre stato molto istituzionale. Ovviamente anche con lui, nessuna pressione ma solo il necessario scambio di informazioni. Se poi interessa posso fornire elenco dettagliato di tutto il mondo bancario che ho incontrato in quattro anni al governo, da Mustier a Miccichè, da Costamagna ai responsabili delle Banche di credito cooperativo. E raccontare le discussioni sui singoli punti, sugli emendamenti. Non ho capito però se la Commissione di inchiesta vuole discutere degli scandali bancari di questi anni o della mia agenda».
L’audizione dell’ex ad Consoli ha confermato la sua presenza, seppur silenziosa, al vertice a casa di suo padre con alcuni consiglieri di Etruria e Ad e presidente di Veneto Banca. Non pensa che la sola presenza di un ministro in carica, quale era lei nella Pasqua 2014, potesse configurare un interessamento di fatto per la vicenda?
«Quando vado a Laterina dormo a casa dei miei. Ero in casa, sono arrivati degli ospiti di mio padre, li ho salutati con educazione. Come devo dire che sono stati molto educati loro. Come ha dichiarato Consoli non ho partecipato ad alcuna riunione, non sono intervenuta ed in seguito non l’ho più visto, né incontrato. Che questa sia da tre giorni la notizia di molti giornali mi suona incredibile. E io che pensavo che gli scandali fossero altri».
Mercoledì sarà la volta di Ghizzoni. De Bortoli nel suo libro ha dato una versione di un suo incontro con l’ex Ad di Unicredit legato al salvataggio di Etruria. Lei ha sempre negato pressioni, Ghizzoni non ha mai confermato né smentito. Vuole chiarire una volta per tutte?
«Più volte ho incontrato Ghizzoni per il mio ruolo istituzionale, nel caso di specie perché da lui invitata a un appuntamento Unicredit a Milano. L’ho poi visto più volte a Roma. Con Ghizzoni abbiamo parlato del sistema bancario, non solo di Banca Etruria o Unicredit. Non ho mai fatto pressioni perché Unicredit comprasse Banca Etruria, né avrebbe potuto accettarle un Amministratore delegato di una importante banca quotata. I nostri rapporti sono sempre stati corretti. E per quello che ne so il rapporto di Ghizzoni con altri membri del governo era altrettanto corretto come ha dimostrato la vicenda di Atlante seguita direttamente dal premier Renzi e dal ministro Padoan con Ghizzoni e non solo con lui. Quanto a De Bortoli, c’è un procedimento aperto, ci vedremo in Tribunale».
Ha mai pensato che se dopo la sconfitta referendaria anche lei avesse lasciato tutta questa tempesta non si sarebbe scatenata?
«Non credo di svelarle un segreto se le dico che io per prima volevo andarmene. Il presidente Gentiloni ha insistito perché fossi al suo fianco e ha fatto affidamento sul mio senso istituzionale. Gentiloni, non altri. Avrei voluto essere giudicata sulla base dei risultati, non delle chiacchiere e degli insulti. Su banca Etruria ho solo detto la verità, a partire dal discorso in Parlamento. E la mia famiglia non ha ricevuto vantaggi dalla mia attività istituzionale, anzi. Può qualcuno smentirmi su questo? Nessuno. E allora mi tengo stretta la verità e vado avanti. Anche se tanto odio ingiustificato fa male».
Travaglio, ossessione Boschi: "La minigonna con lo scioscio...", la vignetta da scandalo, scrive il 16 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano”. Ha scatenato feroci polemiche l'ultima vignetta pubblicata sul Fatto quotidiano che prende di mira la sottosegretaria Maria Elena Boschi. Il vignettista Natangelo ha ritratto l'ex ministra in quattro situazioni diverse, in base al "gradi di difficoltà" vissuto dalla Boschi, misurati con il "cosciometro": "Misurando l'altezza della gonna - si legge nella vignetta - permette di capire a che livello di difficoltà è la Boschi".
La vignetta sul «cosciometro» della Boschi, polemica in Rete: «È sessista e volgare». È polemica sui social dopo la vignetta pubblicata da «Il Fatto Quotidiano» che allude a un cambio di abbigliamento della sottosegretaria in seguito a problemi e alla luce dello scontro su Banca Etruria. «Il cosciometro» criticato da politici e utenti, scrive il 17 dicembre 2017 “Il Corriere della Sera”. Mentre si susseguono le tensioni — fuori e dentro il Pd - sul suo ruolo nella vicenda di Banca Etruria (qui lo scoop di Fiorenza Sarzanini che rivela l’incontro tra Boschi e il numero 2 di Bankitalia) È polemica sulla vignetta che rappresenta quello che viene definito «il cosciometro» di Maria Elena Boschi. Dopo l’intervento della sottosegretaria al Consiglio dei Ministri a «Otto e Mezzo» e lo scontro in tv con Marco Travaglio, ecco un altro attacco alla ex ministra.
La vignetta. «Utile strumento che misurando l'altezza della gonna, permette di capire a che livello di difficoltà e la Boschi» si legge nell'intestazione della vignetta che ritrae l'ex ministra in quattro versioni diverse: il tailleur pantalone blu del giorno del suo giuramento nel governo Renzi, poi un tailleur gonna poco sotto il ginocchio, quindi una gonna più corta e infine un abitino scollato e con la gonna cortissima, «Mi attaccano in quanto donna» il presunto commento della sottosegretaria.
Lo scontro con Travaglio. La vignetta fa satira a partire da alcune dichiarazioni di Boschi che, proprio in trasmissione a «Otto e Mezzo» mentre parlava del caso Banca Etruria dopo l'audizione del presidente della Consob, Vegas, ribatteva a Marco Travaglio. Il giornalista la accusava di aver mentito con pressioni non palesate, ma comunque dirette ad interferire con la vicenda, in quanto il padre era direttamente coinvolto. «Se fossi stato un uomo non mi avrebbe riservato questo trattamento. Lei mi odia» aveva detto Boschi. «Berlusconi è un uomo e gli ho detto le stesse cose per 20 anni. Non mi faccia ridere» ribatteva Travaglio. Ma Boschi non si fermava lì: «Lei ha scritto editoriali sin dal primo giorno su di me. E in quegli articoli vengo attaccata per l'aspetto fisico e per qualsiasi altro elemento. Ha fatto i soldi andando in giro nei teatri italiani, con un'attrice poco vestita, che in qualche modo mi scimmiottava» diceva la sottosegretaria.
Le polemiche in Rete. Ed ecco la vignetta che, di nuovo, prende di mira la 36enne. E sul web si scatena la polemica con le voci di politici e utenti comuni tra chi difende la vignetta di Mario Natangelo e il diritto di satira e chi difende la ex ministra, il suo ruolo e il suo modo di porsi in quanto donna.
Boschi a Travaglio: hai fatto i soldi con una finta me a teatro, scrive Venerdì, 15 dicembre 2017 "Affari Italiani". Maria Elena Boschi accusa Marco Travaglio durante Otto e Mezzo: "Hai fatto i soldi a teatro con un'attrice svestita che mi scimmiottava". Scontro acceso sul caso Banca Etruria tra la sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi e il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio a Otto e mezzo su La7. "Un'azione di risarcimento danni le arriverà a breve, risponderà delle bugie", dice Boschi. Che poi accusa Travaglio di sessismo: "Se fossi stata uomo non mi avrebbe riservato quel trattamento, lei ha fatto i soldi andando in teatro con una donna poco vestita che ricordava in qualche modo me". Ma Travaglio non si scompone e risponde che Silvio Berlusconi è un uomo e lo ha attaccato per 20 anni.
La Boschi tiene testa a Travaglio a Otto e mezzo, scrive il 14 Dicembre 2017 "Lineapress.it". “Non è giusto subire aggressioni sul nulla, ma non mi fanno certo paura. E voglio che tutti sappiano la verità. Dopo due anni di strumentalizzazione adesso basta. Ho chiesto a Lilli Gruber di ospitarmi stasera a Otto e Mezzo insieme a Marco Travaglio”. Così Maria Elena Boschi aveva chiuso il suo messaggio proprio mentre infuriava la bufera su Banca Etruria, subito dopo le dichiarazioni del presidente Consob nella commissione Banche. E così è stato, il Ministro parte subito in quarta, rispondendo alla domanda di Lilli Gruber sulla sua volontà di dimettersi o meno: “Non mi dimetto, le opposizioni sono due anni che ripetono la stesa cosa. Quello che ho detto in parlamento lo ribadisco: non c’è stato alcun favoritismo nei confronti della mia famiglia, anzi il governo ha mandato a casa quel Cda, in cui c’era mio padre. Inoltre è intervenuto per salvare i 2000 posti di lavoro ed i correntisti, purtroppo per le regole europee non è stato possibile intervenire sugli obbligazionisti, ma abbiamo previsto fondo di recupero dell’80%”. Poi lancia una provocazione: “Perchè non si cerca la verità su quello che è successo al sistema italiano ma ci si nasconde dietro l’alibi della Boschi per non individuare i responsabili veri? Se ci sono stati dei limiti da parte della vigilanza va accertato, quello che non è giusto è che non si parli dei veri problemi del sistema bancario ma di Banca Etruria e Maria Elena Boschi”. A questo punto interviene il Direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio che è andato subito al sodo: “A quale titolo la boschi interveniva? A quale titolo si occupa di banche, o meglio di una sola banca, Banca Etruria, perchè si occupa solo di questa banca? Se non è conflitto di interessi quale è il conflitto di interessi?” Secca la risposta della Boschi: “Travaglio è un bugiardo, dice cose che non stanno né in cielo né in terra. Vegas ha detto che non ho mai fatto pressioni ed è stato lui stesso a ribadirlo. Non c’è alcun conflitto di interessi e l’ha detto l’antitrust. Poi vorrei sapere che favori ho ricevuto? Quale è il favore nell’aver mandato a casa il Cda di cui faceva parte mio padre? Quale è il favore fatto a mio fratello che non lavora più in quella banca? o alla mia famiglia che aveva azioni solo per 10mila euro? Travaglio non può trasformare l’odio verso di me in una battaglia politica, cerchiamo almeno di rispettare la verità dei fatti!”. Qui Marco Travaglio risponde a tono, specificando prima quali siano i suoi sentimenti: “Dei miei sentimenti non frega assolutamente niente a nessuno io faccio il giornalista. Era Berlusconi che ha introdotto l’odio e l’amore in politica e dato che l’ho combattuto per 20 anni e ho visto tanti sepolcri imbiancati del centrosinistra sventolare il conflitto di interessi, mi aspetterei un atteggiamento diverso. Per questo sostengo che un ministro che incontra Consob la cui nomina è governativa sta esercitano una pressione, perchè non ha bisogno di avere alcuna pistola, gli basta essere un ministro”. Poi viene al ruolo della Boschi che, a suo dire, non ha competenze per occuparsi di Finanze. “Della crisi delle banche parla il ministro delle Finanze, Boschi è un ministro che non c’entra niente con le vicende finanziarie e va a parlare con il capo dell’Autority al quale non dovrebbe neanche avvicinarsi. Lo stesso Vegas dice ha sbagliato persona perchè la Consob non è competente per le fusioni bancarie. Questa è solo una delle tante vicende che dimostrano la sua entrata a gamba tesa. Per il suo dovere di imparzialità non avrebbe dovuto metter il becco e per questo quando è andata in Parlamento ha mentito. In un paese serio la sua carriera politica sarebbe finita oggi”. Anche qui la Boschi non si scompone e risponde a tono: “Non ho sbagliato, non ho chiesto nulla che eccedesse il mio ruolo istituzionale, e proprio per il mio ruolo l’ho incontrato così come ho incontrato altri responsabili, rispettando sempre il mio ruolo! Quella con Vegas è stata una chiacchierata a fronte della quale Banca Etruria, pochi mesi dopo, è stata commissariata… voglio capire quale sia la corsia preferenziale e quale il favoritismo? Aver fatto una chiacchierata?”
Solo Dostoevskij può spiegare la corsa dei politici in tv dal pm Travaglio. Da Ciancimino jr. ai nuovi depistatori, così il giornalista più che un Inquisitore è diventato il protettore dei pataccari, scrive Guido Vitiello su "Il Foglio” il 15 Dicembre 2017. I tribunali dei talk-show funzionano a pieno regime da un quarto di secolo senza uno straccio di codice di procedura; ma se qualcuno mi dà una mano con il latino suggerisco di piantare almeno la bandierina di un brocardo, traducendo una frase di Rodolfo Wilcock che ogni imputato televisivo dovrebbe stamparsi nella mente: “L’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori”. Questo ho pensato quando Maria Elena Boschi ha chiesto di rendere dichiarazioni spontanee...
Una triste gara tra bugiardi. Per la seconda settimana Panorama inchioda i protagonisti della vicenda Boschi. Ma la vicenda viene ignorata. E cade nel silenzio, scrive il 29 gennaio 2016 Giorgio Mulè su Panorama”. Per la seconda settimana ci occupiamo con la storia di copertina del caso Boschi. Lo facciamo perché nuovi documenti e nuove circostanze inchiodano i protagonisti di questa vicenda alle loro responsabilità. Ai lettori di Panorama non sarà sfuggito che i telegiornali nazionali, al contrario di tutti i quotidiani, hanno ignorato la vicenda. Il perché è chiaro anche a un bambino: la narrazione renziana non accetta alcuna nota stonata che possa disturbare la dolce e fallace melodia del premier. Decidere di assecondare questa marcetta è problema di coscienza (deontologica e personale) che ognuno vedrà di risolvere con se stesso. Di certo è assai significativo che non una parola, foss'anche per accusare Panorama di aver montato strumentalmente un caso (un classico, insieme alla sempiterna gnagnera della "macchina del fango"), sia stata pronunciata sulla vicenda dai prolifici gendarmi renziani. Anche in questo caso il busillis è di assai facile soluzione: i fatti non si possono smentire neppure con una spericolata arrampicata semantica. I nuovi elementi che offriamo in questo numero stanno lì, copiosi, a suggerire ai protagonisti di trarre ognuno per la propria parte le conclusioni. L'immagine che ritrae il 24 ottobre 2013 Pier Luigi Boschi, all'epoca indagato dalla Procura di Arezzo per estorsione, in platea a seguire un convegno organizzato dalla stessa Procura mentre il suo "inquisitore" Roberto Rossi disquisisce di "imprese e legalità" con l'onorevole Maria Elena Boschi in prima fila, vale più di ogni editoriale. In quell'istantanea manca solo l'avvocato aretino Giuseppe Fanfani, difensore di Boschi, che ritroviamo oggi al Consiglio superiore della magistratura - indicato dal Pd di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi - nella veste di "giudice" che dovrà decidere se trasferire ad altra sede il magistrato che indagò sul suo assistito. Il Csm è organo indipendente di rilevanza costituzionale ed è la sede dove va tutelata l'autonomia e l'indipendenza della magistratura: l'avvocato Fanfani, a fronte del diniego assoluto di Rossi pronunciato proprio davanti alla prima commissione del Csm di conoscere alcun membro della famiglia Boschi, avrebbe avuto il dovere di segnalare che la circostanza era quantomeno inesatta essendo stato lui "controparte" di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Pier Luigi Boschi. Non lo ha fatto e così è venuto meno al suo ruolo di "garante": non basta adesso cavarsela magari con una pilatesca astensione quando il plenum del Csm (che solo grazie a Panorama ha evitato in extremis di archiviare tutto) sarà chiamato a votare se trasferire o meno Rossi. Su Fanfani pesa l'ombra di un favoritismo (familismo, stavo per dire), rileggendo oggi chi lo ha voluto al Csm, francamente insopportabile per il decoro delle istituzioni. Va da sé che anche la presenza di Rossi come titolare delle indagini su Banca Etruria (di cui Pier Luigi Boschi è stato vicepresidente già sanzionato da Banca d'Italia con una multa di 144 mila euro) è imbarazzante alla luce delle rivelazioni di Panorama e non garantisce la serenità delle parti offese, cioè i risparmiatori, rispetto alla sua autonomia e indipendenza. E in ultimo eccoci al ministro Maria Elena Boschi, silente dopo il nostro scoop. Atteniamoci alla sua versione sulla totale "purezza" del padre, che però presuppone che: nulla sapesse che il babbo aveva definito nell'aprile 2014 un procedimento penale per dichiarazione infedele (volgarmente chiamata evasione fiscale) grazie al pagamento di una multa a fronte di un versamento in nero di 250 mila euro; nulla sapesse che quella multa era legata a un'inchiesta iniziata nel 2010 e condotta dal procuratore Rossi il quale aveva fatto anche perquisire la casa dove lei risiedeva con il padre. Mi fermo qui e mi chiedo: come può governare l'Italia un ministro che non sa quello che succede a casa sua?
La strana loggia top secret dell'amico dei papà illustri. Il massone Mureddu è legato ai padri di Renzi e della Boschi. E la sua società occulta è nel mirino dei pm di Perugia da 2 anni, scrive Luca Fazzo, Lunedì 18/01/2016, su "Il Giornale". Ci sono logge e logge: quelle che al primo inciampo in una inchiesta finiscono in prima pagina sui giornali, e altre la cui esistenza viene invece tenuta rispettosamente lontano dai riflettori, anche dopo il loro ingresso in un fascicolo processuale. A restare a lungo sotto traccia è stata, per esempio, la associazione segreta che ruota intorno all'imprenditore aretino Valeriano Mureddu, buon amico sia del padre di Matteo Renzi, presidente del Consiglio, che di quello di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme. Degli intrecci tra Mureddu e i due illustri papà si parla finalmente da qualche giorno, e negli ambienti governativi l'imbarazzo è pari solo al silenzio. Ma ora si scopre che da quasi due anni, da marzo 2014, la procura di Perugia ha in mano tutte le carte relative alla società occulta guidata da Mureddu, avendole trovate nel corso di una perquisizione presso la sua azienda a Civitella Val di Chiana, una dittarella di nome Geovision specializzata nel commercio di sacchetti e altri articoli in plastica. Ma la modestia dei suoi affari ufficiali non impedisce a Mureddu di allacciare amicizie importanti. Con Tiziano Renzi è praticamente compaesano, avendo vissuto a lungo a Rignano sull'Arno, mentre con Pierluigi Boschi ha stretto amicizia quando il padre di Maria Elena invece che di banche si occupava di vini e cantine sociali. E nei due anni trascorsi dalla scoperta delle carte segrete, gli amiconi di Mureddu hanno continuato a fare carriera. Compresi Tiziano Renzi, Pierluigi Boschi, e soprattutto i loro brillanti figlioli. Eppure nella carte dell'inchiesta della procura umbra compaiono nomi che sono presenze fisse delle indagini che periodicamente, dagli anni '80 in poi, portano alla ribalta l'esistenza di consorterie segrete. Nei contatti di Mureddu c'è per esempio quel Gianmario Ferramonti, politico di insuccesso in area leghista, che esattamente 20 anni fa fu indicato in una indagine della procura di Aosta (battezzata Phoney Money, e finita in nulla) come uomo-cerniera di affari leciti e illeciti che coinvolgevano mezzo firmamento politico dall'Italia all'America; e tra i contatti c'è anche quel Flavio Carboni che era già nelle liste P2, che fu condannato per il crac del Banco Ambrosiano, e che a 84 anni continua a mantenere buoni rapporti con l'Italia che conta: compreso uno dei grandi alleati di Renzi, l'ex coordinatore di Forza Italia Denis Verdini, imputato insieme a lui nel processo P3. Cosa facciano tutti insieme Mureddu, Ferramonti, Carboni e i loro amici, quale sia il core business della nuova loggia scoperta dalla procura di Perugia, è tema un po' fumoso: Mareddu si proclama massone e si vanta di avere lavorato per i servizi segreti, non si capisce per quali e in che veste. «Ho relazioni in giro per il mondo - dice di sé - mi vengono proposti degli affari e io a mia volta li propongo a chi penso che possa portarli a termine». Un faccendiere, insomma. Affari non sempre fortunati e cristallini, visto che anche la procura di Arezzo ha messo il 46enne sardo nel mirino per evasione fiscale. E tra gli affari di Mureddu, quello che ora lo ha portato alla ribalta è quello combinato per conto di Pierluigi Boschi, all'epoca in cui il padre della ministra cercava un direttore generale da piazzare nella Banca dell'Etruria. Come e perché babbo Boschi si sia ridotto a cercare la consulenza di uno come Mureddu è allo stato inspiegabile, e ancora di più lo è la circostanza che si sia fatto convincere a partecipare a un summit nell'ufficio romano di Carboni. E ad accogliere l'idea suggerita dalla coppia Mureddu-Carboni, quella del banchiere Fabio Arpe, portata all'esame del cda, ma bloccata poi dall'ufficio di vigilanza della Banca d'Italia.
L'imprenditore Starace a Libero: "Vi spiego come Flavio Carboni lavorava per papà Boschi", scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano" del 20 gennaio 2016. Da ragazzo spaccava ossa giocando a rugby nelle Fiamme oro della Polizia di Stato, oggi le aggiusta nei centri di riabilitazione di cui è proprietario. La voce è gioviale: «Premetto: non sono massone. Io non c’entro nulla». Inizia così la conversazione con il quarantaduenne romano Riccardo Starace, l’uomo che avrebbe dovuto trovare un direttore generale e un fondo arabo per salvare la Banca dell’Etruria.
Lei conosce Valeriano Mureddu, il «grembiulino» indagato a Perugia per associazione segreta e amico di Flavio Carboni?
«Non l’ho mai visto. Carboni invece lo avevo conosciuto, due settimane prima degli incontri dell’estate del 2014 di cui voi di Libero state scrivendo in questi giorni, al Piccolo mondo antico, un ristorante vicino al suo ufficio romano di via Ludovisi. Il proprietario del locale mi presentò questo signore anziano... era con la figliola».
Lei sapeva chi fosse Carboni?
«All’inizio no, ammetto la mia ignoranza (ride ndr). Il mio amico mi disse: “Guarda Riccardo è una persona con una grande esperienza, ti può essere utile conoscerlo”. Ho detto: “Va bene”. È cominciata così questa storia».
Perché è rimasto in contatto con Carboni?
«Chiacchierando gli dissi che avevo rapporti con un fondo impegnato nel settore della sanità, l’Enterprises di Sheikh Bin Ahmed Al Hamed. Allora mi parlò subito di un suo progetto, il grafene, un materiale rivoluzionario che dovrebbe servire a pulire e rendere potabile l’acqua, risolvendo il problema della sete in Africa, e mi disse di andare a trovarlo in ufficio. Il suo fu in pratica un monologo. Però prima di andare controllai su Internet chi fosse e vidi che era una persona di un certo peso per la storia dell’Italia, nel bene e nel male».
Ha una condanna di tipo definitivo per il crac del Banco Ambrosiano ed è imputato per la P3...
«Ecco... appunto. Si trattava di cose abbastanza delicate e visto che io ho lavorato sette anni nella Polizia di Stato, ci andai cauto. In ufficio mi coinvolse subito riparlandomi di questa storia del grafene e chiedendomi informazioni sul fondo di Abu Dhabi. Poi mi disse che c’era una banca in difficoltà finanziaria e io gli risposi: “M’informo con gli arabi”».
Non doveva andarci cauto?
«La verità è che io non ho avuto nemmeno il coraggio di parlare di questa cosa a Sheik Alamed, ma con Carboni non potevo essere scortese. Con me fu subito gentilissimo, avvolgente, non avevo motivo per essere scortese con lui. L’avevo visto dieci minuti al tavolo e improvvisamente mi chiedeva di salvare una banca. Le sembrerò un ballista, ma è andata così».
Però lei non parlò solo del fondo con Carboni, ma anche del nuovo direttore generale...
«A un certo punto, in quella chiacchierata di mezz’ora, Carboni mi accennò a una nomina da fare per la banca. Quindi mi chiese il numero di telefono e io a una persona tanto gentile come potevo negarlo? Pensavo che avrei saputo difendermi dalla sue avances... Invece iniziò a bombardarmi di telefonate, anche la domenica: mi chiedeva di questo fondo e poi di ritornare nel suo ufficio. Mia moglie in quel periodo non mi telefonava così tante volte. Poi un giorno ci siamo rivisti, casualmente, in via Ludovisi, subito dopo pranzo. Mi acchiappò sul marciapiede e mi disse: “Come stai carissimo, sali un attimo con me, ti devo parlare della posizione della banca”. E io salii con lui...».
In ufficio c’era anche lo scienziato russo, il presunto coinquilino di Carboni?
«Non ho mai incontrato russi in quello studio. Quando entrammo mi disse: ho delle persone che mi attendono, vieni che te le presento. Io ero nell’imbarazzo più totale».
Chi c’era insieme a Carboni in ufficio?
«Tutti quelli che ha raccontato nell’articolo, così facciamo prima».
L’ex presidente Lorenzo Rosi, il suo vice Pier Luigi Boschi e l’imprenditore Mauro Cervini?
«Sì c’erano loro tre».
E Gianmario Ferramonti, l’imprenditore amico di Licio Gelli?
«Non in quell’occasione, forse in altre...»
Dove erano Boschi e Rosi?
«Erano seduti amabilmente in una grande sala riunioni e Carboni mi ha presentato come un amico imprenditore con ottimi contatti con un fondo arabo».
I due banchieri che persone le sembrarono?
«Timidi e taciturni. Ricordo che erano vestiti elegantemente, con l’abito. Sembravano stupiti, quasi imbarazzati per la mia età. Probabilmente non si immaginavano un “salvatore” così giovane. Quando Boschi mi ha detto il suo cognome, visto che la figlia era appena stata nominata ministro, ho fatto due più due e ho intuito chi fosse».
Che cosa vi siete detti?
«Ci siamo solo salutati. Anche in quell’occasione ci fu quasi un monologo di Carboni».
Perché hanno chiesto a lei il nome del direttore generale?
«Non ne ho idea, ma la cosa mi lasciò incredulo. Era come se mi dicessero: tu ci trovi il fondo che porta i soldi e noi facciamo un favore a un tuo amico».
Lei propose il vicedirettore generale della Popolare del Frusinate Gaetano Sannolo...
«L’ho conosciuto quando era direttore della filiale della Cassa di risparmio di Firenze di cui ero cliente. Con me è sempre stato carino e corretto. Io feci il suo nome così, in modo quasi goliardico, anche se pensavo che fosse una persona giovane e dinamica. Inizialmente non avevo dato peso a quella richiesta».
Neanche quando le presentarono Pier Luigi Boschi?
«In quel caso rimasi veramente stupito. Dentro di me pensai: “Andiamo bene”, perché non aveva senso tutto quello che stava accadendo. Capisco che le possa sembrare assurdo, ma andò così».
Che spiegazione si è dato?
«Forse venni presentato a Rosi e Boschi come una persona più importante di quella che in realtà fossi. A Carboni, invece, devo essere entrato in simpatia e per questo fatto del fondo mi si era pure un po’ attaccato, questo sì».
Quanto durò l’incontro con Boschi e Rosi?
«Pochi minuti, meno di una decina. Poi andai via».
Avete discusso anche del direttore generale?
«Sulla questione venne fatto un accenno, ma non ne parlammo approfonditamente in quell’occasione».
E quando lo avete fatto?
«In un terzo incontro, in cui presentai il mio amico Gaetano al dottor Carboni. Sorridendo gli dissi: “Dai andiamo a sentire”. Ma successivamente Sannolo fu chiamato davvero a fare il colloquio ad Arezzo. Non ci potevamo credere. In quei giorni ci sentivamo in continuazione per scherzare. Gli suggerii di chiedere un super stipendio, pensavamo che il mondo si fosse capovolto. Il suo nome è uscito pure sul Sole24ore».
Quella mi risulta sia stata una fuga di notizie orchestrata all’interno della banca per bruciare il nome del suo amico...
«Lo immaginavo. In ogni caso Carboni improvvisamente cambiò atteggiamento».
Forse perché lei gli aveva detto che il fondo non era disponibile...
«Infatti. Da quel momento iniziò a diradare le chiamate, quindi ha proprio smesso. Non lo vedo e non lo sento più dalla fine di quell’estate».
Non la stupì che Rosi e Boschi si fossero messi nelle mani di Carboni?
«Molto. Mi sembrò una situazione surreale».
Quando capì che il padre della ministra era lì a farsi consigliare il direttore generale della sua banca da lei che cosa pensò?
«“Non è possibile”. Non ci volevo credere, era inverosimile...».
Ha conosciuto Ferramonti l’uomo che consigliò il nome dell’altro candidato alla direzione generale, il banchiere Fabio Arpe?
«Sì, nel 2014, a Roma, mentre ero impegnato nel lancio di un neonato movimento politico. Si presentò lui, mostrandosi interessato a quella mia iniziativa. L’ho rivisto qualche volta nella Capitale. In una di quelle occasioni incontrammo casualmente Carboni nel solito ristorante. Sembrava che i due non si vedessero da tempo e si scambiarono il numero di telefono davanti a me. Parlarono anche di questa cosa della banca».
In pratica la Popolare dell’Etruria era una delle ossessioni di Carboni?
«Con me ha discusso solo di quella e del grafene».
E per salvarla si è affidato a due che aveva incontrato al ristorante?
«Lei ride, ma all’epoca ho riso di più io. Certo non vorrei apparire come una persona incapace di intendere e di volere, ma è andata proprio così». Di Giacomo Amadori.
Il terreno di papà Boschi in odore di 'ndrangheta. Il manager nel 2010 venne indagato per estorsione e riciclaggio per l'acquisto di una fattoria: il pm Rossi archiviò tutto ma adesso rischia un'azione disciplinare. La strana compravendita e quei 250mila euro in nero, scrive Anna Maria Greco, Venerdì 22/01/2016, su "Il Giornale". Il procuratore di Arezzo Roberto Rossi ha fatto di tutto per non farsi salvare dal Csm. La prima bugia su Pier Luigi Boschi e Banca Etruria gli è stata perdonata, ma la seconda fa riaprire il suo caso, che sembrava avviato all'archiviazione. E non rischia solo il trasferimento d'ufficio, ma anche un'azione disciplinare. Il procuratore generale della Cassazione ha infatti chiesto gli atti al Csm, evidentemente per una preistruttoria disciplinare. Rossi, infatti, potrebbe aver violato l'obbligo di astensione dall'inchiesta su Banca Etruria ed essere accusato di dichiarazioni infedeli al Csm. Ma i suoi guai potrebbero non fermarsi qui. Perché sembra che da Arezzo stia uscendo nuovo fango dalle vecchie inchieste sul padre del ministro Maria Elena e il pm ha fatto archiviare, forse con troppa facilità. Prima di diventare procuratore e di diventare consulente di Palazzo Chigi. A cambiare le carte in tavola sono le notizie di Panorama sul fatto che il titolare dell'inchiesta su Banca Etruria quando era sostituto procuratore ha indagato Boschi nel 2010 per turbativa d'asta e riciclaggio, poi per estorsione nel 2013. A febbraio il papà viene iscritto nel registro degli indagati e Maria Elena diventava ministro, a luglio Rossi inizia la consulenza con il governo, a novembre archivia tutto. Eppure al Csm Rossi, sotto esame per la possibile incompatibilità tra il suo ruolo di inquirente del padre del ministro e la consulenza con Palazzo Chigi, disse di non conoscere nessuno della famiglia. Ieri il pm è corso ai ripari inviando una lettera a palazzo De' Marescialli, spiegando: «L'ho indagato, ma non lo conoscevo». Troppo tardi. La prima commissione aveva creduto alle sue giustificazioni quando aveva negato che papà Boschi facesse parte del consiglio «informale» della banca che rifiutò l'opa della Banca Popolare di Vicenza senza informare il Cda, mentre Bankitalia sosteneva il contrario. Una confusione tra la prima gestione Forsasari e la seconda Rosi, aveva assicurato. Ma stavolta, la fiducia ottenuta al Csm evapora. E tra i consiglieri c'è molta irritazione per la sua seconda e più pesante bugia. Ha taciuto di aver già indagato Boschi, un personaggio molto noto ad Arezzo anche al di là del ruolo politico della figlia. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico di un ennesimo equivoco in cui sembra essere caduto il procuratore», ironizza il laico di Fi Pier Antonio Zanettin. È lui, che aveva voluto l'apertura della pratica su Rossi a chiedere ora una nuova istruttoria. La delibera assolutoria, che aspettava solo l'ok del plenum, viene sospesa. «A tutela della trasparenza e della credibilità dell'operato della magistratura la prima Commissione ha deciso all'unanimità un ulteriore approfondimento sulla vicenda Rossi, alla luce di circostanze che emergerebbero da articoli di stampa», spiegano i togati di Area Piergiorgio Morosini (relatore) e Antonello Ardituro. Gli atti sono già stati inviati al Pg della Cassazione per gli accertamenti disciplinari, mentre per verificare l'incompatibilità il Csm ha chiesto informazioni al procuratore generale di Firenze. La relazione potrebbe arrivare per la riunione di lunedì. E si potrebbe anche convocare di nuovo Rossi. Dovrà spiegare come mai ha dimenticato che 6 anni fa ha indagato Boschi (con altre 8 persone) per irregolarità nell'acquisto della grande tenuta Fattoria di Dorna per 7,5 milioni (era valutata almeno 9), da parte della coop Valdarno superiore che presiedeva, poi diventata una società di cui Pier Luigi aveva il 90 per cento e il resto era del crotonese Francesco Saporito, in odore di 'ndrangheta. E anche di aver indagato una seconda volta nel 2013 Boschi, perché un certo Apolloni che acquistò un podere della tenuta lo accusò di essersi fatto pagare in nero 250mila euro su 460 mila.
Pier Luigi Boschi, già indagato (e prosciolto) sei anni fa. Le archiviazioni per le accuse di turbativa d'asta e estorsione, furono del pm che oggi indaga su Banca Etruria: lo scrive "Panorama" il 20 gennaio 2016. La posizione di Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente di Banca Etruria, è al vaglio della Procura di Arezzo insieme a quella di altri membri del disciolto consiglio d’amministrazione. Non sarebbe comunque la prima volta che il padre del ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, si trova indagato. Nel numero in edicola da domani, giovedì 21 gennaio, il settimanale Panorama ricostruisce nei dettagli una vicenda giudiziaria risalente a sei anni fa, nella quale Boschi padre fu indagato ad Arezzo per i reati di turbativa d’asta ed estorsione, e venne per due volte prosciolto su richiesta del magistrato Roberto Rossi, oggi divenuto procuratore della città toscana, nonché lo stesso magistrato che oggi indaga sul dissesto di Banca Etruria e che è stato consulente del governo Renzi. La vicenda, che fino al 2014 coinvolse Pier Luigi Boschi e altri otto indagati, riguardava la compravendita, nel 2007, di una grande tenuta agricola posseduta dall’Università di Firenze. Malgrado il proscioglimento, restano senza risposta due domande, relative a 250 mila euro in contanti che un successivo acquirente di parte della tenuta affermò di avere personalmente consegnato a Boschi. Da una parte non si sa dove siano effettivamente finiti quei soldi, ma non si sa nemmeno perché la Procura di Arezzo non abbia mai indagato per calunnia chi affermava fossero stati versati.
Boschi: si riapre l'istruttoria sul pm Roberto Rossi, dopo l'inchiesta di Panorama. Il Csm vuole chiarire la posizione del magistrato che, come riportato dal nostro giornale, archiviò le accuse nei confronti del padre del ministro, scrive "Panorama" il 21 gennaio 2016. Giornata nera per il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, titolare delle inchieste su Banca Etruria. Il comportamento del pm è finito al vaglio del Procuratore generale della Cassazione Pasquale Ciccolo, titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati. E la Prima Commissione del Csm ha riaperto l'istruttoria sul suo conto. A mettere nei guai il procuratore, le indagini svolte negli anni passati su Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria. Procedimenti conclusi con due richieste di archiviazione ma di cui il pm non aveva fatto cenno nelle sue audizioni davanti ai consiglieri del Csm, ai quali aveva invece assicurato di non conoscere "nessuno della famiglia Boschi". Poi è arrivato il servizio di copertina del nostro giornale, in edicola da oggi, in cui si racconta delle indagini di Rossi su Pierluigi Boschi per turbativa d'asta e estorsione, andate avanti dal 2007 sino al 2014 e che sarebbero state legate alla compravendita di una grande tenuta agricola dell'Università di Firenze. Venuto a conoscenza del nostro servizio, Rossi ha pensato di giocare d'anticipo inviando una lettera al Csm in cui ha scritto di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Pierluigi Boschi, padre del ministro per le Riforme Maria Elena ed ex vice presidente di Banca Etruria, ma ha confermato di non aver mai avuto occasione di incontrarlo. Nella sua lettera Rossi parlerebbe di più procedimenti, sui quali ora la Commissione (che solo due giorni fa aveva deciso di archiviare il fascicolo che lo riguarda) intende fare approfondimenti, accogliendo all'unanimità la richiesta del laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin: verificare quali vicende hanno riguardato e che esito hanno avuto. Il primo passo sarà a richiesta di informazioni e della documentazione relativa al Procuratore generale di Firenze, l'organo di vertice del distretto. "Ascoltare di nuovo il procuratore Rossi? Per ora no: lo abbiamo sentito due volte e abbiamo ricevuto da lui tre comunicazioni scritte". Lo dice il presidente della Prima Commissione del Csm Renato Balduzzi, che spiega come la lettera fatta recapitare a Palazzo dei Marescialli, in cui Rossi parla di precedenti procedimenti penali riguardanti Pierluigi Boschi dei quali aveva avuto occasione di occuparsi sia il "fatto nuovo", che ha spinto oggi la Commissione a "sospendere la delibera di archiviazione e a procedere ad ulteriori approfondimenti istruttori". "Dobbiamo conoscere quali sono queste vicende e quale esito hanno avuto" dice Balduzzi, precisando che nella lettera il procuratore fornisce anche chiarimenti sul "disallineamento" tra quanto sta emergendo e le sue dichiarazioni nell'audizione di dicembre davanti al Csm. L'ottica dell'intervento della Commissione non cambia: "garantire la massima serenità alla procura di Arezzo". "Non solo Banca Etruria e massoneria deviata. Ora su papà Boschi arrivano anche le ombre, carte della DDA alla mano di aver fatto affari con uomini legati alla 'ndrangheta. A questo punto il ministro Maria Elena Boschi deve rassegnare le dimissioni, perché una pesantissima e insopportabile ombra politica aleggia sulla sua famiglia ed anche su tutte le false riforme che hanno distrutto la Costituzione repubblicana. Del resto la deforma Boschi non sarebbe mai passate senza gli accordi ed i voti del plurinquisito Denis Verdini". Lo scrive in una nota il capogruppo M5S Senato Mario Giarrusso, "dopo la pubblicazione delle notizie che nel 2007 Pierluigi Boschi portò a termine un grosso affare immobiliare insieme a un socio calabrese, Francesco Saporito, che secondo la DDA di Firenze era legato alla 'ndrangheta crotonese". Il senatore pentastellato fa riferimento ad un'inchiesta pubblicata dal settimanale Panorama. "Di questo argomento se ne dovrà far carico anche la Commissione d'inchiesta parlamentare antimafia", conclude il capogruppo M5S.
I pasticci del signor Boschi. Il padre del ministro fu indagato per estorsione. In un'inchiesta archiviata dal pm del crac di Etruria. Che al Csm aveva giurato di non conoscerlo, scrive il 25 gennaio 2016 Antonio Rossitto su Panorama. Ecco il testo integrale dell'inchiesta di copertina di Panorama sulle indagini del pm Rossi (poi archiviate) che hanno coinvolto papà Boschi. L'inchiesta ha consentito la riapertura di un'istruttoria sul pm, prima archiviata (come spieghiamo qui).
Da giorni, il tormentone giudiziario che inzacchera la politica italiana è sempre lo stesso: "Papà Boschi sarà indagato?". Il riferimento è all’inchiesta sul fallimento di Banca Etruria. E al ruolo che in quel crac avrebbe avuto Pier Luigi Boschi: dal 2011 consigliere d’amministrazione dell’istituto aretino, poi membro del comitato esecutivo e infine vicepresidente dal 2014 fino al febbraio 2015. Un accostamento che reca più di qualche imbarazzo alla "figliola" Maria Elena, ministro delle Riforme, già costretta a misurate prese di distanza mentre si sta avvicinando la delicata discussione al Senato della mozione di sfiducia al governo, prevista per martedì 26 gennaio e presentata da Forza Italia, cui si è aggiunta il 19 gennaio una mozione presentata dal Movimento 5 stelle: "Se mio padre venisse indagato" ha dichiarato l’11 gennaio il ministro "come qualunque altro cittadino dovrebbe trovarsi un avvocato, e seguire ovviamente tutta la vicenda, ma questo non avrebbe un impatto su di me".
L'inchiesta del 2010. Una trafila che l’ex vicepresidente di Banca Etruria, suo malgrado, ha già sperimentata esattamente sei anni fa. Panorama è in grado di rivelare i dettagli di un’inchiesta della Procura di Arezzo in cui il padre del ministro è stato indagato prima per turbativa d’asta e poi per estorsione. Un procedimento penale aperto nel gennaio 2010 e concluso nel novembre 2014 grazie a una serie di archiviazioni, sollecitate da Roberto Rossi: lo stesso pubblico ministero oggi divenuto procuratore della Repubblica della città toscana e titolare del fascicolo su Banca Etruria nonché consulente, dal novembre 2013 allo scorso dicembre, per gli affari giuridici dei governi Letta e Renzi, cioè lo stesso esecutivo di cui fa parte Maria Elena Boschi. L’indagine ricostruita da Panorama vede Pier Luigi Boschi, più di sei anni fa, nelle inedite vesti di mediatore immobiliare. Si tratta di una vicenda che, alla luce degli ultimi episodi che lo hanno visto protagonista, confermano la propensione di Boschi senior a finire invischiato in vicende poco trasparenti. E la sua tendenza a farsi consigliare da persone di discutibile fama, come svelato dal quotidiano Libero, dal sedicente massone e agente segreto Valeriano Mureddu al faccendiere Flavio Carboni, a processo come presunto capo della P3: a loro e a Gianmario Ferramonti, vecchio amico di Licio Gelli, Boschi chiese aiuto per la nomina del nuovo direttore generale nel pieno della bufera sull’istituto di credito. Che finora gli è costata una sanzione di 144 mila euro, comminata dalla Banca d’Italia nel novembre 2014 per la "mala gestio" della cassa aretina. Multa alla quale si potrebbe aggiungere tra poco un’ulteriore, salatissima sanzione, dopo le dieci nuove contestazioni mosse da via Nazionale.
Il socio "legato alla 'ndrangheta". Nell’inchiesta della Procura di Arezzo partita nel 2010, il padre del ministro si trova coinvolto in un girone assai fosco: socio di un imprenditore calabrese dipinto dalla Direzione distrettuale antimafia di Firenze come "legato alla ‘ndrangheta", promotore e garante di un affare milionario su cui si allunga l’ombra del riciclaggio, accusato di aver ricevuto in nero 250 mila euro per la vendita di un podere. Circostanze che non sono approdate ad alcun processo. Un anno fa Boschi è uscito di scena. Lasciando però dietro, come confermato a Panorama da chi prese parte a quell’affare, molte domande ancora senza risposta.
La Fattoria di Dorna. "Procedimento penale 499/2010" dettagliano gli atti dell’inchiesta, intestata a "Boschi più 8": nove persone indagate per turbata libertà degli incanti e riciclaggio. L’asta oggetto delle verifiche è la cessione della "Fattoria di Dorna" di Civitella Val di Chiana, a pochi chilometri da Arezzo: 303 ettari di terreno, tra vigneti, oliveti, seminativi e boschi. E 12 immobili: un edificio padronale, sette case coloniche e quattro fabbricati. È una grandissima tenuta, posseduta dall’Università di Firenze. Che nel luglio 2005 la mette all’asta: la base di gara è 9 milioni di euro. La proprietà viene poi venduta più di due anni dopo, il 12 ottobre del 2007. Ma con una trattativa privata. Così la "Fattoria di Dorna" è acquistata dalla "Valdarno superiore società cooperativa agricola", su iniziativa del presidente del suo consiglio d’amministrazione, Pier Luigi Boschi. Il prezzo è d’occasione: 7,5 milioni. La cifra, annoterà la Guardia di finanza di Arezzo, è notevolmente inferiore rispetto ai valori di mercato. È soprattutto più bassa rispetto a precedenti offerte ricevute dall’ateneo fiorentino. La cooperativa guidata da Boschi si aggiudica comunque il lotto, dichiarando però di "partecipare per sé o persona da nominare". L’indicazione dell’acquirente avviene il 9 novembre 2007: il preliminare e il successivo rogito saranno sottoscritti dalla "Fattoria di Dorna società agricola". Un’impresa ufficialmente nata poco dopo, il 29 novembre 2007, di cui è socio al 90 per cento lo stesso Boschi. Le altre quote sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare originario di Petilia Policastro, in provincia di Crotone. È proprio il suo ingresso in un affare così importante, assieme a moglie e figli, a mettere in allerta gli inquirenti. Sempre la Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, descrive i Saporito come "soggetti che risulterebbero essere i referenti nella provincia di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta". Una successiva nota dei finanzieri, del 5 febbraio 2010, dettaglia altri investimenti milionari della famiglia calabrese: fabbricati, uliveti e terreni. "Gli esigui redditi della famiglia non sono sufficienti ad affrontare uno solo degli innumerevoli acquisti" analizza l’informativa, che "ipotizza sistematiche operazioni di riciclaggio", visti anche "gli importanti precedenti penali dei compenti della famiglia". E sottolinea addirittura la circostanza di un "tentativo di omicidio in capo a Saporito Mario", il figlio di Francesco.
Il ruolo attivo di Boschi senior. Eppure Boschi senior non si lascia impensierire dalla fama dei Saporito. Anzi, è proprio lui a proporre al capofamiglia di costituire la «Fattoria di Dorna» società agricola. Lo sostiene lo stesso Francesco Saporito, interrogato il 21 aprile 2010: "Un compaesano che conosco da 40 anni mi presentò a tale Pier Luigi Boschi, che era il presidente della Cantina Valdarno superiore. Mi informò che dei terreni di Dorna, che la sua cooperativa aveva in affitto erano in vendita. E mi prospettò l’idea di costituire una società tra me e lui, per acquistare l’intero complesso. Boschi mi disse anche che, per quell’operazione, la Cantina aveva già versato all’università 800 mila euro. Per questo, a novembre del 2007, costituimmo la Fattoria di Dorna con Boschi al 90 e io al 10 per cento". Nei mesi seguenti, però, la quota del padre del ministro si ridurrà progressivamente. Fino al maggio 2009, quando Boschi esce dalla società per fare posto a Carmela Londino, moglie di Saporito. L’imprenditore calabrese racconta anche di aver ottenuto, per l’acquisto della fattoria, un mutuo agrario di quasi 4 milioni di euro dall’agenzia di Montevarchi del Monte dei Paschi di Siena e di esserci riuscito "grazie all’interessamento del Boschi". Il ruolo di Boschi sarebbe andato però anche oltre. A Dorna c’erano 42 mila metri quadri di zona edificabile. "Mi assicurò che avrebbe fatto da tramite con la politica e i professionisti del posto" dice adesso Saporito a Panorama. "Mi fece incontrare due volte un sindaco. Ma nessuno mi ha mai permesso di toccare una pietra. Perché sono calabrese. E noi calabresi siamo tutti mafiosi. Appena ci sono stati i primi problemi, Boschi è sparito. Ho ipotecato tutto e m’hanno rovinato".
L'iscrizione nel registro degli indagati. L’ex presidente di Banca Etruria si adopererà però anche, come emerge chiaramente dall’inchiesta della Procura di Arezzo, per trovare persone ed enti interessati ad acquistare piccole parti dell’immenso podere rilevato con Saporito. E proprio per una di queste compravendite che il procuratore Rossi, a febbraio del 2013, iscrive l’ex vicepresidente di Banca Etruria nel registro degli indagati con l’accusa di estorsione, in concorso con Tulio Marcelli, presidente in Toscana della Coldiretti, l’associazione per cui Boschi senior ha lavorato a lungo. Come emerge dalle carte investigative, sarebbe stato proprio Marcelli a presentare Boschi a M.A., possibile acquirente di un podere. Ma il numero 1 dell’associazione toscana degli agricoltori, contattato da Panorama, svicola: "È una vicenda in cui ho avuto un ruolo del tutto marginale" dice. "Dell’inchiesta mi aveva parlato Pier Luigi, di cui sono amico. Ma non sapevo nemmeno di essere stato indagato". È Marcelli però, racconta M.A. sentito dagli investigatori il 17 marzo 2010, a prospettargli l’acquisto di un podere di due ettari. Per questo, lo mette in contatto con Boschi, "come rappresentante della cooperativa agricola “Fattoria di Dorna”. M.A. nell’interrogatorio chiarisce: "Lo stesso Marcelli mi rappresentò le richieste di Boschi e del suo socio, Saporito: mi venne richiesta la cifra di 480 mila euro. Con la specifica che, di questa cifra, 270 mila euro dovevano essere dati in contanti". Dopo una contrattazione, il prezzo viene abbassato a 460 mila euro. Il 19 dicembre 2008, nello studio del notaio Fabrizio Pantani di Arezzo, si procede dunque all’atto: il prezzo indicato è di 210 mila euro. "La differenza tra l’importo rogitato e quello effettivo, pari a 250 mila euro" rivela M.A. "fu consegnata da me nelle mani del Boschi Pier Luigi. Io manifestai il mio dissenso rispetto a un’operazione da cui non traevo nessun beneficio. Ma il messaggio, arrivatomi tramite il Marcelli, fu che questa era la condizione “sine qua non” per la vendita". Una versione confermata agli inquirenti da M.D.B., la compagna di M.A., interrogata l’8 luglio 2010: "Prima del rogito, in un incontro avvenuto ad Arezzo nello studio del Marcelli, il Boschi disse testualmente che “i soldi hanno un colore”. La frase, al momento, non ci disse nulla. Ma poi la ricollegammo a un altro episodio. Marcelli ci disse che per concludere l’affare avremmo dovuto versare 250 mila euro in contanti, come pagamento in nero". E, sentito nuovamente dai finanzieri il 21 aprile 2010, M.A. aggiunge: "La dazione del denaro al Boschi avvenne nello studio di Marcelli ad Arezzo, in via Veneto, a cui si accede entrando dal portone adiacente il Bar Magi. Eravamo presenti solo io, Boschi e Marcelli".
Le prove dei finanzieri. "I soldi hanno un colore": nero, quindi. I finanzieri, il 24 marzo 2010, durante una perquisizione a casa dell’acquirente, ritengono di aver trovato le prove: "Per mia garanzia, feci le fotocopie delle banconote consegnate al Boschi, che avete rinvenuto nella mia abitazione" riferisce M.A. Lo stesso giorno i finanzieri perquisiscono casa Boschi, a Laterina: sequestrano una cartellina gialla e un assegno di 95 mila euro emesso da Saporito e intestato alla Valdarno superiore. Poi bussano alla porta proprio della cooperativa diretta da Boschi, dove requisiscono altri documenti. "Asserita la dazione dei 250 mila euro in contanti nelle mani del Boschi", analizza l’informativa del 22 aprile del 2010, firmata dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Arezzo, resta però un mistero: dove sono finiti i soldi? Saporito nega, nel suo interrogatorio, versamenti in contanti. E la nota investigativa esclude anche che quei soldi "siano la parte in nero" dell’affare. Dove sono finiti dunque quei 250 mila euro? Rossi, il 4 febbraio 2013, chiede l’archiviazione dall’accusa di turbativa d’asta in carico ai nove indagati: oltre al padre del ministro, la famiglia Saporito e tre acquirenti dei terreni. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive nel registro degli indagati Boschi e Marcelli per estorsione: parte offesa, in questo processo-stralcio, è proprio M.A., che ha dichiarato di essere stato costretto a pagare 250 mila euro. Tre settimane dopo, il 21 febbraio 2013, comincia la travolgente ascesa politica di Maria Elena Boschi, eletta deputato del Pd. Nel luglio di quello stesso anno, intanto, Rossi è nominato consulente del governo. Ed è proprio la Procura di Arezzo, di cui allora Rossi è reggente, a organizzare nell’Auditorium di Arezzo, il 24 ottobre 2013, un convegno dal titolo: "Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile". Oltre a Rossi, al convegno partecipano Andrea Orlando, ai tempi ministro dell’Ambiente, e l’onorevole Maria Elena Boschi, figlia di Pier Luigi, allora indagato per estorsione. Ma pochi giorni dopo, il 7 novembre 2013, Rossi chiede l’archiviazione per papà Boschi. L’accusa di aver ricevuto quei 250 mila euro in nero rimane però un enigma: Boschi, come confermato a Panorama dallo studio legale Fanfani, che difende l’ex vice presidente di Banca Etruria, non ha mai sporto querela per calunnia. A questo punto, però, la logica si incrina. Per la Procura quella dazione non è stata un’estorsione. Allora perché il magistrato non ha indagato Boschi per evasione? Lo riteneva, al contrario, vittima di infamanti accuse? Allora avrebbe dovuto procedere d’ufficio contro M.A., accusandolo di calunnia. Ma questo non è successo. Il dubbio, quindi, rimane intonso: dove sono finiti quei 250 mila euro? Panorama ha tentato di chiedere ragguagli al procuratore Rossi. Il magistrato ha opposto un cortese ma fermo rifiuto: "Mi scusi, non posso parlare. Cerchi di capire il momento" dice mentre porge la mano. "Veramente volevamo chiederle di una vicenda legata al padre di Boschi...". Mezzo sorriso di circostanza: "Peggio ancora". Poi Rossi sparisce nel suo ufficio. Mentre nell’aria continua ad aleggiare il mistero dell’ennesimo pasticcio di papà Boschi.
Tutte le bugie del caso Boschi. Dal ministro a suo padre, dal pm all'avvocato, lo scandalo che imbarazza il Governo è pieno di omissis. Il testo integrale dell'inchiesta di Panorama, scrive Antonio Rossitto l'1 febbraio 2016 su Panorama. È ancora buio quando tre marescialli e un luogotenente della Guardia di finanza bussano alla porta di una villa alle porte di Laterina, piccolo borgo sperso nella campagna aretina. È il 24 marzo 2010. Sono le 7 del mattino. Gli agenti del Nucleo di polizia tributaria mostrano il tesserino e si presentano a Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, futuro ministro delle Riforme. Esibiscono il «decreto di perquisizione locale e personale» firmato dall’allora procuratore di Arezzo, Carlo Maria Scipio, e dal pm Roberto Rossi. Poi notificano all’uomo il provvedimento dell’autorità giudiziaria. Boschi è indagato per turbativa d’asta in un’inchiesta che vede anche l’ipotesi di riciclaggio a carico di altre persone. L’incanto cui l’atto si riferisce è quello della Fattoria di Dorna, un podere di 303 ettari venduto il 12 ottobre 2007 dall’Università di Firenze alla «Valdarno superiore», la cooperativa guidata da Boschi dal 2003 al 2014. Assieme a Boschi, al momento della perquisizione, ci sono la moglie, Stefania Agresti, e due figli: Pier Francesco ed Emanuele. Manca invece Maria Elena. Lei lavora in un affermato studio legale di Firenze. Mantiene però la residenza nella villa di famiglia a Laterina. I quattro finanzieri chiedono a Pier Luigi Boschi se vuole farsi assistere da un avvocato. Lui, però, spiega che «non intende avvalersi di tale facoltà». Consegna spontaneamente ai militari alcune cartelle di documenti e una copia fotostatica dell’assegno di 95 mila euro «emesso da Saporito Francesco all’ordine della Valdarno superiore». Vengono poi controllate le due auto in garage. Concluse le ricerche nei tre piani della casa, i finanzieri passano a perquisire le sedi di due società amministrate da Boschi nella zona: la Progetto Toscana e la cooperativa Valdarno superiore. Negli uffici, gli agenti sequestrano due raccoglitori pieni di carte e verbali di consigli d’amministrazione. Il materiale è talmente voluminoso da costringere i militari ad annotare: «Vista la copiosità, nell’impossibilità di procedere a una immediata repertazione, la documentazione è stata progressivamente numerata e fatta siglare su ciascun foglio». L’operazione della Guardia di finanza aretina si conclude alle 15,30. La perquisizione dura otto ore e mezza. Ma sembra non aver lasciato traccia nella memoria del ministro Boschi. Nelle ultime settimane non ha mancato di sottolineare la rettitudine del genitore, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario dopo il crac di Banca Etruria, di cui è stato vicepresidente dal giugno 2014 al febbraio 2015. «Mio padre è una persona perbene» ha sillabato il ministro, lasciando intendere candidi trascorsi. L’indagine archiviata sul padre del ministro, pubblicata da Panorama la scorsa settimana, rivela invece un quadro più nebuloso. Maria Elena Boschi non è però l’unica colta da dimenticanze, in questa storia. Anche il pm Rossi, ascoltato il 28 dicembre dalla prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, non ha riferito di essersi occupato dell’ex vicepresidente di Banca Etruria: «Non conosco nessuno della famiglia Boschi» ha dichiarato. «Non sapevo neanche come fosse formata». Una dimenticanza che, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, costringe il magistrato a una tardiva ammissione. Il 20 gennaio 2016 invia una lettera al Csm. E conferma di essersi occupato in passato di procedimenti riguardanti Boschi, ma di non conoscerlo di persona. «Abbiamo preso tutti atto con rammarico che le dichiarazioni rese non corrispondono ai fatti» commenta Pierantonio Zanettin, membro dell’organo che governa la magistratura. Così, la prima commissione del Csm riapre l’istruttoria sul procuratore. Ma in questo groviglio c’è anche un’altra persona colta da lapsus: è Giuseppe Fanfani, altro componente del Csm dal settembre 2014. Anche lui sapeva. Il 29 marzo 2010, cinque giorni dopo le perquisizioni, Pier Luigi Boschi lo nomina suo difensore di fiducia nell’inchiesta sulla fattoria di Dorna. Eppure, anche lui, sceglie il silenzio. Boschi, Rossi e Fanfani. Omissioni che mettono a repentaglio il prestigio di tre istituzioni: politica, giustizia e governo della magistratura. Boschi viene indagato per turbativa d’asta nel gennaio 2010. Il suo ruolo nell’acquisto della tenuta è determinante. Prima, nell’ottobre 2007, da presidente del cda della «Valdarno superiore», compra i 303 ettari per 7,5 milioni. Un mese dopo la sua cooperativa indica che l’acquisto sarà fatto dalla «Fattoria di Dorna», un’azienda agricola che però viene creata solo il 29 novembre 2007. Boschi ne è socio al 90 per cento: la quota, sei mesi più tardi, scenderà al 34 per cento. Le altre azioni sono invece in mano a Francesco Saporito, un imprenditore immobiliare calabrese. La Finanza, in un’informativa inviata alla Procura di Arezzo il 21 gennaio 2010, lo segnala come referente, assieme alla famiglia, «di organizzazioni malavitose riconducibili alla ‘ndrangheta». La società di Boschi e Saporito, dopo aver comprato la tenuta, cede alcuni lotti a privati e istituzioni. Una di queste compravendite convince Rossi a contestare a Boschi padre anche il reato di estorsione. Il padre del ministro, secondo quanto emerge dalle carte lette da Panorama, avrebbe preteso e ottenuto da un successivo acquirente il pagamento di 250 mila euro in nero. Un reato implicitamente ammesso dallo stesso Boschi che, ad aprile del 2014, paga una multa di quasi 40 mila euro all’Agenzia delle entrate. Il resto dell’imposta evasa sarebbe stato imputato a Saporito, che all’epoca della vendita aveva quasi il 64 per cento dell’azienda agricola. L’imprenditore calabrese, intervistato dal Fatto quotidiano, ha però spiegato di aver fatto ricorso contro la sanzione: «Questi soldi non li ho mai avuti. Io ho firmato e basta. La trattativa l’ha fatta Boschi. E penso che debba pagare lui». Una versione, tra l’altro, già confermata dalla Finanza di Arezzo in un’informativa del 7 maggio 2010: quei denari non sono andati a Saporito. Così, il 4 febbraio 2013, Rossi chiede l’archiviazione dal reato di turbativa d’asta per Boschi e altre otto persone. Lo stesso giorno, il magistrato iscrive però nel registro degli indagati Boschi per estorsione. Due settimane dopo, il 21 febbraio 2013, Maria Elena Boschi viene eletta deputato. E il 18 luglio 2013 Rossi viene chiamato dal governo Letta come consulente per gli affari giuridici. Tre mesi più tardi, il 24 ottobre 2013, ad Arezzo si tiene il convegno «Cultura della prevenzione per una crescita ecosostenibile». L’evento è organizzato dalla Procura di cui Rossi è già reggente. Quella tavola rotonda è l’ennesima riprova delle amnesie del magistrato. Un mese fa, di fronte alla prima commissione del Csm, aveva assicurato di non aver mai conosciuto nessuno della famiglia Boschi: «Ho conosciuto solo l’attuale ministro in un’occasione pubblica, istituzionale, quando era parlamentare». I giornali scovano allora le foto di un dibattito del 31 ottobre 2015, ad Arezzo. Panorama, invece, ha trovato evidenze più datate. E compromettenti. Al convegno del 24 ottobre 2013, coordinato da Procura e Prefettura, viene invitata anche l’onorevole Boschi. Della sua presenza deve essersi inevitabilmente accorto anche Rossi. Che, da padrone di casa, apre l’incontro alle 10,30 con una dissertazione sui «reati ambientali». Maria Elena Boschi sale sul palco dell’Auditorium poco dopo, a mezzogiorno in punto, per un intervento dal titolo: «Prevenire è meglio che curare». Finito di parlare, si accomoda in prima fila, a fianco della senatrice Loredana De Petris e dell’allora ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando. Tailleur blu, sottogiacca grigio abbinato a scarpe tacco 12, capelli raccolti: la futura ministra, ripresa dalle telecamere delle tv locali, sembra quasi spaesata. Tre file più indietro, appollaiato su una poltroncina c’è un distinto signore con i capelli grigi e gli occhiali spessi. Indossa un abito blu, la camicia azzurra e una cravatta vinaccia: è Pier Luigi Boschi, allora sotto inchiesta per estorsione. Davanti a lui, sul palco, seduto al tavolo dei conferenzieri, c’è Rossi, il suo «inquisitore». Che due settimane dopo, il 7 novembre 2013, chiede però l’archiviazione del fascicolo. Il procedimento avrà una coda cinque mesi più tardi, con il pagamento della multa di Boschi all’Agenzia delle entrate per l’Iva evasa sul pagamento in nero. I destini dei due torneranno a incrociarsi il 21 marzo del 2014 quando, su ordine di Rossi, viene perquisita la sede aretina della direzione generale di Banca Etruria. E Boschi, mai indagato per il crac dell’istituto, siede nel consiglio d’amministrazione dell’istituto. Diventando vicepresidente poco dopo: il 4 aprile 2014. L’ultimo tassello del puzzle è la nomina del suo avvocato al Csm. Giuseppe Fanfani, sindaco di Arezzo e «nipotissimo» del leader della Dc Amintore, viene eletto il 9 settembre 2014 dal Parlamento, su indicazione del Pd di Matteo Renzi. La Nazione, quotidiano di riferimento della Toscana, scrive: «La candidatura, spinta dal ministro Maria Elena Boschi, cui il sindaco è unito da aretinità e fedeltà renziana, potrebbe fare breccia anche col premier in persona». Breccia che diventa un varco. Poco dopo, 18 dicembre 2014, il governo Renzi affida una nuova consulenza (la precedente era scaduta cinque mesi prima, il 21 luglio 2014) a Rossi, ancora come esperto degli affari giuridici. L’ incarico dura meno di due settimane, ma il 24 febbraio 2015 viene rinnovato fino al 31 dicembre 2015. Queste due nomine avevano spinto la prima commissione del Csm a verificare eventuali incompatibilità tra il ruolo di Rossi, coordinatore delle indagini su Banca Etruria, e quello di consulente dell’esecutivo. L’audizione del magistrato, il 28 dicembre 2015, lascia molte perplessità. Anche la frase così definitiva sulla conoscenza dei Boschi sembra inveritiera: «Non conosco neppure la composizione del nucleo familiare». La sua versione viene riportata da tutti i giornali italiani. Mentre Fanfani, controparte di Rossi nei procedimenti penali che coinvolgevano Boschi, continua a tacere. Così il Csm, il 19 gennaio 2016, propone l’archiviazione del fascicolo. Il giorno dopo, lette le anticipazioni dell’inchiesta di Panorama, Rossi trasecola. Spedisce una lettera al Csm in cui conferma di aver indagato su Boschi, ma di non conoscerlo personalmente. E l’istruttoria viene riaperta. Panorama, per la seconda settimana di fila, rivela nuovi documenti e circostanze. Fatti che mettono i protagonisti di questa storia di fronte alle loro responsabilità. Il ministro, il procuratore e il togato: in gioco c’è molto di più della solita disfida politica.
Banca Etruria e le altre: la caccia ai responsabili della crisi. L'ultima valanga di fango colpisce il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, ma come nei migliori polizieschi, non è ancora chiaro chi sia il vero colpevole, scrive il 4 dicembre 2017 Stefano Cingolani su Panorama. È cominciato come il più tradizionale dei polizieschi: il delitto è stato commesso dal maggiordomo, nella fattispecie il guardiano, il vigilante, cioè la Banca d’Italia. Ma più va avanti, più la commissione parlamentare d’inchiesta sulla crisi bancaria assomiglia al giallo di Agatha Christie “Assassinio sull’Orient Express”: molte mani hanno inferto la coltellata (ben dodici nel racconto della scrittrice inglese) tanto che è impossibile decidere quale sia stata davvero letale. Troppi colpevoli, nessun colpevole? Il rischio che finisca così esiste. L’ultima valanga di fango travolge il procuratore di Arezzo Roberto Rossi, già consulente di palazzo Chigi, il quale ha omesso di rivelare che Pierluigi Boschi, padre di Maria Elena, è stato indagato nel caso Banca Etruria insieme ad altri amministratori per aver fornito informazioni false alla clientela e lacunose alla Consob. A questo punto, non resta che indossare le vesti di Poirot, ghette incluse, e mettere in ordine tutti gli indizi.
I non performing loans. In cima ci sono i non performing loans, cioè i crediti marci (deteriorati secondo la diplomatica definizione ufficiale) che in Italia ammontano a 200 miliardi di euro molto più che in qualsiasi altro paese europeo. Gli npl sono l’equivalente nostrano dei mutui subprime che tra il 2007 e il 2008 hanno fatto saltare le banche americane. Diversi nella tecnica, sono simili nella sostanza: prestiti concessi a chi, per una serie di ragioni, non li avrebbe mai restituiti. Una parte di questi prestiti sono marciti perché, con la recessione, imprese e famiglie hanno visto crollare il loro reddito. Emergono nomi altisonanti: la Sorgenia controllata dalla Cir di Carlo De Benedetti, l’Alitalia, Ligresti, Zunino, Coppola, la serie è davvero molto lunga ed è ormai pubblica. In alcuni casi come per Sorgenia e Alitalia, le banche hanno trasformato i crediti in azioni, ma ciò non ha alleggerito i bilanci. I grandi debitori sono la punta, ma l’iceberg è ben più grande e finora stava nascosto sott’acqua.
La gestione delle banche. La crisi, però, è il detonatore, non la causa prima che va ricercata nel modo in cui sono state gestite le banche. Si diceva che il sistema italiano era sano e solido perché non aveva giocato con i derivati, tuttavia i prestiti concessi in modo clientelare hanno avuto un effetto anche peggiore. Basta leggere i bilanci del Monte dei Paschi di Siena che con 40 miliardi di euro guida ancora la classifica dei crediti marci. Circa un terzo delle sofferenze è dovuto ai grandi clienti, il resto è diffuso in mille rivoli per sostenere il territorio, o meglio per alimentare il consenso politico-elettorale. Ciò vale anche per la Popolare di Vicenza, per Veneto banca, per la Banca dell’Etruria e tutte le altre. L’intero sistema delle banche locali e popolari era bacato e il verme si chiama proprio clientelismo. Quando la crisi ha rivelato che non c’era capitale a sufficienza per andare avanti, i banchieri sono ricorsi a ogni escamotage possibile: veri e propri trucchi contabili come il Montepaschi con i contratti Alexandria o Santorini, un sostegno artificioso al valore dei titoli come a Vicenza, la vendita di obbligazioni alla clientela minuta (la Banca dell’Etruria), forzando le regole se non violando apertamente le norme come nel caso delle cosiddette operazioni baciate (prestiti concessi ai clienti per indurli a comperare le azioni della banca).
I vigilanti. E le autorità di vigilanza? In molti casi hanno chiuso gli occhi. La Consob, per esempio, non ha preteso che nei prospetti informativi si avvertisse chiaramente che anche le obbligazioni subordinate erano a rischio in caso di crac bancario. In altre hanno indagato, hanno multato, hanno avvisato i banchieri, hanno inviato i loro bei rapporti alla magistratura che, come è accaduto a Vicenza, talvolta li hanno messi nel cassetto. Ma non hanno lanciato l’allarme, forse per paura di non creare il panico in una economia già molto indebolita. In ogni caso, hanno preferito che i panni sporchi venissero lavati in famiglia. Come nel caso della Popolare di Vicenza. Nonostante una lunga serie di ispezioni e di allarmi che risalgono indietro negli anni, ancora nel 2014 la Banca d’Italia riteneva che potesse rimettersi in piedi con le proprie gambe. Non solo. Quando la Bpv ha proposto di comperare la Banca dell’Etruria, ha consigliato di stare attenti, ma non ha detto chiaramente che un cieco voleva guidare uno storpio sull’orlo dell’abisso.
Come è finita. E qui veniamo al grande equivoco che attraversa i lavori della commissione. Si sta discutendo sul perché non sono state salvate in tempo banche le quali, stando ai loro bilanci e al modo in cui erano gestire, non avevano più alcuna ragione di esistere. Tanto che, dopo anni di tergiversazioni e di pasticci, non esistono più. Vicenza e Veneto Banca sono state assorbite da Banca Intesa, le quattro banchette del Centro Italia cedute per un euro. Il Monte dei Paschi è stato nazionalizzato. Era meglio chiudere subito i battenti, salvare i depositanti e i risparmiatori imbrogliati (quelli che davvero sono stati turlupinati, non chi ha perso in soldi e adesso vuole essere rimborsato dai debitori onesti e dai contribuenti), mettere i bancari in cassa integrazione e ricominciare su basi nuove. Secondo alcune stime i costi dei salvataggi superano già i 30 miliardi di euro. Il falso dogma che una banca non debba fallire ha solo coperto l’azzardo morale e la cattiva gestione.
I responsabili. Le responsabilità dei guardiani, dunque, esistono. Consob e Bankitalia sono già sotto tiro e nel mirino entra anche il Tesoro che ha sottovalutato la crisi delle banche insistendo con il mantra che il sistema è saldo. Ma ci sono, grandi come palazzi, anche le responsabilità politiche. Le ispezioni della Banca d’Italia a Vicenza e Montebelluna venivano tacciate come intrusioni dal governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia. Tutta Siena si è arroccata a difesa del Montepaschi (e qui è in ballo il Pd). Il conflitto d’interessi su Banca Etruria ha coinvolto Maria Elena Boschi e, per la proprietà transitiva, Matteo Renzi. Mentre a Genova la crisi della Cassa di Risparmio che ha portato in prigione i vecchi amministratori è stata accompagnata da un incredibile silenzio di Beppe Grillo e del suo movimento. La commissione continua, questa settimana verranno ascoltati altri testimoni e protagonisti, ma tutti attendono il neo confermato governatore Ignazio Visco (verrà convocato la prossima settimana? Per ora si parla di martedì 12). Dunque, non possiamo mettere fine al nostro giallo, rinviamo gli appassionati del genere alla prossima puntata.
Banca Etruria, Boschi indagato. Il pm di Arezzo a Casini: "Non ho nascosto nulla". Il procuratore che sta indagando sulla vicenda accusato di omissione sulle indagini a carico del padre della sottosegretaria. La replica in una lettera a Casini: "Ho risposto a tutte le domande senza alcuna omissione", e allega il verbale. E il presidente della Commissione gli dà ragione: "Ha chiarito tutto". Frecciate M5S ai renziani: "Cosa dicono oggi i soloni che esultavano?" Scrivono Rosaria Amato e Fabio Tonacci il 4 Dicembre 2017 su "La Repubblica". Procura di Arezzo nella tempesta dopo che è emerso che Pierluigi Boschi, padre del sottosegretario Maria Elena, è iscritto nel registro degli indagati per la vendita delle obbligazioni subordinate alla clientela retail di Banca Etruria. Il procuratore Roberto Rossi, che viene accusato da diversi componenti della Commissione d'inchiesta sulle banche di aver omesso parte della verità, ha scritto in queste ore una lettera al presidente della Commissione Pier Ferdinando Casini per smentire di aver nascosto informazioni rilevanti. Spiegazioni che vengono ritenute da Casini convincenti: "La lettera odierna del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Arezzo, Roberto Rossi, fornisce una risposta chiara ed esauriente. Tutto il resto afferisce ai giudizi politici che ciascun Gruppo ha il diritto di formulare", ha aggiunto Casini, che ha precisato che domani nell'Ufficio di Presidenza si parlerà comunque dell'eventualità di richiamare il pm davanti alla commissione. Il magistrato di Arezzo nella lettera definisce gli addebiti che gli vengono mossi da diversi commissari "gravemente offensivi", e di aver risposto "a tutte le domande che mi sono state formulate senza alcuna reticenza né omissione". E aggiunge: "Ho chiarito che l'esclusione di Boschi riguardava il processo per bancarotta attualmente in corso, mentre per gli altri procedimenti ho precisato che non essere imputati non significava non essere indagati. Null'altro mi è stato chiesto in merito". Rossi nella missiva al presidente della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle banche parla anche del filone di indagine che contesta il falso in prospetto e il ricorso abusivo al credito a carico del Cda di Etruria del 2013, nel quale sedeva Boschi in qualità di consigliere: "Non ho nascosto nulla circa la posizione del consigliere Boschi in relazione alle domande che mi venivano poste. Le domande hanno riguardato i fatti in oggetto e non, in alcun modo, le persone iscritte nel registro degli indagati". E a conferma della sua tesi, il pm allega uno stralcio del verbale dell'audizione del 30 novembre (che Repubblica è in grado di mostrarvi). Il procuratore, rispondendo giovedì scorso alle domande di deputati e senatori nel corso dell'audizione della Commissione d'inchiesta sulle banche, aveva escluso qualunque coinvolgimento di Boschi solo nelle indagini per bancarotta fraudolenta, nonostante il padre dell'allora ministro del governo Renzi sia stato vicepresidente della banca liquidata nel novembre 2015. Alle sue dichiarazioni erano seguiti commenti in toni trionfalistici di Matteo Renzi e di molti esponenti del Pd, e scettici da parte di esponenti politici dell'opposizione. Nelle ultime ore, in seguito a un'inchiesta del quotidiano "La Verità", è emerso invece che c'è un nuovo fascicolo aperto dalla procura di Arezzo sulle vicende della ex Banca Etruria: si tratta di uno spezzone di indagine che riguarda la vendita di obbligazioni subordinate alla clientela retail, l'emissione del 2013. Di questo filone d'inchiesta si era parlato nel corso dell'audizione, ma senza chiarire in modo esplicito quali fossero gli indagati. Tuttavia il pm non si era sottratto alla domanda, e tutti avevano capito che Boschi poteva essere indagato, conferma il deputato M5S Alessio Villarosa. Le obbligazioni subordinate sono titoli estremamente rischiosi per i piccoli risparmiatori, perché il rimborso non è previsto nel caso di fallimento della banca. Tra gli indagati per non aver fornito le necessarie informazioni alla Consob (e duque il reato ipotizzato è "falso in prospetto") c'è anche Boschi, e alcune settimane fa i magistrati di Arezzo hanno chiesto una proroga delle indagini. L'apertura del fascicolo è scaturita dalle sanzioni comminate dalla stessa Consob agli ex amministratori di Banca Etruria nel settembre scorso, per complessivi 2,76 milioni di euro. E riguarda il periodo 2012-2014, incentrato proprio sulle violazioni riscontrare nei prospetti informativi. "Ci sembrava strano che la figura di Boschi non fosse in alcun modo più legata alle indagini, dato che il ruolo che aveva avuto nelle attività di Banca Etruria. - dice Letizia Giorgianni, presidente e fondatrice dell'Associazione Vittime del Salvabanche, la principale organizzazione dei risparmiatori travolti dal fallimento di Banca Etruria, Carife, Carichieti e Banca Marche - Noi saremo auditi dalla Commissione giovedì, e parleremo anche di quello che è successo dopo il fallimento della banca, compresa l'ipersvalutazione dei crediti deteriorati che ha danneggiato mltissimo i risparmiatori: se la svalutazione fosse stata più equa, sul modello di quella adottata per Montepaschi, si sarebbero potuti salvare almeno gli obbligazionisti subordinati. Abbiamo presentato un esposto contro Fonspa, la società che sta procedendo al recupero dei crediti". In Commissione Banche il senatore Andrea Augello (Idea) ha presentato al presidente Pier Ferdinando Casini una richiesta formale per verificare l'esistenza di un filone d'indagine sulla denuncia della Consob. "Se sarà confermato - ha annunciato Augello domenica nel corso del dibattito conclusivo della due giorni organizzata a Modena da Idea - proporrò alla Commissione di trasmettere l'audizione del dottor Rossi al Consiglio superiore della magistratura affinché ne sanzioni il comportamento reticente e omissivo davanti al Parlamento italiano". La richiesta di Augello è stata respinta da Casini. E intanto sul Pd, che solo pochi giorni fa aveva esultato per l'estraneità del padre di Maria Elena Boschi dalle indagini, si abbattono le critiche e le frecciate dell'opposizione, a cominciare dal Movimento Cinque Stelle: "Ce le ricordiamo benissimo le esternazioni da parte dei renziani nei giorni scorsi, subito dopo l'audizione in commissione Banche da parte del procuratore di Arezzo che sembravano scagionare papà Boschi da ogni ulteriore coinvolgimento nella vicenda Banca Etruria. Vogliamo ascoltare cosa hanno da dire oggi gli stessi soloni che ieri esultavano", dice Villarosa. "Qualcuno usa questa vicenda da due anni per attaccare me e il Pd.Io penso che sarebbe più giusto fare chiarezza sugli errori fatti da tanti per non sbagliare più - ha scritto su Facebook Maria Elena Boschi. L'ex ministra ha anche annunciato un'azione legale per diffamazione contro Ferruccio De Bortoli: "Ho firmato oggi il mandato per l'azione civile di risarcimento danni nei confronti del dottor Ferruccio de Bortoli. A breve procederò anche nei confronti di altri giornalisti".
Etruria, la lettera del procuratore Rossi alla commissione banche. Ecco il testo con cui il pm di Arezzo, Roberto Rossi, si difende dall'accusa di non aver riferito dell'indagine sul padre di Maria Elena Boschi: "Ho risposto puntualmente alle domande", scrive il 4 Dicembre 2017 "La Repubblica". "On.le Presidente, sono costretto a scriverLe in relazione alle notizie riportate da alcuni organi di informazione secondo cui avrei omesso di riferire, in occasione della mia audizione del 30 novembre u.s., notizie in merito ad un presunto status di indagato del Consigliere BPEL Pierluigi Boschi. Considero tali addebiti gravemente offensivi: ho risposto puntualmente a tutte le domande che mi sono state formulate senza alcuna reticenza od omissione, così come è facilmente riscontrabile dall'ascolto della audizione pubblica ed in particolare dai punti che, estratti dalla stessa, mi permetto di trascriverLe (con indicazione dei tempi del file audio) e sottoporre alla sua attenzione.
Ora: 1.11.00
Villarosa: "grazie presidente, volevo anzitutto, Procuratore, una precisazione, forse ho capito male io, lei ha detto che ci sono 14 persone del CdA che non risultano indagate (nrd precedentemente alla domanda del perché il Boschi non fosse stato rinviato a giudizio era stata data la risposta che 14 membri dei CdA, tra cui il Boschi, non erano stati attinti da richiesta di rinvio a giudizio)
Rossi: No, rinviati a giudizio
Villarosa: "quindi potrebbero essere indagati?"
Rossi: "sì e fa cenno di sì con la testa"
Villarosa: "ok"
Ora: 3.18.10
Rossi: cerco di... (interruzione) cerco di essere più chiaro possibile, qui non stiamo parlando di indagati, stiamo parlando di rinviati a giudizio...
Ora: 3.20.00
Le domande proseguono sulla questione del falso in prospetto e il Procuratore chiede che si proceda in audizione secretata proprio perché trattasi di fascicolo in fase di indagini preliminari e quindi coperto dal segreto istruttorio. Nel corso di tale sessione nessuno rivolge domande sulla identità delle persone oggetto di indagini. Come si evince da questa breve ricostruzione, non ho nascosto nulla circa la posizione del consigliere Pierluigi Boschi in relazione alle domande che mi venivano poste. Ho anzi chiarito e ribadito che la Sua esclusione riguardava il processo per bancarotta attualmente in corso, mentre per gli altri procedimenti, a domanda, ho precisato che non essere imputati non significava non essere indagati. Null'altro mi è stato chiesto in merito. Evidenzio altresì che, non appena mi sono state fatte domande sull'ipotesi di reato di falso in prospetto, ho chiesto la secretazione dell'audizione in quanto vi sono in corso indagini preliminari sul punto. Le domande in merito hanno riguardato i fatti oggetto di indagine e non, in alcun modo, le persone iscritte nel registro degli indagati. Ho chiarito i punti che mi venivano sollecitati riferendomi ovviamente allo stato delle indagini in corso. Rimango a disposizione della Commissione per ogni ulteriore chiarimento, e l'occasione mi è gradita per porgerLe deferenti saluti. Arezzo, 04 dicembre 2017. Roberto ROSSI"
Procuratore Rossi: “Tra 2008 e 2010 le dissipazioni più gravi. Bancarotta Etruria, Boschi estraneo”, scrive l'1 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Secondo il procuratore ascoltato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, è eclatante il caso dello Yacht Etruria. Su Vicenza: peggio che ad Arezzo dove non ci sono stati finanziamenti baciati”. I teoremi accusatori insussistenti di Marco Travaglio (dovrà ancora una volta pagare in sede civile?) sono stati smentiti dai fatti. Infatti intervenendo dinnanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, ha precisato che Pierluigi Boschi, il padre dell’on.Maria Elena Boschi, non ha partecipato alle riunioni degli organi di Banca Etruria che hanno deliberato i finanziamenti finiti poi in sofferenza e che costituiscono “il reato di bancarotta”. Per la Banca d’Italia la Popolare di Vicenza era un “un partner di elevato standing” ai fini dell’aggregazione con Banca Etruria, ha affermato il Procuratore Capo di Arezzo, Roberto Rossi in audizione davanti alla Commissione Parlamentare Banche. Un giudizio che al procuratore Rossi appare oggi “singolare” dopo aver appreso “da fonti aperte”, ossia dalle audizioni di Banca d’Italia sulle Banche Venete alla stessa Commissione banche, la situazione critica in cui versava la Popolare di Vicenza già nel 2012. “Sembrava di leggere la stessa relazione ispettiva di Banca Etruria”, ha detto Rossi, anzi peggio considerato che i finanziamenti baciati ad Arezzo non ci sono stati. Banca d’Italia chiese nel 2014 all’Etruria di trovare un partner di elevato standing e l’unica trattativa avviata fu quella con la Banca Popolare di Vicenza che offrì un euro per azione. La Banca d’Italia, ricorda Rossi, sanzionò tutto il CdA per aver lasciato cadere l’offerta della Popolare di Vicenza senza averla neanche proposta all’assemblea dei soci. Per la precisione il procuratore Rossi ha dichiarato testualmente: “L’allora vicepresidente di Banca Etruria Pierluigi Boschi non ha partecipato alle riunioni degli organi della banca che hanno deliberato finanziamenti finiti poi in sofferenza e che costituiscono il reato di bancarotta”, in risposta al deputato Carlo Sibilia (M5S) che gli chiedeva del ruolo di Boschi nel crac dell’istituto aretino. Rossi ha voluto fare una premessa: “Faccio questo lavoro da 30 anni, sono della vecchia scuola, le persone si distinguono non per di chi sono figli o padri, per il loro orientamento sessuale o politico, ma per i comportamenti. Boschi entra in cda nel 2011 come amministratore senza deleghe diventa uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Rosi. Noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato bancarotta”. Il procuratore di Arezzo ha ricordato come la Banca d’Italia chiese nel dicembre 2013, a seguito di ispezioni e azioni di vigilanza, “ad Etruria di integrarsi in gruppo di elevato standing con ‘le necessarie risorse patrimoniali e professionali” E qui, spiega il magistrato, “abbiamo tracce documentali di tentativi di ricerca di un gruppo che possa risollevare le sorti di Etruria, vengono investiti diversi organi e advisor come Mediobanca per un’operazione che Bankitalia definisce operazione prioritaria. Bankitalia ci dà notizia di alcuni contatti, fra cui una banca israeliana, ma nessuno concreto. L’unica trattativa concreta fu quella con Bpvi che aveva fatto un’offerta da 1 euro per azione”. Rossi ha spiegato poi come “dalla relazione Bankitalia a noi inviata, la terza ispezione su Etruria, si legge che è stata lasciata inevasa la richiesta dell’organo di vigilanza di operazione con partner di elevato standing, non è stata portata all’attenzione dell’assemblea dei soci l’unica offerta giuridicamente rilevante cioè quella avanzata da Bpvi”. Per il procuratore di Arezzo quindi Bankitalia nel febbraio 2015, stigmatizza l’operato dei vertici di Etruria e, come si legge, “il ruolo contraddittorio del presidente Rosi che nelle trattative con Vicenza, a fronte di rassicurazioni che forniva, teneva comportamenti che hanno portato all’interruzione della trattativa”. Subito dopo, ha ricordato il procuratore Rossi, arriva il commissariamento e sanzioni al CdA di Etruria proprio per non aver proceduto all’aggregazione. “Dobbiamo ritenere – aggiunge Rossi – che Bpvi era ritenuto un partner di elevato standing. Alla fine noi abbiamo questo quadro e e poi abbiamo letto dichiarazioni dell’ispettore Bankitalia in cui ci venivano relazionati condizioni di Bpvi non dissimili da Etruria L’abbiamo trovato un pò singolare che venisse incentivata questa aggregazione. Nella relazione ispettiva, già quella del 2012 su Vicenza, sembra di leggere le relazioni su Etruria. Ci sono l’inadeguatezza degli organi, i crediti deteriorati e anche le azioni baciate che almeno noi (ad Arezzo) non ce l’avevamo. L’impressione è che questo sia stato determinante nel commissariamento”. “Ora approfondiremo, abbiamo fatto già richiesta ai colleghi di Vicenza di mandarci i documenti. Da quello letto a fonti aperte – conclude Rossi – qui da voi nella Commissione ci è sembrato un pochino strano“.
"Quel pm è equivoco Il Csm lo ha già graziato ma può indagare ancora". Il membro laico di Fi attacca il procuratore di Arezzo: "Su Boschi minimizza ogni volta", scrive Anna Maria Greco, Martedì 05/12/2017, su "Il Giornale". «Guarda caso, ogni volta che lo interrogano su Pierluigi Boschi, il dottor Rossi crea equivoci e minimizza il suo ruolo. Alza una nebbia e francamente certe posizioni sono inspiegabili. Lo ha fatto prima al Csm e ora alla Commissione parlamentare sulle banche». Pierluigi Zanettin, laico di Fi al Csm, ci ha provato già una volta a far emergere le incongruenze del lavoro del procuratore di Arezzo su Banca Etruria, ma a Palazzo de' Marescialli nell'estate del 2016 tutto è stato archiviato. «Per oscuri motivi», disse allora il consigliere. Che torna alla carica, dopo l'accusa a Rossi per aver omesso nell'audizione alla Commissione di informare che il padre del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Maria Elena Boschi è di nuovo indagato.
A questo punto, Roberto Rossi rischia che il Csm torni a indagare su di lui?
«Questo si vedrà. Mi pare di assistere al film di quanto già è avvenuto in Prima commissione del Csm due anni fa. Il dottor Rossi sembra, infatti, soffrire di una sorta di idiosincrasia per le audizioni. Ne furono necessarie ben tre per chiarire i contorni della sua consulenza al dipartimento per gli Affari Giuridici e Legislativi di Palazzo Chigi, iniziata nel 2013. Nell'audizione del 28 dicembre 2015 io gli chiesi se Boschi faceva parte del comitato ombra della Banca Etruria e lui rispose di no. La volta successiva gli abbiamo portato la relazione di Bankitalia che diceva il contrario e lui ha dovuto precisare che, in realtà, era componente di una commissione consiliare informale. Sempre il 28 dicembre aveva detto di non conoscere nessuno della famiglia Boschi, ma riconvocato la terza volta ha ammesso di aver indagato nel passato sul padre di Maria Elena più volte».
Il sospetto era di un conflitto d'interessi che potesse offuscare la sua imparzialità nelle indagini su Banca Etruria. Ma il Csm chiuse tutto: ha l'impressione che Rossi sia intoccabile?
«Intoccabile non lo so, certo sono rimasto solo in plenum a chiedere il suo trasferimento d'ufficio, attirandomi critiche piuttosto aspre da parte di altri consiglieri, che mi hanno accusato di avere un pregiudizio politico sul suo caso. Io resto convinto che già allora il procuratore di Arezzo avrebbe dovuto essere trasferito per incompatibilità ambientale o funzionale, ma il plenum preferì invece graziarlo ed io fui l'unico a votare contro l'archiviazione».
Si ritrovò isolato e ora non vuole essere lei a sollevare di nuovo la questione. Ma Rossi si trova ancora nei guai per le sue reticenze.
«Se ho compreso bene la commissione parlamentare presieduta da Pierferdinando Casini intende richiamare per chiarimenti il dottor Rossi, considerate le incongruenze emerse sul ruolo avuto da Pierluigi Boschi nel crack Banca Etruria».
Come finirà, secondo lei?
«Immagino che, come allora, il dottor Rossi dichiarerà, se tornerà in commissione, che non aveva compreso del tutto la domanda».
In realtà, già ha negato in una lettera inviata alla Commissione di aver fatto alcuna omissione nella sua audizione. E per Casini la sua precisazione è «esauriente».
«Non posso giudicare quel che decide la Commissione, ma ho visto che molti componenti insistono perché venga richiamato. Noi, al Csm, quando abbiamo avuto dubbi sulle sue dichiarazioni lo abbiamo sempre ascoltato di nuovo».
Per Andrea Augello, membro della Commissione, la lettera è «ridicola» e chiede di trasmettere verbali delle audizioni e missiva al Csm.
«Può farlo la Commissione o anche un singolo commissario, sotto forma di esposto. In quel caso il Comitato di presidenza dovrà valutare se aprire una pratica per incompatibilità e se lo farà di nuovo dovrà occuparsene la Prima commissione del Csm».
L’obbligo del Csm: essere all’altezza di un patrimonio che si chiama indipendenza, scrive Astolfo Di Amato il 3 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La rinuncia alla toga di Maria Giovanna Romeo, presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, chiama in causa il Csm. Gli indizi sono molti. Nelle ultime elezioni della Associazione nazionale magistrati Davigo ha dato vita, partendo dal nulla, a una corrente, che in sede elettorale ha avuto notevole successo, in virtù di un programma che, ridotto all’osso, si sostanziava nella richiesta di una gestione più corretta e trasparente dei poteri del Consiglio superiore della magistratura. Nel mese di agosto Andrea Mirenda, presidente della I sezione civile del Tribunale di Verona, rinunciava a questa carica per diventare giudice di sorveglianza presso lo stesso tribunale “per andare ad occuparmi degli ultimi della terra da ultimo dei magistrati”, denunciando un sistema giudiziario improntato ad un carrierismo spietato, arbitrario e lottizzatorio. La copertura del posto delicatissimo di procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli ha richiesto addirittura un anno per la decisone, nonostante l’importanza dell’ufficio e la palese incongruenza della sua mancata copertura pur in presenza di candidati di grande spessore professionale e di riconosciuto prestigio. Da ultimo Maria Giovanna Romeo, da cinque anni presidente di sezione della Corte di Appello di Caltanissetta, rinuncia alla toga denunciando che “le scelte del Csm rispondono in primo luogo a logiche di lottizzazione da perfetto manuale Cencelli della Prima Repubblica”. Gli episodi sopra riportati sono solo quelli che hanno avuto una qualche forma di diffusione perché segnalati all’attenzione del grande pubblico, in quanto riportati dalla stampa. In realtà, nell’ordine giudiziario il sentimento di una gestione, da parte del Consiglio superiore della magistratura improntata a criteri clientelari e correntisti è estremamente diffusa. Si tratta di una situazione che presenta aspetti di pericolosità molto maggiori di quanto potrebbe sembrare a prima vista. In gioco non è affatto un mero ulteriore degrado delle istituzioni su cui si fonda la democrazia italiana. In gioco è la credibilità di uno degli ultimi presidi della democrazia. La magistratura italiana è oggetto di molte critiche, ed alcune anche condivisibili. Ma vi è un punto sul quale il riconoscimento è unanime, anche da parte dei critici più severi. Il giudice italiano è indipendente, sia nella forma e sia nella sostanza. Quando si ha occasione di raffrontare l’esperienza giudiziaria italiana con quella di altri paesi, emerge con chiarezza il privilegio di cui godono i cittadini italiani per avere dei giudici che non sono assoggettati a fonti di potere esterne. Il che significa che davanti al giudice italiano può essere portata, senza remore, qualsiasi denuncia, anche nei confronti dell’uomo più potente, e che nella controversia contro un qualsiasi potentato, si può far fare affidamento su di un giudice non condizionato da tale potenza. Questo è possibile proprio perché vi è un organo, il Consiglio superiore della magistratura, istituzionalmente preposto a tutelare, contro qualsiasi intromissione ed attacco, l’indipendenza della magistratura.
Tuttavia, se il principio della indipendenza viene ad essere leso proprio dall’organismo costituzionalmente demandato a attuarlo, se alla logica del merito si sostituisce quella dell’appartenenza e del favore personale, il rischio è che vi sia una erosione di quella cultura della indipendenza, che ha costituito sino ad ora uno dei valori più condivisibili del patrimonio gelosamente difeso dalla magistratura italiana. L’attuale Consiglio superiore della magistratura è prossimo al termine del suo mandato. Sarà capace di raddrizzare la scadente immagine che sinora ha dato di sè?
Banca Etruria, l’atto di accusa contro Pierluigi Boschi: le «omissioni del pm». Durante l’audizione del 30 novembre scorso a palazzo San Macuto il magistrato aveva minimizzato sulla posizione del banchiere lasciando intendere che gli accertamenti sul suo conto fossero terminati e lui fosse di fatto fuori, scrive Fiorenza Sarzanini il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Le verifiche su Pierluigi Boschi e sugli altri componenti del Cda di Etruria «sono di elevatissima complessità perché hanno come oggetto fatti tra loro collegati e di eccezionale complessità tecnica». È questa la motivazione che ha spinto il procuratore di Arezzo Roberto Rossi a chiedere la proroga dell’indagine per bancarotta fraudolenta. La documentazione trasmessa dallo stesso magistrato alla commissione parlamentare banche rivela che gli amministratori dell’istituto di credito sono tuttora sotto inchiesta e i motivi che hanno convinto gli inquirenti ad andare avanti. Ma svela anche un dettaglio fondamentale proprio sulla posizione del padre della sottosegretaria alla presidenza Maria Elena.
Il gip e la data. Durante l’audizione del 30 novembre scorso a palazzo San Macuto il magistrato aveva minimizzato sulla posizione del banchiere lasciando intendere che gli accertamenti sul suo conto fossero terminati e lui fosse di fatto fuori. «Boschi - aveva spiegato - non è tra i rinviati a giudizio per bancarotta. Non so perché si dimentica sempre che Boschi entra nel Cda nel 2011 come amministratore senza deleghe. Diventa uno dei due vicepresidenti nel maggio 2014 assieme a Rosi. Noi sulla responsabilità per la bancarotta vediamo i comportamenti e questi discendono dalle delibere. I conflitti di interesse li abbiamo tutti evidenziati, per noi i crediti valgono se vanno poi in sofferenza altrimenti non costituiscono il reato bancarotta». Dichiarazioni che avevano provocato la reazione entusiasta dei commissari Pd e dello stesso Matteo Renzi.
Il sì della Camera alla mozione. Adesso si scopre invece che la proroga delle indagini era stata richiesta il 28 settembre 2017 e accolta dal gip due mesi dopo il 28 novembre 2017. Dunque, esattamente due giorni prima che Rossi si presentasse in Parlamento. Perché il magistrato non ne ha fatto cenno? Eppure nella sua richiesta di autorizzazione a svolgere ulteriori controlli aveva sottolineato proprio «l’elevato numero degli indagati, la pendenza di varie deleghe di indagine alla polizia giudiziaria ancora in corso di esecuzione, nonché - ad ulteriore illustrazione della straordinaria complessità del procedimento - gli stralci definiti con richiesta di rinvio a giudizio a carico di 29 imputati e con 50 capi di imputazione». Un nuovo mistero che si aggiunge alle “omissioni” sull’altro fascicolo per l’accusa di falso in prospetto che vede Boschi tra gli indagati e del quale il magistrato non aveva parlato.
Richiesta di chiarimenti. Ecco perché dalla commissione è partita una nuova richiesta di chiarimenti per Rossi. Su richiesta del parlamentare di Idea Andrea Augello, accolta dall’ufficio di presidenza, il procuratore dovrà adesso trasmettere «tutti gli atti relativi ai filoni di inchiesta ancora aperti». Si tratta dei tre capitoli principali sui quali i magistrati di Arezzo stanno ancora lavorando per individuare le responsabilità di amministratori e manager che avrebbero portato Etruria al dissesto. Il primo riguarda appunto la bancarotta fraudolenta «e i comportamenti che dovrebbero, almeno in ipotesi, o aver recato danno patrimoniale o aver contribuito a sottrarre ai creditori la possibilità di recuperare le somme dovute». Il secondo attiene alle «consulenze per 13 milioni di euro di cui si parla in un dettagliato rapporto della Guardia di Finanza pubblicato dai giornali ma di cui non c’è traccia in commissione». E infine quello sul falso in prospetto «per cui è necessario ottenere copia della delibera del Cda con le raccomandazioni al direttore generale sulle emissioni obbligazionarie del 2013. E questo anche per valutare l’efficacia del ruolo svolto dagli organi di vigilanza».
Maria Elena Boschi, via libera alla querela contro De Bortoli: la reazione nel giorno delle indagini sul padre per Etruria, scrive il 4 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". Maria Elena Boschi ha lanciato la controffensiva a chi l'ha accusata finora di avere un conflitto di interessi nel caso di Banca Etruria. Nel giorno della notizia sulle nuove indagini a carico di suo padre, già ex vicepresidente dell'istituto aretino, la sottosegretaria ha deciso di passare alle vie legali per difendersi dagli attacchi personali: "Ho firmato oggi il mandato per l'azione civile di risarcimento danni nei confronti del dottor Ferruccio De Bortoli. A breve - ha aggiunto la Boschi su Facebook - procederò anche nei confronti di altri giornalisti". Nel suo ultimo libro Poteri forti (o quasi), l'ex direttore del Corriere della sera aveva scritto che la Boschi fece pressioni sull'ex numero uno di Unicredit, Federico Ghizzoni, per salvare la Banca Popolare dell'Etruria, di cui il padre della sottosegretaria è stato per alcuni mesi vice presidente. Ghizzoni non ha mai confermato né smentito e attende una convocazione in audizione in Parlamento, la costituzione di una commissione parlamentare sulle banche slitta e difficilmente si farà in tempo a farla nascere prima della fine della legislatura.
Maria Elena Boschi e Ferruccio De Bortoli, il botta e risposta su Twitter dopo l'annuncio della causa civile, scrive il 5 Dicembre 2017 "Libero Quotidiano". La notizia ha tenuto banco lunedì sera: sette mesi dopo la pubblicazione del libro Poteri Forti, Maria Elena Boschi ha deciso di fare causa a Ferruccio De Bortoli. Ma, attenzione: causa civile, perché i termini per presentare l'annunciata denuncia per diffamazione - sei mesi (3 mesi ndr)- sono scaduti. Insomma, Maria Elena (sulle presunte pressioni sull'ex ad di Unicredit, Federico Ghizzoni, per acquisire Banca Etruria) non vuole un confronto in tribunale, ma soltanto soldi. Una circostanza che non è sfuggita, affatto, a De Bortoli, il quale ha commentato su Twitter: "Mi aspettavo l'annunciata querela per diffamazione, che non è mai arrivata. Dopo quasi sette mesi apprendo che l'onorevole Boschi mi farà causa civile per danni. Grazie". Pronta la replica della Boschi, che appare più che mai nervosa e stizzita, anche un pizzico arrogante: "Grazie a Lei, Direttore. Ci vediamo in tribunale, buona serata". Già, ci vediamo in tribunale...
DE BORTOLI CADE DAL PERO, scrivono Elide Rossi e Alfredo Mosca il 5 dicembre 2017 su L’Opinione. Sembra che Ferruccio de Bortoli sia caduto dal pero per aver scoperto quanto gli italiani siano “illusi e ingannati” dalla politica. Ovviamente sembra, perché l’acuto ex direttore del Corriere della Sera sa bene che i cittadini, da sempre, sono stati oggetto di ipocrisie, ambiguità e tranelli. Dunque, l’esempio che de Bortoli descrive nell’editoriale di domenica scorsa, relativo al caso in cui la Finanziaria fosse approvata, è solo l’ultimo di una serie ultradecennale di esempi a carico della gente. Del resto, è solo di pochi giorni fa il richiamo del vice presidente della Commissione europea, Jyrki Katainen, sulla necessità che agli italiani si dica la verità sullo stato di salute del Paese. Eppure contro Katainen anziché l’applauso per l’ovvietà, è scattato il coro delle critiche ipocrite per “l’intromissione” negli affari italiani, da parte della maggioranza, del Governo e di un bel pezzo dell’informazione. Se tanto ci dà tanto, anche contro l’autorevole ex direttore avrebbero dovuto piovere smentite e strali, eppure, non ci risulta (fortunatamente). A questo punto delle due l’una, o Katainen aveva e ha ragione, oppure con de Bortoli si è fatto finta di non vedere. La verità, cari amici, è che sia il vice presidente della Commissione europea e sia il noto giornalista dicono bene; agli italiani spesso, troppo spesso, si nasconde la realtà, oppure la si mistifica con un po’ di zucchero filato per tenerli buoni. Ecco perché anche questa legge di stabilità punta al consenso piuttosto che alla riduzione dei problemi concreti del Paese. Non è vero, infatti, che l’Italia sia uscita dal tunnel, che il benessere sia pronto a invadere il Paese, che la crescita sia forte e strutturale. Non solo questo, ma non è vero nemmeno che ci sia bisogno di ulteriori decine di migliaia di statali, che i bonus funzionino, che il debito sia in discesa, che sulle pensioni sia stata fatta giustizia ed equità. Insomma, non è vero quasi niente di ciò che ci dicono e la realtà si tocca con mano tutti i giorni del calendario. L’apparato pubblico è enorme, inefficiente e un po’ furbetto (per non dire peggio), i servizi non funzionano, la giustizia neanche, il fisco è un groviglio di follie, il debito resta stellare e l’occupazione stabile latita. Ecco perché gli italiani, o almeno quella parte che ancora crede alla politica, vengono illusi oppure ingannati sullo stato dell’arte. Su questo tema resta però una certezza, che la quantità di gente disposta ad abboccare alle chiacchiere dei governi sia fortunatamente in via d’estinzione. Per questo sale la protesta, la sfiducia, il malumore, l’astensionismo, per questo i grillini sono il primo partito. Del resto basterebbe vedere quanto, dal Governo Monti in poi, i Cinque Stelle siano cresciuti elettoralmente. Sono bastati sei anni, quattro governi e quattro premier, quattro maggioranze trasformiste, quattro esperienze ambigue, devastanti e incoerenti, per far crescere i pentastellati vicino al 30 per cento. Questo è il risultato delle bugie, degli inganni e delle illusioni sulle necessità del Paese e sui rimedi che servirebbero. Bene, tra qualche mese si tornerà al voto e forse allora a cadere dal pero, fragorosamente, saranno tutti quei politici di cui il Paese non ha proprio bisogno e non sentirà la mancanza.
Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".
Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".
Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.
Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.
Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.
Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.
De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.
La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.
La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…
Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.
Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.
Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.
Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco.
Tutte le ultime baruffe di carta fra Scalfari, de Bortoli, Feltri e Cerasa, scrive Francesco Damato su "Formiche.net" il 20 maggio 2017. Il Foglio è notoriamente un giornale che supplisce alle poche copie vendute con la fantasia del fondatore Giuliano Ferrara, fra le altre cose ex ministro per i rapporti col Parlamento, nella ormai lontana stagione dell’esordio politico dell’amico Silvio Berlusconi. Una fantasia, quella di Ferrara, brillante, prolifera e mai inosservata perché il suo giornale, oltre ad arrivare nelle edicole, con le incognite e gli inconvenienti di un mercato un po’ avaro con tutti i quotidiani, è diffuso con le rassegne stampa negli ambienti che contano, fra quelli che l’ex direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli, di cui tornerò a scrivere, chiama “i poteri forti, o quasi”. Poteri, per esempio, come quelli di Carlo De Benedetti e di Eugenio Scalfari, rispettivamente editore e fondatore di Repubblica. Si sa quanto sia difficile di gusti Scalfari, intervenuto pochi giorni fa a bacchettare e un po’ a dileggiare Claudio Cerasa, subentrato da qualche tempo a Giulianone nella direzione del giornale e azzardatosi a strappare a Matteo Renzi la prima intervista come risegretario del Pd, precedendo Repubblica. Ma per una questione personale, di cui vi dirò più avanti, il buon Scalfari ne ha appena tessuto gli elogi confrontandolo col “teppista” Vittorio Feltri, di Libero. Da qualche tempo tuttavia Il Foglio non è più soltanto un giornale. Sembra diventato una specie di sala parto di quel grande ospedale dove è ricoverata la politica italiana. In questa sala parto si cerca affannosamente, ogni volta che la politica offre un emergente, quello che Ferrara anni fa chiamò “royal baby”, inteso come erede del suo già ricordato amico Berlusconi. Dei cui anni che passano lo stesso Berlusconi non si accorge, ma Ferrara sì. Il primo royal baby del Foglio è stato notoriamente Matteo Renzi, con tanto di libro scritto dallo stesso Ferrara e più fortunato del suo quotidiano nelle vendite. Ma Renzi, per quanto risorto come segretario del suo partito dopo la mazzata invernale del referendum costituzionale, non ha più la brillantezza di una volta. Pertanto al Foglio hanno cominciato a cercare qualche altro baby da promuovere a royal. E Cerasa ha dato la sensazione di averlo trovato o intravisto in un sessantenne vigoroso e promettente, paragonandolo proprio a Berlusconi, di cui fu peraltro collaboratore da giovanissimo e potrebbe ripetere il percorso politico, se solo lo volesse. E’ Urbano Cairo, proprietario di una squadra di calcio, che il vecchio Berlusconi ora non ha più; di un giornale – addirittura il Corriere della Sera – altro che quello diretto da Alessandro Sallusti; e di una televisione. Che è la 7 e, pur non avendo gli ascolti delle tre reti del Biscione, fa più politica di tutte quelle messe insieme. E la fa in un modo che all’ex royal baby Renzi deve piacere sempre meno.
Ferruccio de Bortoli – vi ricordate? Vi avevo promesso che sarei tornato ad occuparmene ed eccomi qua – pubblica un libro che, volente o nolente, crea un bel po’ di problemi a Renzi, fra banche, massoneria e altro? E qual è la televisione che lo invita per prima a parlarne, avendo peraltro come spalla un Massimo Cacciari in grandissima forma? La 7 naturalmente, nello studio di Lilli Gruber, dove l’ex direttore del Corriere raccoglie e rilancia la minaccia della renziana sottosegretaria ed ex ministra Maria Elena Boschi, sfidandola a querelarlo davvero per averne rivelato un incontro politicamente galeotto con Federico Ghizzoni, quando questi era amministratore delegato di Unicredit e la Banca Etruria vice presieduta del papà della stessa Boschi ambiva ad essere acquistata, e salvata, proprio da Unicredit. Romano Prodi si fa intervistare da Repubblica mostrandosi assai scettico, se non contrario all’ipotesi che Renzi riconquisti la guida del governo, oltre alla segreteria del partito, e quale televisione lo chiama subito ad approfondire il tema cogliendo l’occasione anche per lanciarne un libro fresco di stampa? La 7, sempre nello studio di Lilli Gruber, che affonda continuamente il coltello nella piaga di Renzi possibile premier, contando sempre sul sorriso complice dell’ospite. La sera dopo quella birichina sempre o simil giovane Lilli, coetanea comunque del suo editore, chiama nel suo salotto un altro ex illustre: Walter Veltroni. Di cui la conduttrice deve presentare non un libro ma un film, dedicato ad un tema allettante come quello della felicità. Ma il tema principale della conversazione finisce -guarda caso- per diventare quello di Renzi e della sua ambizione, vera o presunta, a tornare anche a Palazzo Chigi, dopo essere rimasto al Nazareno. Il povero Walter, che peraltro ammette di avere votato alle primarie per Renzi, pur essendo quel giorno in viaggio -se non ho capito male- in Sudamerica, cerca più volte di sottrarsi all’assedio ma la Lilli non molla, anche a rischio di dimenticarsi del film. Che alla fine però arriva al pettine lo stesso, anche con la visione di qualche scena. Sbaglierò, ma l’impressione che ho ricavato è che la Gruber valuti personalmente l’ipotesi di Renzi di nuovo a Palazzo Chigi come Prodi, cioè male.
Vi avevo promesso che sarei tornato a scrivervi di Scalfari, che ha dato del “teppista” a Vittorio Feltri. Egli ha così reagito al rimprovero fattogli su Libero, in occasione del 45.mo anniversario – ahimè – dell’assassinio del commissario di polizia Luigi Calabresi, vicino ora alla Beatificazione di Santa Romana Chiesa, di avere firmato l’anno prima del delitto un manifesto destinato ad eccitare ancora di più i malintenzionati di Lotta Continua. Dove accusavano il povero Calabresi, contro le stesse risultanze giudiziarie, di avere quanto meno contribuito nel 1969 alla mortale caduta da una finestra della Questura di Milano dell’anarchico Giuseppe Pinelli, fermato per la strage di Piazza Fontana. A parte l’insulto a Feltri, che un po’ – bisogna riconoscerlo – se la va a cercare con quel modo troppo urticante di scrivere e di titolare, Scalfari ha finalmente colto l’occasione per sciogliere un dubbio manifestato anche da me qui, su Formiche.net, quando egli non gradì quanto meno le modalità della nomina del figlio di Calabresi, Mario, a direttore della “sua” Repubblica. Dove peraltro Mario, prima di assumere la guida della Stampa, aveva lavorato con ruoli di rilievo, compreso quello di redattore capo. Scalfari ci ha ora rivelato di essersi pentito subito, sia pure solo in privato, della firma a quel manifesto, vista la strumentalizzazione cui si era prestato. Di avere inutilmente cercato di chiarirsi con lo stesso commissario, con cui tuttavia non riuscì a parlare, riuscendo invece con la moglie Gemma. Che incontrò personalmente nel 2007 nella via di Villa Torlonia appena dedicata alla memoria di suo marito, presente l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni, rinnovando le sue scuse e abbracciandola, entrambi commossi. Un abbraccio col quale Scalfari ha forse un po’ troppo enfaticamente scritto di avere ritenuto di “fare pace con la storia”. Ma se tutto questo lo avesse raccontato in occasione della nomina di Mario Calabresi a direttore della “sua” - ripeto – Repubblica, Scalfari non avrebbe fatto male. Nè avrebbe sbagliato ritirando quella maledetta firma pubblicamente, visto che il manifesto contro Calabresi fu a lungo riproposto dall’Espresso, e non solo, in ogni avversario della morte di Pinelli.
Domande alle banche solo con il sì di Casini, scrive Alessandro Di Matteo il 06/10/2017 su "La Stampa". I lavori veri e propri non sono ancora iniziati, ma è già polemica sulla commissione parlamentare d’inchiesta incaricata di indagare sulle banche italiane. L’organismo, nato per far luce sui fallimenti del sistema creditizio, parte con uno scontro tra maggioranza e opposizioni già sulle regole del gioco e, in particolare, sulla norma che affida al presidente della commissione Pier Ferdinando Casini il potere di decidere quali domande si potranno fare ai testimoni che verranno chiamati. Norma passata con il sì di Pd e Fi con l’opposizione di M5s, Scelta civica e Fratelli d’Italia. Già la nomina di Casini a presidente era stata letta da molti come un modo per garantire una gestione prudente di un organismo che rischia di aprire molti vasi di Pandora. Basti pensare che solo pochi giorni fa Matteo Orfini (Pd) aveva chiesto che la commissione partisse dall’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps, operazione avvenuta quando alla guida di Bankitalia c’era Mario Draghi. Senza contare le tensioni sul rinnovo del governatore di Banca d’Italia. Il rischio che la commissione diventi una rissa tutti contro tutti è temuto da molti, anche dal Quirinale, e ora la norma che affida a Casini l’ultima parola sulle domande è per molti la conferma che si vuole che la situazione non sfugga di mano. Non solo, ma anche la secretazione o meno degli atti verrà decisa dal solo ufficio di presidenza composto da Casini, dai suoi due vice Renato Brunetta (Fi) e Mauro Maria Marino (Pd) e dai segretari Paolo Tosato (Ln) e Karl Zeller (Autonomie). Secondo Enrico Zanetti di Scelta civica, questa norma «è la cartina di tornasole del perché è stato voluto in quel ruolo chi (Casini, ndr) pensava che la commissione d’inchiesta sulle banche fosse addirittura meglio non farla». Giovanni Paglia, di Sinistra italiana, attacca dicendo che «il patto del Nazareno è ancora vivo». Per M5s «è evidente l’intento della maggioranza di insabbiare tutto». Giorgia Meloni, poi, si dice «pessimista» sulla commissione e parla di un «gioco delle tre carte». Il Pd respinge le critiche, Gian Carlo Sangalli parla di obiezioni «pretestuose» e Renato Brunetta rivendica: «Ricordo all’amica Giorgia che la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Banche l’ho chiesta io per primo, quasi tre anni fa». In serata il clima sembra tuttavia distendersi, tanto che viene approvata all’unanimità la delibera sul regime di classificazione degli atti.
Tutti contro Renzi su Bankitalia. Ma a non volere più il Governatore Visco è un folto partito trasversale, scrive il 20 ottobre 2017 Stefano Sansonetti su "La Notizia Giornale”. Ammettiamo pure che nel metodo, come dicono i critici, la mozione del Pd contro il Governatore della Banca d’Italia non sia stata proprio da manuale. Ma nel merito della critica all’operato di Ignazio Visco trova condivisione? E quanto ampia? Domande non peregrine, visto che finora si è stagliato nitidamente solo il partito dei difensori di Visco, da Sergio Mattarella a Giorgio Napolitano, passando per Carlo Calenda, Walter Veltroni e via dicendo. A dir la verità anche i “difensori” si sono tenuti ben lontani dal nocciolo della gestione degli ultimi sei anni a palazzo Koch. Ma forse adesso è interessante andare a vedere quali e quanti sono gli “accusatori” del Governatore. E scoprire che sono tanti. Un critico, seppur felpato, è il procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Il quale, in occasione di una delle primissime audizioni davanti alla Commissione d’inchiesta sulle banche, l’altro giorno ha puntato l’indice sulle incredibili sovrapposizioni tra Autorità di controllo sulle banche. Il fendente – Alludendo poi a via Nazionale, Greco ha puntualizzato che “spesso c’è stato un approccio prudente” da parte della vigilanza di Bankitalia. Prudenza che “è un atteggiamento spesso giustificato dalla necessità di evitare danni sistemici”. Poi però, e qui è arrivata una stoccatina, “quando c’è il reato bisogna avvisare le procure perché se poi lo scopro da solo è ancora peggio”. Critiche che invece diventano bordate in altre consistenti fette del Parlamento. Eh sì, perché agli archivi della Camera questi giorni infuocati hanno consegnato non soltanto la mozione Pd, poi approvata, ma anche quelle di molte altre forze (successivamente respinte). Si prenda l’iniziativa dei Cinque Stelle, firmata da pezzi grossi del Movimento come Vito Crimi, Paola Taverna e Nicola Morra. Secondo l’atto pentastellato “nell’ultimo decennio Banca d’Italia avrebbe esercitato un controllo carente su determinate gestioni del credito e del risparmio”. E tale “cattiva gestione avrebbe contribuito a determinare numerosi casi di crac finanziario, ben 7 negli ultimi 9 anni”. Stesso tenore – E che dire della mozione della Lega Nord? Anche questo atto, firmato da massimi esponenti del Carroccio come Giancarlo Giorgetti, Massimiliano Fedriga, Paolo Grimoldi e Umberto Bossi, picchia duro sul Governatore. In un passaggio vi si legge che “la vigilanza operata negli ultimi anni ha presentato numerose falle derivanti proprio dalla mancata individuazione e, ancora peggio, in alcuni casi dalla mancata interruzione e sanzione delle condotte poco trasparenti”. Stesso tenore delle accuse contenute nella mozione di Fratelli d’Italia, tra i cui firmatari vi sono Giorgia Meloni e Fabio Rampelli. Fdi scrive che “negli ultimi anni il sistema bancario e finanziario nazionale è stato scosso da crisi che hanno investito numerosi istituti”. Situazioni che “hanno messo in luce una fragilità del sistema nella quale, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, la carente o addirittura omessa vigilanza ha giocato un ruolo determinante”. Ancora, nel gruppone dei critici del Governatore della Banca d’Italia c’è anche Scelta Civica-Ala, la formazione dei reduci montiani uniti alla pattuglia verdiniana, spesso nella vesti di stampella del Governo. In una loro mozione, firmata da fedelissimi di Denis Verdini come Ignazio Abrignani, Francesco Saverio Romano, Luca D’Alessandro e Massimo Parisi, c’è scritto che “ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo risulterebbe oltremodo incoerente e sospetta agli occhi dei cittadini una posizione che da un lato ritiene addirittura opportuna la costituzione di una Commissione bicamerale di inchiesta sull’attività della vigilanza bancaria, e dall’altro ritenesse auspicabile, invece di un fisiologico e non traumatico ricambio, la conferma alla naturale scadenza dei vertici apicali” della Banca d’Italia. Le richieste – Ebbene, per tutte queste mozioni, così come per quella del Pd ispirata da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, la conclusione è sempre la stessa: impegnare il Governo a valutare l’opportunità di non confermare Visco sulla poltrona più importante di Bankitalia. Il dato non può non far riflettere, soprattutto sulla convenienza strategica di alcune scelte. Sul punto c’è chi dice che un Visco confermato Governatore, con queste premesse parlamentari dai non felicissimi auspici, rischierebbe di farsi “scorticare” in Commissione banche. O comunque di alimentare un tiro al bersaglio che lo dipingerebbe con il banchiere attaccato a ogni costo alla poltrona. Anche perché dall’esterno le stoccate non mancano, e presumibilmente continueranno a non mancare. Si pensi al fronte caldo delle associazioni dei consumatori. Qualche mese fa l’Adusbef guidata da Elio Lannutti, secondo alcuni in predicato di candidarsi con il Movimento Cinque Stelle, ha addirittura lanciato una petizione contro Visco. Qui si chiede al presidente della repubblica e a quello del Consiglio di non confermare il Governatore “per l’incapacità di prevenire crac e dissesti bancari che hanno bruciato 110 miliardi di euro nelle ultime 7 bancarotte di Banca Etruria, Banca Marche, CariChieti, CariFerrara, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, Mps, gettando sul lastrico 350 mila famiglie”. Senza contare che nei mesi scorsi un bel fastidio a Visco era stato arrecato dal banchiere Pietro D’Aguì, ex numero uno di Banca Intermobiliare, che ha presentato contro Bankitalia un esposto alla procura di Roma, basato addirittura su un memoriale depositato dall’avvocato Michele Gentiloni Silveri, cugino del premier. Certo, D’Aguì ha il dente avvelenato per alcune sanzioni subìte dalla Vigilanza negli anni passati e per alcune operazioni che Palazzo Koch non gli ha avallato. Ma la sua iniziativa non è certo stata indolore per via Nazionale. E per finire nei giorni scorsi a puntare l’indice sul Governatore sono stati anche altri ambienti bancari. A Ferrara, scottata dal tracollo di Carife, ha fatto rumore l’accusa di Riccardo Maiarelli, presidente della Fondazione Carife, il quale si è detto stupito “che solo ora, e con tutto quello che è accaduto, ci si accorga che Visco non aveva la qualità per guidare l’istituto”.
Silvio Berlusconi: "Su Bankitalia dal Pd opportunismo fuori luogo". Dopo le critiche dell'ex Cav al Governatore Visco: "Da sinistra solo cupidigia di potere, vuole le poltrone", scrive il 20/10/2017 "L'Huffington Post". Il primo giorno sono stati i colonnelli azzurri a riempirsi la bocca di distinguo sull'operazione anti-Visco messa in campo dal Pd. Ieri Silvio Berlusconi ha sparato ad alzo zero, addossando al governatore della Banca d'Italia le responsabilità della crisi degli istituti di credito. Oggi, terzo giorno, ennesima giravolta. Con il leader di Forza Italia che si è rispostato al di là della barricata, a fare da argine alle critiche contro Visco. Ecco le sue parole: "Sul caso Bankitalia la mia posizione è stata di massima trasparenza e chiarezza: ho denunciato l'antico vizio della sinistra per l'occupazione dei posti e ribadito, allo stesso tempo, che è comprensibile la volontà di controllo su quello che è successo in questi anni", sottolineando che "non c'è alcun 'asse con Renzi', come qualche giornale ha maliziosamente insinuato". "Proprio per questo abbiamo chiesto per primi la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle banche che ha appena iniziato i suoi lavori. Spetterà proprio alla Commissione Parlamentare indagare su comportamenti di banche e banchieri, e naturalmente anche su quello degli Organi di Vigilanza", sottolinea Berlusconi che, sulla sinistra attacca: "Un comportamento che svela appunto quell'antica cupidigia di potere della sinistra che mira solo ad occupare i posti. Prima lo faceva dopo le elezioni, adesso lo fa anche prima".
Poi, all'ora di pranzo, addirittura una nota ufficiale, se qualcuno non avesse bene inteso il cambio secco di posizione: "La Banca d'Italia, come tutti sappiamo, appartiene all'Eurosistema e la sua indipendenza è sancita nei trattati che hanno istituito la Banca Centrale Europea. Quando si intacca in qualche modo l'autorevolezza di Bankitalia si scalfisce l'intero sistema bancario europeo e si incide, negativamente, sulle relazioni internazionali del nostro Paese, messe ai margini dall'improvvida iniziativa parlamentare dei giorni scorsi del Partito democratico e del suo segretario, Matteo Renzi. La sinistra ha da sempre avuto nel suo Dna la voglia spasmodica di occupare tutte le posizioni di potere. Una volta lo facevano dopo le elezioni, stavolta, sentendo l'odore della sconfitta, lo stanno provando a far prima, anche con comportamenti disdicevoli e istituzionalmente scorretti. In merito alle vicende legate alle crisi che hanno colpito il nostro sistema bancario e finanziario negli ultimi anni, la posizione di Forza Italia è sempre stata cristallina. Siamo stati noi, per primi, a chiedere e volere con forza l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta per far luce su quanto accaduto. Vogliamo trasparenza e verità, sulla finta crisi e la relativa speculazione sullo spread, su Banca Etruria, su Monte dei Paschi, sulle Banche Venete, sui conflitti di interessi all'interno del governo in questi ultimi anni. Su tutto. Vogliamo trasparenza e verità per le centinaia di migliaia di risparmiatori e di piccoli azionisti che in questo disastro hanno perso tutto. Cerchiamo le risposte per loro, e per capire chi ha sbagliato. Vogliamo capire chi doveva vigilare e non l'ha fatto abbastanza, e su questo non faremo sconti a nessuno. Chiarezza e risposte per gli italiani. In merito a Banca d'Italia noi siamo per il totale rispetto di una nostra fondamentale istituzione e per salvaguardare in ogni modo la sua autonomia. Mai trascinare Via Nazionale in scontri tra gruppi politici o partiti. Per questa ragione non abbiamo accettato l'atteggiamento avuto in Parlamento dal Partito democratico e abbiamo denunciato il loro opportunismo fuori luogo e pericoloso per la nostra democrazia. Abbiamo tenuto, noi, un comportamento limpido. Siamo Forza Italia, una forza politica popolare, responsabile e coerente. Dalla parte dei cittadini, ma difendendo sempre e comunque le nostre istituzioni repubblicane. Non siamo e non saremo mai come la sinistra".
E Gianni Letta disse: "Non voteremo mai contro Visco e Draghi". Il principe della diplomazia berlusconiana frena gli animal spirits del suo gruppo sulle banche. Il dialogo sul governo oggi per le larghe intese domani, scrive il 18/10/2017 "L'Huffington Post". Accade qualche ora prima del dibattito parlamentare sulle banche, quando è costretto a intervenire il Gianni Letta, il principe della diplomazia berlusconiana, per sedare gli animal spirits che si erano impadroniti del gruppo alla Camera. Anche con una certa irritazione: "Sarebbe una follia... Noi non possiamo e non dobbiamo votare contro Visco e Draghi". Nasce così la posizione dell'astensione che il capogruppo Renato Brunetta spiega in Aula, suo malgrado, attaccando il Pd e la mossa "indecente" di Renzi. Perché in verità, proprio sulle banche, la posizione del capogruppo di Forza Italia, basta scorrere lo storico delle agenzie di questi mesi, è assai critica sul governatore che, sei anni fa, fu nominato proprio dal governo Berlusconi. Così come, in questi mesi, lo stesso capogruppo è stato tra i principali sostenitori della commissione di inchiesta sulle banche. E, raccontano fonti informate, la tentazione sedata da Gianni Letta, era quella di dare in Aula un segnale in tal senso. Da questa dialettica nasce la posizione dell'astensione, decisa solo dopo che il governo era intervenuto per mitigare il testo. In questa storia che sembra minore ma minore non è, c'è l'affermazione del partito delle larghe intese, incarnato dal principe della diplomazia berlusconiana, che considera ai limiti della follia una posizione che porta allo scontro istituzionale con il capo dello Stato e soprattutto appare un affronto a Mario Draghi. In parecchi ricordano quando il presidente della Bce si presentò ad ascoltare Visco nelle sue Considerazioni finali a maggio, presenza irrituale – la prima volta in sei anni – e ad alto significato "politico", proprio in un momento in cui – anche allora – tutte le polemiche sulla commissione di inchiesta impattavano sulla credibilità di via Nazionale. Proprio quella presenza fu letta come un sostegno pubblico nei confronti di Visco e comunque una difesa dell'immagine e della reputazione di Bankitalia. Ecco, "non possiamo votare contro Draghi" dice Letta mentre nei Palazzi che contano rimbalzano voci di una irritazione del presidente della Bce e di suoi contatti col Quirinale, costretto a sua volta a intervenire con una nota ufficiosa, con l'intento anche di rasserenare i mercati. Larghe intese non significa sostegno a Renzi, significa sostegno al governo oggi, per candidarsi a essere perno di un governo di domani. E non è un caso che Paolo Gentiloni in Aula oggi cita il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, il vero candidato di Berlusconi (e Letta) a palazzo Chigi: "Condivido la posizione di Tajani contraria alla proposta Bce sui crediti in sofferenza". Il riferimento è alla battaglia che tutte le banche italiane vogliono che il governo faccia, in opposizione alla richiesta della vigilanza Bce, a maggioranza tedesca, di aumentare il livello di capitale delle banche per coprire crediti garantiti e non garantiti. Questione che non è stata toccata dalle mozioni di ieri. E non è un caso che, non solo sulla legge elettorale, Forza Italia si sia comportata, in queste settimane, quasi come una stampella parlamentare del governo: gli assenti sulla nota di scostamento, la non partecipazione al voto sulla legge europea, il voto bipartisan sui vaccini. Il governo è il principale interlocutore, più di Renzi. Anche di Mediaset. Ed è evidente che l'interlocuzione è a doppio senso, perché la mossa della golden power su Telecom è certo la mossa di un ministro virtuoso, che pone il governo in una posizione terza e di garanzia, ma anche un'arma per il prossimo governo al fine di tutelare Mediaset dalle pretese di Vivendi. Perché con Berlusconi torna anche il suo gigantesco conflitto di interessi.
LA VERITÀ SULLE BANCHE. La sinistra ha lucrato sul credito e ora ha paura delle indagini, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 21/10/2017, su "Il Giornale". La verità sulle banche è semplice, e va ben oltre le eventuali responsabilità dell'attuale governatore Ignazio Visco, entrato da qualche ora nel mirino di Matteo Renzi guarda caso poco dopo aver osato chiedere ingenti danni patrimoniali al padre della ministra Maria Elena Boschi, sciagurato amministratore di Banca Etruria. È una verità che viene da lontano e che ha sempre ostacolato o limitato l'attività di controllo e vigilanza. Si tratta di questo: pur essendo un istituto di diritto pubblico, i proprietari di Banca d'Italia sono le banche stesse, che una volta erano in maggioranza pubbliche o semi pubbliche ma che nel tempo sono diventate tutte private. Per intenderci: gli azionisti di Bankitalia si chiamano Intesa San Paolo, Unicredit, Ubi, Monte dei Paschi, Carige e decine di altri medi e piccoli istituti di credito. In sostanza il controllore (Bankitalia) è di proprietà dei controllati (le banche). È vero che la legge garantisce al governatore (nominato dal presidente della Repubblica su indicazione del governo) la piena e assoluta autonomia, è altresì vero che di recente si è cercato di mettere una pezza a questa imbarazzante anomalia. Ma il problema resta, come dimostra la storia. Può nella pratica l'amministratore delegato di una società fare un mazzo tanto ai suoi azionisti? In teoria, non nella pratica o almeno non sempre con la libertà, la severità e la celerità necessarie. Seconda verità. Le banche sono società per azioni che operano, o almeno dovrebbero, secondo regole di mercato e nell'interesse esclusivo degli azionisti. Ma non è così, perché dagli anni Novanta sono controllate - il motivo è complicato e noioso da spiegare - dalle rispettive Fondazioni che sono di fatto istituzioni politiche. Adesso non è più così. Ma questo spiega, per esempio, come il Pd abbia potuto fare carne di porco con il Monte Paschi di Siena fino a farlo fallire. Altro che Draghi o Visco. I guai delle banche arrivano dall'intrusione della politica - meglio dire della sinistra - nella gestione disinvolta e interessata delle banche. E la polemica di questi giorni ne è la prova. Non è normale che un membro del governo (la Boschi) chieda le dimissioni del governatore di Bankitalia per non aver controllato le malefatte di suo padre (Pier Luigi Boschi, vice presidente di Banca Etruria) del quale a suo tempo lei garantì con orgoglio la correttezza davanti a tutto il Parlamento. C'è qualche cosa che non torna nella logica di Maria Elena Boschi. Tanto che viene un sospetto: e se Renzi fosse innervosito non dai mancati controlli ma dal fatto che qualcuno ha cominciato a controllare e a chiedere i danni? A pensar male spesso la si azzecca.
La Banca d'Italia di chi è? E' un istituto di diritto pubblico ma in mano a privati, scrive Franco Corleone il 20 ottobre 2017 su “L’Espresso”. La storia della banca d’Italia è assai interessante. Nasce alla fine del 1800 dalla fusione di quattro banche e le riflessioni a tal proposito di Giustino Fortunato sono ancora oggi di estrema attualità. E’ solo nel 1926 che la Banca d’Italia vide riconosciuta l’esclusiva prerogativa dell’emissione della moneta (escludendo Banco di Napoli e Banco di Sicilia) e nel 1936 diventò istituto di diritto pubblico e di proprietà pubblica. Non è questa la sede di affrontare le successive vicende fondamentali per la storia economica e sociale d’Italia con il ruolo spesso decisive dei Governatori eccezionali da Menichella a Einaudi, da Carli a Baffi, da Ciampi a Draghi. Il prestigio della Banca di via Nazionale è caduto con Mario Fazio e la tradizione dell’intangibilità del mostro sacro fu intaccata. Ora la sgangherata mozione del Partito Democratico svela ipocrisie e tentazioni di potere. La caratteristica dell’indipendenza e dell’autonomia della Banca d’Italia è un valore da salvaguardare, ma questa volta potrebbe essere l’occasione per riprendere i contenuti d del disegno di legge del 1999 sulle norme della proprietà della Banca d’Italia e sui criteri di nomina del Consiglio superiore a cui compete la proposta di nomina del Governatore, assunta dal Presidente del Consiglio e fatta dal Presidente della Repubblica. Allora chi sono i partecipanti al capitale della Banca d’Italia? Wikipedia riprende i dati dal sito della Banca di Palazzo Koch e ci mostra una realtà paradossale: Il 30,3% appartiene a Intesa San Paolo, il 22.1% al Unicredit, il 6,3% a Assicurazioni Generali, il 6,2% alla Cassa di Risparmio di Bologna, il 3% all’INPS, il 2,7 all’INAIL, il 4% alla Banca Carige, il 2,8 alla BNL, il 2,5 al Momte dei Paschi di Siena, il 2,1 alla Cassa di Risparmio di Biella e Vercelli e il 2 alla Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza. I 13 membri del Consiglio Superiore sono Orietta Maria Varnelli, Nicola Cacucci, Gaetano Maccaferri, Francesco Argiolas, Franca Maria Alacevich, Carlo Castellano, Donatella Sciuto, Marco Zigon, Giovanni Finazzo, Marco D’Alberti, Lodovico Passerin d’Entreves, Andrea Illy, Ignazio Musu. Tutto chiaro, limpido e trasparente? Sarebbe bello che dallo sgarrettamento tipico del codice barbarino operato dall’onorevole Rosato si passasse alla discussione di una riforma seria per dare credibilità e autorevolezza alle istituzioni repubblicane.
L'ex dirigente di banca svela la grande truffa: così ci hanno sempre fregato sui risparmi, scrive il 21 Ottobre 2017 Francesco Specchia su "Libero Quotidiano". La domanda - diceva il poeta - sorge spontenea: ma Bankitalia, nella sua romanzesca propensione all' omesso controllo ci è o ci fa? Il massimo della negligenza di Palazzo Koch si ebbe, forse, nel 2007 con l' autorizzazione (del 17/3/2008 firmata direttamente dall' allora governatore della Banca d' Italia Mario Draghi) all' acquisto da parte del Monte dei Paschi di Siena della Banca Antonveneta che ufficialmente doveva essere comprata per 9 miliardi ma che finì per costare 17 miliardi; e questo perché c' erano, in realtà, altri 7,9 miliardi che il "Monte" dovette saldare per il debito di Antonvenata con gli olandesi di Abn Amro. Fu l'inizio della fine del "Monte". Una superficialità degli organi di sorveglianza mediaticamente formidabile. Ma, al di là dei casi mediatici, pare quasi vi sia un uso comune, una prassi, un senso di consuetudine che scorre sotto la pelle del sistema bancario incentrato sull' elusione accurata dei controlli verso i nostri istituti di credito. Questo scopro sfogliando Sacco Bancario (Chiarelettere, pp176, 14 euro) firmato da Vincenzo Imperatore, ex dirigentissimo di banca poi pentito, e da Ugo Biggeri, fondatore di Banca Etica. «Per esempio ci sono documenti e rivelazioni del risk manager e responsabile audit della Banca Popolare delle Province Molisane - un gioiellino d' efficienza- che ci dimostrano come i controlli degli organi di vigilanza sono solo formali, basate su autocertificazioni» mi racconta Imperatore «le sto parlando del cosiddetto mitico "piano di risanamento" delle banche a fare previsioni strategiche su come riequilibrare la situazione patrimoniale e finanziaria in caso di scenari particolarmente avversi. Che non è altro che un modulo attraverso cui Palazzo Koch chiede, praticamente, alla banca: sei a posto? La banca risponde: sì. Vabbuò. Punto. E i controlli lì finiscono...». L' importanza ontologica dell'autocertificazione. Così in caso di crac si potrà sempre obbiettare che si erano chieste preventivamente le opportune verifiche. Poi, c' è il caso di un importante indice NSFR sigla che sta per Net Stable Funding Ratio (coefficiente netto di finanziamento stabile), che in sintesi definisce il rapporto tra i soldi disponibili di una banca (chiamiamolo tesoretto) e gli impieghi (cioè prestiti e capitale investito). Indicatore terribile che parte da Basilea 3 e dalla BCE e che dovrebbe garantirci la solidità delle banche; ma a cui dal 2018 sarà quasi impossibile attenersi. Ma la Bce, e indirettamente lo Stato e Bankitalia, suggeriscono, nello stesso tempo, il sistema per aggirare quei medesimi strettissimi parametri che loro stessi hanno imposto. «E lo fanno perché il debito pubblico è detenuto prevalentemente dalla banche; quindi o le banche si liberano del debito vendendo subito i titoli di Stato, e lo Stato crolla, o si crea della fuffa», commente sempre Imperatore. Omessi controlli o controlli inutili, dunque. Che avvengono, guarda caso soprattutto per le Less Significant Institutes, le banche territoriali che dovrebbero essere sorvegliate a vista da Palazzo Koch, mentre le vigilanza delle "grandi banche" italiane spetta alla Banca centrale europea. Nel libro si squadernano le stupefacenti inazioni di entrambi gli organi di vigilanza. Per esempio si parla del sistema violento delle «operazioni baciate» (la pratica di condizionare l'erogazione di finanziamenti all' acquisto di azioni dell'istituto) denunciato ma mai «visto» veramente, sia da Bankitalia che da Consob. Oppure si imperlano le inutili ispezioni di Bankitalia alla banca partenopea Promos; la quale, pur con capitale sociale di soli 10mila euro, finanza l'acquisto di una società aerospazionale -sempre a Napoli- per 1.720.000 euro. La suddetta società è documentalmente tuttora inattiva, ma Bankitalia nonostante un'ispezione nell' ultim' anno, ancora non se n' è accorta. Poi c' è la storia dell'anatocismo che non è mai scomparso; e che, nonostante le dolorose denunce dei clienti delle banche e nonostante le renzianissime norme antiusura, la nostra banca di controllo per eccellenza fatica assai a rilevare. E fanno capolino, in una triste processione, decine di altri spaventevoli esempi. Il che ci riporta alla domanda iniziale: Bankitalia ci è o ci fa? «Un po' e un po'» continua Imperatore «la colpa dell'impreparazione dei funzionari di Bankitalia di fronte alle sempre più sofisticate strategie commerciali delle banche che si affidano a consulenti iperspecializzati nel falsificare i bilanci. Ma è pure colpa -non la chiamo collusione- di una strana superficialità...». Quindi Bankitalia va chiusa? «Oddio, Bankitalia più che chiudere deve azzerare totalmente i vertici, come ha fatto a Unicredit Mustier uno che ha tagliato l'intero management sennò non sarebbe mai riuscito a ricapitalizzare con 13 miliardi». Scommettiamo che non accadrà nulla?
Ma Bankitalia non si ferma con una mozione, scrive Lanfranco Caminiti il 19 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Pare che nella tempesta scatenata dalla mozione del Pd su Visco, con il governo che si affanna a limare e rivedere il testo, il presidente della Repubblica che mette i puntini sulle i, il premier che si defila, gli editorialisti dei quotidiani che lanciano allarmi, “personalità varie” che temono per la nostra stabilità e si stracciano le vesti, il più tranquillo sia proprio lui, Visco Ignazio. Il fatto è che a Palazzo Koch sono abituati alle tempeste, e a tenere dritta la barra. Il fatto, pure, è che se entri in Bankitalia sei di Bankitalia per sempre. Un po’ come per l’Arma dei carabinieri. D’altronde fino al governatore Fazio – e a tutto l’ambaradam che ne venne – la carica era “a vita”, come per la Corte costituzionale americana, e ora è un mandato di sei anni, rinnovabile per un’altra sola volta. Se c’è un’istituzione in Italia che premia il merito – non importa di dove discendano i tuoi lombi, non importa se hai frequentato o meno le più prestigiose università, non importa se conti o no amicizie importanti – quella è Bankitalia. Che sa coltivare i talenti, li tiene stretti, li allena e li mette alla prova perché un giorno possano regnare, e finalmente un giorno li incorona. A leggere l’elenco dei primi direttori generali dal 1893 al 1928 – quando ancora non c’era la carica di governatore – è proprio così: Bombrini, il primo, mazziniano da giovane, chiama in Banca d’Italia Grillo, un orfano cresciuto dalle monache, che gli succede e chiama in Banca d’Italia Marchiori, garibaldino da giovane, che gli succede e chiama in Banca d’Italia Stringher, un figlio di immigrati, che poi succede a se stesso, perché diventa il primo governatore. E da allora la musica non è quasi mai cambiata: dei dieci governatori dal 1928 a oggi, otto hanno prima servito l’incarico di direzione generale. Con due sole eccezioni, e che eccezioni: Luigi Einaudi e Mario Draghi. E, a parte la prima genia “nordica”, senza riguardo all’area geografica di provenienza: Azzolini era napoletano, Menichella era foggiano, Fazio era di Alvito, Frosinone, e lo stesso Visco Ignazio è napoletano. Il prestigio internazionale di cui gode – per la serietà, la professionalità, la competenza – nasce da qui, dal lavoro duro: è come l’Accademia di West Point, come il pugno di università della Ivy League, ma senza il fardello sospetto di aver potuto frequentare quelle austere e storiche aule solo perché papà aveva i dollaroni necessari per fare enormi donazioni, oltre a pagare rette con cui puoi varare una finanziaria di un paese europeo. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E allora pensate a Bombrini e Grillo che si trovarono di fronte alla circolazione di cinque tipi diversi di banconote, emesse oltre che dalla Banca Nazionale anche dal Banco di Napoli, dal Banco di Sicilia, dalla Banca Nazionale Toscana e dalla Banca Toscana di Credito. Ricordate E’ spingule francese, la celeberrima canzone di Di Giacomo? Fa così: «Nu juorno mme ne jètte da la casa / jènno vennenno spíngule francese / Mme chiamma na figliola: ‘ Trase, trase / quanta spíngule daje pe’ nu turnese? ”» È del 1888, e c’erano ancora i tornesi, i baiocchi, i quattrini, gli scudi, il grano, in giro per l’Italia appena unita. Se uno pensa alla “flessibilità dei cambi” di qua e di là del Garigliano, c’è di che far tremare i polsi. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E quando nel marzo 1979 incriminarono Paolo Baffi, il governatore, e arrestarono Sarcinelli, direttore generale, per favoreggiamento e interesse privato in atti d’ufficio nel corso di un’inchiesta sul mancato esercizio della vigilanza sugli istituti di credito – proprio lui che aveva intensificato l’attività ispettiva, tanto da essere chiamato “il governatore della Vigilanza”, ricorda qualcosa? Certo, in realtà era una lotta ai coltelli forse legata allo scandalo dei prestiti della Banca di Roma verso la banca di Michele Sindona poco prima che fosse posta in liquidazione coatta amministrativa, o all’enorme “buco nero” di Italcasse che aveva continuato a fornire liquidità agli “amici degli amici” democristiani, e li prosciolsero entrambi; ma dopo due anni, e Baffi già in agosto aveva deciso di dimettersi dall’incarico. Non senza aver prima suggerito al presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, il nome del suo successore che era poi il direttore generale dell’Istituto, tale Carlo Azeglio Ciampi. Dite che questa intorno a Visco è una gran tempesta? E quando nel 2005 scoppiò lo scandalo del ruolo “improprio” assunto dal governatore Fazio nella vicenda tra Antonveneta e Banca popolare Lodi per cui fu costretto a dimettersi e gli succedette – questa, una vera “discontinuità” – un uomo che proveniva dalla finanza privata, da Goldman Sachs, Mario Draghi? E quando il primo numero del 2004 di «Famiglia cristiana» pubblicò l’elenco dei partecipanti al capitale della Banca d’Italia con le relative quote, una lista di nomi e imprese fino a quel momento considerato riservatissimo, e che solo l’anno dopo divenne pubblico e trasparente? E quando nel 1982 Andreatta e Formica, rispettivamente ministro del Tesoro e delle Finanze, litigarono “come comari” rispetto il “divorzio” tra il Tesoro e la sua banca centrale e Bankitalia si trovò nel mezzo? A ripercorrere la storia della Banca d’Italia, si ripercorre la storia politica, prima ancora che economica, di questo paese, dalla sua unità fino al grande boom degli anni Sessanta, l’istituzione della Cassa per il mezzogiorno (benedetto sia Menichella), e poi l’inflazione e poi l’ingresso in Europa. E pensate che questa storia possa entrare in fibrillazione per una mozione, primo firmatario Silvia Fregolent?
Migliore: «Il Parlamento ha il diritto di giudicare Bankitalia», scrive Giulia Merlo il 20 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". «La mozione spiega la posizione della maggioranza, ora nessun totonomi: il successore lo sceglieranno Gentiloni e Mattarella e noi lo appoggeremo con convinzione». «Visco? Chiunque si trovi in posizione di vertice ha il dovere di sottoporsi al giudizio sereno del Parlamento». Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia del governo Gentiloni e fedelissimo del segretario dem Matteo Renzi, ribadisce la linea della maggioranza del suo partito sulla questione Bankitalia e conferma: «La mozione è stata pienamente condivisa dal governo». E dopo lo scontro di ieri l’altro, il premier Gentiloni prova a gettare acqua sul fuoco confermando piena fiducia alla sottosegretaria Maria Elena Boschi, individuata da molti come l’ispiratrice della mozione anti- Visco.
INTERVISTA A GENNARO MIGLIORE. «Visco? Chiunque si trovi in posizione di vertice ha il dovere di sottoporsi al giudizio sereno del Parlamento». Gennaro Migliore, sottosegretario alla giustizia del governo Gentiloni e fedelissimo del segretario dem Matteo Renzi, ribadisce la linea della maggioranza del suo partito sulla questione Bankitalia e conferma: «La mozione è stata pienamente condivisa dal governo».
La mozione del Partito Democratico contro il governatore di Bankitalia Ignazio Visco è stato un fulmine a ciel sereno, che ha alzato la tensione nella maggioranza. Come mai questa sferzata inattesa?
«Guardi, chiariamo subito che la mozione del Pd non è stata una sua iniziativa, ma è intervenuta su un ordine del giorno fissato da una mozione sullo stesso argomento del Movimento 5 Stelle».
Quindi è stata una risposta ai 5 Stelle e non un’iniziativa premeditata?
«Su un tema come Bankitalia la maggioranza, ovviamente, non poteva limitarsi ad esprimere un sì o un no ad una mozione di altri, senza argomentare. Il tema è troppo delicato, quindi si è scelto di realizzare una mozione che spiegasse la posizione della maggioranza e che ha ricevuto ampia condivisione al momento del voto».
Anche il governo ha dato l’impressione di essere stato colto alla sprovvista.
«Non direi, visto che la mozione del Pd ha trovato la convergenza e l’accordo da parte del Governo, espresso attraverso il parere favorevole dato dal delegato del Ministero dell’Economia. Questo è il contesto in cui oggettivamente va collocata la discussione».
Eppure, altrettanto oggettivamente, le reazioni sollevate dalla mozione sono state molto forti anche da parte di voci interne al Pd.
«Io ritengo si sia data enfatizzazione eccessiva alle reazioni, che non corrisponde alla realtà. Ripeto, non c’è alcun contrasto tra Pd e governo: il Pd sostiene questo esecutivo e non ha mai messo in discussione l’autonomia della Banca d’Italia. E’ anche vero, però, che noi abbiamo l’obbligo di individuare quali siano stati gli elementi che non hanno funzionato, in particolare in relazione alle cause del fallimento di varie banche, sulle quali è bene ricordare che il governo sostenuto dal Pd è intervenuto».
Polemiche sterili, quindi?
«Più che altro per nulla appassionanti. Anche perché molte delle reazioni riportate come indiscrezioni e retroscena da varie testate sono poi state puntualmente smentite dai protagonisti».
Però l’attacco al governatore Visco è stato diretto e preciso. Come mai un affondo così personalizzato?
«Io credo che ciascuno, nello svolgere la propria attività di vertice, ha anche il dovere di sottoporsi al giudizio del Parlamento. Un giudizio pacato, circostanziato e sereno ma pur sempre un giudizio».
Personalizzazione c’è stata, quindi.
«L’idea che ci possa essere stata una personalizzazione fa parte della cattiva abitudine giornalistica di trattare ogni cosa come se ogni istituzione fosse interpretata semplicemente da chi ne è al vertice. Io insisto nel dire che noi non abbiamo mai esitato a dire che ci sono stati passaggi sbagliati da parte della politica ai tempi del governo Monti e ora una commissione d’inchiesta sulla questione banche è al lavoro per approfondire proprio questo».
Esiste il timore che l’Europa e in particolare la Banca centrale non apprezzino lo scossone al vertice di Bankitalia?
«No, anche perché l’Italia è il paese che più di altri ha fatto le riforme necessarie per la modernizzazione ed è anche tra i paesi che non hanno fatto ricorso al fondo Salvastati. Non è in alcun modo in discussione la stabilità dell’istituzione Banca d’Italia».
Inevitabilmente, questa mozione innescherà il toto- nomi per il dopo- Visco. Il Pd non rischia di incamminarsi lungo un crinale pericoloso nelle dinamiche interne?
«Scegliere i nomi è una responsabilità che spetta al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica. Io sono abituato al rispetto dei ruoli e noi appoggeremo il nostro governo. Il Pd sosterrà con convinzione la scelta che farà il premier Paolo Gentiloni».
Così Renzi ha sabotato il patto Colle-Gentiloni-Bankitalia, scrive Antonella Rampino il 19 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il giorno dopo la mozione del Pd con la quale lo si voleva sconfessare e azzoppare, il primo effetto è il rafforzamento di Ignazio Visco sulla via della successione a se stesso. Son stati costretti a dichiararlo un po’ tutti, nessun problema sul suo nome. Ed è calato il grave monito dell’unico padre nobile che al Pd sia rimasto in vetrina, Walter Veltroni, che ha bollato la mossa come «incomprensibile e ingiustificabile». Ma quel che resta, oltre al vulnus arrecato a un’istituzione storicamente strategica da parte di un partito di governo (che ieri il Wall Street Journal ha sbrigativamente annoverato di colpo tra i «populist party»), è la generale sorpresa. Soprattutto al Colle. Perché nelle scorse tre settimane una soluzione era stata trovata, e con l’accordo di tutte le parti in causa: Banca d’Italia, Quirinale, Palazzo Chigi. Occorre pensare che sono ormai alcuni mesi che il Colle aveva istruito il dossier. Si era cercato se all’interno dell’istituto vi fosse una figura di possibile successore a Visco, allo stesso livello di competenza, autorevolezza, e proiezione di entrambe le qualità a livello internazionale. La si era cercata, questa figura, senza trovarla, in una girandola di contatti allargati, che hanno inevitabilmente coinvolto anche Mario Draghi, che del resto conosce bene Via Nazionale essendone stato a sua volta governatore. E come la pensi Draghi lo si è visto con chiarezza quando, il giorno dell’annuale Relazione, è sceso da Francoforte fino a Roma – fatto del tutto inusuale – e si è fatto fotografare mentre si complimentava con Visco – cosa ancor più inusuale. E invece, con un blitzkrieg nel quale appare in controluce l’impronta digitale di Maria Elena Boschi, di cui la deputata Gregolet prima firmataria della mozione è una fedelissima, si è cercato di far saltare tutto. La sottosegretaria e plenipotenziaria renziana di Palazzo Chigi non ha mai fatto mistero della propria contrarietà davanti alla possibilità di riconferma del mandato all’attuale governatore. Visco no, ci ha creato troppi problemi, era la sostanza del ragionamento. Concetto peraltro esplicitamente ribadito da Renzi, rivendicando che «la crisi delle banche non è colpa del Pd», «chi doveva vigilare non ha vigilato» e, ancora ieri, con l’interrogativo retorico «il problema sarà mica Banca Etruria?». Davanti a tutte queste contrarietà, una ventina di giorni fa Ignazio Visco, che è un galantuomo di carattere, aveva dato a Mattarella la disponibilità a fare un passo indietro. In fondo, alla fine del prossimo mandato avrei quasi 75 anni, sono troppi, la responsabilità è gravosa… E in una nuova girandola di contatti, la soluzione individuata al Colle era stato un compromesso. Un compromesso con un precedente storico, quando alla nascita della Bce, come non volendo decidere tra Francia e Germania, si scelse come primo presidente un olandese gradito a Berlino, il quale poi dopo alcuni anni avrebbe ceduto il passo a un francese: la staffetta Wim Duisemberg- Jean Claude Trichet. L’idea era riconfermare Visco almeno per un paio d’anni, anche perché una mancata riconferma suonerebbe stonata assai in Europa. Invece, di fronte al patatrac della mozione, Mattarella è stato costretto a intervenire (ma i sismografi registravano anche una discreta attività dietro le quinte di Giorgio Napolitano, e secondo alcune fonti si sarebbe mosso anche Mario Draghi), e a farlo attraverso l’agenzia di stampa Reuters proprio per tranquillizzare i mercati internazionali. Adesso, dovrà passare la nottata. Ma quel che san tutti coloro che si occupano di banche e vigilanza, in Italia e altrove, è che il sistema bancario italiano è sano, come ha spiegato in dettaglio Visco due giorni fa al Wall Street Journal. E, soprattutto, che alla Banca d’Italia non si può rimproverare di non aver fatto i Carabinieri: la Vigilanza opera infatti di fronte a fatti compiuti, e si ferma davanti alle decisioni delle banche stesse, altrimenti si configurerebbe la preminenza di un ente pubblico sull’intero sistema creditizio. Né la Vigilanza comporta superpoteri d’altro genere: come disse Visco in un’intervista, e come non tarderà a ribadire alla Commissione d’inchiesta sulle crisi bancarie, vi sono poi decisioni che sono solo nelle mani di un governo. O, se del caso, della magistratura.
La Commissione d’inchiesta sulle banche è nelle mani di Mattarella, scrive Antonella Rampino l'8 luglio 2017 su "Il Dubbio". Mattarella ha trenta giorni di tempo per firmare il decreto, quando l’organismo si insedierà Ghizzoni potrà essere convocato. È alla controfirma del presidente della Repubblica (che a termine di Costituzione ha trenta giorni tempo) il disegno di legge che istituisce una commissione d’inchiesta parlamentare sulla crisi delle banche. Non è un mistero che Sergio Mattarella avrebbe preferito un organismo di indagine, e non dotato degli stessi poteri dell’autorità giudiziaria, senza alcuna possibilità di opporre segreti professionali o bancari (fatto salvo naturalmente quello insito nel mandato della difesa). Fu chiaro già nel corso di una vera e propria riunione, nel dicembre 2015 al Quirinale con il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, che sarebbe stato bene evitare di mettere a repentaglio con attacchi politici la reputazione consolidata all’estero di una delle non molte solide e credibili istituzioni italiane. Perché sin da subito fu chiaro che lo scopo politico di quella Commissione all’epoca chiesta a gran voce da Renzi fosse scaricare su Banca d’Italia e Consob le responsabilità politiche del crack di Banca Etruria e Popolare di Vicenza a danno dei risparmiatori. Il non celato obiettivo finale era poi di evitare il rinnovo del mandato da governatore a Ignazio Visco ( in scadenza il prossimo novembre: la procedura prevede un decreto di nomina del capo dello Stato, su proposta del presidente del Consiglio) col progetto – all’epoca – di sostituirlo con il banchiere fiorentino Lorenzo Bini Smaghi ( consorte dell’ex consigliera economica di Renzi Veronica de’ Romanis, e indimenticato nelle Cancellerie europee per aver strenuamente e inutilmente difeso il proprio posto in Bce a fronte dell’arrivo di Mario Draghi, arrivando a scrivere anche una lettera all’allora presidente della Repubblica francese Nicholas Sarkozy). Da quel lontano 2015 molte altre crisi bancarie sono scoppiate, e di fatto per vedere la luce la Commissione sulle banche ha dovuto far affidamento sui grillini, che hanno incalzato un riluttante Pd in Senato solo nel marzo del 2017: i sì furono poco più del necessario, appena 167. E ci sono voluti altri 3 mesi per il voto alla Camera dove in provvedimento si era are-È nato, per poi passare trionfante: 426 voti favorevoli. Adesso, quando probabilmente in settembre Grasso e Boldrini nomineranno i 20 componenti e la Commissione si insedierà, per il Pd potrebbe essere un vero boomerang: le crisi bancarie saranno sui media quotidianamente, e potrà essere convocato Ghizzoni (mai querelato da Maria Elena Boschi) per confermare o smentire le rivelazioni dell’ultimo libro di Ferruccio De Bortoli, e cioè se l’ex ministra delle Riforme gli abbia mai chiesto di dare una mano a Banca Etruria, della quale papà Boschi era vicepresidente ( nominato con Renzi e Boschi già al governo). E il tutto per arrivare forse solo a produrre un’unica relazione non conclusiva: la Commissione ha il mandato di un solo anno, ma scadrà con le elezioni in primavera. Banca d’Italia, intanto, è già alla controffensiva. Per l’annuale relazione del governatore, a fine maggio, è eccezionalmente sceso da Francoforte Mario Draghi: la Bce fa da scudo, non solo simbolicamente. Soprattutto è partita una vera strategia di comunicazione, fatto ancor più inedito per un’istituzione da sempre orgogliosamente non soggetta ad accountability. A Via Nazionale è arrivato Orazio Carabini, un giornalista economico di lunga esperienza e puntuto carattere (entrambe doti utili nell’affiancare, a suo tempo, Mario Sarcinelli in Bnl). Gli effetti cominciano a vedersi, soprattutto in rete. I riservatissimi briefing per i giornalisti sono oggetto di selfie (istituzionali, ma sempre selfie). Paolo Mieli ha colloquiato per il sito la vicedirettrice generale di Via Nazionale. Soprattutto Ignazio Visco ha dato una lunga intervista al Corriere della Sera nella quale, decrittato dal linguaggio sofisticato del banchiere centrale, dice: noi abbiamo ispezionato, commissariato e liquidato le banche in crisi. Ma ci sono decisioni che la Banca d’Italia non può prendere perché semplicemente non rientrano nelle sue competenze. Decisioni che spettano al governo, e ci sono punti dell’Unione bancaria europea che solo un governo può sottoporre alla Ue. Decisioni politiche che, c’è da aggiungere, si sono fatte attendere per mesi, aspettando il risultato che si credeva trionfale del referendum sulla riforma costituzionale. Come è andata, per referendum e crisi bancarie, è purtroppo noto.
[La polemica] Tredici banche fallite e risparmiatori sul lastrico, ma è demenziale incolpare Bankitalia. La colpa è dei politici. Tutta questa discussione, un po’ assurda e venata di populismo, ha avuto il torto di mettere in ombra la vera questione, e cioè le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Responsabilità storiche e molto gravi, scrive Giuseppe Turani su Tiscali il 22 ottobre 2017. Inutile fare pronostici. Troppe sono le carte in tavola e troppe le volontà in gioco. Per ora sembrerebbero certe solo due cose (fino a un certo punto…), e cioè: Visco non se ne vuole andare spontaneamente da Bankitalia e Gentiloni e Mattarella vorrebbero riconfermarlo, anche a costo di dare un dispiacere a Renzi, che invece aveva chiesto una sostituzione. Il perché dell’atteggiamento di Mattarella e Gentiloni (gli unici due a cui spetta decidere. Il parlamento non ha titolo in questa vicenda) è presto spiegato. Nonostante Visco sia sotto accusa da più giorni, contro di lui non sono emerse accuse specifiche. Si è detto che in questi anni sono fallite tredici banche, ma non si è detto quante per colpa di Bankitalia: forse nemmeno una.
Mattarella e Gentiloni avrebbero fatto volentieri a meno di questa tegola. Poi c’è la seconda ragione. In queste settimane si stanno discutendo, in sede internazionale, le nuove regole dell’Unione bancaria europea e i vertici italiani (appunto Mattarella e Gentiloni, ai quali si aggiunge da Francoforte Draghi) sono contrari a creare terremoti in Via Nazionale. E, probabilmente, è per questo che Visco non ha ancora gettato la spugna: sa di avere dalla sua parte forti elementi (le trattative in sede europea) per ottenere una conferma. Inoltre, anche se non è venuto allo scoperto, sembra che sia davvero molto appoggiato da Draghi, che lo stima e che forse pensa di averne bisogno nelle discussioni in sede Bce. Capo dello Stato e capo del governo avrebbero fatto volentieri a meno di questa tegola, e infatti si apprestavano a riconfermare Visco senza perdere altro tempo. Ma la tegola è arrivata. E si è trasformata in una specie di maremoto, di tsunami.
Renzi si è presentato come il Robin Hood che difende i risparmiatori. Renzi, incurante del fatto che non spetta al Parlamento indicare cosa fare con la nomina del governatore, è partito all’attacco e si è presentato come il Robin Hood che difende i risparmiatori dai raggiri dei banchieri. Non si sa, ovviamente, quanto questo pagherà in termini elettorali, ma rimane il fatto che il “popolo di Renzi” vuole la cacciata di Visco, identificato come colui che ha coperto e protetto i banchieri disonesti. Poco importano i fatti. Bankitalia non può mettere un ispettore alle spalle di ogni banchiere e i suoi controlli sono solo, ovviamente, ex post. La credenza popolare ormai lo identifica come protettore di banchieri avidi e disonesti, la categoria forse più odiata da tutti gli italiani.
La mozione con il quale il Pd ha sfiduciato Visco "illegittima e inopportuna". Come non importa che Sabino Cassese, presidente emerito della Corte Costituzionale, abbia definito la mozione con il quale il Pd ha sfiduciato Visco “illegittima e inopportuna”, per la semplice e ovvia ragione che parlamentarizza una questione che invece la legge ha deciso di tenere lontano dalla politica parlamentare. E’ in questo quadro agitato, irreale, un po’ da curva sud, che Mattarella e Gentiloni il 27 devono decidere. Le ultime voci dicono che potrebbero sfidare Renzi e riconfermare Visco, con la richiesta però di innovazioni e di più incisività nell’attività di sorveglianza bancaria.
Le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Tutta questa discussione, un po’ assurda e venata di populismo, ha avuto il torto di mettere in ombra la vera questione, e cioè le responsabilità della politica nelle nostre crisi bancarie. Responsabilità storiche e molto gravi. E’ demenziale l’idea che le banche italiane siano andate in crisi perché Bankitalia non ha vigilato abbastanza: sono andate in crisi perché c’è stata la crisi (come ovunque). Ma la politica, invece di intervenire rapidamente, nulla ha fatto, per anni. E, prima, aveva comunque lottizzato le banche, favorendone la mala gestione. Insomma, Visco forse poteva fare di più e urlare di più. Ma anche la politica ha le sue brave colpe. Quella stessa politica che oggi ne chiede la cacciata.
BANKITALIA/ Giornalisti, pm, vecchi banchieri: le fratture nel muro a difesa di Visco. Non sono mancati anche ieri interventi di un certo peso sulle pagine dei quotidiani italiani riguardo la vicenda legata alle nomine di Bankitalia, scrive Nicola Berti il 22 ottobre 2017 su "Il Sussidiario". Sui grandi quotidiani di ieri era significativo il contrasto fra le "frontline" quasi unificate nella difesa il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, e l'estrema complessità degli spunti offerti dallo sfoglio. Su Repubblica, ad esempio, anche l'editoriale principale — firmato dal direttore emerito Ezio Mauro — riconosce che in Italia c'è stato "un problema di vigilanza bancaria", ma di questo accusa "la politica": che non avrebbe quindi "vigilato il vigilante". Tre colonne dopo, sempre in prima pagina, Federico Rampini dagli Usa ha raccontato come il casting finale per la nuova presidenza della Fed è considerato fisiologia istituzionale: perfino se il capo dell'amministrazione è Donald Trump. E questo ha introdotto — "visto da Wall Street" — un giudizio pesantemente negativo su via Nazionale, con una sottolineatura: il vigilante è parso troppo spesso catturato dalle banche vigilate, tuttora partecipanti al capitale della banca centrale. Bisogna però andare a pagina 24 per trovare in un trafiletto economico la notizia che la Consob ha negato il via libera alla ri-quotazione in Borsa di Mps. Piccola cronaca finanziaria? Montepaschi è stato l'epicentro della crisi politico-bancaria italiana: anche se la commissione parlamentare d'inchiesta lo ha per ora emarginato dai lavoro, a favore dei più recenti crac delle popolari venete. A proposito di Consob, è comunque comprensibile che il presidente Giuseppe Vegas, negli ultimi giorni di mandato, non voglia assumersi la responsabilità di "normalizzare" la situazione Siena dopo il maxi-salvataggio statale. Un suo lontano predecessore, Guido Rossi, ci rimise il posto e un pezzo di reputazione per aver autorizzato nel 1981 l'approdo al listino del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non più tardi di un anno dopo era già una gigantesca bancarotta appesa a un ponte di Londra. Ma l'offerta informativa di Repubblica su Bankitalia, ieri, aveva in serbo anche la copertina di Donna, il supplemento femminile del sabato. "Le leggi dei numeri e le ragioni del cuore" era lo strillo su un ritratto molto intenso di Lucrezia Reichlin: l'economista della London School of Economics, molto sussurrata come possibile wild card per il dopo-Visco. Una "quota rosa" che — si dice — potrebbe riscuotere gradimenti molto diversificati: dal presidente della Bce, Mario Draghi, al leader Pd Matteo Renzi; dalla City alla vecchia aristocrazia del Pci (anzitutto il senatore a vita Giorgio Napolitano). L'establishment scalfariano del giornale-partito romano sta facendo muro su Visco, ma impostando già la partita della successione? Il Corriere della Sera non è stato da meno. La difesa istituzionale di Visco — affidata in prima al costituzionalista Sabino Cassese — non ha impedito che a pagina 49 — in uno spazio di notizie brevi — uscisse un articolo di cronaca giudiziaria. In esso — a partire da un'inchiesta di "mala banca" — è stato sintetizzato un punto di vista forte del procuratore capo di Milano Francesco Greco, decano nazionale dell'investigazione finanziaria, ascoltato l'altro giorno dalla commissione presieduta da Pierferdinando Casini. Spesso le Procure hanno dovuto confrontarsi con "un approccio prudente della Vigilanza": un eufemismo per trasmettere l'impressione che via Nazionale è stata sempre poco collaborativa coi magistrati che indagavano su banche e banchieri indiziati di aver "ostacolato la vigilanza". Insomma: per la Procura della piazza finanziaria italiana, per gli storici inquirenti di Mani Pulite, la Banca d'Italia di Visco è stata lontana dalla sufficienza sia sul fronte dell'efficacia della vigilanza, sia su quello della trasparenza verso altre autorità pubbliche in azione a tutela del risparmio. E che dire, per finire, di un articolo del Foglio in cui ricompare fra virgolette Cesare Geronzi? L'ex presidente di Capitalia, ex dirigente Bankitalia e poi storico "banchiere politico", è reduce della conferma di una dura condanna per il crac Parmalat. Nel mezzo del "caso Visco" rilascia giudizi apparentemente scontati sull'appannamento di via Nazionale nella globalizzazione finanziaria. Cita Menichella e Ciampi, Geronzi: non Antonio Fazio di cui fu sodale di ferro fino alla drammatica cacciata del governatore, nel 2005. Dodici anni dopo è un silenzio che appare assordante. Come — sembra dire Geronzi — nel 2017 la "nuova vigilanza" imposta dalla finanza liberista anche in Bankitalia ha portato a questi disastri in banca e a questo gioco al massacro attorno a Palazzo Koch?
Dopo eventi drammatici che hanno travolto col sistema bancario anche BPVI e Veneto Banca, è un dovere rinnovare i vertici di Bankitalia, scrive Ubaldo Alifuoco il 22 ottobre 2017 su "Vicenza Più". Nella seduta parlamentare del 17 ottobre scorso sono state presentate varie mozioni riguardanti la nomina del governatore della Banca d’Italia, e più o meno tutte si esprimono decisamente contro la rinomina di Ignazio Visco. In particolare, la tanto citata mozione del PD* sottolinea che “si tratta di una scelta particolarmente delicata in considerazione del fatto che l'efficacia dell'azione di vigilanza della Banca d'Italia è stata, in questi ultimi anni, messa in dubbio dall'emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche, che … avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione delle crisi bancarie.” In coerenza con tale valutazione, i firmatari impegnano il Governo “ad adottare ogni iniziativa utile a rafforzare l'efficacia delle attività di vigilanza sul sistema bancario ai fini della tutela del risparmio e della promozione di un maggiore clima di fiducia dei cittadini nei confronti del sistema creditizio, individuando a tal fine, nell'ambito delle proprie prerogative, la figura più idonea a garantire nuova fiducia nell'istituto.” Se pensiamo a quanto è accaduto negli ultimi anni in molte banche, e soprattutto nella Banca Popolare di Vicenza, non possiamo che condividere la conclusione del documento, indipendentemente da chi lo ha presentato. Sono i fatti oggettivi ad aver messo in evidenza un’azione della Banca d’Italia che non ha protetto appieno il sistema del risparmio. Su ciò basta ricordare cose che i vicentini ormai conoscono a memoria: il gonfiamento della quotazione del titolo ben al di là del suo valore reale, le cosiddette operazioni “baciate” con cui si concedevano finanziamenti a patto che venissero automaticamente sottoscritte azioni della stessa Banca, la vendita di titoli a gente il cui profilo di rischio avrebbe suggerito altri tipi di investimento, l’investimento in fondi internazionali di dubbia affidabilità, l’estensione degli sportelli prescindendo dalla loro redditività, ecc. Nonostante queste concretissime evidenze, si è sollevata una rete di protezione attorno al governatore Visco assolutamente incomprensibile. Per tutti basti leggere il contraddittorio articolo di Ezio Mauro, su La Repubblica del 21 ottobre scorso, il quale esordisce con questa affermazione: “Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell'impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore …”. Dopo tale giudizio non certo lusinghiero, invece di associarsi a chi chiede un ricambio, Mauro fa seguire un generico attacco alla politica che sfocia, di fatto, in un sostegno al rinnovo del mandato a Visco, e dunque ad una assoluzione complessiva dell’azione svolta dall’intero vertice della nostra Banca centrale. Stupefacenti poi sono le argomentazioni di alcuni politici, come Bersani e Brunetta, la cui unica preoccupazione è quella di bastonare il nemico Renzi prescindendo così totalmente dal merito della vicenda, e sorvolando sulla storia recente del sistema creditizio italiano, e veneto in particolare, dove alcuni personaggi hanno potuto spadroneggiare con il risultato di mettere sul lastrico decine di migliaia di azionisti, di risparmiatori, di professionisti e di imprese. Tra gli argomenti sollevati da questa eterogenea combriccola di fans del governatore, il più irritante riguarda il “principio di indipendenza” che deve salvaguardare la Banca d’Italia e quindi il suo governatore. Per valutare questo assunto è bene ricordare la riorganizzazione dei sistemi bancari dopo la grande crisi degli anni ’29-’30 del secolo scorso. Allora, per sottrarre la politica monetaria e del credito alle bizze della politica, anche in Italia fu redatta la Legge Bancaria del 1936, la quale stabilì regole molto rigide che ingessarono il sistema, spartirono il territorio e le modalità di erogazione del credito in modo da impedire la concorrenza a favore della stabilità. A tutela di tale impianto, si deliberò una indipedenza della Banca Centrale suggellata dalla nomina a vita del suo governatore. Regole comprensibili e opportune in una fase storica in cui la stabilità era la il bene primario da garantire. Nell’ultimo ventennio le priorità sono cambiate e la nuova legge bancaria (262/2005) ha avviato una fase di competizione volta a creare maggiore efficienza. Tra le nuove regole, vi è quella secondo cui il governatore viene nominato con decreto del Presidente della Repubblica su indicazione del Governo, per una durata di sei anni, rinnovabili per un solo mandato. E’ chiaro che il Legislatore ha voluto superare definitivamente il criterio dell’inamovibilità del vertice della Banca, e quindi della insindacabilità della sua azione. In parole più semplici, ciò significa che l’indipendenza della Banca è garantita nel corso del mandato, ma non certo che alla fine di questo non sia possibile stilare un bilancio ed esprimere una valutazione di opportunità partendo dai fatti concreti. Se si ignorano i fatti, e si procede con principi astratti come se nulla fosse accaduto in questi anni, ci troveremmo di fronte all’ennesima beffa ai danni dei risparmiatori che si sono fidati nelle capacità di controllo di una istituzione fondamentale per lo sviluppo del Paese.
*17 Ottobre 2017 – Mozione Fregolent e altri su Banca Italia.
La Camera, premesso che:
o la Banca d'Italia, banca centrale della Repubblica italiana, parte integrante del Sistema Europeo di Banche Centrali, è un istituto di diritto pubblico, regolato da norme nazionali ed europee, indipendente nell'esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze;
o le principali funzioni della Banca d'Italia sono dirette ad assicurare la stabilità monetaria e finanziaria, anche attraverso il concorso alle decisioni della politica monetaria unica nell'area dell'euro e lo svolgimento dei compiti propri di una banca centrale componente dell'Eurosistema per garantire la sana e prudente gestione degli intermediari;
o inoltre, a seguito dell'istituzione dell'Unione bancaria tra i Paesi dell'eurozona, la Banca d'Italia ha assunto dal novembre 2014 la funzione di autorità nazionale competente nell'ambito del Meccanismo di vigilanza unico (MVU o Single Supervisory Mechanism, SSM) e dal 2016 di Autorità nazionale di risoluzione delle crisi nell'ambito del Meccanismo di risoluzione unico (MRU o Single Resolution Mechanism, SRM), funzioni estremamente complesse da esercitare in un ambiente caratterizzato da difficoltà crescenti e cambiamenti profondi e che richiedono un'azione efficiente, responsabile e imparziale;
o la nomina dell'attuale Governatore risale al novembre del 2011 ed è, pertanto, imminente l'obbligo di procedere al rinnovo della carica che, ai sensi dell'articolo 19, comma 8, della legge 28 dicembre 2005, n. 262, è disposta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia;
o si tratta di una scelta particolarmente delicata in considerazione del fatto che l'efficacia dell'azione di vigilanza della Banca d'Italia è stata, in questi ultimi anni, messa in dubbio dall'emergere di ripetute e rilevanti situazioni di crisi o di dissesto di banche, che a prescindere dalle ragioni che le hanno originate – sulle quali si pronunceranno gli organi competenti, ivi compresa la Commissione d'inchiesta all'uopo istituita – avrebbero potuto essere mitigate nei loro effetti da una più incisiva e tempestiva attività di prevenzione e gestione delle crisi bancarie;
o rilevato che le predette situazioni di crisi o di dissesto hanno costretto il Governo e il Parlamento ad approvare interventi straordinari per tutelare, anche attraverso l'utilizzo di risorse pubbliche, i risparmiatori e salvaguardare la stabilità finanziaria, in assenza dei quali si sarebbero determinati effetti drammatici sull'intero sistema bancario, sul risparmio dei cittadini, sul credito al sistema produttivo e sulla salvaguardia dei livelli occupazionali,
impegna il Governo 1) ad adottare ogni iniziativa utile a rafforzare l'efficacia delle attività di vigilanza sul sistema bancario ai fini della tutela del risparmio e della promozione di un maggiore clima di fiducia dei cittadini nei confronti del sistema creditizio, individuando a tal fine, nell'ambito delle proprie prerogative, la figura più idonea a garantire nuova fiducia nell'istituto, tenuto conto anche del mutato contesto e delle nuove competenze attribuite alla Banca d'Italia negli anni più recenti. «Fregolent, Pelillo, Cinzia Maria Fontana, Tancredi».
(Mozione non iscritta all'ordine del giorno ma vertente su materia analoga).
Matteo Orfini: "Desecretiamo gli atti di Bankitalia". Il presidente del Pd vede all'opera le "manine" di via Nazionale e annuncia una lettera a Casini. E sulla Boschi: "Nessun conflitto d'interesse", scrive il 21/10/2017 Alessandro De Angelis su L'Huffington Post. Matteo Orfini, in questa battaglia su Bankitalia, indossa l'elmetto da combattimento. Appena letti i giornali, parte all'attacco, nel corso di una conversazione con l'HuffPost: "È inquietante che dentro Bankitalia ci sia una manina che passa documenti riservati prima che arrivino a una commissione di inchiesta. Sto scrivendo al presidente Casini per chiedere la desecretazione degli atti".
Si riferisce al pezzo del Corriere sui report della Vigilanza? Come leggete la parola Etruria sui giornali scattate.
«Capisco la difesa corporativa tra colleghi, ma la questione è seria. Quei documenti di Bankitalia dovrebbero essere in teoria segreti e riservati. Per questo credo di interpretare una preoccupazione anche dell'attuale Governatore nel dire che è piuttosto inquietante leggerli sui giornali. E siccome non vorrei che su questo terreno si giocasse una partita opaca lunedì invierò una lettera formale al presidente Casini».
Per chiedere?
«Di verificare con Bankitalia la possibilità di desecretare le loro carte oggetto dell'attività della commissione, in modo da rendere ancor più trasparente il nostro lavoro. Credo che nessuno possa avere paura della ricerca della verità. Così capiremo chi davvero ha paura di scoprirla e chi non ne ha. E mi chiedo se il coro unanime che in queste ore si è levato dai giornali per criticarci si assocerà a questa mia richiesta».
Desecretiamo anche il cdm.
«Diciamo che, come noto, non c'è nulla di segreto nei cdm. Praticamente i verbali si leggono sui giornali il giorno dopo».
Qualcosa di poco trasparente c'è. Chi ha deciso sulla mozione per sfrattare Visco?
«È evidente che in Parlamento contano gli atti e su quella mozione c'è il parere positivo del governo.
Sta evitando il punto: Gentiloni è stato informato a cose pressoché fatte o ha condiviso, assieme al cdm, la decisione di Renzi e dalla Boschi?
«Nel momento in cui c'è il parere positivo del governo, per me il dibattito è chiuso: c'è condivisione. Ma io trovo surreale, con tutto il rispetto per le sue domande, che da giorni si parli di procedure».
Mica sono procedure...
Mi lasci finire. La sostanza è che quella mozione dice quello che tutti gli italiani sanno, e cioè che il sistema non ha funzionato al meglio. Sa cosa mi ha impressionato, De Angelis, in questi giorni di estenuante discussione sulla mozione?»
Che cosa?
«Che nessuno di quelli che ci criticano ha difeso nel merito l'operato di Bankitalia. L'esercito degli indignados dei salotti pone solo una questione di eleganza di metodo, ma nessuno sta al merito delle nostre critiche».
Neanche voi, mi permetta, fate una riflessione seria e rigorosa nel merito dell'operato di Bankitalia e della Consob. Ma fate un'operazione politica tesa a cercare un capro espiatorio per la campagna elettorale.
«Non è vero. E infatti ci occuperemo anche della Consob in commissione. Quello che colpisce è la tesi per cui, per tutelare l'indipendenza di Bankitalia, il Parlamento non dovrebbe valutarne l'operato. Questo è un argomento ridicolo. Segnalo che Draghi va al Parlamento europeo ogni tre mesi, a sottoporsi a un durissimo question time. L'operato della Bce è oggetto di appassionati discussioni parlamentari, interrogazioni con obbligo di risposta, critiche. E in Europa nessuno considera tutto questo né lesa maestà né una lesione dell'autonomia della Bce, ma semplice fisiologia democratica. Evidentemente poco apprezzata nel nostro paese».
A proposito di Europa. In Europa sui conflitti di interesse sono molto rigorosi. Lei non vede in questa vicenda un enorme conflitto di interessi di Maria Elena Boschi?
«Proprio no. E in verità quando era ministro per le Riforme si è deciso di commissariare banca Etruria, a dimostrazione che non c'è mai stato conflitto di interesse».
Stiamo al punto però. Bankitalia e Consob hanno multato due volte il papà della Boschi. E la sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio si occupa della nomina di chi deve vigilare e controllare. Cioè di chi in teoria potrebbe attenuare o cambiare quelle multe. Questo lei non lo chiama conflitto di interesse?
«Io dico che per noi parlano i fatti. E sulle banche abbiamo operato con serietà come dimostra anche la vicenda di Etruria».
Ritiene che la Boschi debba partecipare o no al consiglio dei ministri del 27 che indicherà il prossimo governatore di Bankitalia, organo appunto che ha multato suo padre per la gestione di Banca Etruria?
«Lo valuterà il presidente del Consiglio. Ma trovo questo argomento francamente ridicolo. Noi abbiamo detto una cosa che tutti gli italiani sanno oppure, caro De Angelis, vuole sostenere che le crisi se le sono sognate? Lei e altri siete guidati da una certa ossessione verso il gruppo dirigente del Pd che vi allontana dalla comprensione della realtà».
Sempre sull'argomento: la querela a De Bortoli non è arrivata da parte della Boschi, e ormai sono scaduti i termini.
«Non abbia fretta. Adesso abbiamo una strumento che ha i poteri della magistratura per acclarare tutto. Alcune forze di opposizione hanno chiesto di audire i manager delle principali banche, gli editori dei principali giornali italiani, e tanti altri. Sono liste di persone interessanti che ascolteremo con attenzione».
Ascolterete Ghizzoni?
«Le rivelo una notizia: io ho chiesto di partire dalle crisi bancarie più recenti, non da quelle più lontane. E questa settimana partiamo dalla Venete, in ordine cronologico inverso, poi c'è Mps, poi le quattro tra cui Etruria. Le sembra l'atteggiamento di un partito che ha qualcosa da nascondere?»
Dice Renzi: va bene anche se Gentiloni nomina Visco. È un cambio di atteggiamento rispetto ai giorni scorsi?
«È quello che abbiamo sempre detto: nomina il presidente dalla Repubblica su indicazione del presidente del Consiglio. Accetteremo qualunque indicazione di Gentiloni, ma c'è bisogno di far dormire sonni tranquilli non agli editorialisti ma ai risparmiatori. Ho letto Sabino Cassese che parla di fulmine al ciel sereno, a proposito della nostra mozione. Probabilmente il cielo sereno lo vedeva lui, ma dubito che i risparmiatori fulminati dalle crisi condividano il suo excursus meteorologico».
Se la scelta cadesse su Visco, voi comunque continuerete a criticare, il minuto dopo, il suo ruolo come avete fatto in questi giorni?
«Noi siamo persone serie e rispetteremo la scelta ma in Parlamento c'è una commissione d'inchiesta che non si può silenziare, condizionare, fermare. E dunque continuerà nel suo lavoro di analisi della adeguatezza nella gestione delle crisi da parte degli organismi di vigilanza. Come richiesto dalla legge che l'ha istituita».
Banche, truffe e giochi di prestigio, scrive Vittorio Bobba il 22 ottobre 2017 su "WeeklyMagazine". Se vuoi nascondere un albero, mettilo in una foresta. Questa massima di antica saggezza sembra sia stata fatta propria dal ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan. Infatti, insieme al facente funzioni di Renzi nonché Premier Paolo Gentiloni, il ministro pochi giorni or sono ha presentato la nuova manovra da 20 miliardi inserita nella legge di stabilità, dichiarando che essa non conteneva alcuna nuova tassa. Sospettavamo che per l’occasione, data anche l’insolita somiglianza con un gong, che l’ineffabile inquilino di via XX Settembre avesse indossato la più inossidabile delle facce di bronzo, tuttavia – ben consci che a pensar male si fa peccato ma di solito s’indovina – abbiamo preferito attendere le conferme prima di sciorinare accuse ingiustificate. E le conferme, manco a dirlo, sono puntualmente arrivate. E’ di oggi al notizia che è stata istituita una tassa del 2 per mille su tutte le polizze vita, sia di nuova sottoscrizione che già in essere! In pratica una mini patrimoniale che andrà a colpire indistintamente ricchi e poveri, secondo uno dei più sacrosanti principi che guidano la sinistra italiana: appiattimento verso il basso dei redditi e verso l’alto dei coefficienti di rapina. Come scriveva Montanelli, la sinistra ama così tanto i poveri che ogni volta che va al potere ne crea di nuovi. Proprio vero, caro Indro. Aspettiamo di vedere quali altre sorprese si celano nel testo della manovra, perché non ho dubbi che ve ne siano altre! Nel frattempo, però, i nostri governanti non si limitano al gioco dei bussolotti con i nostri borsellini, ma si dedicano con solerte applicazione agli esercizi di magia, cercando addirittura di far sparire le prove di quello che è forse il più grande raggiro perpetrato ai danni dei risparmiatori nella storia italiana. Ancora più infame se si pensa che è stato orchestrato non da promotori finanziari privati, ma addirittura da banche ben radicate sul territorio. Veniamo ai fatti: ieri, 18 ottobre, si è svolto a Palazzo San Macuto, sede della neonata commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, un incontro a porte chiuse in cui il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha consegnato al presidente della commissione, Pier Ferdinando Casini, e ai vicepresidenti, Mauro Maria Marino e Renato Brunetta circa 4200 pagine di documentazione sulla vigilanza che Palazzo Koch avrebbe svolto sulle dodici (sì, dodici in totale!) relativi a sette crisi bancarie: le due banche venete, il Monte dei Paschi di Siena e le quattro banche poste in risoluzione due anni fa: Etruria, Ferrara, Chieti e Marche. Ma quel che è peggio in questo gioco delle parti è che l’incontro a porte chiuse non è previsto dai regolamenti della commissione, e i colloqui dovrebbero sempre avvenire in presenza del plenum dei commissari. Per spiegarci meglio, sarebbe come se un magistrato incontrasse un indagato nel segreto del suo ufficio sena la presenza dei legali e delle parti. Vi pare possibile? No, infatti. Però è accaduto, e a quanto pare soli i pentastellati hanno criticato pesantemente il fatto. Secondo il Corriere della Sera, tuttavia, questi documenti saranno a disposizione dei commissari solo dopo che il servizio legale della banca centrale avrà indicato i vari livelli di segretezza per proteggere quelli classificati che, se divulgati, comportano responsabilità penali. Traduzione per il volgo: vi diremo cosa potete leggere e cosa no. Altra mazzata alle regole di una commissione d’inchiesta che non serve comunque a nulla, essendo stata istituita con tempi cronometrati per poter far sì che non avesse i tempi, a fine legislatura, per fare alcunché. Va fatto anche notare che l’incontro si è svolto a seguito del documento che il PD ha presentato in Parlamento chiedendo al Governo di non confermare la nomina del governatore Visco, in scadenza tra pochi giorni. Pare che ciò abbia fatto imbestialire Gentiloni, dato che un suo viceministro, la sempre-in-piedi Maria Etruria, pare fosse a conoscenza del documento ma ne abbia taciuto i contenuti al suo superiore. A questo punto è chiaro che si tratta di un gioco delle parti: Renzi sconfessa Visco e gli addossa le colpe del multicrack. Visco si difende dicendo che è dal 2013 che gli ispettori di Bankitalia hanno scoperto e denunciato le magagne di Banca Etruria (in effetti le relazioni del 23 settembre e del 5 dicembre erano roventi!) e anziché presentare le proprie dimissioni, come farebbe qualunque non-italiano al suo posto, forte del sostegno del Quirinale porta quintali di carta a Casini dicendogli: “Toh! Leggi qua che intanto finisce la legislatura!”. Nel frattempo la Banda della Finocchiona si mette a litigare al proprio interno (segno di inizio dello sgretolamento che dovrà fatalmente colpirli, prima o poi) e crea ad arte attriti tra gli stessi membri del governo al solo scopo di rendere più credibile il teatrino del Grande Pinocchio: incolpare Visco (che comunque non è del tutto innocente, sia chiaro) per coprire le proprie colpe e facendogli pagare il fatto di non essere riuscito a coprire i guai causati dalla famiglia Boschi. Il padre di Maria Elena, infatti, nella riunione del consiglio di Banca Etruria del 29 dicembre 2014 uscì deliberatamente dall’aula quando il responsabile dei rischi, Davide Canestri, spiegò che c’erano migliaia di clienti con i bond in portafoglio e c’era quindi un serio “rischio reputazionale”, proponendo di scambiare quei titoli con prodotti coperti dal Fondo Interbancario. Canestri disse anche che Bankitalia non era stata informata ma che avrebbero informato la Consob! Ecco: con questo gioco delle tre carte si ottennero tre grossi risultati. Primo: spostare il fulcro dell’azione di sorveglianza dalla Banca d’Italia alla Consob, che in realtà c’entra come i cavoli a merenda. Secondo: adesso il signor Boschi può tranquillamente dire: “Ah, ma io non c’ero, non lo sapevo e nessuno me lo ha detto.” Credibile come l’offerta di Poltronesofà che scade domani.
Infatti il liquidatore della banca lo ha compreso nel novero di coloro che dovrebbero rendere circa 400 milioni di Euro ma che alla fine si scopriranno (vedrete!) nullatenenti. Terzo, ma non meno importante, trovare un possibile capro espiatorio da esporre al pubblico ludibrio qualora le cose si fossero messe al peggio. E infatti ecco che Superpinocchio sbandiera il povero Visco gridando “Ve lo avevo detto!” e facendoci pure la bella figura della Cassandra che avrebbe potuto salvare i risparmi degli italiani. I quali italiani però non dimenticano che questo è lo stesso Renzi che in un Faccia a faccia de 6 novembre 2016 disse testualmente: “Oggi la banca (Montepaschi, N.d.R.) è risanata, e investire è un affare”. Ed è anche lo stesso fenomeno che pochi giorni prima del 4 dicembre disse: “Nel caso in cui perdessi il Referendum, considererei conclusa la mia esperienza politica. Credo profondamente in un valore che è il valore della dignità. Io non sono come tutti gli altri”. Vogliamo commentare? Non credo che ce ne sia bisogno. A meno di voler sottolineare che oltre a un albero nascosto in una foresta, ora abbiamo anche un burattino di legno nascosto nei Boschi. Vorrei invece alimentare ancora un po’ il vostro amore per il Governo spendendo qualche riga sull’ultima perla, in ordine cronologico, sfuggita dalle labbra del ministro Padoan (ancora lui!). Questo baldo giovanotto ha seraficamente asserito che la colpa del dissesto dei conti dell’INPS è degli italiani: “Muoiono troppo tardi e ciò incide negativamente sui conti dell’Inps”. Idea geniale e affettuosa nei confronti dei decani, evidentemente considerati dei parassiti a carico dello Stato, non persone che hanno lavorato anni e anni, versando contributi ed essendo pertanto meritevoli di vederseli restituire al momento della quiescenza. Ebbene, proporrei al suddetto ministro, data la sua non più verde età, di incominciare lui stesso a darci il buon esempio. Grazie.
IL SALVA BANCHE. PIOVE (LA FREGATURA), GOVERNO LADRO.
Un paese annientato dal salva banche. "Duemila persone fregate dal crac". Il sindaco di Cagli: "La stima è provvisoria, molti non parlano per vergogna", scrive Massimo Malpica Sabato 12/12/2015 su “Il Giornale”. Se il tonfo delle quattro banche salvate dal governo è un terremoto che ha sconvolto la vita di chi vi aveva riposto fiducia (e risparmi), l'epicentro del sisma è in una cittadina marchigiana sulla via Flaminia, al confine con l'Umbria: Cagli. Qui i novemila abitanti si sono trovati stretti in una trappola a tenaglia. Oltre alle chiese, ai bei palazzi medioevali e al teatro, fanno parte del panorama cittadino le filiali di due istituti di credito coinvolti nel recente crac: Banca Marche e Banca popolare dell'Etruria e del Lazio. Va da sé che è tutto il paese a rischiare di ritrovarsi a rimpiangere i soldi versati per sottoscrivere obbligazioni subordinate e azioni, poi trasformate in carta straccia dal decreto salva-banche di Palazzo Chigi. Lo storico Palio cittadino, il «Giuoco dell'Oca», si è trasformato da un giorno all'altro in una partita a Monopoli finita in bancarotta per un quinto della popolazione. A confermarlo è Alberto Alessandri, sindaco eletto con una lista civica un anno e mezzo fa, interrompendo 25 anni di amministrazioni rosse. «La situazione - spiega al Giornale - è ancora in evoluzione, quindi è difficile dare numeri precisi. Ma quasi tutti qui in città sono clienti di una delle due banche. Anche io. Ma per fortuna non ho mai sottoscritto né azioni né obbligazioni». Il primo cittadino racconta come ogni giorno qualcuno si faccia avanti, raccontando di far parte dell'esercito degli esodati del risparmio, le cui fila qui a Cagli sono particolarmente numerose. «Ipotizzo - prosegue Alessandri - che almeno duemila persone qui siano rimaste fregate, e che molte siano ancora frenate dal dirlo per la vergogna che si prova in questi casi. Stiamo cercando di far emergere il problema, in modo che tutti i danneggiati si associno tra loro per prendere qualche iniziativa comune. Di certo in una frazione qui vicino - sospira il sindaco - a Pianello di Cagli, gli 800 abitanti, in gran parte pensionati, avevano solo la filiale di Banca Etruria. Lì si saranno salvati in pochi: il decreto ha bruciato l'intero paese». E se ad Arezzo obbligazionisti e azionisti scottati raccontano di pressioni subite in banca per sottoscrivere i bond, a Cagli il terremoto sembra essere stato democratico come la livella di Totò. «Se qualcuno dei dipendenti ha spinto i clienti a investire in quei titoli - assicura Alessandri - sono certo che l'ha fatto in buona fede. Qui in provincia la banca è come la squadra di calcio: chi ci lavora fa il tifo, e ovviamente ha un po' di azioni in tasca. Insomma, i dipendenti sono i primi a essere rimasti scottati». Proprio la fiducia nelle banche del territorio potrebbe rendere la ferita più sanguinante, se come sembra quei bond tossici sono finiti in tasca a pensionati e commercianti poco esperti di finanza e pronti a investire risparmi e liquidazioni senza diversificare. Mai sospettando che quei soldi consegnati allo sportello si sarebbero poi volatilizzati, nel momento in cui il governo ha deciso di far pagare ad azionisti e obbligazionisti il costo del soccorso agli istituti di credito. Una strada che ha scatenato la rabbia dei defraudati in tutta Italia e ha già provocato una vera vittima, col suicidio del pensionato-obbligazionista di Civitavecchia. Su quel decreto, il sindaco di Cagli ha un'opinione interessante: «Sa che idea mi sono fatto? Non credo che il governo abbia voluto salvare qualcuno, penso che sia stato una sorta di scambio con la Ue. Salviamo queste quattro banche secondo le vostre regole, però un domani concedeteci di sforare sul patto di Stabilità. E non scordiamo che, tolta la parte marcia, ora ci sono 4 good banks da vendere agli amici o agli amici degli amici».
Obbligazioni e risparmiatori beffati, le responsabilità di Consob e Bankitalia. Leggere il prospetto di uno dei titoli di Banca Marche, Etruria, CariChieti e CariFe rende chiaro che c'è stata mancata sorveglianza. Ma chi doveva farlo? Si chiede Andrea Telara l'11 dicembre 2015 su Panorama. “Prodotti inadatti ai risparmiatori”. Così Jonathan Hill, commissario europeo ai servizi finanziari, ha bollato le obbligazioni vendute a man bassa ai clienti dalle 4 banche locali finite nel crack. Si tratta, per chi non lo sapesse ancora, di Banca Marche, Banca Etruria, CariChieti e Carife i cui bond subordinati si sono trasformati all'improvviso in carta straccia, mettendo sul lastrico migliaia di clienti (pare almeno 20mila piccoli investitori) che vi avevano destinato quasi tutti i soldi messi da parte con i sacrifici di una vita. Con le sue dichiarazioni, Hill ha di fatto chiamato in causa le autorità di vigilanza italiane, cioè la Banca d'Italia e la Consob, che avrebbero dovuto evitare il danno causato ai risparmiatori dai titoli emessi dai 4 istituti. La difesa di Bankitalia è stata affidata al suo direttore generale, Salvatore Rossi. Intervistato dal Corriere della Sera, Rossi ha detto infatti che, già in tempi non sospetti, il governatore di Bankitalia Ignazio Visco aveva chiesto di vietare al vendita di obbligazioni subordinate allo sportello, in modo che non finissero così nelle tasche dei piccoli risparmiatori. Alla fine, però, in tasca ai piccoli risparmiatori queste obbligazioni ci sono finite lo stesso perché, a sentire Rossi, la Banca d'Italia non può fare più di tanto: non può vietare la vendita di questo quel prodotto e non ha i poteri o i mezzi della magistratura o di un organo di polizia che può andare controllare ciò che avviene in ogni singola filiale. Senza dimenticare, poi, che il controllo sulla sollecitazione del pubblico risparmio spetta a un'altra autorità, chiamata in causa dal direttore generale di Bankitalia nell'intervista al Corriere, senza essere nominata esplicitamente. Questa autorità, per chi non l'avesse capito, è la Consob, la commissione nazionale sulla società e la borsa. Il suo presidente, Giuseppe Vegas, già qualche giorno fa si è espresso chiaramente sui casi delle obbligazioni subordinate. In tutte le emissioni di titoli di questo tipo, ha detto in sostanza il presidente della Consob, esiste da dieci anni l'obbligo di avvisare i risparmiatori che si tratta di strumenti finanziari rischiosi. Chi li ha acquistati dalle 4 banche, dunque, per Vegas è stato adeguatamente informato su cosa comprava. In che modo? Per capirlo, siamo andati a a spulciare i documenti informativi che hanno accompagnato l'emissione di alcuni bond subordinati, da parte degli istituti finiti nei guai. Nel caso di Banca Etruria, per esempio, nell'autunno 2013 c'è stata l'emissione di un prestito obbligazionario subordinato del valore complessivo di 50 milioni di euro, con durata decennale e un tasso appetitoso, ma non stratosferico: 5% lordo annuo (4% al netto delle imposte, secondo la tassazione di allora), qualcosina in più del 3,8% offerto a quel tempo dai titoli di stato di eguale scadenza. Le obbligazioni erano adatte a tutte le tasche, avendo ciascuna un valore nominale di 1.000 euro. Siamo sicuri che chi le ha comprate poteva rendersi conto facilmente che si trattava di bond da cardiopalma? Vediamo cosa c'è scritto nel prospetto informativo dei titoli, riguardo ai rischi derivanti dalla natura di obbligazioni subordinate.
Le Obbligazioni Subordinate Lower Tier II sono “Passività Subordinate”, di conseguenza in caso di liquidazione o sottoposizione a procedure concorsuali dell’Emittente, tali Obbligazioni saranno rimborsate, per capitale ed interessi, solo dopo che saranno stati integralmente estinti tutti i debiti non subordinati dell’Emittente e, in ogni caso, dopo i “prestiti subordinati di terzo livello”, ma prima degli “strumenti ibridi di patrimonializzazione” così come definiti nelle vigenti Istruzioni di Vigilanza per le Banche e delle Nuove Disposizioni di Vigilanza Prudenziale per le Banche.
Ecco allora che sorge spontaneo un altro interrogativo: basta questa semplice avvertenza, scritta peraltro in un linguaggio molto burocratico, a mettere in guardia un piccolo risparmiatore medio, che mastica poco di finanza? Sicuramente no. E allora perché, viene da chiedersi ancora, un'obbligazione di questo tipo era sottoscrivibile agli sportelli della banca anche versando piccole cifre, pari ad appena mille euro? Un taglio minimo così contenuto sembra fatto apposta (e di solito lo è) per piazzare i titoli nelle tasche di più gente possibile, cioè del vecchio parco buoi che prende per oro colato tutto quanto viene proposto allo sportello, quasi sempre sotto le false sembianze di prodotto finanziario ipersicuro. Per questo, resta senza risposta un ultimo interrogativo: se la Consob e Bankitalia non hanno potuto fare di più di quel che han fatto, chi deve evitare che nelle agenzie bancarie, dalle Alpi alla Sicilia, i piccoli risparmiatori continuino a prendere dei gran bidoni?
Tre miliardi da tre banche salvano gli istituti in rosso. Come quello di papà Boschi. Unicredit, Intesa e Ubi anticipano i soldi per finanziare il nuovo fondo ad hoc. Oggi da Palazzo Chigi l'ok al piano, scrive Massimo Restelli Domenica 22/11/2015 su “Il Giornale”. Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca si preparano a firmare un assegno fino a 3 miliardi per rendere possibile l'immediato salvataggio, sotto gli occhi di Bankitalia e la garanzia «politica» del governo Renzi, dei quattro istituti di credito più malconci del Paese: BancaEtruria, Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cari Chieti. Tutte commissariate in questi ultimi anni dalla Vigilanza per una gestione resa insostenibile da gravi carenze contabili, prestiti concessi ai soci con una certa generosità, investimenti immobiliari sbagliati e, tranne Etruria che è una popolare, da scambi nelle posizioni di comando con le loro Fondazioni azioniste. In pratica una governance fatta con le porte girevoli.Il pulsante d'avvio del salvataggio sarà schiacciato questo pomeriggio dal consiglio dei ministri (i lavori sono attesi alle ore 17,30) costretto a fare in fretta per evitare che da gennaio, con l'entrata in vigore del bail-in, siano chiamati a pagare anche i rispettivi correntisti dei 4 istituti che hanno oltre 100mila euro di giacenza. Di BancaEtruria è stato vicepresidente, fino al commissariamento, Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Il Tesoro sta limando il meccanismo di intervento ma il risultato dovrebbero essere alcuni decreti attuativi di raccordo con la normativa comunitaria, di cui sempre oggi è atteso il benestare al salvataggio. Per aggirare lo stop posto dall'Europa agli aiuti di Stato, tutto avverrà infatti attraverso il neonato «Fondo di risoluzione», cui partecipano i 155 istituti dell'universo Abi, caricandovi subito sia la «rata» da 500-600 milioni del 2015 sia quelle dei prossimi tre anni. L'onere complessivo sui bilanci 2015 dell'industria bancaria si attesterà quindi a 2-2,5 miliardi. Vista l'impossibilità di attendere i tempi di un incasso così frazionato, Intesa, Unicredit e Ubi inietterebbero però subito denaro nel fondo con un prestito ponte suddiviso in due tranche, una a breve termine (3 mesi) e una a medio-lungo. L'importo potrebbe toccare i 3 miliardi, così da assicurare oltre ai 2,5 miliardi di oneri anche una dose di liquidità. A quel punto da domani Etruria, Cari Ferrara, Cari Chieti e Banca Marche saranno guidati da nuovi commissari nominati dall'Autorità di risoluzione e si divideranno in due, formando otto realtà: quattro in bonis e quattro «ponte» (esiste l'alternativa di un'unica bad company). L'obiettivo è comunque separare il «sano» dal «marcio», trovare uno o più compratori per la polpa, smaltire separatamente i crediti deteriorati e rimborsare i salvatori. Questo meccanismo finirà per costare al sistema più del vecchio fondo. Le quattro banche sono però in ginocchio da tempo senza che il governatore Ignazio Visco sia riuscito a trovare un compratore proprio per il peso delle sofferenze e per gli scandali emersi durante le ispezioni. Sebbene Etruria sia crollata a febbraio sotto il peso dei crediti deteriorati, gli uomini di Bankitalia avevano infatti trovato una situazione difficile già nella primavera del 2013, complice il collasso dell'imprenditoria locale. Con il risultato di rapporti molto tesi con l'allora presidente Giuseppe Fornasari, uomo vicino alla Dc salito al vertice della «banca degli orafi» con il golpe bianco del 2009. Allo stesso modo nessuno voleva farsi carico della malagestio contestata a Cari Ferrara, dove a luglio i commissari hanno chiesto 100 milioni di danni con un'azione di responsabilità contro 31 ex amministratori. Così come delle «gravi irregolarità amministrative» e ai prestiti concentrati di Chieti o del buco lasciato a Banca Marche dall'ex direttore generale Massimo Bianconi, ritiratosi nel 2012 con in tasca una ricca buonuscita.
Colpo di spugna di Renzi: salvate le 4 banche in crisi. Varato il decreto con 3,6 miliardi degli istituti di credito. C'è Banca Etruria del papà della Boschi, assente in Cdm, scrive Massimo Restelli Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". L'industria del credito italiano mette e a disposizione 3,6 miliardi per salvare, tramite le leve del fondo di risoluzione, BancaEtruria, Cari Ferrara, Banca Marche e Cari Chieti, e i loro correntisti dalla gogna del bail-in che entrerà in vigore da gennaio. Gli istituti erano tanto malconci da essere tutti commissariati da Bankitalia, tanto da costringere il Consiglio dei ministri a una riunione domenicale per approvare il decreto, una volta ricevuto il benestare dell'Europa, che aveva invece bloccato l'ipotizzato ricorso al fondo interbancario perché ritenuto un aiuto di stato: assente della riunione il ministro Maria Elena Boschi, il cui padre Pier Luigi è stato vicepresidente della stessa Etruria. Ora, rimarca l'esecutivo, «non è previsto alcuna forma di supporto pubblico». Scorrendo il decreto legge si scopre tuttavia il secondo punto nodale dell'accordo. Quello del fisco, da cui si evince la sostanziale messa in sicurezza dei crediti di imposta delle nuove quattro banche ponte in bonis che da oggi, dopo lo scorporo dei crediti deteriorati, prendono il posto dei quattro istituti in crisi. Si tratta di un precedente con l'erario fondamentale per l'intera industria del credito che, attraverso il presidente dell'Abi Antonio Patuelli, sta combattendo con ogni mezzo per ottenere un diverso trattamento delle cosiddette «Dta» (deffered tax asset) e che, con la discesa dell'Ires, rischiava di vedersi scoppiare tra le mani una mina da 5 miliardi.Presidente delle quattro banche «sane» - ribattezzate «Nuova CariFerrara», «Nuova BancaEtruria», «Nuova Banca Marche», «Nuova CariChieti» - diventa l'ex direttore generale di Unicredit, Roberto Nicastro: tutte finiscono comunque sotto l'ala delle neonata unità di risoluzione di Bankitalia.Lo spezzatino prevede poi la creazione di un'unica bad bank, dove confluiscono le sofferenze (cioè i prestiti che famiglie e imprese non sono riusciti a restituire) delle quattro ex malate terminali, previa una massiccia svalutazione degli stessi (da 8,5 a 1,5 miliardi di euro) in modo da permetterne la vendita agli «spazzini» del mercato. L'Unione europea, secondo il commissario Vesrtager il piano «riduce al minimo le distorsioni della concorrenza», calcola che ne deriverà un ulteriore beneficio di 400 milioni. Non solo, ora che sono ripulite, devono trovare al più presto un nuovo padrone anche le banche ponte; e qualcuno pensa che alcuni big potrebbero aver già prenotato un posto a tavola.Impossibile però ottenere in tempo utile da tutte le 155 istituti di credito aderenti all'Abi i 3,6 miliardi necessari per accendere il fondo di risoluzione, ricapitalizzare le banche ponte e coprire la differenza tra gli attivi trasferiti e le passività: è previsto che l'industria del credito versi in un sol colpo nel fondo tutte le rate da qui al 2018. Come anticipato, Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi concederanno quindi un finanziamento ponte per l'intero importo: l'impegno sarebbe pari a 1,2 miliardi per ciascun istituto. Il prestito dovrebbe essere suddiviso in due tranche, di cui quella a breve termine da 2 miliardi scadrebbe a fine anno, quando tutti i gruppi avranno iniziato a trasferire i soldi al fondo. Il resto dopo la vendita degli asset.
Banche fallite: i danni senza il decreto. Il Mef tira fuori i numeri: sarebbero bruciati 12 miliardi di risparmi di 1 milione di correntisti e in difficoltà sarebbero andate 200 mila imprese, scrive "Panorama" l'11 dicembre 2015. La questione del salvataggio di 4 banche italiane (Banca Marche, Etruria, Cariferrara e CariChieti) con il decreto salvabanche che, utilizzando 3,6 miliardi di risorse previste da un fondo finanziato da altri istituti di credito, ne ha evitato il fallimento, continua a far discutere. Al centro del dibattito le conseguenze per piccoli risparmiatori che, titolari di azioni o di obbligazioni subordinate ad alto profilo di rischio vendute come prodotti a basso rischio, hanno perso tutto. Oggi il Ministero dell'economia ha spiegato esattamente quali sarebbero state le conseguenze in caso di mancata approvazione del decreto. Ben più gravi. Il decreto salvabanche ''ha messo al sicuro i risparmi di circa 1 milione di correntisti e obbligazionisti per un controvalore di circa 12 miliardi di euro'', ai quali si aggiungono i posti di lavoro di 6.000 dipendenti e di 1.000 persone dell'indotto. Il decreto - spiega il Mef - consente la continuazione delle attività delle vecchie banche in capo a nuove entità e impegna risorse finanziarie per 3,6 miliardi previste da un fondo finanziato da altre banche. "Tutela - è scritto sul sito del Tesoro - l'intero sistema sociale e produttivo servito dalle banche, ad esclusione degli investitori che hanno allocato proprie risorse su titoli ad alto rischio d'impresa come le azioni e le obbligazioni subordinate". Il ministero spiega gli effetti. "Grazie al salvataggio sono nate 4 nuove banche con forza patrimoniale molto superiore a quella delle banche originarie, gravate da crediti in sofferenza o non esigibili". C'è anche un effetto sul territorio. "Le 4 nuove banche - viene spiegato - sostengono il tessuto economico del territorio: circa200.000 piccole e medie imprese, commercianti e artigiani che dispongono di fidi e aperture di credito continuano a godere del sostegno finanziario per la propria attività da parte delle nuove banche''. Dal 23 novembre sono stati erogati e rinnovati crediti per 300 milioni di euro a oltre 1.500 piccole imprese, artigiani, commercianti e agricoltori. "Si è conservato - aggiunge poi il ministero - il livello occupazionale sul territorio, perchè i 6.000 dipendenti proseguono il loro rapporto di lavoro con le nuove banche e anche le 1.000 persone occupate nell'indotto non hanno subito impatti a causa della crisi". Sul tessuto socio-economico dei territori in cui operano le 4 banche vengono quindi riversati più di 24 miliardi di euro di raccolta. Il Mef spiega anche cosa sarebbe accaduto senza il decreto. ''L'alternativa al salvataggio sarebbe stata la liquidazione delle banche - afferma - In questo caso la procedura avrebbe comportato la vendita di tutte le attività e la distribuzione degli eventuali proventi, comunque insufficienti a un rimborso completo, tra i creditori, insufficiente a un rimborso completo. Il numero di persone destinate a subire un danno patrimoniale sarebbe stato certamente di diversi ordini di grandezza superiore alle 10.500 persone che hanno investito in obbligazioni subordinate. Inoltre in caso di liquidazione sarebbe stata richiesta la restituzione dei crediti a vista messi a disposizione delle imprese sul territorio per un valore superiore a 10 miliardi di euro. Questo perchè in caso di liquidazione bancaria i titolari di un prestito o un mutuo vengono chiamati a restituirli immediatamente. Ovviamente sarebbe stato interrotto il rapporto di lavoro con i dipendenti". I 4 nuovi istituti nati con il decreto salva banche dalle "vecchie" Banca popolare dell'Etruria e del Lazio, Banca delle Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio della Provincia di Chieti "sostengono il tessuto economico del territorio: circa 200.000 piccole e medie imprese, commercianti e artigiani che dispongono di fidi e aperture di credito continuano a godere del sostegno finanziario per la propria attività da parte delle nuove banche" aggiunge il Ministero. "Prodotti inadatti e figli della cultura finanziaria anglosassone sono quelli che hanno dato luogo nel 2007 alla più grande crisi dal '29 a oggi. La verità è che il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, in tempi non sospetti ha chiesto di arrivare a vietare la vendita di obbligazioni subordinate agli sportelli in modo che solo investitori istituzionali potessero acquistarli e non i semplici risparmiatori". Lo afferma al Corriere della Sera, Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d'Italia. Su un intervento diretto, Rossi spiega: "Non possiamo vietare di vendere questo o quel prodotto. Non abbiamo poteri così ampi. E ricordo che a vigilare sulla sollecitazione al risparmio è preposta un'altra autorità". Sul fatto che l'Europa sembra voler accusare Bankitalia e l'Italia in genere, Rossi spiega: "Vorrei evitare di entrare nel solito gioco Italia contro l'Europa, è innegabile però che ci sia stata una diversità di vedute tra autorità italiane, il governo in primis ma anche noi, e Bruxelles, o meglio la Direzione generale alla concorrenza. È quest'ultima che ci ha di fatto spinto a seguire la strada oggi criticata che ha portato al salvataggio di Banca Marche, Carife, CariChieti ed Etruria". Alla domanda se non senta come Vigilanza la responsabilità, il direttore della Banca d'Italia replica: "I risultati della Vigilanza vanno misurati sull'intero sistema. In questi ultimi sette anni di crisi prima finanziaria, poi del debito sovrano ed economica, il numero e la dimensione delle crisi bancarie in Italia sono state una frazione rispetto a quanto accaduto in Spagna, Germania, Francia e Olanda. Il premier Matteo Renzi assicura che il governo, dopo aver salvato migliaia di correntisti, troverà una soluzione anche per gli obbligazionisti delle 4 banche salvate. Ma dall'Ue arriva l'accusa all'Italia: sono stati venduti prodotti non idonei. All'indomani della notizia del suicidio di un pensionato che aveva perso tutti i risparmi di una vita nella vicenda, Bruxelles attacca: nel caso di Banca Marche, Carife, CariChieti, e Banca Etruria, "c'è chiaramente una conseguenza per dei cittadini che si sono ritrovati con della banche che stavano vendendo prodotti non idonei", ad ogni modo le misure adottate dal governo italiano per far fronte alla crisi di liquidità dei quattro istituti di credito "sono state ritenute compatibili con la legislazione europea", dice il commissario Ue per la Stabilità finanziaria e i servizi finanziari, Jonathan Hill. Hill ricorda che il 22 novembre la Commissione europea ha dato il via libera al salvataggio delle quattro banche e sottolineato che i casi analoghi registrati in passato in altri Paesi "sono avvenuti prima della riforma delle regole del sistema bancario". Il presidente del Consiglio Renzi esprime innanzitutto "il proprio dolore e fa le condoglianze alla famiglia" del pensionato che si è tolto la vita dopo aver perso più di 100.000 euro. E poi aggiunge: "io dico meno male che abbiamo fatto il decreto perchè sennò la situazione sarebbe stata anche peggiore: almeno, abbiamo salvato migliaia di conti correnti. Tuttavia stiamo cercando di poter individuare una soluzione, soprattutto per gli obbligazionisti, nei limiti delle regole europee, una forma di ristoro". "Vedo di buon occhio che il Parlamento possa aprire una commissione di indagine, o sindacati di valutazione, sul sistema bancario degli ultimi 10 anni. Mi sembra un'ottima idea", conclude Renzi. Anche il segretario generale della Cei, Nunzio Galantino, interviene sulla tragica vicenda: "Dobbiamo fare molto di più perchè in Europa non conti solo il valore del Pil". Il Codacons ha deciso di presentare un esposto alla Procura della Repubblica per il grave reato di istigazione al suicidio. Sul fronte politico Matteo Salvini chiede "l'azzeramento" della Banca d'Italia: "Sono pagati per vigilare. Cosa vigilavano? Dove erano? Banca Etruria, CariFerrara, MontePaschi, dove sono i vigilanti? Toccava a loro, dovrebbero pagare loro. Le colpe sono equamente distribuite perche' la nuova normativa europea sulle banche, avallata da Renzi, tira in ballo i correntisti, quindi se saltera' una banca d'ora in poi non paga il banchiere, paga chi ha il conto corrente, ma le sembra normale?". Beppe Grillo invece su twitter lancia#IoNonMuoioPerLeBanche.
L'ira delle vittime di Etruria scippate di soldi e futuro. I risparmiatori si sono ritrovati con le obbligazioni spazzatura a loro insaputa e ora denunciano: "Ci rassicuravano, dicevano che non c'era rischio per il capitale", scrive Massimiliano Scafi Sabato 12/12/2015 su “Il Giornale”. I sogni di Mario, evaporati in una mattina di novembre, quando ha scoperto di essere diventato povero. Ora si aggira per i corridoi del centro congressi sventolando un foglio. «Avevo trentamila euro, mi è rimasto solo questo pezzo di carta». I risparmi di Antonietta, 45 mila euro messi insieme in una vita di sacrifici. «Volevo fare un viaggio in Oriente, con quello che mi è rimasto non arrivo nemmeno a Frascati». I progetti di Giovanni, che con il gruzzoletto che gli aveva lasciato la nonna voleva pagarsi un master in America. «Il mio conto adesso è in rosso. Studierò in Italia e farò la fame». Sogni, risparmi, progetti cancellati con un timbro, sotterrati dagli incomprensibili moduli bancari, ridotti alla cifra segnata in calce ai loro estratti: zero. Storie di titoli patacca, di azioni a rischio inconsapevole, di prodotti tossici rifilati con disinvoltura a un popolo di piccoli risparmiatori rimasti senza rete ma con molta rabbia in corpo. Eccole le vittime della Banca Etruria, riunite dalla Federconsumatori in una sala congressi per vedere che si può fare, se tutti insieme si riesce a recuperare qualcosa. Ragazze, pensionati, mamme, famiglie, infuriati con Bankitalia, con la Consob, con il governo. Non sono squali della finanza e forse avranno l'anello al naso, però adesso rivogliono i loro soldi. Racconti tutti uguali, sospetti nella loro ripetitività, quasi ci fosse un sistema: l'obbligazione in scadenza, il funzionario che dirotta l'investimento, le clausole illeggibili, il direttore che non avverte. C'è l'azienda che chiede un fido e che l'ottiene in cambio della sottoscrizione di titoli spazzatura. E c'è il privato che vuole un mutuo: glielo danno, però in parte deve investirlo. Prendete Annalisa Tranquilli, correntista dell'Etruria a Ostia. «I miei genitori mi hanno lasciato 125mila euro. Nel 2011 li ho investiti in obbligazioni ordinarie che rendevano il 4%. Nel 2014, pochi mesi prima della scadenza, mi hanno proposto di rinnovarle. E io ho detto sì. Il rendimento previsto stavolta era il 3,5». A giugno scorso la catastrofe. «Fuori della banca ho incrociato un'amica che mi ha detto: Ancora qui? Scappa, se fai ancora in tempo. Ho controllato e mi sono accorta che il prodotto era diverso, c'era un sub che non avevo visto. Potevano avvisarmi, raccontarmi delle loro difficoltà, almeno consigliarmi di salvare il salvabile. Quarantamila euro li avrei recuperati». Invece? «Invece niente, mi hanno detto che alla peggio avrei recuperato il capitale». Avrete il ristoro... «Ristoro? Rivoglio i miei soldi». Oppure, ascoltate Marcello Meloni, 25 mila euro depositati nella filiale di Banca Etruria di Tarquinia: «È successo tutto in venti minuti. Alle 10 e 25 avevo delle obbligazioni ordinarie al 2,5%, alle 10 e 45, non so come, possedevo dei titoli subordinati al 3,5%. Mi sono accorto che c'era qualcosa di strano il lunedì successivo al commissariamento dell'istituto, quando le azioni hanno cominciato a scendere. Calavano, calavano, nessuno però mi ha detto di rivenderle. Anzi, mi hanno rassicurato. Tranquillo, il capitale lo recupera, male che vada verrà rimborsato dalla Banca d'Italia. Si è visto». O cercate di consolare Gianni Ciarcia, che in questo giochetto ci ha rimesso 40mila euro. «Una truffa, dov'erano quelli che dovevano controllare? E se è stato un errore, perché i dirigenti e non pagano mai? Che faranno per risarcirci almeno del capitale? Hanno salvato le banche con i nostri soldi e a me rimane solo la pensione». Meglio i soldi sotto il materasso? «Lì sotto posso metterci solo le chiacchiere dei politici».
Speculazioni, rumors e sospetti C'è del marcio nel caso Etruria. Consob e Bankitalia ipotizzano insider trading, il titolo ha guadagnato più del 62% dopo l'ok del governo al decreto che lo trasforma in Spa: una strada che porta agli uomini vicini a Renzi, scrive Renato Brunetta Domenica 15/02/2015 su "Il Giornale". C'è del marcio in Etruria. Vorrei fare un pezzo filosofico, ma che filosofia si può fare davanti a un furto con destrezza? Il problema è capire chi ha fornito il trapano per aprire la cassaforte. Costoro, infatti, hanno utilizzato conoscenze, dirette o indirette, informazioni chirurgiche relative al decreto sulle Popolari da trasformare in Spa, per comprare e vendere azioni. Il tutto molto, ma molto vicino a persone, ambienti, stanze di Palazzo Chigi. Insomma rischia di venire giù Roma, come accadde per lo scandalo Banca Romana. Stavolta ci troviamo di fronte a piccole banche, una delle quali in gravissime difficoltà, al punto che nei giorni scorsi è stata commissariata da Banca d'Italia. Non prima però che il valore di ogni singola azione sia balzato in alto: +62,17% nella sola settimana di borsa tra il 19 e il 23 gennaio 2015, quella del varo del decreto del governo, per la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio. Il cui vicepresidente è il padre del ministro Maria Elena Boschi, anch'essa azionista della banca (e il fratello ne è dipendente). Il più attivo in questo fenomeno di spostamenti azionari è stato il fondo di Davide Serra da Londra, punto di riferimento e consigliere del premier in materia di finanza. Il paragone con Banca Romana ci sta, fatta salva la diversa statura del personaggio Giolitti. Che il tema fosse «caldo» si è capito fin da subito. Ma la gravità sta venendo fuori giorno dopo giorno. A far deflagrare la già scottante miccia è stata l'approfondita e dettagliata audizione di mercoledì scorso, in commissione Finanze della Camera, del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nell'ambito della quale è stato messo nero su bianco il sospetto di insider trading , anche grazie a una ricostruzione puntuale, attraverso notizie di stampa e tweet (uniche informazioni disponibili al pubblico, fatto già di per sé anomalo, data la delicatezza dell'argomento) dei «movimenti» del governo e degli amici del governo dal 3 gennaio 2015 al 9 febbraio 2015, dell'andamento in borsa nonché, con particolare riferimento alla Banca Etruria, degli accadimenti non del tutto trasparenti verificatisi tra l'11 agosto 2014 e il 9 febbraio 2015. È così che la gravità di quanto stava avvenendo è balzata agli occhi della Banca d'Italia, che ha commissariato la Banca dell'Etruria; della procura di Roma, che ha subito aperto un'indagine; e della Guardia di finanza, braccio operativo di entrambi questi ultimi. Al di là delle plusvalenze effettive o potenziali di quei geni (si fa per dire) che hanno comprato azioni delle Popolari prima del decreto per poi rivenderle a prezzi ben più alti, quel che è grave è che, a quanto pare, potrebbero essere stati i membri del governo a comunicare in anticipo ai finanziatori della loro campagna elettorale le imminenti decisioni dell'esecutivo. Così sembra, infatti, che siano andate le cose in quel di Londra, presso gli uffici del Fondo Algebris: all'annuncio da parte del governo, il 16 gennaio 2015, di voler riformare il sistema delle banche popolari, hanno fatto seguito imponenti operazioni di borsa. Tanto per avere un'idea dei numeri: le azioni di Banca Etruria sono aumentate del 62,17% in quattro giorni contro un andamento del comparto bancario dell'8,68%. Al secondo posto il Credito Valtellinese: +30,93%. Quindi tutte le altre 6 banche popolari che nei propositi del governo dovevano rientrare nell'ambito del decreto. Con un'ulteriore stranezza: il requisito dimensionale individuato (un attivo totale pari a 30 miliardi di euro) è stato ridotto a 8. È così sono rientrate Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Banca Etruria, che interessano all'esecutivo. La cosa più impressionante è vedere i grafici che hanno accompagnato la relazione di Giuseppe Vegas. Tre giorni di fuoco con utili da capogiro. Potenza dell'intuito: si è giustificato Davide Serra, con un susseguirsi di tweet e comunicati stampa. «Algebris Investiments ha investito fin dalla sua nascita, nel 2006, nel settore bancario e assicurativo italiano». Quindi nessun possesso di informazioni privilegiate. Se poi il valore delle azioni è lievitato è solo una coincidenza del destino. Come semplice coincidenza è il fatto che la Banca popolare dell'Etruria e del Lazio abbia nel board, con la carica di vicepresidente, Pier Luigi Boschi, il padre del ministro Maria Elena. Anch'essa azionista dell'istituto di credito caro, come notano i maligni, a Licio Gelli. Conti che in qualche modo tornano, visti i vecchi gossip sulle frequentazioni di famiglia dei nostri attuali governanti fiorentini. Ed è sempre un caso che sia stata questa banca a registrare, tra tutte le popolari coinvolte nell'affaire, gli incrementi maggiori. Una banca talmente solida (siamo ironici) da giustificare, prima del rally di borsa, ben due preoccupate ispezioni della Banca d'Italia, seguite dal commissariamento. E da suffragare l'ipotesi di «ostacolo alla vigilanza» e il timore di «operazioni occulte» su cui sta indagando la procura di Roma, e che si aggiungono ai sospetti di insider trading. Ancora una volta, come accaduto con la merchant bank che non parlava inglese, per ricordare come Guido Rossi qualificò la presidenza di Massimo D'Alema a palazzo Chigi, si è di fronte al solito gioco. Allora, tuttavia, c'erano «capitani coraggiosi» che stavano scalando il cielo, in formato Telecom. Oggi siamo, invece, di fronte a un pugno di speculatori che entrano in borsa, acquistano tutto quello che c'è da acquistare e dopo un paio di giorni lo rivendono, portandosi a casa un malloppo fatto di plusvalenze milionarie. Non è una bella immagine per il Pd, che una volta era il partito delle mani pulite, pronto a denunciare conflitti d'interesse e ipotetici falsi di bilancio. Questa volta, tuttavia, l'episodio è ben più grave. Ricorda da vicino un vecchio scandalo della storia d'Italia: quello della Banca romana. La grande speculazione edilizia che portò alla nascita del quartiere di Prati a Roma. Finanziata con l'emissione arbitraria di carta moneta, e la copertura politica di Palazzo Chigi. Giovanni Giolitti da un lato e Francesco Crispi dall'altro: accusati da Bernardo Tanlongo, che della ex Banca pontificia era il governatore, di aver percepito mazzette e cointeressenze nel gioco della grande speculazione fondiaria e di essere quindi i corresponsabili del successivo fallimento dell'istituto di credito. La sede della presidenza del Consiglio, che allora stava al Viminale, era divenuta un centro di affarismo con le prime riforme volute da Agostino Depretis, il grande trasformista. Riforme che avevano portato all'addomesticamento del Parlamento, i cui poteri furono depotenziati per favorire il formarsi di maggioranze occasionali continuamente addomesticate dal grande domatore. Episodi che dovrebbero far riflettere, nel momento in cui si fanno più o meno le stesse cose, con riforme ritagliate sugli interessi terreni dell'attuale premier. Sul decreto banche popolari la sua, oggi, è una posizione lose-lose: portarlo avanti aggrava l'accusa di «connivenza» del governo con chi ha speculato. Ritirarlo vorrebbe dire per Renzi ammettere le responsabilità del suo esecutivo. Cui non possono che seguire dimissioni immediate. Altro che spread, che nel 2011 ha mandato a casa, con l'imbroglio, l'ultimo governo legittimamente votato dai cittadini. Dalle carte del processo di Trani sulla manipolazione del mercato avvenuta in quell'estate-autunno 2011 da parte delle agenzie di rating sta emergendo che il danno erariale che ne è derivato ammonta a 120 miliardi di euro. Tanto ci è costato il complotto. Non vorremmo che al conto già salato che i cittadini italiani devono pagare, si aggiungesse anche il gravissimo obbrobrio delle banche popolari. Il governo ritiri il decreto, e il premier si faccia carico in prima persona dello scotto dei suoi errori e della sua spocchia. Quando esagerano, le volpi finiscono in pellicceria, direbbe l'Amleto dei giorni nostri.
Fondata nel 1882 contendeva il primato toscano a Mps, scrive Massimo Restelli Venerdì 13/02/2015 su "Il Giornale". Strattonata a più riprese dal potere massonico aretino e dai salotti romani vicini alla Dc, Banca Etruria è la prima (e finora l'unica) banca quotata italiana che è stata commissariata da Bankitalia. Mai la Vigilanza era stata costretta ad arrivare a tanto come con la «banca degli orafi», neppure allo scoppiare del dissesto Monte Paschi lasciato dalla vecchia gestione Mussari o verso l'ex Popolare Italiana di Gianpiero Fiorani, poi salvata dal Banco Popolare. Etruria, di cui fino a mercoledì era vicepresidente il papà del ministro Maria Elena Boschi, affonda le radici nel distretto della gioielleria aretina ed è tra i pochissimi istituti italiani ad operare con i lingotti aurei che tiene ben allineati nei propri caveau. Sia chiaro Etruria, complice la recessione, si è progressivamente soffocata con le proprie mani: i crediti deteriorati arrivano a 3 miliardi, pari a sei volte il patrimonio netto registrato a fine settembre, cioè prestiti che famiglie e imprese clienti non sono più in grado di restituire. La cooperativa della città di Amintore Fanfani, che nella Toscana del Pd non ha da tempo lo stesso peso politico di Siena e della sua Rocca Salimbeni, avrebbe tuttavia oltrepassato la soglia di non ritorno già durante l'ispezione voluta dalla Vigilanza nella primavera 2013. Complici conti aggravati dal collasso dell'imprenditoria locale e dalla recessione, i rapporti tra l'allora presidente Giuseppe Fornasari, spalleggiato dal direttore generale Luca Bronchi, e gli uomini di Via Nazionale diventano infatti sempre più tesi, fino a sfociare nell'aperta incomprensione. Alla fine Palazzo Koch ha aumentato, senza successo, il pressing perché Etruria trovasse un cavaliere bianco: si dice che lo stesso Fabrizio Saccomanni, prima di lasciare la Vigilanza, si fosse lamentato con i vertici di Etruria, sulla cui testa sarebbe poi caduta anche un'indagine per falso in bilancio. Un anno dopo, la definitiva capitolazione del commissariamento. Insomma la città dell'oro ha pagato, un po' come Re Mida, anche la propria hybris o perlomeno un orgoglio indomabile come quello che si respira nel palio cittadino. Così come era forte il nerbo dello storico presidente Elio Faralli: banchiere simbolo di un mondo considerato vicino alla massoneria, è stato per trent'anni il padre-padrone di Popolare Etruria, pilota della sua espansione in Umbria e Lazio e «garante» degli interessi comunali nei palazzi romani. La stessa loggia ufficiale cittadina dista peraltro poche centinaia di metri dalla sede storica dell'istituto mutualistico. Faralli era inoltre decano e «generale in comando» della potente lobby delle banche popolari, quelle che ora il governo di Matteo Renzi vuole spazzare via trasformandole per decreto in società per azioni. Il regno di Faralli è poi stato spezzato dal «golpe bianco» che nel 2009 porta appunto al vertice Fornasari, uomo vicino alla Dc e sottosegretario all'industria per il governo Andreotti. Con il 2011 finiscono di entrare in consiglio di amministrazione, dove già sedeva l'ex numero uno di Confartigianato Giorgio Guerrini, altri esponenti della finanza cattolica e delle associazioni, insieme agli industriali Giovanni Inghirami e Laura Del Tongo. La svolta però non riesce e la stessa posizione dell'imprenditrice del mobile si complica; così come pesano ormai troppo i prestiti concessi alle micro-imprese di una città vissuta per decenni attorno alla «sua» banca e ora in stato semi comatoso: Etruria, con i suoi 1.600 dipendenti è il secondo datore di lavoro della provincia dopo la Asl locale. A quel punto c'è un altro ribaltone che lo scorso anno affida le leve di comando Lorenzo Rosi. Gli si affianca come vicepresidente, e componente del comitato esecutivo, il cattolico Pier Luigi Boschi, appunto padre del ministro delle Riforme ed ex dirigente di Coldiretti. Dopo 133 anni, la mutua è nata nel 1882, il tempo a disposizione di Arezzo è però scaduto. Da più parti si scommette infatti che al massimo entro dicembre la banca dell'oro avrà un nuovo padrone di casa. In passato si erano affacciate al dossier Intesa Sanpaolo e Popolare Vicenza, che si era tuttavia vista rifiutare la proposta d'acquisto da Etruria, forse anche questa volta con un eccesso di zelo. I commissari per fare cassa potrebbero porre sul piatto la controllata Federico Del Vecchio, cassaforte dei «maggiorenti» fiorentini. Un marchio del lusso, ma pochi sanno che la gran parte delle sue masse appartiene alla capogruppo.
I guadagni sospetti in Borsa e il ruolo di papà Boschi nella banca sull'orlo del crac. Il caso Banca Etruria ad Arezzo, scrive Gian Maria De Francesco Giovedì 19/03/2015 su "Il Giornale". «Mi dispiace per la mia famiglia e, soprattutto, per mio padre che è molto riservato e si è trovato nel vortice. Per fortuna, però, siamo molto uniti». Così disse il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, al settimanale Chi qualche settimana fa. D'altronde, è o non è un grande dispiacere assistere al triste commissariamento di Banca Etruria della quale il proprio padre, Pier Luigi, è vicepresidente? Lo è, lo è, soprattutto quando a prendere il provvedimento su segnalazione della Banca d'Italia è il governo del quale si fa parte. «Così la smetteranno di dire che ci sono dei favoritismi», twittò vibrantemente il ministro. A lei che è diretta emanazione del presidente del Consiglio nessuno (o quasi) ha chiesto un passo indietro. Ci mancherebbe altro! Il premier potrebbe aversene a male. Eppure qualcuno ci ha provato insinuando che il decreto Investment Compact che trasforma le banche popolari in società per azioni fosse stato sfruttato da qualche «manina» vicina a Palazzo Chigi visti i rialzi in Borsa dei titoli delle banche «cooperative» registrati nella seconda metà di gennaio. La Boschi allontanò da sé qualsiasi sospetto: lei a quel Consiglio dei ministri non era presente perché in Senato e, poi, non avrebbe mai potuto parteciparvi per conflitto di interessi. D'altronde, come rivelano le dichiarazioni patrimoniali presentate alla Camera, Boschi è una piccola azionista dell'istituto aretino: aveva (e probabilmente ha ancora visto che è stata sospesa a tempo indeterminato dalle quotazioni) 1.557 titoli, circa mille euro. E poi anche Pier Luigi Boschi, al momento, non è oggetto di alcuna azione penale. La Procura di Arezzo già da tempo indagava sulla precedente gestione di Banca Etruria, quella che - secondo alcune indiscrezioni - avrebbe lasciato in eredità all'ultimo consiglio di amministrazione ben 400 milioni di perdite. La Procura di Roma, invece, ha aperto un fascicolo senza notizie di reato per verificare la sussistenza dell'ipotesi di ostacolo all'attività di vigilanza. Circostanza possibile anche se i funzionari di Bankitalia erano praticamente di casa ad Arezzo sin dal 2012, cioè dall'anno successivo in cui il papà di Maria Elena, ex esponente della corrente forlaniana della Dc, entrò nel consiglio della banca. E poi il ministro è così simpatico che non si può certo bersagliarlo con inopportune richieste di dimissioni. Che cosa c'entra lei? Lei che sta riscrivendo la Costituzione con un ddl che porta il suo nome! Lei che adesso fa la spola tra Palazzo Chigi e le Camere e non ha tempo per trovare un fidanzato e, nelle interviste glamour, ricorda con nostalgia le uscite in discoteca fino alle 5 di mattina. No, non si può proprio. Maria Elena Boschi è giovane, renziana, moderna, dinamica. Il sistema economico-finanziario aretino, diviso tra vecchi democristiani e vecchi massoni, con lei non c'entra proprio. Il padre era vicepresidente di Banca Etruria e anche il fratello vi ha lavorato. Ma può accadere a tutti. Roberto Saviano su Repubblica Tv delkl’11 dicembre 2015: "Via la Boschi, sulle banche abnorme conflitto di interessi"
Lo scrittore chiede le dimissioni del Ministro, il cui padre è stato vicepresidente di Banca Etruria. “Non è disfattismo criticare le azioni del governo. Per molto meno – nel periodo del governo Berlusconi – abbiamo raccolto firme e siamo scesi in piazza. Si può criticare l’esecutivo senza essere dalla parte di Salvini o di Grillo”.
I silenzi di casa Boschi sulla "banca di famiglia". Il ministro aveva 1.500 azioni dell'Etruria ma non commenta. E il resto della famiglia non fa conoscere la situazione patrimoniale, scrivono Paolo Bracalini e Camilla Conti Domenica 06/12/2015 su “Il Giornale”. Tra i piccoli azionisti di Banca Etruria, uno dei quattro istituti salvati dal governo mandando però sul lastrico titolari di azioni e obbligazioni subordinate, ce n'è una molto speciale: Maria Elena Boschi. Il super ministro renziano, nella sua ultima dichiarazione patrimoniale disponibile (maggio 2014), attesta infatti di essere proprietaria di 1.500 azioni della Popolare dell'Etruria, per un valore complessivo di 1.100 euro. Un modesto gruzzolo in una banca molto famigliare in casa Boschi, visto che ci lavoravano sia il padre (vicepresidente) sia il fratello del ministro. Pochi mesi fa, a luglio, la Boschi mette nero su bianco che nel 2015 «non sono intervenute variazioni» della sua posizione patrimoniale. Dunque, sembra di capire, il ministro è attualmente titolare del pacchetto di 1.500 azioni, divenute nel frattempo carta straccia dopo il decreto salva banche del governo di cui fa parte. Uno dei tanti piccoli risparmiatori tratti in inganno dalla banca aretina? Proviamo a chiedere conferme direttamente al ministro Boschi, che però tramite il portavoce ci fa sapere di non voler commentare la vicenda di Banca Etruria («Ha parlato il premier per spiegare la situazione. Sulle poche azioni del ministro rimandiamo all'amministrazione trasparente nel sito del governo, dov'è evidente il valore delle stesse azioni»). A rigor di logica, visto che da febbraio le azioni della banca sono sospese in Borsa e quindi non potevano essere vendute, il piccolo investimento della Boschi dovrebbe essere andato in fumo. Ma il ministro non smentisce né conferma. L'11 febbraio 2015 infatti la Popolare dell'Etruria viene commissariata dal Tesoro su indicazione di Bankitalia. Fino al giorno prima, vicepresidente della banca aretina è il padre di Maria Elena Boschi, Pierluigi. Su Twitter, il giorno del commissariamento, il ministro cinguetta: «Smetteranno di dire che ci sono privilegi? Dura lex sed lex». Poco più di un mese dopo, a fine marzo, il fratello Emanuele 33 anni - decide di lasciare Banca Etruria per lavorare presso uno studio legale di Firenze. Laureato in economia, era stato assunto alla Etruria nel 2007: da novembre 2012 a ottobre 2014 è stato il responsabile dell'analisi dei processi di costo della banca «attuando gli interventi volti a minimizzarne l'impatto a conto economico». Resta da capire, oltre al vero destino dei risparmi di Maria Elena Boschi alla Popolare Etruria, se anche il fratello Emanuele o il padre Pierluigi avessero investito in azioni o bond subordinati della banca che hanno amministrato fino al commissariamento: entrambi, come la madre, l'altro fratello e pure la nonna, non hanno dato il loro consenso alla pubblicazione della dichiarazione patrimoniale e dei redditi. Forse il ministro ha perso mille euro, ma può darsi che la famiglia ne abbia guadagnati di più nel periodo precedente all'arrivo dei commissari. Di certo, quei titoli ora valgono zero e sono di proprietà di una società destinata alla tomba. E altrettanto certamente in Italia si può essere azionisti di una banca popolare finita in dissesto, figli di un suo amministratore (multato da Bankitalia per carenze nella gestione), partecipare alla ricostruzione di quel settore - per decreto di un governo di cui si fa parte e pure al salvataggio della banca stessa. Eppure quando venne votata la riforma delle popolari e l'istituto aretino finì nel mirino della Consob per i movimenti anomali del titolo in Borsa - la Boschi smentì il conflitto di interessi perché «Banca Etruria aveva già deciso di trasformarsi in spa nell'agosto 2014» (e a Piazza Affari nella seduta del 22 agosto ci fu un boom di scambi pari al 12% del capitale). Assicurando comunque di non aver «nemmeno preso parte al consiglio d'amministrazione in cui è stato votato questo provvedimento». «Consiglio d'amministrazione» e non consiglio dei ministri. Un piccolo lapsus.
Ecco il "tesoretto" del padre della Boschi. Sedeva in 14 società. Avevano fidi aperti con l'istituto? Si chiede Paolo Bracalini Sabato 12/12/2015 su "Il Giornale". Vicepresidente della banca e azionista della banca stessa, una prassi normalissima se l'interessato non fosse anche il padre di un ministro e la banca in questione non fosse andata in rovina, mandando in fumo gli investimenti dei piccoli risparmiatori dopo il decreto del governo Renzi, dove siede la figlia. Un piccolo groviglio di interessi famigliari, quello tra i Boschi e la Banca Etruria (ci lavorava anche il fratello Emanuele, dirigente del settore incagli, i prestiti in sofferenza), divenuto motivo di imbarazzo. Pier Luigi Boschi, il padre del ministro per i Rapporti con il Parlamento, così come gli altri parenti «entro il secondo grado» di Maria Elena Boschi, non hanno acconsentito nel 2014 alla pubblicazione della propria posizione patrimoniale, come previsto (senza obbligo per i famigliari) dalle norme sulla trasparenza dei membri del governo. Per fare un po' di chiarezza sulla sua posizione, dunque, bisogna scartabellare le relazioni ufficiali della banca e i prospetti della Consob. Da una relazione all'assemblea dei soci del maggio 2014 veniamo a sapere che nel 2013 Boschi senior, ancora solo consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo dell'Etruria (verrà promosso vicepresidente l'anno dopo) prende uno stipendio di 71.466 euro niente rispetto ai 638mila euro del direttore generale della banca, Luca Bronchi - e risulta proprietario di 9.563 azioni della banca. L'unico internal dealing (la compravendita di titoli da parte degli stessi amministratori di una società quotata) a cui si riesce a risalire è del giugno 2013, ma il documento della transazione è stranamente inaccessibile sul sito web di Banca Etruria.Cosa sia successo a quelle azioni dal 2014 in poi, tra il clamoroso boom del titolo in Borsa dopo il decreto sulle popolari e il commissariamento, non emerge né dalla banca, né dalla Consob né tantomeno da casa Boschi che su questa vicenda ha preferito tenere il massimo riserbo. Quel che invece si ritrova nelle tabelle della Commissione è un prospetto che alimenta altri interrogativi. Si tratta di una serie di informazioni che una banca, in caso di emissione di obbligazioni, è tenuta a comunicare alla Consob, e riguarda tra l'altro anche gli incarichi degli amministratori dell'istituto in altre società esterne alla banca. La lista delle «poltrone» occupate da papà Boschi contempla quattordici voci diverse: tre presidenze di cda (società agricole e coop), due vicepresidenze e poi incarichi da consigliere in altre sette società, dal Consorzio Vino Chianti alla Società Immobiliare Casa Bianca fino a Progetto Toscana Srl. La domanda la pone l'economista Riccardo Puglisi, responsabile economico di Italia Unica: «Dalla Banca d'Italia sarebbe opportuno conoscere l'ammontare di fidi che l'Etruria ha concesso a queste società in cui Pier Luigi Boschi ha cariche amministrative». Anche perché secondo gli ispettori di Bankitalia, «13 amministratori e 5 sindaci hanno interessi in n. 198 posizioni di fido, per un importo totale accordato, al 30-09-2014, di circa 185 milioni di euro». Tradotto significa che in media ogni amministratore ha interessi in più di dieci finanziamenti concessi dalla banca. Papà Boschi, con i suoi quattordici cda, rientra in questa media?
Salvabanche, Maria Elena Boschi: «Mio padre persona perbene, da governo nessun favoritismo». Il ministro delle Riforme difende il padre, per otto mesi vicepresidente di Banca Etruria, uno dei quattro istituti coinvolti dal provvedimento dell’esecutivo: «Mi sento in colpa verso di lui». Renzi: «Impossibile salvare tutti», scrive “Il Corriere della Sera” del 10 dicembre 2015. «Mio padre è una persona perbene, se sento un senso di colpa è verso di lui». Il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi difende il padre Pier Luigi, nel giorno del suicidio del pensionato che aveva perso 100mila euro depositati presso la Banca dell’Etruria. Mentre il premier Matteo Renzi ribadisce: «Impossibile salvare tutti, ma stiamo cercando una soluzione». Il padre del ministro per otto mesi è stato vicepresidente proprio di quell’istituto di credito: «È una persona perbene, se sento del disagio è verso di lui e la mia famiglia» ha detto la Boschi alla presentazione del libro di Bruno Vespa. «È finito un po’ al centro dell’attenzione continua delle cronache non tanto per quello che fa lui ma perché è mio padre, abbiamo lo stesso cognome. So però che la mia è una famiglia molto solida, affronteremo questo momento rimanendo uniti». Banca Etruria è uno dei quattro istituti coinvolti dal decreto salva-banche, ma il ministro tiene a precisare: «Il governo ha fatto ciò che riteneva giusto e che poteva fare, non fa favoritismi personali». E ancora, sul salvabanche, Maria Elena Boschi ha sottolineato: «Anche Banca d’Italia ha detto che ci sono delle responsabilità proprio dell’Europa rispetto alla situazione che viviamo oggi e abbiamo visto che la commissione europea in qualche modo ha replicato all’intervento di Banca d’Italia. Io credo che ci voglia in qualche modo la capacità di chi ci rappresenta a livello europeo di starci davvero». Quindi la replica agli attacchi dell’opposizione: «Sento in questi giorni tante polemiche rispetto alla situazione attuale del nostro paese però quando si trattava di affrontare queste scelte in Europa che noi oggi subiamo, non erano in Parlamento ma in qualche trasmissione televisiva». «Credo - ha detto il ministro delle Riforme - che ci voglia la collaborazione di tutti se vogliamo avere una soluzione diversa per il nostro Paese a cominciare dal ruolo che giochiamo in Europa, che stiamo cercando di giocare in Europa». E sui risparmiatori che avevano investito nelle quattro banche coinvolte dal decreto dice: «Stiamo studiando un intervento ulteriore per cercare di andare incontro a chi non e’ stato tutelato, gli obbligazionisti, anche perche’ sono soggetti che anche in altre esperienze straniere non hanno avuto tutele. Ci sono varie ipotesi di interventi di carattere di solidarietà: dobbiamo capire quanto intervenire a livello pubblico e quanto trovare soluzioni alternative». «È impossibile per le regole Ue salvare in modo definitivo gli azionisti e obbligazionisti subordinati» ha spiegato poi il premier Matteo Renzi tornando sulla questione «ma stiamo cercando con grande impegno e tenacia di individuare una soluzione, nei limiti delle regole europee, di avere una forma di ristoro. Ci stiamo lavorando».
Il volto nascosto del salva banche: le storie di chi ha perso tutto. Rabbia, frustrazione, amarezza: sono arrivate centinaia di segnalazioni di persone, soprattutto anziane, che si sono 'fidate' delle quattro banche salvate (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara) sottoscrivendo titoli che ora valgono niente, scrivono Maurizio Bologni e Laura Montanari il 4 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Perché di noi non scrivete?". Voci lontane, che arrivano da paesi, frazioni, piccole città di questa Italia. "Nessuno si occupa di questa truffa? Guardi che siamo tantissimi, siamo la nuova Parmalat". Esagerano. Messaggi via mail o registrati nelle segreterie telefoniche, grida di gente che teme di non avere abbastanza voce per farsi sentire. Sono i rovinati del decreto Salva-banche varato dal governo: "Siamo la macelleria sociale, quelli che è stato facile ingannare". Pensionati, casalinghe, operai, impiegati, piccoli risparmiatori, gente distante anni luce dalle alchimie finanziarie o dalla acrobazie azionarie, quelli che si presentano allo sportello e dicono: "Ho da parte questi soldi, cosa mi consiglia?". Quelli che raccomandavano: "Che sia un investimento sicuro, eh?". Benvenuti alla roulette russa delle azioni volatili, dei bond subordinati al veleno. "Ho perso trentamila euro, la metà dei risparmi di una vita. All'Etruria mi hanno fatto vedere un foglio, dei miei soldi non resta niente". Zero. Mario è pensionato e abita a Empoli, in Toscana, ma il suo è soltanto uno dei tanti casi. Da Chieti, da Terni, da Pescara, da Ferrara, da Grosseto e Arezzo. Da nord a sud. Dalla Banca Etruria alla Banca Marche, dalla Cassa di Risparmio di Chieti alla Cassa di Risparmio di Ferrara. Dai posti insomma in cui ci si fida e l'impiegato della banca si trasforma in una specie di consulente finanziario consultato al volo, con le mani piene di borse della spesa. "Siamo le vittime di quel decreto - racconta Roberta Gaini, 50 anni, toscana, impiegata in una ditta chimica - non riesco più a dormire da giorni. Mi hanno preso i soldi che mi aveva lasciato mio padre, ho perso 62 mila euro in obbligazioni subordinate, 20 mila li ha persi mia madre e dieci mila mia sorella. Come la chiamiamo se non una truffa?". Rabbia, sconforto e sospetti per migliaia di risparmiatori delle quattro banche "salvate" dal governo con un conto che pagano - e salato - loro: "Nel 2007 avevo un profilo a basso rischio, quando ho rinnovato le obbligazioni subordinate - riprende a raccontare in lacrime Roberta, mamma di due bambini -. Il profilo di rischio non me l'hanno dato. L'ho richiesto ora alla banca. Io non avrei mai accettato di rischiare il patrimonio per una percentuale di uno punto o due o tre in più. Ma ci rassicuravano, dicevano: signora ma ha mai visto fallire una banca?". Eccoci qua. Silvia Trovò abita a Voghiera, in provincia di Ferrara, ha un'azienda agricola che produce frutta e seminativi: "Dal venerdì alla domenica del 22 novembre per noi è cambiato tutto, abbiamo perso 26mila euro in obbligazioni subordinate e azioni della CariFerrara. Erano i soldi che mio padre, anche lui agricoltore, ci aveva lasciato: non può capire il dispiacere e la rabbia". Nella battaglia, schierati dalla parte dei piccoli risparmiatori, sono scese in campo subito le associazioni dei consumatori. I risparmiatori hanno aperto pagine su Facebook per tenersi aggiornati e organizzare manifestazioni: "Vogliamo andare a Roma e stiamo organizzando un pullman per arrivare a protestare davanti a Montecitorio" fanno sapere. "Non staremo zitti" promette un altro. Daniele scrive via mail: "A mia suocera, che ora ha 93 anni, Banca Etruria ha venduto quattro anni fa obbligazioni per 10mila euro in sostituzione di altre rimborsate alla scadenza naturale si sono guardati bene dall'avvisare che erano subordinate, fra l'altro con interessi non eccezionali, facendo firmare le solite paginate che non si leggono fidandosi dal funzionario, sono sicuro che quella operazione era stata richiesta a rischio zero. In questa storia non sono coinvolti come volevano far credere, gli investitori istituzionali, ma migliaia di risparmiatori". Massimo Cionco è invece un risparmiatore di Banca Marche: "Sono possessore di azioni per 4.215 euro che adesso valgono zero, sono indignato. Alla mia banca cercavano di proporre o far acquistare queste azioni fino al giorno precedente al commissariamento! Sono indignato perché ci hanno proposto l'aumento di capitale del 2012, senza comunicare l'avvertimento dato dalla Banca d'Italia". Un altro cliente di Banca Marche si sfoga: "Siamo diventati all'improvviso i figli del Diavolo, da questa vicenda esco distrutto economicamente e moralmente". Sono centinaia le storie e le mail postate dai lettori e in comune hanno la certezza di essere stati i protagonisti di un clamoroso raggiro: "Ci hanno fatto credere di poter avere rendimenti del 4 o 5 per cento lordi per dieci anni senza rischiare nulla" spiega uno di loro. E ancora: "Sono Liliana di Arezzo, scusi se disturbo le scrivo per far si che non passi inosservato l'esproprio autorizzato domenica 22 novembre nei confronti di noi risparmiatori che avevamo creduto in banche del territorio. Io e mio fratello abbiamo fatto un investimento con obbligazioni subordinate a detta della banca sicure, e con un buon andamento". Quando le cose cominciano a precipitare i clienti tornano a bussare alle loro banche: "Ci siamo informati se era il caso di rimanere o meno con Etruria e ci hanno rassicurato dicendo che la banca era sottoposta a controllo commissariata e che sarebbe mai fallita...". Nessuno al momento ha il quadro esatto di quanti siano i risparmiatori coinvolti in questo crac: "Siamo duecentomila e nessuno ascolta la nostra disperazione". Spesso sono storie strazianti come quella che racconta Francesca Parisi, da Civitavecchia: "Mio padre, correntista Banca Etruria da 40 anni, invalido al 100% e cardiopatico cronico, aveva affidato i suoi risparmi di una vita da operaio (40mila euro) all'istituto di credito succitato, in virtù di un rapporto di estrema fiducia. Nessuno l'aveva avvisato dei rischi che correva con le obbligazioni subordinate, lui era tranquillo, si fidava ciecamente del dipendente che gliele aveva proposte, pur avendo un profilo di rischio basso (secondo la Mifid). In un momento lui si è visto azzerare i suoi risparmi, che gli servono per curarsi". E aggiunge: "Sono una dei tanti disperati, una vittima della macelleria socio-umana di questo governo, della gestione dissennata dei dirigenti di Banca Etruria e non so come comunicarlo a mio padre, perché potrebbe verificarsi un serio attentato alla sua fragile salute, oltre al danno finanziario subito. Il decreto, emanato in un pomeriggio domenicale di novembre, in sordina, artatamente pianificato, ha ridotto al lastrico circa centomila risparmiatori italiani". Si sentono truffati e derubati, si sentono vittima di un raggiro gigantesco. Ci sono interi paesi e frazioni dove magari quelle quattro banche erano la sola banca del centro abitato e tutti andavano lì, da anni a volte anche da generazioni. Come a Vitolini, frazione di Vinci, nell'empolese: un paese che ha pagato un conto salatissimo per Banca Etruria. Li vedi al bar "Il circolo" o nel solo alimentari, lungo la strada per il Montalbano. Facce stralunate, foglietti bianchi in mano pieni di numeri e percentuali che finiscono tutte inesorabilmente con un numero: zero. Carta straccia di bond subordinati e azioni, niente fra le mani se non la rabbia e lo shock di chi si è impoverito nel giro di 24 ore.
Il pensionato suicida, il racconto della moglie: «È tardi, lei ha firmato». Chi era Ex dipendente dell’Enel, per anni iscritto alla Cgil, era sempre stato un uomo di sinistra. La moglie: «Tanti sono i responsabili della sua morte», scrive Fabrizio Roncone su “Il Corriere della Sera” del 11 dicembre 2015. Prima conviene fare un passaggio in banca. Anche per vedere che facce hanno. La filiale della Banca dell’Etruria è al numero civico 5 di corso Centocelle. Le pareti verdine, un arredamento sobrio, la stanza del direttore in fondo, dopo la sala degli sportelli. Arriva una segretaria imbronciata: «No, mi spiace: il direttore non può riceverla. Se vuole, telefoni ad Arezzo, alla sede principale». Dicevano la stessa cosa a Luigino D’Angelo di anni 68 anni, ex dipendente dell’Enel in pensione. Non possiamo riceverla, torni domani, anzi non torni per niente, tanto purtroppo c’è poco da fare: i suoi centodiecimila euro non li rivedrà. E lui immobile, paralizzato in un miscuglio di stupore e rabbia davanti a questa porta (se lo ricorda bene un impiegato: «Poveraccio, per una settimana intera s’è presentato qui, ogni mattina, e da qui non si muoveva»). I risparmi di una vita, un pezzo di liquidazione, azioni e obbligazioni che funzionari abili lo avevano convinto a sottoscrivere con un profilo a «rischio elevato»: tutto bruciato nel rogo previsto dall’operazione Salvabanche. Per consolarlo: «Vabbè, signor D’Angelo, in fondo le resta pur sempre l’accredito della pensione, no?». Certe storie le leggi solo sul giornale, pensava. Certe storie non possono capitare proprio a te. Certe storie sono incubi, però poi ti svegli sudato e ti resta solo un po’ d’ansia addosso. Invece tornava a casa e capiva che non era un incubo. La casa è in via Ugo La Malfa, zona Faro, nella parte alta della città. Villini a due piani sul dorso sbagliato della collina, il mare non si vede. Il giardino della famiglia D’Angelo è tra i più curati. C’è un pino largo e basso, ci sono rose bellissime, ci sono fiori fuori stagione. Sulla rampa del garage, un Suv giapponese coperto con un telo. Sul vialetto, un grosso scooter. Le biciclette sono nel retro. Le biciclette erano la vera passione del signor Luigino. Un uomo mite, una persona perbene, un pensionato senza figli che vorrebbe godersi gli anni della pensione in santa pace, un signore distinto - come si diceva un tempo - che sembra perfetto per vivere in un villino così. Solo che poi tornava dalla banca e si ritrovava dentro lo stesso incubo. Hai perso tutti i soldi. Ti hanno ingannato. E non puoi farci niente. La moglie Lidia aveva intercettato brutti pensieri. Quando vivi insieme da cinquant’anni, ti basta mezzo sospiro. Da una settimana evitava di lasciarlo solo in casa. Ma lui s’era ingegnato di nascosto: scelto il tipo di corda (robusta: era alto un metro e 87) e il tipo di nodo; stabilito pure dove legare la corda (alla balaustra delle scalette che portano giù in sala hobby). Non gli restava che decidere il giorno. È impossibile capire con quali criteri si possa decidere un giorno così. Il signor Luigino scelse un sabato: lo scorso 28 novembre. Alle 16.20, rilesse per l’ultima volta sul computer la lettera di congedo dalla moglie, dalla banca (con accuse tremende) e dalla vita; aspettò che la suocera Anna salisse al piano superiore e che la moglie Lidia uscisse ad annaffiare le rose. Quanto puoi metterci ad annaffiare una pianta di rose? A lui bastò. Adesso siamo tutti qui fuori dal cancello - solito pattuglione di cronisti, cameraman, fotografi - ad immaginarci la scena che può essersi trovata davanti la moglie Lidia. È una donna esile, indossa un maglioncino giallo, ha i capelli a caschetto; colpisce il tono della sua voce: che ha perduto il tremore del dolore e ha assunto la freddezza di chi vuole e pretende giustizia (intanto, poco fa, la Procura di Civitavecchia ha annunciato l’apertura di un fascicolo: reato ipotizzato, «istigazione al suicidio»). La signora Lidia parla a rate, un po’ al citofono, un po’ al telefono, un po’ dal vivo e il primo a parlarci personalmente e a convincerla a raccontare tutto è stato Paolo Gianlorenzo, il direttore di EtruriaNews . Il riassunto delle dichiarazioni di Lidia D’Angelo è questo: «Tutto è cominciato a giugno, quando la banca convocò mio marito, spiegandogli che il suo profilo non era più adeguato al suo investimento: non so come, lo convinsero a passare da un profilo a «basso rischio» ad un profilo ad «alto rischio». Gli hanno fatto mettere un sacco di firme su un sacco di fogli. Lui, ad un certo punto, è stato assalito dal sospetto di essere stato incauto: ma quelli gli risposero che ormai aveva firmato e non poteva più tornare indietro. Abbiamo trascorso un’estate infernale. L’idea di ritrovarsi tutti i risparmi in una posizione di pericolo lo tormentava. Il decreto del governo è stata la mazzata finale. Luigino ha scoperto di aver perso tutto in un pomeriggio. È difficile dire se si sia tolto la vita o se, piuttosto, sia stato ucciso. I responsabili della sua morte sono in tanti. Non perdono chi ha scritto quel decreto, chi l’ha approvato, chi l’ha applicato. Qualcuno deve pagare». Luigino D’Angelo è sempre stato un uomo di sinistra. «Per anni è stato iscritto alla Cgil», ricorda con passo struggente Alberto Leopardo, che fu suo segretario sindacale e che è padre di Enrico, il responsabile del Pd locale. «Le ragioni del suicidio di Luigino le conoscevamo tutti da giorni in città... Ma sono state rese note solo dopo due settimane. Curioso, no?». Il nipote preferito del signor Luigino si chiama Adriano Renzi (cognome qui a Civitavecchia assai diffuso: un po’ meno il nome che Adriano ha dato a suo figlio, Matteo). «Mio zio, questa è la pura verità, è stato rovinato e moralmente traumatizzato da quel decreto voluto proprio da un governo in cui lui credeva tanto, tantissimo...». Le telecamere dei tigì si spengono. Passa un marinaio, ha i gradi da ufficiale e, giunto innanzi al cancello, si fa il segno della croce. Da qui il mare non si vede. Ma, come diceva il signor Luigino quand’era un pensionato felice, si vedono i gabbiani che partono in picchiata per andarci a pesca.
"Ho Luigi sulla coscienza, ma l'ordine di mentire ci arrivava dalla banca". L'ex funzionario che vendette i bond al pensionato suicida di Civitavecchia: "Dicevano che se non li avessimo piazzati saremmo stati licenziati" scrive Federica Angeli il 12 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Io Luigino me lo sento sulla coscienza perché mi sono comportato da impiegato di banca e se fossi stato una persona che rispettava le regole non gli avrei fatto fare quel tipo di investimento". Marcello Benedetti è un ex impiegato della banca Etruria di Civitavecchia. Licenziato un anno fa da quella filiale per un procedimento penale che ha in corso, Marcello ora monta caldaie in giro per la sua città. Il contratto delle obbligazioni acquistate da Luigino D'Angelo, il pensionato che si è tolto la vita per aver perso 110mila euro, porta la sua firma. Benedetti accetta di rilasciare l'intervista a patto che non si sfiori l'inchiesta che lo ha travolto, e che non riguarda i bond subordinati: su questo non può rilasciare dichiarazioni.
Fu lei a "convincere" Luigino ad investire i suoi risparmi in obbligazioni subordinate?
"Sì, Luigino fu uno dei primi clienti della banca a cui proposi questo investimento".
Lo mise al corrente dei reali rischi che correva in questo tipo di operazione?
Gli occhi si inumidiscono. "Firmò il questionario che sottoponevamo a tutti, nel quale c'era scritto che il rischio era minimo per questo tipo di operazione (...). Nelle successive carte che il cliente firmava, era presente la dicitura "alto rischio", ma quasi nessuno ci faceva caso. Era un carteggio di 60 fogli".
E voi impiegati non mettevate al corrente i clienti?
"Avevamo l'ordine di convincere più clienti possibili ad acquistare i prodotti della banca, settimanalmente eravamo obbligati a presentare dei report con dei budget che ogni filiale doveva raggiungere. L'ultimo della lista veniva richiamato pesantemente dal direttore".
Che rapporto aveva lei con Luigino?
"Lo conoscevo benissimo, sia lui che la moglie Lidia. Era uno dei clienti più diffidenti e convincerlo a fare proprio quel tipo di investimento non fu facile (...)
Insulti ad Aldo Nove per un post sul pensionato suicida: «Lascio Facebook ma tornerò. E non cambio idea». Lo scrittore aveva espresso perplessità sul gesto dell'uomo, con una riflessione (molto controversa) sul valore del denaro nell'esistenza delle persone. Scatenando un diluvio, scrive Tommaso Pellizzari su “Il Corriere della Sera” dell’11 dicembre 2015. «Questa cosa di chi si suicida perché “ha perso tutti i risparmi” mi lascia raggelato. Da parte mia non ho mai “messo da parte” nulla e preso atto di questo credo che non mi suiciderò perché oggi devo vedere una bella ragazza, un ottimo musicista e imparare nuove forme di meditazione sul respiro. Che cazzo sono sti “risparmi”? Se la religione è l’oppio dei popoli, il culto dei soldi ne è il cianuro». Sono parole dello scrittore Aldo Nove, comparse giovedì alle 9.56 sulla sua pagina Facebook e riferite alla vicenda di Luigino D’Angelo, il pensionato suicidatosi a Civitavecchia dopo avere perso 110 mila euro investiti in banca. Un post che ha ottenuto oltre 200 condivisioni, da cui sono nati molti dei numerosissimi «Mi piace» e commenti. Era prevedibile, conoscendo i meccanismi della Rete, che una riflessione così «al limite» (e di certo profondamente discutibile) avrebbe potuto suscitare dibattito e critiche feroci, ma non si è mai pessimisti abbastanza: «Ne riparliamo quando sarai vecchio e malato e non avrai un euro per pagare una badante ucraina che ti cambi il pannolone»; «Legge Bacchelli preventiva per Aldo Nove, così non dovrà più preoccuparsi di scrivere cose come questa per essere notato»; «Hai scritto na cosa vergognosa con una superficialità indegna»; «Aldo, c’è mezza Facebook che ti sta massacrando, meritatamente»; «Sei un poveretto. Vergognati»; «ma davvero problematizzate ‘sta mentacattata di una tabula rasa?» non sono i commenti più pesanti che Aldo Nove si è ritrovato in bacheca. Tanto che lo scrittore aggiunge un secondo post, in cui ricorda a chi non la conosce la sua storia (raccontata nel romanzo poi diventato film La vita oscena): «Mi tocca, per non essere imbrigliato da livori indirizzati nel luogo sbagliato, dire qualcosa di me. Ho perso mio padre a sedici anni. Mia madre a 17. La casa a diciotto. Ho avuto come eredità molti debiti. Ho finito il liceo lavorando: un po’ di tutto. Vivo in affitto in 35 metri quadri. Mi sono laureato pulendo il culo ai vecchi. Con i soldi guadagnati ho sempre pagato a malapena le spese. Per tutta l’università mi sono nutrito di pesce in scatola lavorando di giorno e studiando di notte. Mai avuto risparmi. Dentista a debito. Attualmente, per avere mollato la Mondazzoni prima di aver consegnato tutti i libri, possiedo, oltre a nessun risparmio, meno 36.000 euro. Per essere libero di essere un uomo e non uno schiavo dei soldi. Amo il presente. Amo la vita che è ora, non tra sei mesi. Pace e amore a tutti, specialmente a chi mi ha attaccato». Ma serve a poco o niente. E altrettanto a poco serve la solidarietà, sempre su Facebook degi amici o dei colleghi scrittori (come Raul Montanari). Aldo Nove è il cattivo del web: «Hai chiesto comprensione. Però non l’avevi data» valga come esempio per tutti. Tanto che Nove finisce per annunciare querele agli insultatori, cosa che (per chi lo conosce) è quanto di più lontano si possa immaginare dal suo modo di essere. Fino alla decisione finale, comunicata per telefono: «Lascio Facebook per 20 giorni, quello che ho letto è troppo. Ma tornerò. E ricomincerò come prima. Perché io sono una persona, cioè un groviglio di contraddizioni. Non mi interessa stare su Facebook per promuovere i miei libri scrivendo cose che non penso e senza rischiare niente». Una parafrasi di quanto aveva scritto qualche ora prima: «Io non scrivo “buoni libri”. Non è il mio scopo. Se sono buoni tanto meglio. Io scrivo per esprimermi, perché non riesco a vivere solo della mia vita privata, perché vivo e partecipo della vita di tutti, che è vita e non denaro (...). Intorno alla vicenda mi sono beccato tanti, troppi mavaffanculo, Aldo Nove snob vigliacco di merda, muori. Chi lo ha fatto, vada in una banca, a dirlo». Un altro modo per dire che, sulla vicenda, non ci saranno offesa o insulto che lo convinceranno a cambiare idea. Nonostante «il processo di santancheizzazione» stia «diventando sempre più virulento e irrefrenabile»: poi il congedo dal social network. Nuovamente seguito (serve dirlo?) da una ulteriore scarica di insulti. E dalla chiusura dell’account.
Azioni e bond: così funziona la Mifid. Il calcolo del rischio e i paradossi. I risparmiatori delle quattro banche «salvate» hanno comprato titoli inadatti a loro. Ma a volte c’è chi vorrebbe investire con cognizione di causa e non può. Ecco perché, scrivono Pieremilio Gadda e Giuditta Marvelli su “Il Corriere della Sera” del 22 ottobre 2015. Le storie dei risparmiatori vittime dei bond subordinati andranno valutate una ad una. Per stabilire chi si è preso un rischio sapendo che cosa stava facendo e chi invece no. E se davvero le banche hanno mistificato la realtà, non spiegando la pericolosità insita negli strumenti che vendevano. Siamo di fronte — se questo verrà accertato — ad una palese violazione delle regole. Quando invece nella normalità (che fa meno notizia) le cose funzionano, a qualcuno capita anche di scontrarsi frontalmente con i meccanismi che regolano la distribuzione dei prodotti finanziari in Italia e in tutta Europa: tu vorresti uno strumento e io banca che rispetto le procedure non posso vendertelo. Perché? La parola chiave è Mifid, ovvero Markets in financial instruments directive, la direttiva europea in vigore dal 2007, un’epoca geologica fa se si parla di vicende economiche. In base a questa norma, chiunque abbia un deposito titoli in banca o in posta viene intervistato, con un questionario, che aiuta a stabilire quanto è ampia la sua conoscenza dei mercati e degli strumenti. E se un titolo o un prodotto possono entrare nel suo portafoglio. Tutela sacrosanta o eccesso di burocrazia? In un mercato sempre più grande e complesso, dove è difficile ottenere rendimenti soddisfacenti (oggi i tassi a breve sono negativi, un Btp a dieci anni offre l’1,6%) è giusto fare qualche riflessione sui meccanismi di salvaguardia e di informazione dei singoli risparmiatori che qualche anno fa non esistevano, ma anche sui paradossi insiti nel difficile esercizio della misurazione del rischio. Personale e del sistema. Accanto agli azionisti respinti delle Poste, saliti alla ribalta alla fine di ottobre perché il loro profilo non consentiva l’acquisto del lotto minimo della privatizzazione destinata anche ai piccoli investitori, c’è il consulente finanziario che ha dovuto rinunciare a un investimento perché un anno fa ha risposto al questionario in modo troppo prudente: oggi vorrebbe alzare l’asticella del rischio, ma la sua banca blocca l’operazione perché, per aggiornare il profilo in chiave più aggressiva, serve un nuovo test e la procedura interna prescrive un intervallo di due anni tra un questionario e l’altro. O ancora: Btp people con il portafoglio pieno di titoli di Stato a cui l’algoritmo della banca ha vietato acquisti azionari perché il rating del nostro debito pubblico non è da primi della classe e il rischio complessivo del portafoglio sarebbe finito fuori orbita. E per finire qualcuno, animato delle migliori intenzioni, ha rischiato la crisi di identità: dopo aver compilato tre o quattro questionari Mifid di altrettanti operatori finanziari è risultato portatore di diversi profili di rischio. Quale tipo di risparmiatore abita davvero in me? Non si tratta di casi isolati o di qualche investitore un po’ esaurito. Il punto è che ogni intermediario può applicare la normativa a suo modo, nell’ambito delle linee guida stabilite dalla direttiva (che vale per centinaia di milioni di cittadini europei) e previo “ok” della Consob, l’autorità italiana che vigila sui mercati. La Mifid non ha definito con precisione i singoli profili di rischio, né gli strumenti finanziari accessibili a ciascuno di essi. Non dà indicazioni sulla frequenza con cui il questionario va aggiornato. E del resto, la profondità dell’intervista e le modalità operative variano in base al rapporto che lega il cliente all’intermediario. Se c’è un contratto di consulenza o una gestione di portafoglio, la banca è tenuta a effettuare una valutazione di adeguatezza che prende in esame gli obiettivi d’investimento del cliente, la sua situazione finanziaria complessiva, il livello di rischio che è disposto ad assumere, le sue conoscenze ed esperienze in materia d’investimenti. Per un servizio standard di semplice collocamento ed esecuzione di ordini per conto dei clienti, l’intermediario si limita ad effettuare una valutazione di appropriatezza: attraverso un questionario più semplice, verifica se l’investitore conosce un certo strumento, ne comprende il funzionamento e i rischi. Con un servizio di mera esecuzione degli ordini (execution only) su strumenti finanziari non complessi, per esempio azioni e obbligazioni e fondi armonizzati, la banca non è neppure tenuta (per ora) a fate alcun test. Ma le cose in questo campo si evolvono continuamente. Dal gennaio 2017 gli Stati dell’Eurozona, per esempio, dovranno recepire la versione due della Mifid, che mette l’accento sulla trasparenza in riferimento al costo del servizio di consulenza offerto al cliente. Cosa succede quando un ordine d’acquisto fa scattare il semaforo rosso? Dipende. Se non c’è contratto di consulenza, l’intermediario ha solo l’obbligo di avvertire il cliente che l’operazione non è appropriata, in base al suo profilo di rischio. Lo dice l’art. 42 del Regolamento Intermediari Consob al comma 3. In caso contrario, invece, per esempio in una gestione di portafoglio, la banca non può eseguire la compravendita. C’è però una scappatoia: l’operazione può essere fatta al di fuori del contratto di consulenza, nell’ambito di un rapporto di mera esecuzione ordini. Qualche intermediario ha fissato un importo massimo investibile fuori dal recinto Mifid. Altri sono irremovibili e non autorizzano l’acquisto. Soprattutto se può esserci un conflitto di interessi. Cioè, per esempio, se sono andato con un profilo di rischio inadeguato alle Poste a chiedere di comprare le azioni delle Poste. O se chiedo in banca di acquistare un fondo della casa che stona con la mia capacità finanziaria certificata a suo tempo dall’intervista. «Le regole sono buone, nella misura in cui sono scritte con l’obiettivo di tutelare il risparmiatore. Il problema nasce quando vengono applicate in modo errato o sciocco — spiega Massimo Scolari, presidente di Ascosim — . Questo si verifica, per esempio, se l’intermediario adotta un approccio eccessivamente rigido, da burocrate, finendo talvolta per penalizzare il suo cliente». Il livello di rischio, ricorda Scolari, non dipende solo dal possesso di un certo titolo, ma anche dal suo peso relativo all’interno di un portafoglio e dal grado di diversificazione. «Purtroppo accade anche il contrario — ricorda il presidente di Ascosim —. Ci sono intermediari che compiono una revisione generalizzata dei questionari Mifid in concomitanza con il lancio di una nuova campagna commerciale, allo scopo di rendere il profilo dei propri clienti, con qualche forzatura, adeguato al prodotto che vogliono vendere. Le autorità sono intervenute a più riprese per sanzionare comportamenti come questo». Nel caso dei prestiti subordinati al centro della bufera è possibile che sia accaduto qualcosa di simile. O di ancora più grave. Dietro a una nuova intervista non c’è sempre l’imbroglio. Anzi. Negli ultimi mesi, per esempio, diverse banche italiane hanno completato una revisione dei questionari Mifid per adeguarli ai requisiti più specifici richiesti dalle linee guida emanate da Esma (la Consob europea), con l’intento di fotografare meglio il cliente, in base alla sua formazione personale, professionale e alla sua situazione patrimoniale complessiva. Ma cosa succede se in base al nuovo test, il portafoglio non è più adeguato? Non c’è una regola che impone alla banca di ripristinare in tempi stretti la coerenza tra asset allocation e profilo di rischio. «Ogni successiva raccomandazione, però, dovrà necessariamente tenerne conto», ricorda Marcello Ferrara, analista di Consultique sim. Supponiamo che un cliente abbia un portafoglio bilanciato, suddiviso a metà tra azioni e obbligazioni. Ad un certo punto, per ipotesi, la sua propensione al rischio cala e viene fotografata dal nuovo questionario. «A questo punto — spiega l’analista — l’intermediario non potrà limitarsi, per esempio, a proporre la sostituzione di un Bot in scadenza con un titolo di Stato di nuova emissione; dovrà integrare questo suggerimento con una serie di raccomandazioni necessarie a ridurre il livello di rischio del portafoglio complessivo, ad esempio attraverso la riduzione della componente azionaria».
Banche e aiuti di stato: cosa cambia in 5 punti. Dal primo gennaio 2016 entrano in vigore le nuove norme europee. I salvataggi saranno a carico dei soli azionisti e creditori, scrive il 6 luglio 2015 Massimo Morici su "Panorama".
Addio ai salvataggi di Stato. Con il via libera definitivo della Camera, con 270 sì, 113 no e 22 astenuti, alla seduta di giovedì 2 luglio l'Italia ha recepito la direttiva europea sui salvataggi delle banche (2014/59/Ue). Il nuovo meccanismo si chiama tecnicamente bail - in e sarà operativo dal primo gennaio 2016. Sostituirà dal prossimo anno il bail - out, il salvataggio di una banca dall'esterno grazie all'intervento di fondi pubblici. È il caso, quest'ultimo, dell'olandese ING e della tedesca Commerzbanknel 2009, salvati grazie a ingenti aiuti di Stato, o della spagnola Bankia nel 2012.
Cos'è il bail - in. Per bail - in si intende la riduzione forzosa del valore delle azioni e del debito della banca sull'orlo del fallimento o della conversione di quest'ultimo in capitale. In pratica, l'Europa ha deciso di passare da un sistema in cui le crisi bancarie venivano risolte grazie all'intervento esterno dello Stato a un nuovo sistema che ricerca la soluzione all'interno degli istituti stessi coinvolgendo azionisti e creditori.
Perché il passaggio al nuovo sistema di salvataggio. Dall'inizio della crisi nel 2008 i primi interventi sono stati tutti all'insegna del bail - out, pagati con soldi dei contribuenti: è avvenuto con il coinvolgimento dei singoli Stati o dei fondi europei per il salvataggio delle banche irlandesi, britanniche, olandesi, spagnole e tedesche. Il perdurare della crisi, però, ha spinto gli Stati Uniti d'America e l'Europa ad adottare un meccanismo che potesse coinvolgere direttamente gli investitori privati per evitare che l'intero costo dei default delle banche ricadesse sulle casse pubbliche e cioè su tutti i contribuenti.
Quanto ha speso l'Europa per i salvataggi. Il nuovo meccanismo dovrebbe far evitare agli Stati di utilizzare fondi pubblici per evitare i default. Tra il 2007 e il 2013 nelle banche europee sono stati riversati circa 700 miliardi di euro, di cui 518 miliardi nei paesi dell'Eurozona. Solo la Germania ha potuto usufruire di 250 miliardi di aiuti pubblici per salvare le sue banche dal fallimento. Una cifra enorme, se consideriamo che l'Italia si è limitata a un prestito da 4 miliardi di euro per Mps.
Ecco chi pagherà. Se la banca fa crac a pagare, quindi, non sarà più lo Stato, ma in primo luogo gli azionisti della banca e poi gli obbligazionisti meno assicurati. Nei casi di insolvenza di un istituto, la piramide dei soggetti coinvolti nel salvataggio vede al primo posto coloro che hanno comprato azioni o obbligazioni che fanno parte del patrimonio di vigilanza, ossia chi ha investito in azioni Common equity Tier 1 e in obbligazioni Additional Tier 1 e Tier 2. A rischio anche i crediti non garantiti, le passività Bei e i depositi non garantiti, ma solo per le cifre oltre i 100.000 euro.
I depositi fino a 100mila euro esclusi dal bail - in. Possono dormire sonni tranquilli i titolari di depositi fino a 100mila euro. Le passività escluse dal meccanismo di salvataggio, inoltre, sono quelle garantite dalla stessa banca (depositi protetti) o garantite da attivi emessi dalla stessa banca (covered bond) e i prestiti interbancari con scadenza originaria inferiore a sette giorni. Non saranno intaccate anche le passività connesse al funzionamento di infrastrutture essenziali (sistemi di pagamento e regolamento), ma anche i debiti nei confronti di dipendenti o i debiti nei confronti del fisco. Le nuove norme prevedono che le autorità, in alcune circostanze, possano escludere dal bail - in alcune attività per salvaguardare la stabilità finanziaria.
MPS, LA BANCA D’ITALIA E LE SPECULAZIONI DELLE BANCHE.
Der Spiegel: “L’Europa ha salvato banche e speculatori”. Der Spiegel spiega chi siano i veri beneficiati dei crediti garantiti coi soldi dei contribuenti europei, si scrive su “Like News”. Chi sono i beneficiari dei salvataggi dell’euro? Der Spiegel evidenza come gli ultimi pacchetti di aiuto stanziati dall’Europa favoriscano sopratutto i fondi speculativi, le grandi banche e gli oligarchi russi. Una simile politica, evidenzia il settimanale tedesco, pone ulteriori dilemmi sulla bontà degli interventi stabiliti da Bruxelles per evitare il collasso dell’unione monetaria. La politica di salvataggio dell’euro provoca da ormai molti anni profonde ripercussioni negative nelle opinioni pubbliche degli stati membri dell’unione monetaria. Da una parte ci sono i paesi in crisi da debito sovrani sottoposti a piani di rigore che stanno stremando le popolazioni, dall’altra invece ci sono le nazioni più ricche sempre meno disponibili ad accettare sacrifici per sostenere gli stati più deboli, ritenuti in alcuni casi colpevoli delle loro situazioni di difficoltà. Questa frattura, evidente al di là delle opinioni sulla bontà della politica adottata in questi anni, è una delle motivazioni della paralisi che colpisce l’Unione europea ogni volta che deve affrontare la sua crisi. Interessi in campo troppo divergenti rendono ancora più perigliosa la navigazione nella recessione più lunga che il Vecchio Continente ricordi da molti decenni a questa parte. I salvataggi stabiliti dalla Ue vogliono evitare il pericolo più temuto, ovvero la disintegrazione dell’intera eurozona, uno scenario che potrebbe avere conseguenze catastrofiche. Le scelte adottate stanno però avendo conseguenze impreviste. Il primo punto evidenziato da Der Spiegel è il netto vantaggio che gli hedge fond, i cosiddetti fondi speculativi, stanno ottenendo dalla compravendita di bond greci. Il piano dell’Europa si pone l’obiettivo di ridurre il debito ellenico tramite il cosiddetto buy back, ovvero il riacquisto di titoli di stato precedentemente emessi da Atene. La Grecia pagherà questo debito tra il 30 ed il 40% del valore precedente, così che potrebbe ridurre la sua massa debitoria di 30 miliardi di euro spendendone solo 10. Questo piano però permetterà lauti guadagni ai fondi speculativi. Infatti i titoli decennali greci ora valgono circa il 15% del valore di emissione sul mercato secondario, e chi li detiene potrebbe guadagnare il doppio rispetto all’investimento iniziale. Hedge fond come Greylock, Third Point e Fir Tree Partners stanno sfruttando questa opportunità comprando titoli in precedenza valutati come spazzatura, vista l’alta rendita che promette un simile investimento. Se la Grecia completerà il programma, il loro guadagno potrebbe essere ancora più grande. Secondo un analista di Dz-Bank, il successo dell’operazione dipenderà dal grado d’avarizia degli stessi fondi speculativi. La Spagna ha fatto richiesta formale di assistenza per ricevere i crediti necessari alla ricapitalizzazione delle sue banche in crisi. Madrid riceverà una somma totale di 39 miliardi di euro in arrivo dal fondo salva euro Esm ,che sarà versata al veicolo pubblico di sostegno al sistema creditizio iberico Frob. Secondo più di un osservatore questo salvataggio delle banche spagnole è particolarmente costoso. Uno spacchettamento degli istituti di credito o una loro parziale chiusura avrebbe reso meno gravoso il costo complessivo dell’operazione. L’Europa ha voluto così salvaguardare i creditori delle banche spagnole in crisi, per evitare un peggioramento della stretta creditizia in corso in Spagna e con minor gravità anche nel resto dell’eurozona. I creditori dei quattro istituti iberici sono prevalentemente le grandi banche continentali, che vengono beneficiate, o maggiormente tutelate, da questo tipo di operazione. Il contagio ellenico ha colpito anche Cipro, il cui sistema creditizio rischia il completo collasso. L’isola del Mar Egeo riceverà crediti per 17,5 miliardi, evitando così il collasso del suo sistema bancario. Der Spiegel rimarca però una già nota preoccupazione tedesca. I servizi segreti di Berlino avevano evidenziato come Cipro sia il paradiso fiscale degli oligarchi russi, che avrebbero depositato una quantità di denaro pari a 26 miliardi di dollari. I soldi dell’Europa permetteranno dunque di salvare le banche che servono al riciclaggio internazionale del denaro sporco che circola tra Mosca e San Pietroburgo. Secondo le fonti tedesche le aziende estere più sospettate di riciclare denaro hanno come meta terza preferita proprio l’isola di Cipro, dove vivono solo 900 mila persone. Secondo Der Spiegel i contribuenti europei stanno aiutando a salvare i soldi degli oligarchi russi. Un’accusa molto pesante, che evidenzia la gravità dei dilemmi che si pongono di fronte all’Europa nella gestione della sua crisi.
Consigliere della Merkel ammette: Stiamo salvando la Spagna per salvare le banche Tedesche. Un importante economista Tedesco durante un'intervista a una TV spagnola rilascia delle dichiarazioni che stanno avendo un forte impatto sui media spagnoli, scrive “Investire Oggi”. Jürgen Donges, membro del rinomato Consiglio dei 5 esperti economici della Germania, ha detto chiaramente che quando la Germania acconsente al salvataggio di Grecia o Spagna, pensa a salvare le banche tedesche esposte in questi paesi. Le sue parole hanno fatto scalpore nella Twittersfera e nei giornali spagnoli, contribuendo a peggiorare le relazioni già tese tra Berlino e Madrid, e ad alzare i toni del dibattito in merito alla richiesta di salvataggio della Spagna. Donges, 72 anni, è nato a Siviglia, in Spagna, ed è da tanto tempo membro del Consiglio, a volte soprannominato in Germania come il “Saggio”. Ha rilasciato queste crude dichiarazioni a Jordi Evole, il regista dello shaw “Salvados” sul canale spagnolo LaSexta. Qui un più ampio resoconto dal sito spagnolo El Economista. Come in tutti i paesi, i banchieri hanno molto potere e influenza. Quando la Germania reclama la necessaria austerità e le riforme economiche, questo serve a mascherare la motivazione reale per i salvataggi? Il sito di Eurointelligence riporta alcuni momenti clou del colloquio: “Donges punta al debito delle famiglie come a un indicatore chiave che ‘la Spagna ha vissuto al di sopra dei propri mezzi’, ad esempio, acquistando auto tedesche di fascia alta. Questo porta ad una discussione sulla responsabilità reciproca dei mutuatari spagnoli e degli istituti di credito tedeschi, che Donges risolve facendo notare che un acquirente di auto si informa molto di più sulla vettura piuttosto che sul prendere un prestito. Al contrario, sulla responsabilità delle banche finanziatrici Donges dice che non avrebbe mai sostenuto i salvataggi di altri paesi “se il problema non fosse di salvare le nostre banche, dovremmo dare i soldi alle nostre banche”, il salvataggio non è fatto per motivi politici. E conclude “è vero che, quando si parla di ‘salvare la Grecia o la Spagna’, e noi economisti diciamo così, in realtà stiamo salvando le nostre banche esposte verso questi paesi. Questo per noi è chiaro.” Molti, tra cui questo stesso sito, hanno osservato la natura circolare dei salvataggi, che era chiarissima nel caso dell’Irlanda, e che è molto simile in Spagna: Il governo non aveva un debito insostenibilmente elevato, fino a quando non ha “adottato” le banche. Allora, l’Irlanda è stata “salvata”. I fondi della UE, FMI e dei contribuenti irlandesi sono andati alle banche irlandesi, che a loro volta li hanno girati alle banche tedesche, francesi e britanniche. L’Islanda ha preso una strada diversa: ha lasciato fallire le banche in difficoltà. La Spagna deve scegliere tra mettersi nei panni dell’Irlanda o nei panni dell’Islanda. Sembra aver scelto la via irlandese, ma può non essere troppo tardi. Dopo una simile irritante dichiarazione, la Spagna può semplicemente lasciar fallire le sue banche – questa è una carta da giocare molto forte, una carta che la Grecia non ha, e che può cambiare gli equilibri di potere. Senza un piano di salvataggio spagnolo, non ci sono soldi BCE e crescono i timori di una “convertibilità” – una rottura dell’euro. La sola paura potrebbe indebolire l’euro.
Chi saccheggia chi? Si chiede Francesco Raparelli su “L’Uhffington Post”. Negli ultimi mesi, in Italia, avanzano frettolosi i processi contro giovani e giovanissimi che, a partire dall'autunno del 2010, hanno cominciato a ribellarsi, anche in modo molto duro, contro la crisi, quella determinata dalle banche e gestita, attraverso le formula dell'austerità, dalle banche stesse, in particolare dalla BCE. In alcuni casi, servendosi del codice penale fascista Rocco e del reato di "devastazione e saccheggio", sono arrivate anche le prime condanne. Anni e anni di carcere. Mentre crollava Lehman Brothers (settembre 2008), Draghi e Tremonti ci hanno ripetuto, come un mantra, che il sistema bancario italiano era fuori pericolo. Nessuno ha mai reso noti, in questi lunghi 5 anni, i numeri del salvataggio che il credit crunch successivo all'esplosione della crisi dei subprime ha imposto ai contribuenti europei e italiani. D'improvviso, nel maggio del 2010, è divampata la crisi dei debiti sovrani, epicentro la piccola Grecia, a seguire i PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). La correlazione tra i due eventi, il salvataggio delle banche con i portafogli pieni zeppi di titoli tossici e la crisi di solvibilità degli Stati, è sfuggita ai più. I partiti politici tutti, nel vecchio come nel nuovo continente, si sono sbrigati a voltare pagina. Generiche condanne della finanza cattiva, ma sostegno prolungato a banche e fondi assicurativi controbilanciati da politiche del rigore e tagli alla spesa pubblica. A poche settimane dai risultati degli stress test sulle condizioni patrimoniali delle banche italiane ad opera del FMI, la vicenda del Monte dei Paschi di Siena ci dice, finalmente, la verità. Il più vecchio istituto di credito del mondo cade per primo, ma è solo la punta dell'iceberg. Un iceberg fatto di tante nefandezze: l'assenza di vigilanza da parte di Bankitalia e Consob; la corresponsabilità dei sindaci che presiedono le fondazioni bancarie (nel caso di MPS si tratta di uomini del PD o ex PDS-DS); la "generosità" del governo Monti, ma in precedenza di Tremonti, nel concedere - attraverso la formula dei Tremonti o dei Monti bond - sostegno economico pubblico al casinò dei Baldassari, dei Mussari, dei Vigni. L'elemento decisivo, però, è sapere che tra il 2000 e il 2007, Goldman Sachs, Jp Morgan, Deutsche Bank e Nomura, così come è accaduto ad MPS, hanno venduto a banche, enti pubblici e aziende italiche enormi quantità di derivati (CDO e CDS) ad altissimo rischio, decisivi per alleggerire bilanci insostenibili e per garantire utili facili (al manegement). Le scommesse di MPS ("Santorini", "Alexandria", "Nota Italia") sono state tutte fallimentari, le cure adottate attraverso l'acquisto di Btp un disastro ulteriore. Cosa ci assicura che quanto è accaduto ad MPS non possa accadere anche ad altre holding bancarie come Intesa e UniCredit? E i comuni che, governati da sindaci apprendisti stregoni, si sono affidati ai prodotti strutturati? La frana sistemica è dietro l'angolo e procede lo scaricabarile. Il re è davvero nudo, meglio, lo sono i Signori della moneta, rentier che come vampiri di marxiana memoria saccheggiano il nostro sangue attraverso i valori finanziari e la devastazione di salari e welfare. Viene in mente una signora anziana che nella rivolta argentina del 2001, derubata interamente dei suoi risparmi dalla crisi del sistema bancario, assieme a tante e tanti si cimenta nella distruzione delle vetrine di un grande istituto di credito. Parafrasando Brecht e ridendo per il suo gesto, la signora commenta alle telecamere: "Chi è il colpevole, chi distrugge una banca o chi la fonda"?
L’IMU ERA PER MONTEPASCHI, scrive Giovanni Zinordi. Riassumendo MontePaschi a dicembre 2012 ha ricevuto 23 miliardi dalla BCE con l’LTRO all’1%, con cui ha comprato BTP che in media le pagano un 5% e su cui guadagna quindi un miliardo circa come differenziale di interesse. Nonostante questo regalo ora riceve dallo stato altri 3.9 miliardi, ma su questi pagherà un 10% circa, quindi 10 volte di più di quello che potrebbe pagare se emettesse debito a breve che oggi per le banche italiane è sotto 1%. Le fonti sono certe. (Il Sole 24 Ore Radiocor) – Roma, 23 gen 2013 – “La banca sui Monti bond paga un interesse annuo del 9% che si incrementa dello 0,5% ogni due anni”. Lo ha detto l’amministratore delegato di Banca Mps, Fabrizio Viola, intervistato da Sky Tg24, spiegando che “la banca è impegnata al rimborso fino all’ultimo euro di questo prestito su un orizzonte temporale a medio termine. Per lo Stato si tratta di un investimento finanziario e non di una spesa, un investimento finanziario che ha un buon rendimento, superiore a quello che è il costo medio che lo Stato paga per il suo debito pubblico”. Non è un errore di stampa o di agenzia… se pagano un 9-10% su 3.9 miliardi di Monti Bond come ...azzo fanno a chiudere un bilancio non in perdita nei prossimi anni ? Ovvio che vanno sotto e infatti “si ragiona su un aumento di capitale da 1 miliardo, che finirà per ridurre definitivamente al ruolo di comprimario la Fondazione Mps, oggi ancora azionista di riferimento con il 36 per cento. Viola ha anche chiarito l’utilizzo dei cosiddetti Monti-bond: “Sono delle obbligazioni emesse dalla banca – ha spiegato – e sottoscritte dallo Stato, che per le loro caratteristiche sono equiparati al capitale…”. Sicuro, non esiste oggi un solo bonds nemmeno nell’Africa nera che paghi un 9%, questo è un altro aumento di capitale mascherato che però costerà così caro da necessitare un aumento di capitale a scapito degli azionisti. A proposito Monti questi 3.9 miliardi da dare a MontePaschi li ha presi con l’IMU, in pratica. In TV Monti ha dichiarato che “l’IMU è necessaria …perchè le case consumano risorse pubbliche” tipo illuminazione pubblica, asfaltare strade…cioè se tu ti compri una casa costi allo Stato (anche se paghi già tasse per acqua, luce, gas, spazzatura…). Balle ovviamente, gli servivano alcuni miliardi per evitare di nazionalizzare MontePaschi. Ma gli italiani sono dei masochisti e potrebbero rimandare Monti al governo.
Il premier replica all'accusa del centrodestra e della sinistra estrema secondo i quali la terza banca più importante del Paese avrebbe costretto il governo ad intervenire con un prestito (3,9 miliardi di euro) che equivale all'importo dell'Imu sulla prima casa, scrive “L’Unione Sarda”. "Quanto è stato detto sugli interventi finanziari e sull'ammontare che sarebbe stato impiegato per Mps e il gettito Imu è oggetto di fantasie", ha detto Mario Monti a Davos, "anche perché la sottoscrizione di nuovi strumenti finanziari non è ancora avvenuta. E' un tema che non sussiste". E poi: "Sulla vicenda della Banca Monte Paschi di Siena non è in questione il tema dei controlli. E' ora importante sottrarre la tematica dell'Mps dalla confusione che è stata creata per evidenti ragioni". Mario Monti replica così alle accuse di chi - a destra e a sinistra - aveva fatto notare che il premier sapesse quanto stava accadendo e, addirittura, che Mps avrebbe costretto il governo ad intervenire con un prestito (3,9 miliardi di euro) che - accusano il centrodestra, l'estrema sinistra e il Movimento 5 stelle - equivale all'importo dell'Imu sulla prima casa. Per il presidente Napolitano si tratta di una "questione grave e se ne sta occupando la Banca d'Italia". "Non sono esperto di banche ma se la questione è grave bisogna occuparsene. Ed io - ha detto entrando a Torino nella nuova sede de La Stampa - ho piena fiducia nella Banca d'Italia". Dai programmi e dalle liste l'attenzione si è improvvisamente spostata sulla sbandata della terza banca nazionale che ha costretto il governo ad intervenire con un prestito (3,9 miliardi di euro) che - accusano il centrodestra, l'estrema sinistra e il Movimento 5 stelle - equivale all'importo dell'Imu sulla prima casa. La vicenda è particolarmente grave perché coinvolge quella che pare una mancata vigilanza da parte di Bankitalia e un uso opaco dei cosiddetti derivati. Temi che si prestano ad una facile traduzione in slogan elettorali come quelli di Beppe Grillo ("Il Pd non è più un partito ma una banca, Bersani spieghi le responsabilità") o di Roberto Maroni ("Monti ha messo l'Imu per salvare la banca del Pd"): lontani dalla realtà ma non per questo di minore presa sull'opinione pubblica.
La Questione morale. Nella storica intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari, apparsa su Repubblica il 28 luglio 1981 e ripubblicata recentemente dall'editore Aliberti in un'edizione di pregio, il leader del Pci avvertiva che la degenerazione dei partiti "è l'origine dei malanni d'Italia", sostenendo che era questa la vera "questione morale". Sono passati ormai più di trent'anni. Ma la situazione è ancor più peggiorata. La sinistra, la morale, e la diversità perduta, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Repubblica pubblicò una lunga intervista con Enrico Berlinguer. Il tema era la questione morale. Non era la prima volta che il nostro giornale affrontava quell'argomento; gli antecedenti rimontavano a prima della fondazione di Repubblica; la questione morale era stata uno degli elementi fondanti dell'Espresso fin dai suoi primi numeri, con l'inchiesta di Manlio Cancogni sul "sacco di Roma" dei palazzinari in combutta con le grandi società immobiliari e con il Comune. Erano seguite le inchieste sulle frodi alimentari di Gianni Corbi e Livio Zanetti e molte altre fino alla lunga polemica sull'Eni, su Eugenio Cefis e sulla "razza padrona" dei boiardi di Stato. Per il Partito comunista invece era la prima volta. La questione morale contro i "forchettoni" della Democrazia cristiana faceva parte dello scontro politico-elettorale e veniva ritorta contro il Pci con le impiccagioni di Praga e i rubli che il Partito comunista sovietico inviava regolarmente a quello italiano. Ma non investiva il rapporto tra i partiti e lo Stato. A quell'epoca del resto non esisteva ancora il finanziamento pubblico dei partiti. Il Pci, oltre che sul tesseramento e sulle "Feste dell'Unità", era appoggiato finanziariamente al Pcus, la Dc e i partiti di governo dalla Confindustria, dai grandi enti pubblici (Eni, Iri, Enel) ed anche da alcune "agenzie" americane. Questa era la situazione quando Berlinguer affrontò il tema da un punto di vista del tutto nuovo. L'incontro avvenne due giorni prima della pubblicazione. A quel colloquio, che durò tre ore e mezza, era presente Tonino Tatò, portavoce e principale collaboratore del segretario. Il punto centrale dell'intervista fu questa frase di Berlinguer: "La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, denunciarli e metterli in galera. La questione morale nell'Italia di oggi fa tutt'uno con l'occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande e con i metodi di governo di costoro". E più oltre: "I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali. Oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito. Tutto è lottizzato e spartito. Tutte le operazioni che le diverse istituzioni sono chiamate a compiere sono viste prevalentemente in funzione dell'interesse di partito e di corrente e del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se procura vantaggi di clientela, un'autorizzazione viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi. La situazione è drammatica". La citazione è lunga ma necessaria. Essa formula la diagnosi del leader comunista sullo stato del Paese e indica la terapia: i partiti debbono ritirarsi dalle istituzioni e tornare alla loro funzione costituzionalmente indicata di centri di aggregazione del consenso popolare. Questo e non altro era il compito che Berlinguer auspicava ai partiti, a cominciare dal proprio. In quegli stessi mesi, in coincidenza con quell'intervista, Bruno Visentini lanciò dalle colonne di Repubblica il progetto di sottrarre la formazione dei governi alle segreterie dei partiti, affidando la nomina del presidente del Consiglio e dei ministri al Capo dello Stato come prevede la Costituzione ma come non era mai sostanzialmente avvenuto. Ma la proposta cadde nel vuoto e non fu mai raccolta salvo che dal governo Ciampi del 1992, undici anni dopo quest'intervista. A rivisitarla oggi si arriva alla conclusione che la terapia abbia funzionato ben poco ed anzi che il malanno diagnosticato da Berlinguer e poi colpito dall'azione della magistratura negli anni dal '92 al '94, si sia ulteriormente aggravato. Se tanti anni fa la corruzione andava a vantaggio dei partiti e delle correnti, oggi va a vantaggio di semplici individui. C'è stata cioè una personalizzazione della corruzione che emana dal vertice del potere esecutivo con l'acquiescenza di quello legislativo e le leggi "ad personam". Il resto viene da sé a cascata, con la creazione di un'immensa clientela che partecipa alla spartizione del bottino attraverso il sopruso sul più debole. A qualunque livello della piramide sociale c'è sempre un più forte e un più debole. Il sopruso subito viene trasferito al livello sottostante. La reazione che ne risulta sbocca nell'antipolitica ed è una reazione malata, anarcoide e aperte a tutte le tentazioni. Il più delle volte l'antipolitica produce forme di tirannia, non importa di quale colore si ammanti. Di destra o di sinistra, il colore d'una tirannia è posticcio. La sostanza è la provocazione, il sopruso, l'abolizione dei diritti e - se necessario - delle libertà private. La libertà pubblica è già stata soppressa. Questo è l'itinerario inevitabile dell'antipolitica. È molto rara nella storia un'eccezione a questo percorso. L'intervista con Berlinguer sulla questione morale provocò alcune domande che sussistono tuttora. Fino a che punto il Pci era esente dal male che il suo leader denunciava? In che modo doveva avvenire il ritiro dei partiti dalle istituzioni? Le attuali forze di centrosinistra sono esenti dal malaffare che ha continuato a contaminare il centrodestra? La prima domanda noi la ponemmo a Berlinguer. Lui rispose che il suo partito non aveva partecipato al malaffare. Gli fu obiettato che, a causa della guerra fredda, il Pci non poteva accedere al governo nazionale, mancava quindi l'occasione e la tentazione del malaffare. Lui ammise che l'occasione di diventare ladri non c'era stata ed aveva quindi rappresentato in qualche modo una salvaguardia morale e auspicò con maggior forza la necessità di avviare il processo di disoccupazione delle istituzioni prima che la "diversità" comunista venisse a cadere. Quella diversità è caduta da tempo, le occasioni e le tentazioni ci sono ormai sia a destra che a sinistra. Lo stesso Bersani l'ha riconosciuto. Ha chiesto al senatore Tedesco di dimettersi dal partito e dal Senato; è stato accontentato solo sul primo punto ma non sul secondo. Ha chiesto a Filippo Penati di dimettersi dalle cariche che occupa nella Regione lombarda. È stato accontentato, ma forse avrebbe dovuto chiedergli anche di sospendersi dal partito. Non lo ha fatto ma a nostro avviso dovrebbe farlo: la separazione tra chi è imputato di corruzione e il partito cui eventualmente appartiene non ha niente a che fare col garantismo. La presunzione di innocenza vale sul piano giudiziario ma non su quello politico. Infine: quale itinerario può evitare il pericoloso scivolamento nell'antipolitica e bonificare democraticamente la contaminazione del malaffare? La risposta è semplice da dirsi e difficile ma non impossibile da attuarsi: il riformismo. Un riformismo di alto livello che cominci appunto con il ritiro dei partiti da tutte le istituzioni a cominciare dalla Rai. Walter Veltroni propose già un anno fa quel ritiro, affidando la gestione dell'azienda ad un consiglio nominato dal Capo dello Stato, che scegliesse un consigliere delegato. La proposta andava nel senso giusto ma il Partito democratico non si pronunciò su di essa. È auspicabile che lo faccia ed estenda il ritiro a tutte le istituzioni. Questo è l'inizio del riformismo, il quadro entro il quale le forze politiche possono e debbono operare per modernizzare il paese, affrontare la crisi economica, preservare l'equanimità. La legge elettorale completa il quadro perché, se ben fatta, restituisce al Parlamento la sua funzione di rappresentanza della sovranità popolare riscattandolo dalla soggezione in cui l'ha relegato la legge attuale. Le forze del centrosinistra e il Pd che oggi ne rappresenta il perno possono e debbono aver l'ambizione di riformare il Paese intercettando il vento nuovo che si è manifestato da qualche mese. La collaborazione delle forze di centro è essenziale all'attuazione di questo percorso. La destra risorgerà in una versione europea e repubblicana solo quando il berlusconismo sarà stato archiviato. Fino ad allora è inutile aspettarsi un rinnovamento che non ha spazio politico per esprimersi. Ci vorrebbe un Dino Grandi sia nel Pdl sia nella Lega, ma non c'è. Sinistra e centro imbocchino la strada del riformismo. Il resto verrà quando il popolo sovrano deciderà il suo destino.
La Banca d'Italia dice: siamo stati ingannanti, e Banca d'Italia dice il vero, scrive Stefano Cingolan su “Panorama”. Il Sole 24 Ore scrive che il poker dei derivati ha sbancato il giocatore. E ha ragione anche lui. Ma c'è soltanto l'imbroglio dietro il crac del Monte dei Paschi di Siena, la quarta banca italiana? E i malefici derivati sono stati sottoscritti solo per voglia di speculare, una sorta di sindrome da Madoff o da Calisto Tanzi, visto che è stata evocata addirittura Parmalat? Forse c'è dell'altro, e allora la vetta del Monte diventa la punta di un iceberg che finirà per travolgere il titanic bancario? Le risposte sono che sì c'è dell'altro, no gli amministratori senesi non hanno agito solo per speculazione e sul sistema creditizio italiano bisognerà fare una indagine seria, approfondita, indipendente. Quanto alla politica, c'entra e come, al contrario di quel che sostiene Stefano Fassina, responsabile economico del Pd. Ma andiamo con ordine.
1) I contratti derivati sottoscritti con Dresdner Bank prima e poi con Nomura (Alexandria), e quello con Deutsche Bank (Santorini), sono stati nascosti ai consiglieri di Rocca Salimbeni e alla vigilanza della banca centrale. Il contratto diventato pietra dello scandalo (Alexandria 2009 che doveva spalmare le perdite sui titoli di stato) è stato scovato da Alessandro Profumo, arrivato nell'aprile 2012 al posto di Giuseppe Mussari con il compito di fare le pulizie e preparasi a ricevere il sistema pubblico senza il quale la banca non può andar avanti (i Monti bond di 2 miliardi che si aggiungono ai Tremonti bond i 1,9 miliardi decisi nel 2009). Ma se ne parlava da tempo, tra denunce anonime e interviste televisive (a volto coperto) le voci di dentro parlavano eccome, spaventate dalla brutta aria, dalla crisi e dai rischi di perdere il posto. I contratti derivati non sono la crusca del diavolo, ma vanno maneggiati con cura; nel caso del Montepaschi sono stati gestiti malissimo: prima perdite sui cdo, poi perdite sui titoli di stato, poi altri buchi sui tassi di cambio. Tutto nella frenesia di coprire un debito con un altro debito. I buchi, dunque, nel bilancio Mps esistevano prima dei derivati.
2) Le cifre del resto sono impressionanti. Dal 2011 ai primi nove mesi del 2012 la banca senese ha accumulato 6,2 miliardi di perdite. Ha in pancia titoli di stato per 26 miliardi (due volte e mezzo il capitale, ma in qualche modo questo ha un valore “patriottico”); derivati per 11 miliardi; e ben 17 miliardi di crediti a rischio. Come si è arrivati a questo punto? Per capirlo bisogna ricordare che cos'è il Montepaschi e qui la politica è regina.
3) Il sistema Siena era un esempio perfetto di consociativismo a egemonia di sinistra. Se n'è già scritto molto, ma vale la pena ricordare che il Monte è la mammella che dà il latte all'intera città. Tutti vivono della denaro distribuito attraverso la Fondazione e la banca che lei controlla con maggioranza assoluta. Gli organismi dirigenti sono di nomina politica: il Pci e suoi satelliti prima, i Ds (ora Pd) e alleati poi, hanno sempre avuto il patronage. Ma le scelte erano condivise con gli altri poteri forti della città, dalla Curia alla massoneria. Non c'è nulla di nuovo in questo, anzi molto d'antico. La novità è che il meccanismo s'inceppa. Quando?
4) Nella seconda metà degli anni '90 la foresta pietrificata, come veniva chiamato il sistema bancario italiano, si scuote. Comincia una girandola di fusioni che fa nascere gruppi più grandi non sempre più solidi. Il processo viene stimolato e seguito dalla Banca d'Italia. Antonio Fazio ne ha sempre fatto un motivo d'orgoglio. Ma a Siena lo considerano un nemico. Il Monte, per uscire dal suo non più splendido isolamento, mette gli occhi sulla Bnl, posseduta dal Tesoro. Fazio chiede che la Fondazione scenda sotto il 50%. Ma i senesi rifiutano e la Banca d'Italia nega l'autorizzazione. E' il 2002. La sinistra incolpa il governo Berlusconi e lo stesso governatore. Intanto, la fortezza si apre: in banca è arrivato Vincenzo De Bustis, banchiere molto vicino a Massimo D'Alema, portando in dote la Banca salentina e i suoi prodotti finanziari dai nomi hollywodiani (come Mayway, 4you). Cominciano i guai, anche giudiziari. Nel frattempo al vertice della fondazione arriva Mussari sostenuto da D'Alema, Giuliano Amato e Franco Bassanini. Un sodalizio potente che si spezza nel 2005 quando Mps rifiuta di partecipare alla scalata Bnl al fianco di Unipol. Bassanini ha sostenuto in una intervista a Panorama di aver difeso, insieme ad Amato, l'indipendenza del Monte. Due anni dopo arriva la rivincita con l'acquisizione di Antoveneta. Certo, il prezzo è alto: 9,5 miliardi mentre il Banco Santander, guidato dal suo fondatore don Emilio Botin, membro eccellente dell'Opus dei, lo ha pagato poco più di sei miliardi. Molti sollevarono dubbi, allora. Ma la Banca d'Italia diede il via libera. Era l'anno delle mega fusioni: prima Intesa-Sanpaolo, poi Unicredit-Capitalia; il Monte non voleva restare isolato. Ma era anche l'anno in cui scoppiava la crisi dei subprime. Le prime gravi avvisaglie emersero in agosto. L'operazione Antonveneta avvenne in novembre. Non era meglio consigliare prudenza anche da parte di via Nazionale? Ora sull'acquisizione di Antonveneta indagano i magistrati, pende il sospetto di aggiotaggio. Si parla di operazioni estero su estero per un miliardo e mezzo di euro. Vedremo cosa emergerà dalle indagini. Ma la questione non è giudiziaria, bensì di politica bancaria. La stessa che deve accendere un faro sullo stato di salute del sistema creditizio.
5) Nell'inverno 2011-2102 la Bce ha salvato il sistema bancario con mille miliardi di prestiti all'1% senza limiti di tempo. Di questi, 250 miliardi sono andati alle banche italiane che li hanno usati per riaprire i rubinetti della liquidità e per acquistare i Btp dei quali le banche estere si liberavano: circa 145 miliardi in un solo anno. Adesso, appesantiscono i bilanci. E si aggiungono alla montagna di crediti in sofferenza o a rischio, saliti da 75 a 121 miliardi. Rispetto a questo, i derivati potenzialmente pericolosi rappresentano una piccola quota dell'attivo (Intesa il 9%, Unicredit il 12,4, Ubi il 4,5). Ma il rischio spesso non ubbidisce alle percentuali. La complessità dei contratti rende i derivati una sorta di domino: se cade una tavoletta trascina tutte le altre. L'abbiamo già visto con i subprime: erano una infima parte del credito immobiliare americano, ma sei anni dopo ancora ne stiamo pagando i costi. Dunque, l'operazione pulizia deve andare fino in fondo. Una pulizia finanziaria, ma anche politica.
E lo scandalo derivati entra intanto nella campagna elettorale e scuote la politica, investendo anche il premier Mario Monti e il Pd. Attacca il partito di Bersani, il premier, dai microfoni di Radio Anch'io: «il Pd c'entra in questa vicenda» - ha detto - «perché ha sempre avuto molta influenza sulla banca e sulla vita politica» di Siena. «Io - ha però aggiunto - non sono qui per attaccare Bersani, ma il fenomeno storico della commistione fra banca e politica che va ulteriormente sradicato» perché è una «brutta bestia». Sul caso Monte Paschi «si tratta di fare la massima chiarezza» anche dal punto di vista «penale», ove necessario, ha detto Monti. «Ho piena e totale fiducia nella Banca d'Italia e nei confronti del governatore» Ignazio Visco, ha aggiunto, «così come ce l'ho nel ministro dell'Economia e delle Finanze». Chiarendo la vicenda, ha poi spiegato che «il governo non ha fatto alcun regalo al Monte dei Paschi di Siena: si tratta di un prestito di 2 miliardi mentre i restanti 1,9 miliardi sono rimborsi dei precedenti Tremonti bond». «Questi episodi - ha osservato - vanno trattati con la massima chiarezza e trasparenza: ciò che è stato previsto per Mps non è una cifra a fondo perduto ma un prestito e non un euro è stato ancora sborsato di questo prestito. Non si tratta di 4, o di 3,9 miliardi ma di 2 miliardi mentre 1,9 sono rimborsi dei precedenti Tremonti bond. Va quindi eliminata dalla scena questa cosa leggermente terroristica circa gli importi e la perdita e fare chiarezza. «Il prestito - ha detto ancora - è stato previsto non di iniziativa italiana ma dall'autorità bancaria europea che ha modificato i criteri per l'adeguatezza di tutte le banche in Europa e ha richiesto una maggiore capitalizzazione di Mps. L'Ue ha delle regole che disciplinano gli aiuti di Stato e i prestiti fatti dalle banche a tassi inferiori sarebbero aiuti di Stato e incorrerebbero nella disciplina Ue: questo rende più oneroso il prestito e tranquillizza il contribuente perché non si tratta di regali o assegnazioni a fondo perduto ma di prestiti a tassi onerosi in fondo convenienti per lo Stato».
"Questa situazione è assoluta responsabilità di un partito politico, Ds e Pd - ha detto - che ha messo nella Fondazione i propri uomini. Quindi si prendano queste persone, si mettano su una sedia con un faretto in faccia e si faccia loro una domanda: 'fuori i soldi', semplice", ha detto il leader del Movimento Stelle, Beppe Grillo.
Siena la finanza strutturata non ha colpito ignari pensionati o incauti risparmiatori, scrive Fabrizio Massaro su “Il Corriere della Sera”. Qui ad essere stata travolta è stata direttamente Mps, la banca più antica del mondo, fondata nel 1472 e prossima a ricevere 3,9 miliardi di aiuto di Stato sotto forma di Monti bond. E costretta a tirare la cinghia tanto da tagliare 225 mila euro di contributi alle contrade del Palio. Dopodomani all’assemblea convocata per l’aumento di capitale da 4,5 miliardi al servizio dell’aiuto di Stato andrà in scena lo psicodramma di un’intera comunità e non solo. La linea l’ha dettata ieri l’ex sindaco, Franco Ceccuzzi, ricandidato per il Pd: «Le gravi irregolarità contabili sono una conferma, molto più dolorosa di quanto ci si potesse aspettare, di quanto fosse necessario ed urgente operare un ricambio ai vertici del gruppo». Tra chi ha annunciato interventi in assemblea ci sono Beppe Grillo e Oscar Giannino. Che con ogni probabilità commenteranno anche le condizioni dell’aiuto di Stato, fra le quali un interesse iniziale al 9% che sale fino al 15%, il divieto di fare riferimento nelle pubblicità all’aiuto di Stato o di «intraprendere politiche commerciali aggressive». I Monti bond serviranno a Mps per coprire 2 miliardi di minor patrimonio determinato dal valore di mercato dei 22 miliardi di Btp che la banca ha in pancia. Btp che peraltro, a causa dei derivati sottoscritti su quegli stessi titoli, rendono appena 60 milioni l’anno. Nelle intenzioni dell’allora presidente Giuseppe Mussari dovevano invece rimpolpare la redditività di una banca azzoppata da un passo rivelatosi più lungo della gamba: l’acquisto di Antonveneta per 9 miliardi dalla spagnola Santander (che l’aveva pagata 6,3 miliardi pochi mesi prima) a fine 2007, alla vigilia della crisi, e costato agli azionisti due aumenti di capitale, il primo da 5 miliardi nel 2008 e l’altro da 2,2 miliardi nel 2011. Quei contratti derivati sono da mesi sotto la lente del nuovo board presieduto da Alessandro Profumo e guidato da Fabrizio Viola. Dall’analisi degli advisor Pwc e Eidos sta emergendo che Mps avrebbe messo in piedi le operazioni in derivati anche per coprire centinaia di milioni di potenziali perdite, senza darne completa informazione. L’esame avrebbe individuato almeno 17 miliardi di Btp acquistati con finanziamenti su cui sono stati costruiti derivati, la cui chiusura potrebbe provocare perdite a livello patrimoniale fino a 500 milioni, come ha fatto sapere la stessa banca spiegando di aver richiesto mezzo miliardo in più di «Monti bond» (fino a 3,9 miliardi) per «assicurare la copertura, dal punto di vista prudenziale, degli impatti patrimoniali di eventuali rettifiche di bilancio, nonché degli eventuali costi di chiusura delle operazioni in oggetto». Ieri è venuta fuori l’operazione «Alexandria» del luglio 2009 con la giapponese Nomura e un altro dossier denominato «Nota Italia». Era stata scoperta la ristrutturazione del veicolo «Santorini», con Deutsche Bank (con sottostante 1,5 miliardi di Btp) per coprire 367 milioni di potenziali perdite nel 2008. Non sarebbero le uniche operazioni, né tutto sarebbe chiaro. La vicenda Alexandria risale all’inizio del 2009: Mps aveva necessità di chiudere uno swap costruito da Dresdner su mutui ipotecari rischiosi che era in forte perdita. Secondo fonti finanziarie, la banca giapponese ha realizzato per Mps un asset swap su Btp per 3 miliardi di nozionale (dalla durata media di 27 anni) per sostituire il vecchio derivato. Ad oggi la perdita Alexandria ammonterebbe a 220 milioni, mentre l’esposizione complessiva verso Nomura potrebbe arrivare a 740 milioni. È stato Il Fatto quotidiano a rivelare i dettagli della ristrutturazione: il contratto con Nomura sarebbe stato trovato solo lo scorso 10 ottobre scorso nella cassaforte dell’ex direttore generale Antonio Vigni e non era a conoscenza della Banca d’Italia. La banca giapponese ha anche informato Viola della trascrizione di una telefonata tra Mussari e il capo europeo di Nomura, Sadiq Sayed, in cui quest’ultimo chiede al presidente di Mps se avesse compreso l’operazione, se il Consiglio fosse stato informato e se avesse inviato i contratti ai revisori. Viola ha girato le carte alla Procura di Siena, che da mesi indaga su Mps, con indagati Mussari, Vigni e l’ex collegio sindacale. «Non ricordo se un’informativa sia mai stata portata in Consiglio», ha detto ieri l’ex presidente dei sindaci, Tommaso Di Tanno, «se è stato fatto era talmente paludata da essere incomprensibile». Anche Mps ha detto che «non risulta» che l’operazione «sia stata sottoposta all’approvazione del Consiglio», in rettifica a una nota di Nomura secondo cui l’operazione «è stata rivista e approvata prima dell’esecuzione ai più alti livelli» di Mps, inclusi board e Mussari, e che lo scambio «era stato esaminato dai revisori di Kpmg». Anche la società di revisione ha precisato di «non essere mai stata messa a conoscenza di alcun accordo di natura riservata risalente al 2009 tra Mps e Nomura».
Davvero la Banca d’Italia è stata presa per il naso? Si chiedono Milena Gabanelli e Paolo Mondani su “Il Corriere della Sera”. Banca d’Italia ha dichiarato in una nota che quelli di Monte Paschi gliel’hanno fatta sotto al naso. «La vera natura di alcune operazioni del Monte dei Paschi di Siena è emersa solo di recente, a seguito del rinvenimento di documenti tenuti celati all’Autorità di Vigilanza e portati alla luce dalla nuova dirigenza Mps». In effetti l’Istituto di Via Nazionale non è un organo di polizia e tantomeno giudiziario, e se la Banca che da tempo sta monitorando gli nasconde le carte, mica può mettersi ad intercettare i dirigenti! Ma davvero Mps ha nascosto le carte? Leggendo la relazione della Vigilanza di Bankitalia che nel 2010 fa visita al Monte si ricava tutt’altra impressione. L’ispezione dura 3 mesi (inizia l’11 maggio e si conclude il 6 agosto) ed è firmata da Vincenzo Cantarella, Biagio De Varti, Giordano Di Veglia, Angelo Rivieccio, Federico Pierobon, Omar Qaram. Dalle osservazioni generali sull’accertamento emergono risultanze parzialmente sfavorevoli, segue l’elenco dei punti di debolezza. Per quel che riguarda i profili organizzativi e di controllo gli ispettori scrivono: «La regolamentazione delle operazioni finanziarie deve essere estesa ai veicoli di diritto estero, al fine di evitare che possano essere assunte posizioni non monitorabili dalle strutture di controllo» (ovvero: siccome ci sono più centri decisionali in grado di assumere rischi ad esempio acquistando finanza strutturata, è opportuno che la capogruppo sia in grado di conoscere i rischi che tutti questi altri centri si assumono). La relazione prosegue: «L’azione dei comitati interni è incerta, poco incisivo l’operato del comitato rischi, le decisioni prese nei comitati finanza e di stress non vengono riportate con regolarità al consiglio» (cioè ognuno assume rischi come gli pare e il Consiglio non sa niente). «La struttura commerciale si raccorda in modo insufficiente con quella che gestisce i rischi finanziari derivanti da prodotti che includono derivati. Poco efficace anche il coordinamento dei vari risk Taking Center, la cui sovrapposizione operativa è stata assecondata assegnando crescenti obiettivi di profitto all’area Tesoreria, Capital Managment e Direzione Global Market» (in altre parole, i dirigenti di queste aree si sovrappongono pur di fare profitto senza monitorare i rischi). «L’orientamento del gruppo verso l’assunzione dei rischi escluso dal computo dei requisiti prudenziali non si è accompagnato al rafforzamento, anche in termini di risorse addette, dei relativi presidi di riscontro» (come dire che hai comprato il treno ma non hai assunto il macchinista e lo fai guidare ad uno che non ha la patente). A maggior riprova della mancanza di competenza nella capacità di gestire i rischi assunti, Bankitalia scrive: «Il Risk managment non riscontra le valorizzazioni dei fondi hedge e di private equity, né le posizioni detenute da numerose controllate estere». Ed erano appunto le controllate estere a fare le famose operazioni Alexandria e Santorini, di cui oggi Bankitalia dice di non sapere nulla, nonostante sulla relazione ispettiva scriva: «Alcuni investimenti a lungo termine presentano profili di rischio non adeguatamente controllati né riferiti dall’esecutivo all’organo amministrativo. In particolare si sono determinati consistenti assorbimenti di liquidità (oltre 1,8 miliardi) riferiti a due operazioni, del complessivo importo nominale di 5 miliardi di euro, stipulate con Nomura e Deutsche Bank Londra». Stiamo appunto parlando dell’operazione Alexandria e Santorini…che sono state un bagno di sangue. Quindi Bankitalia sapeva di queste operazioni, e sapeva che non erano adeguatamente monitorate. Perché non è successo niente? Inoltre tutte queste operazioni vanno scritte in un bilancio, e poiché il controllo della correttezza contabile spetta alla Consob, (ed è difficile immaginare che la nocività si sia manifestata negli ultimi tre mesi) se ne deduce che anche Consob non abbia garantito negli anni al mercato ed agli investitori la dovuta trasparenza sulla situazione contabile e finanziaria di Montepaschi. Se non vogliamo continuare a porci sempre le stesse domande retoriche su dove fossero Consob e Banca d’Italia qualcuno dovrebbe avere il coraggio e la lungimiranza di mettere nel programma dei primi 100 giorni di Governo il progetto di riforma delle Autorità.
Montepaschi: le colpe non viste. Scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Nessuno può chiamarsi fuori dalla vicenda che coinvolge il Monte dei Paschi di Siena. Non il governo, e ciò vale tanto per quello passato quanto per quello ancora in carica: se nonostante la crisi devastante del 2008-2009 la bomba dei derivati rimane innescata, come sanno bene anche i tanti enti locali che hanno rischiato di rimetterci l’osso del collo, è perché non si sono prese le contromisure necessarie. Non la Consob: che dovrebbe sorvegliare i mercati tutelando i risparmiatori, ma spesso si addormenta. Non la Banca d’Italia: alla quale spetta il compito di vigilare sulle banche e non vede sempre tutto, anche se va precisato che l’istituto di via Nazionale non ha poteri di polizia giudiziaria. Non il sistema bancario, cui il terremoto finanziario sembra non aver insegnato niente: i rubinetti del credito verso le imprese sono ben chiusi mentre la macchina della finanza creativa ha ripreso a girare a pieno ritmo. Meno che mai i politici, soprattutto quelli senesi, possono dire: io non c’entro. Ma il fatto che siano tutti in una certa misura responsabili, e in un sistema finanziario sempre più integrato vanno chiamate in causa probabilmente anche le carenze europee, non può significare che nessuno è responsabile. Tutt’altro. Questa vicenda non può essere archiviata come uno dei tanti incidenti di percorso del nostro sgangherato sistema finanziario. Né le dimissioni di Mussari dall’Abi possono essere considerate una sanzione sufficiente. Non fosse che per un motivo. Dev’essere ricordato come, ancor prima che saltasse fuori lo scandalo dei derivati, per tirare fuori la banca dai guai causati da una serie di errori della sua precedente gestione, il contribuente ha versato nelle casse del Monte 3,9 miliardi. Per quanto le polemiche elettorali sollevate da chi ha accusato il governo di aver introdotto l’Imu per salvare «la banca del Pd» siano del tutto prive di fondamento, considerando che su quel prestito l’istituto paga al Tesoro un interesse del 9 per cento, e non c’è investimento sicuro che renda una simile cifra, si tratta pur sempre di soldi pubblici. E non può assolutamente passare il messaggio che con i soldi dei contribuenti, sia pure pagati a caro prezzo, le banche possono tappare i buchi di speculazioni finanziarie sbagliate. Se poi si scoprisse che mentre il Monte era allo stremo alcuni soggetti avessero continuato a godere di un trattamento di favore, con conti correnti a reddito elevato e garantito, sarebbe gravissimo. Ecco perché siamo convinti che il governo non si possa limitare a gettare la palla nel campo di qualcun altro, come ha fatto ieri il ministro del Tesoro Vittorio Grilli puntando il dito contro la Banca d’Italia. Mario Monti, che si candida a rimanere a palazzo Chigi, non può ignorare che questa storia coincide con il debutto della vigilanza europea sulle grandi banche, e per l’Italia non è davvero un bel viatico. Da lui ci aspettiamo una presa di posizione risoluta, come premier ancora in carica. Certo fa sorridere che il primo fra i suoi sostenitori a sollecitare «chiarezza» sulla vicenda chiedendo a ognuno «di assumersi le proprie responsabilità politiche» sia stato Alfredo Monaci. Ovvero, un tipico esponente della classe politica locale che per anni ha retto Mussari e che ora è candidato della lista Monti in Toscana. Presidente della Mps immobiliare e dirigente del Monte, è il fratello minore di Alberto Monaci: a sua volta ex dipendente della banca, ex deputato dc, oggi presidente (democratico) del Consiglio regionale toscano. Monaci senior già vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena di Alessandro Profumo. Ma dopo che è sfumata la vicepresidenza per suo fratello Alfredo è scoppiata una guerra interna al Pd che ha fatto saltare per aria la giunta comunale. Questa poco edificante lotta di potere contribuisce a far capire perché siamo arrivati qui. Il fatto è che il Monte è un formidabile strumento di welfare cittadino. Finanzia il Comune, la squadra di calcio, quella di basket, gli stessi cittadini. A Siena dà lavoro a circa 5 mila persone: quasi il 10 per cento dell’intera popolazione. Per non parlare delle decine di poltrone nei consigli di amministrazione. Nonché del fiume di denaro che attraverso la fondazione si è riversato, anno dopo anno, nel territorio circostante. Intendiamoci, questo non è un problema limitato alla sola Siena: sono le scorie della vecchia riforma che ha fatto nascere in tutta Italia le fondazioni bancarie dalle ceneri delle vecchie banche pubbliche. Sarebbe anche ingiusto negare che i contributi del Monte abbiano messo in moto iniziative di pregio, come la realizzazione di strutture sanitarie d’eccellenza e di centri di ricerca all’avanguardia. Ma è chiaro che adesso Siena e la sua banca sono a un bivio. Paradossalmente, dunque, questo scandalo dei derivati offre un’occasione da non perdere per cambiare registro. A tutti: al Monte, al sistema bancario, agli organi di vigilanza. E alla politica. Sempre che la sappiano (e la vogliano) cogliere.
Agli italiani sembra che non interessi nient'altro che l'economia, ossia: quanto deve pagare o evadere ovvero quanto deve chiedere di finanziamento spesso illecito, comunque sempre immeritato. Non gliene fotte a nessuno se in carcere ci sono innocenti o c'è omertà, censura e disinformazione, se ci sono sprechi e privilegi o malasanità. Se c'è clientelismo e disservizi. All'italiano interessano solo i soldi. Si è sempre sull'orlo del baratro dimenticandosi di chi ha portato il paese allo sbaraglio. Alle elezioni i soliti italioti coglioni stanno lì a rivotare i soliti italioti coglioni. Chi vince, da destra a sinistra, tutti uguali. Ogni tanto piccole ed insignificanti voci di richiami nostalgici ad ideologie sinistrote o fascistote del millenio che fu. Alcuni, poi, con il richiamo alle verginelle illibate e nulla più. Nessuno a chiedersi il perchè si fanno i conti in tasta ai parlamentari e non ai magistrati o ai dirigenti e managers boiardi di Stato. Si vorrebbe forse avere dei precari in Parlamento? Basterebbe pretendere che al giusto guadagno corrispondesse giusto impegno per ben rappresentare l'elettorato. Non c'è mai un rigurgito di dignità. E poi, il giorno dopo, lì a lamentarsi dei politici che loro stessi hanno rivotato. Mai che nessuno, con un sonoro intercalare, si chiedesse: "Ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi?" Bene. Tenuto conto che per altri temi ci sono appositi libri scritti senza peli sulla penna o sulla tastiera, in questa sede parliamo di economia, andando a scoprire gli altarini.
CHI COMANDA IL MONDO? LE BANCHE! DERIVA DI STATO: IL CREDITO CHE SI DISCREDITA…
Inchiesta di Antonio Giangrande, che, oltretutto, è il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena.
Mentre altrove si ottiene giustizia, a Taranto (Foro dell'Ingiustizia) le denunce del dr Antonio Giangrande contro i poteri forti vengono sistematicamente tutte archiviate. Ma così non per le denunce presentate presso altri fori. Secondo la Corte di Cassazione con sentenza n.1584/2012 sono nulli i contratti d’investimento «My Way» e «For You» della ex Banca 121 sottoscritti fuori dai locali commerciali. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, con sentenza del 3 febbraio 2012. Furono proposti dalla Banca 121 - assorbita dal gruppo Monte Paschi di Siena - negli anni 2001 e 2002, a migliaia di cittadini che si accorsero solo in seguito di aver sottoscritto non dei piani di accumulo di capitale a basso rischio e con prospettive di guadagno illimitate, ma dei contratti di investimento ad alto rischio. Dopo le segnalazioni e l’avvio di un procedimento, anche l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha stabilito l’ingannevolezza delle informazioni fornite ai clienti. «Siamo soddisfatti di questa sentenza della Cassazione - dice Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie - perché abbiamo sempre sostenuto che si trattava di un inganno, checchè la pensassero i magistrati di Taranto. I risparmiatori venivano consigliati a sottoscrivere quei contratti pubblicizzati come prodotti di investimento anche ai fini previdenziali e con l’impegno della restituzione del capitale in qualsiasi momento. I cittadini prendevano soldi in prestito dalla banca per investire in strumenti speculativi e, se non si riuscivano a pagare perché il piano di finanziamento durava dai 15 ai 30 anni, veniva chiuso il mutuo, con una grossa penale. I titoli venivano svenduti e la differenza addebitata sul conto corrente gravato di spese e interessi anatocistici». Numerose sono state le condanne per la banca. «Lo squilibrio contrattuale derivante da quelle operazioni bancarie - si legge in una delle sentenze, di fine dicembre 2011, del Tribunale di Civitavecchia - è evidente e va ben oltre l’ordinarietà. Il contratto è vantaggioso per la banca che percepisce gli interessi sul finanziamento, lucra i compensi per la gestione delle risorse finanziarie nell’interesse del cliente, colloca titoli dalla stessa negoziati o in regime di conflitto di interessi, in quanto si tratta di titoli emessi da una società facente parte dello stesso gruppo, mentre è esclusa la possibilità per il cliente di effettuare operazioni di passaggio fondi, indispensabili in caso di turbolenze del mercato».
Il 4 YOU, come il gemello piano finanziario MY WAY, differente solo per la diversa composizione dei titoli acquistati, è una singolare forma di indebitamento, con tassi dal 6,15 ed il 6,99 %; non è un investimento ma un vero e proprio mutuo (che viene anche segnalato e registrato dalla Centrale Rischi e può impedire altri mutui come per l’acquisto della casa) per l’acquisto di titoli, tra cui titoli dalla stessa Banca, in evidente conflitto di interessi. Non solo. Si chiedeva anche al consumatore di tradurre un’oscura equazione economico-finanziaria per comprendere che il recesso è talmente costoso da essere impraticabile.
Tutta Italia ne parla. Ed è niente in confronto alle denunce che arrivano a Potenza, destinate ad un infausto destino, ossia lettera morta, senza che sia conseguita accusa di calunnia per i denuncianti, ma a Taranto si fa finta di niente. Anzi, si processa per diffamazione a mezzo stampa chi osa parlarne come Antonio Giangrande. Il diritto di cronaca e di critica, però pretende la sua soddisfazione: qualcuno deve pur informare il mondo su quello che succede a Taranto, definito Foro dell'Ingiustizia.
Carige, lo scandalo si allarga: indagati anche tre magistrati. Potrebbero essere loro le talpe che hanno informato Berneschi delle iniziative giudiziarie, scrive Sergio Rame, Mercoledì 11/06/2014, su "Il Giornale". Si allarga lo scandalo che ha travolto la Banca Carige. Mentre i pm Nicola Piacente e Silvio Franz continuano a tenere sotto torchio l’ex potentissimo presidente dell'istituto ligure, Giovanni Berneschi, per far luce sui soldi accumulati all'estero, sulla compravendita autogestita di un albergo in Svizzera, su quelle carte che parlano di milioni e milioni in franchi svizzeri e dollari americani, finiscono nei guai anche tre magistrati. Il viceprocuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, il procuratore di Savona Francantonio Granero e il magistrato del lavoro a Spezia Pasqualina Fortunato sono, infatti, indagati per "rivelazione di segreti d’ufficio". Potrebbero essere loro le talpe che hanno informato Berneschi delle iniziative giudiziarie. Caporuscio sarebbe nei guai per una telefonata tra l’avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Come si evince dalla conversazione telefonica, il magistrato avrebbe fatto in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia "riservata" che l’imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l’ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini avrebbero coinvolto la moglie, Pasqualina Fortunato. L’avvocato avrebbe, poi, spiegato a Berneschi che grazie all’interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l’archiviazione del fascicolo. Il sostituto procuratore Marco Gianoglio, che ha ricevuto il fascicolo dalla procura di Genova per competenza dei reati compiuti dai magistrati liguri, indaga anche su Francantonio Granero perché, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell’autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, Berneschi dice chiaramente che il procuratore gli avrebbe suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige, e uomo di spicco delle cooperative. "Tutto falso - aveva replicato Granero - presenterò querela". Sulla vicenda di Granero tra gli inquirenti si è fatta largo la convinzione che le frasi di Berneschi siano state pronunciate proprio per comprometterlo. A Torino ci sono anche gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome non viene mai citato e non è indagato. Tuttavia Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova arrestato con Berneschi, lo descrive come un "carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato".
Banche, il caso Popolare di Bari fa tremare la Puglia e 70mila azionisti: indagati i vertici. Nel mirino della Procura anche il presidente Marco Jacobini con i due figli. Anni di gestione irregolare, bilanci in perdita, prestiti anomali, aggravati dall’acquisizione di Tercas. E sullo sfondo, una vicenda di maltrattamenti ed estorsione ai danni di un funzionario che è stato denunciato dall'istituto di credito: "Per noi contano solo i fatti, gli atti, i numeri, la trasparenza delle procedure", scrive Mara Chiarelli il 30 agosto 2017 su "La Repubblica". Regge da sola un pezzo importante dell'economia della città di Bari e della Puglia. Ha garantito prestiti a migliaia fra imprese e famiglie, può contare su 70mila soci e sul lavoro di 3.500 dipendenti. La Banca Popolare di Bari non può crollare: se ciò accadesse, i danni per l'economia regionale sarebbero incalcolabili. Ma una nuova inchiesta della Procura barese racconta anni di gestione irregolare, bilanci in perdita, prestiti anomali, aggravati dalla acquisizione di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo. E sullo sfondo, una vicenda di maltrattamenti ed estorsione ai danni di un funzionario troppo solerte.
JACOBINI E DE BUSTIS SOTTO INCHIESTA. È questo il ritratto della Banca popolare di Bari, come emerge appunto dalla nuova indagine affidata ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria e che è già arrivata a un primo step: i vertici del più grande istituto di credito del Sud sono finiti per la prima volta nel registro degli indagati e con accuse pesanti. Il presidente Marco Jacobini, l'allora direttore generale Vincenzo De Bustis, già amministratore delegato di Monte dei Paschi di Siena e Deutsche Bank, i due figli di Jacobini, Gianluca e Luigi (rispettivamente condirettore generale e vice), il responsabile della linea contabilità e bilancio della popolare Elia Circelli, il dirigente dell'ufficio rischi Antonio Zullo.
LA DENUNCIA DEL FUNZIONARIO. Sono tutti, a eccezione di De Bustis, indagati per associazione per delinquere, truffa, ostacolo all'attività della Banca d'Italia e false dichiarazioni nel prospetto informativo depositato alla Consob. A carico di Marco Jacobini e dei suoi due figli anche i reati di concorso in maltrattamenti ed estorsione. De Bustis, invece, è accusato solo di maltrattamenti. La vicenda, finita sul tavolo del procuratore aggiunto Roberto Rossi, riguarda un arco temporale che va dal 2013 al 2016, quando le irregolarità nascoste nei bilanci dell'istituto di credito sono state svelate da una gola profonda: un funzionario incaricato di mettere a posto le carte nell'ufficio rischi, ma che avrebbe esagerato, evidenziando ai vertici le irregolarità emerse durante la sua attività.
IL LICENZIAMENTO IN TRONCO. Le sue segnalazioni, che riguardavano in buona parte la fase dell'acquisizione di Tercas, non sarebbero state gradite, al punto che sarebbe stato prima mobbizzato e poi licenziato in tronco. Il provvedimento però non ha fermato il bancario, che si è presentato in Procura snocciolando numeri e fatti, raccontando tutto quello che riteneva illecito, prima di avviare contro di loro un procedimento parallelo per mobbing.
LA CONTRODENUNCIA DELL'ISTITUTO DI CREDITO. La replica dell'istituto di credito è stata affidata in un primo momento a una nota: "Le dichiarazioni rancorose di un dipendente licenziato per giusta causa è bene che siano oggetto di ogni approfondimento da parte della Procura, per consentire poi alla Banca Popolare di Bari di agire nei confronti dell'autore di tali inaccettabili propalazioni", si legge in un comunicato. "Per la banca contano solo i fatti, gli atti, i numeri, la trasparenza delle procedure e, di conseguenza, la fiducia dei soci e dei clienti". "E' così fortemente auspicabile - conclude la nota - che gli accertamenti (a cui vi è ampia disponibilità a cooperare) siano rapidi, per sostituire al clamore mediatico, la certezza della correttezza dei comportamenti tenuti". Poi l'annuncio che l'ex dirigente avrebbe chiesto nel giugno scorso alla banca una somma di denaro per evitare la cattiva pubblicità derivante da quelle denunce. La Banca Popolare di Bari, si riferisce ancora, a "tutela della propria reputazione" ha dato incarico "ai propri legali di presentare denuncia per tentata estorsione nei confronti" dell'ex dirigente dell'Istituto "a suo tempo licenziato per giusta causa". In una lettera, secondo la denuncia, l'ex funzionario proponeva un "accordo diretto" con termine di pochi giorni per la definizione, finalizzato a "prevenire" le conseguenze di "pubblicità negative che a queste controversie si accompagnano".
LA PRIMA INCHIESTA. Era dicembre scorso e i finanzieri che già indagavano sulle attività anomali del più grande istituto di credito del Sud hanno trovato riscontri a ipotesi già emerse durante l'esame delle carte sequestrate durante un'altra indagine già aperta con l'ipotesi di reato (a carico di ignoti) per ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, quella coordinata dai pm Lydia Giorgio e Federico Perrone Capano. Nello stesso periodo in cui la gola profonda raccontava, gli investigatori perquisivano le tre sedi baresi, portando via documenti utili a ricostruire "il rilascio di linee di credito, in via diretta o indiretta, con l'acquisto di azioni".
"DANNEGGIATI I PICCOLI AZIONISTI". A proposito dell'altra inchiesta, invece, la Procura ritiene che per agevolare alcuni grossi azionisti, gli ordini di vendita dei titoli sarebbero stati inseriti manualmente senza rispettare l'ordine cronologico e violando così il principio della parità di trattamento dei soci: il tutto a danno dei piccoli azionisti. Una delle contestazioni riguarda la vendita, prima che venissero deprezzate, delle 430mila azioni della Banca Popolare di Bari contenute nel portafoglio della società barese Debar. Alla quale - secondo l'accusa - sarebbe stato concesso di vendere le azioni nell'asta del marzo 2016, prima cioè dell'assemblea dell'aprile successivo in cui le stesse azioni subirono un deprezzamento del 20 per cento (da 9,53 a 7,50 euro). Anche in questa inchiesta si ipotizza il reato di ostacolo alle attività degli organi di vigilanza.
L'AVVOCATO DELLA BANCA: "ACCOSTAMENTI OFFENSIVI". "La fermezza della banca - fa sapere l'avvocato dell'istituto di credito barese, Francesco Paolo Sisto - conduce ad assumere, rapidamente, ogni iniziativa tesa alla tutela della sua reputazione, ivi compresa la denuncia per tentata estorsione nei confronti di un dipendente a suo tempo licenziato per giusta causa". "È solo offensivo, sul piano tecnico - prosegue il legale commentando le notizie sull'indagine - accostare la vicenda tutta da dimostrare della Banca Popolare di Bari a quelle di altre ex banche, con conclamati problemi giudiziari ben diversi", riferendosi alle inchiesta su Montepaschi Siena e Banca 121. "Per il resto - conclude Sisto - i fatti in questione non sussistono. Le procedure dell'istituto sono del tutto trasparenti e certificate, con la conseguenza che le accuse formulate sono destinate inevitabilmente a regredire a mere illazioni".
Popolare di Bari, azionisti pronti a costituirsi in giudizio: per la banca è un incubo da un miliardo. Una protesta degli azionisti della Banca Popolare di Bari. La nuova inchiesta che coinvolge i vertici dell'istituto potrebbe avere effetti importanti per migliaia di correntisti che da anni provano a vendere le loro azioni e che si sono rivolti agli avvocati, scrive Antonello Cassano il 31 agosto 2017 su "La Repubblica". Una svolta per 70mila azionisti, un incubo per la banca. La nuova inchiesta della Procura di Bari che coinvolge i vertici della Banca Popolare di Bari potrebbe avere effetti importanti per migliaia di correntisti che da anni provano a vendere le loro azioni e che si sono rivolti agli avvocati pur di riavere indietro il loro denaro. A disegnare un primo scenario è il Comitato per la tutela degli azionisti della Bpb. Costituitosi a novembre scorso, sull'onda delle proteste dei risparmiatori della Popolare, è composto da Adusbef, Codacons, Codici e Confconsumatori. Proprio il Comitato fa notare che i reati di associazione per delinquere e truffa, di cui sono accusati Marco Jacobini e i due figli Gianluca e Luigi, sono pesanti. Ma ancora più deflagranti per il futuro degli azionisti e per la stessa banca potrebbero essere gli effetti dell'accusa di false dichiarazioni nel prospetto informativo depositato alla Consob.
GLI AUMENTI DI CAPITALE. "Quel reato - dice un rappresentante del comitato - nel caso in cui fosse confermato, potrebbe avere una rilevanza diretta per i soci". Per comprendere questo punto, bisogna tornare indietro agli anni 2013-2015, quando la Bpb vara due aumenti di capitale, il primo per 243 milioni di euro e il secondo per 50 milioni di euro, che si riveleranno importanti anche per acquisire la banca Tercas. Quell'aumento di capitale, secondo l'accusa, sarebbe stato fatto dando prospetti falsi alla Consob. "In un prospetto - spiega un rappresentante di una associazione dei consumatori - la banca comunica tutti i dati sulla propria situazione finanziaria. L'istituto è obbligato a fornire dati finanziari veritieri, anche perché è su quei dati che gli investitori si regolano per acquistare titoli della banca". Se fosse confermata la tesi accusatoria gli azionisti della Bpb in quegli anni avrebbero acquistato titoli sulla base di dati non veritieri. "Pertanto - è scritto nel comunicato diffuso dal Comitato - gli azionisti sarebbero legittimati a domandare il risarcimento dei danni subiti, per un investimento fatto sulla base di dati di prospetto e di bilancio irregolari". Si tratta di un principio stabilito dalla Cassazione, come spiega Antonio Pinto (Confconsumatori): "In casi come questo, se confermato, chi ha investito ha diritto a chiedere la risoluzione del contratto di acquisto, con conseguente restituzione dell'investimento".
LE CONSEGUENZE. Un salasso per la banca, tenuto conto che il valore di tutte le azioni distribuite fra i 70mila soci ammontava fino a qualche mese fa a più di un miliardo di euro e che una buona parte degli azionisti si è già rivolta negli anni all'istituto per cercare di rivendere le sue azioni. Ma le conseguenze dell'inchiesta della procura non si esauriscono qui. Sempre il Comitato fa notare che adesso si apre la possibilità di costituirsi come parte offesa nel procedimento contro la banca. "Infatti, alcuni dei reati ipotizzati, laddove accertati, avrebbero un nesso di causalità diretto sia con il prezzo a cui sono state vendute le azioni e sia con le modalità di vendita delle stesse".
LE MOSSE DELLE ASSOCIAZIONI. Alla luce delle ultime novità giudiziarie, quindi, le associazioni si rimettono in moto. Non a caso il Comitato degli azionisti della Bpb ha convocato un incontro con i suoi iscritti per mercoledì pomeriggio nella sua sede barese per descrivere le azioni di tutela che si potranno intraprendere. Anche perché "le risultanze dell'inchiesta penale consentirebbero pure di acquisire elementi per rafforzare le domande di restituzione degli investimenti da proporre dinanzi al giudice civile, oppure dinanzi all'arbitro delle controversie finanziarie".
LE VOCI DEGLI AZIONISTI. Intanto, gli stessi soci che hanno fatto ricorso contro la banca per cercare di rivendere le loro azioni, tornano a farsi sentire. "È terribile sapere di dover rinunciare a soldi che potrebbero servire per far studiare i propri figli e garantirgli un futuro. Siamo stati presi in giro". Adriano Lorusso è uno dei tanti risparmiatori che si sono ritrovati fra le mani azioni della più grande banca del Sud. Le voci dei risparmiatori sono quasi tutte molto simili. Correntisti appartenenti per lo più alla classe media che, per usare un eufemismo, non hanno grande esperienza in campo finanziario. Ora si ritrovano tra le mani titoli azionari che non possono restituire per riavere indietro i loro soldi. Quasi tutti si dicono beffati. I casi variano solo per la quantità di denaro investito. Si va dall'imprenditore classificato nei profili di rischio dai funzionari di banca come "investitore esperto" e che si è ritrovato tutta la sua liquidità pari a 396mila euro investita in azioni, alla coppia (invalido disoccupato lui, casalinga lei) di Bari che non sa come rientrare dall'investimento di 30mila euro in titoli. Fino alla signora ultranovantenne che ancora non sa che circa 20mila euro dei suoi risparmi sono stati spesi per comprare titoli della Bpb: "Sua figlia non le dice la verità per tranquillizzarla - conferma l'avvocato Filippo Grattagliano, che segue il caso - se lo sapesse ne morirebbe".
Bari, parla dirigente licenziato. Contestati associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’ attività della Banca d’Italia. La gola profonda «licenziata». La Banca: sostituire clamore mediatico con verità e correttezza, scrive il 30 Agosto 2017 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Per i reati, contestati a vario titolo, di associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’ attività della Banca d’Italia e false dichiarazioni nel prospetto informativo deposita to alla Consip, la Procura di Bari ha fatto notificare un avviso di proroga delle indagini ai vertici della Banca Popolare di Bari (BpB). I fatti risalgono al periodo 2013-2016 quando la BpB acquistò la Cassa risparmio di Teramo. Sei gli indagati: il presidente Marco Jacobini, l’allora direttore generale Vincenzo De Bustis, ex amministratore delegato di Mps e Deutsche Bank Italia, i due figli di Jacobini, Gianluca e Luigi (rispettivamente condirettore generale e vice), il responsabile della linea contabilità e bilancio d ella popolare Elia Circelli, il dirigente dell’ufficio rischi Antonio Zullo. A carico di Marco Jacobini e dei suoi due figli si ipotizzano anche i reati di concorso in maltrattamenti ed estorsione. De Bustis, invece, è accusato solo di maltrattamenti. La vicenda all’attenzione dei pm riguarda presunte irregolarità nascoste nei bilanci dell’istituto di credito svelate ai magistrati da un funzionario incaricato di mettere a posto le carte nell’ufficio rischi. Il dipendente avrebbe evidenziato ai vertici della banca le irregolarità emerse durante la sua attività, ma queste sue segnalazioni non sarebbero state gradite dai vertici della banca, al punto che il funzionario sarebbe stato mobbizzato e licenziato. «Accuse rancorose», ribattono dalla Banca Popolare, che chiede si faccia chiarezza al più presto e, nel frattempo, ha subito denunciato per tentata estorsione un l’ex dirigente licenziato per giusta causa. Quest’ultimo, sostiene la Popolare di Bari, avrebbe chiesto nel giugno scorso alla Banca una somma di denaro per evitare la cattiva pubblicità derivante dalle sue denunce. In una lettera, riferisce la Banca, l’ex funzionario proponeva un «accordo diretto» con termine di pochi giorni per la sua definizione, accordo finalizzato a «prevenire le conseguenze di pubblicità negative che a queste controversie si accompagnano». «La fermezza della Banca - dichiara il legale dell’istituto, Francesco Paolo Sisto - conduce ad assumere rapidamente ogni iniziativa per la tutela della sua reputazione. È solo offensivo sul piano tecnico - prosegue Sisto - accostare la vicenda tutta da dimostrare ella popolare di Bari a quelle di altre ex banche, con conclamati problemi giudiziari», riferendosi alle inchieste su Mps e Banca 121. «I fatti in questione non sussistono. Le procedure dell’istituto - conclude Sisto - sono tutte trasparenti e certificate. Le accuse formulate sono destinate a regredire a mere illazioni». «L’acquisizione di Banca Tercas da parte della Banca Popolare di Bari (BpB) è stata - secondo fonti inquirenti - un’operazione rischiosa per l’istituto di credito barese per la situazione finanziaria in cui BpB si trovava all’ epoca dei fatti. Si concentra prevalentemente su questa acquisizione - operazione che ha impegnato BpB per quasi tre anni, dal 2014 al 2016 - l’indagine della Procura di Bari delegata ai militari della Guardia di Finanza. In poco più di un semestre, da quando cioè il fascicolo è stato aperto, i finanzieri hanno acquisito numerosa documentazione relativa all’operazione Tercas. Gli accertamenti della Gdf, coordinati dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, riguardano soprattutto la gestione dei bilanci. Il sospetto, ancora oggetto di verifica, è ch e la banca abbia comunicato alla Consob bilanci non del tutto veritieri, poco chiari, soprattutto con riferimento alla quantificazione dei crediti. E si tratterebbe proprio dei bilanci relativi agli anni in cui era in corso l'acquisizione di Tercas. Agli atti dell’indagine, oltre alla documentazione acquisita presso la banca, ci sono le dichiarazioni di azionisti e correntisti sentiti come persone informate sui fatti.
Bari, sotto inchiesta i vertici BpB. «Accuse rancorose, verifiche rapide». Contestati associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’ attività della Banca d’Italia. La gola profonda «licenziata». La Banca: sostituire clamore mediatico con verità e correttezza, scrive il 30 Agosto 2017 “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Per i reati, contestati a vario titolo, di associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’ attività della Banca d’Italia e false dichiarazioni nel prospetto informativo depositato alla Consob, la Procura di Bari ha fatto notificare un avviso di proroga delle indagini ai vertici della Banca Popolare di Bari (BpB). I fatti - riporta La Repubblica - risalgono al periodo 2013-2016 quando la BpB acquistò la Cassa risparmio di Teramo. Sei gli indagati: il presidente Marco Jacobini, l’allora direttore generale Vincenzo De Bustis, ex amministratore delegato di Mps e Deutsche Bank Italia, i due figli di Jacobini, Gianluca e Luigi (rispettivamente condirettore generale e vice), il responsabile della linea contabilità e bilancio della popolare Elia Circelli, il dirigente dell’ufficio rischi Antonio Zullo. A carico di Marco Jacobini e dei suoi due figli si ipotizzano anche i reati di concorso in maltrattamenti ed estorsione. De Bustis, invece, è accusato solo di maltrattamenti. La vicenda all’attenzione dei pm riguarda presunte irregolarità nascoste nei bilanci dell’istituto di credito svelate ai magistrati da un funzionario incaricato di mettere a posto le carte nell’ufficio rischi. Il dipendente avrebbe evidenziato ai vertici della banca le irregolarità emerse durante la sua attività, ma queste sue segnalazioni non sarebbero state gradite dai vertici della banca, al punto che il funzionario sarebbe stato mobbizzato e licenziato. "Le dichiarazioni rancorose di un dipendente licenziato per giusta causa è bene che siano oggetto di ogni approfondimento da parte della Procura, per consentire poi alla Banca Popolare di Bari di agire nei confronti dell’autore di tali inaccettabili propalazioni». È quanto dichiara in una nota l’istituto di credito con riferimento alla notizia dell'indagine della magistratura barese. «Sia chiaro: per la Banca - prosegue la nota - contano solo i fatti, gli atti, i numeri, la trasparenza delle procedure e, di conseguenza, la fiducia dei soci e dei clienti. E’ così fortemente auspicabile che gli accertamenti (a cui vi è ampia disponibilità a cooperare) siano rapidi, per sostituire al clamore mediatico, la certezza della correttezza dei comportamenti tenuti».
BANCA DENUNCIA EX DIRIGENTE PER TENTATA ESTORSIONE - L’ex dirigente della Banca Popolare di Bari che ha denunciato presunte irregolarità nei bilanci (dando avvio all’indagine a carico dei vertici dell’istituto di credito) e di aver subito maltrattamenti fino al licenziamento, avrebbe chiesto nel giugno scorso alla banca una somma di denaro per evitare la cattiva pubblicità derivante da quelle denunce. Lo sostiene la BpB che, a «tutela della propria reputazione», ha dato incarico «ai propri legali di presentare denuncia per tentata estorsione nei confronti» dell’ex dirigente dell’Istituto «a suo tempo licenziato per giusta causa». In una lettera, secondo la denuncia, l’ex funzionario proponeva un «accordo diretto» con termine di pochi giorni per la definizione, finalizzato a «prevenire» le conseguenze di "pubblicità negative che a queste controversie si accompagnano». "La fermezza della banca - dichiara il legale dell’istituto di credito barese, avv. Francesco Paolo Sisto - conduce ad assumere, rapidamente, ogni iniziativa tesa alla tutela della sua reputazione, ivi compresa, la denuncia per tentata estorsione nei confronti di un dipendente a suo tempo licenziato per giusta causa». «È solo offensivo, sul piano tecnico - prosegue il legale commentando le notizie di stampa sull'indagine - accostare la vicenda tutta da dimostrare della Banca Popolare di Bari a quelle di altre ex banche, con conclamati problemi giudiziari ben diversi», riferendosi alle inchiesta su MPS e Banca 121. «Per il resto - conclude Sisto - i fatti in questione non sussistono. Le procedure dell’istituto sono del tutto trasparenti e certificate, con la conseguenza che le accuse formulate sono destinate, inevitabilmente a regredire a mere illazioni».
Banca Popolare di Bari in crescita nonostante crisi. Nonostante una crisi globale, che nell'ultimo anno non ha risparmiato nessuno, la Banca Popolare di Bari continua in un processo di crescita che dalla sua fondazione, 50 anni fa nel 1960, non ha conosciuto interruzioni con fusioni ed acquisizioni che oggi ne fanno una delle roccaforti del sistema finanziario meridionale con 260 filiali ed una base sociale forte di 47mila soci azionisti. In questo contesto i numeri del bilancio 2009, approvato dal cda e che sarà portato in assemblea domenica 18 aprile, assumono un rilievo che va ben oltre il dato quantitativamente positivo, scriveva il 7 Aprile 2010 Luciano Sechi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Nonostante una crisi globale, che nell'ultimo anno non ha risparmiato nessuno, la Banca Popolare di Bari continua in un processo di crescita che dalla sua fondazione, 50 anni fa nel 1960, non ha conosciuto interruzioni con fusioni ed acquisizioni che oggi ne fanno una delle roccaforti del sistema finanziario meridionale con 260 filiali ed una base sociale forte di 47mila soci azionisti. In questo contesto i numeri del bilancio 2009, approvato dal cda e che sarà portato in assemblea domenica 18 aprile, assumono un rilievo che va ben oltre il dato quantitativamente positivo. «Il 2009, ha visto per il nostro istituto, la crescita su tutti i mercati dove la banca è presente e di tutti i principali indicatori commerciali e patrimoniali dell’Istituto – commenta l’amministratore delegato Marco Jacobini - anche in un anno di congiuntura negativa si è riusciti ad incrementare il sostegno a famiglie e imprese e ad ottenere risultati al di sopra delle aspettative. Tant’è vero che sarà proposto all’assemblea dei soci un incremento del prezzo di emissione delle azioni». Nonostante la particolare tensione del sistema creditizio la Popolare di Bari ha proseguito nel rafforzamento patrimoniale con un incremento del patrimonio netto che si attesta a 770 milioni di euro (+ 34%). E' peraltro da sottolineare che nel corso del 2009, il gruppo ha acquisito la maggioranza del capitale della Cassa di Risparmio di Orvieto, storico istituto umbro che amministra raccolta da clientela per oltre 1 miliardo ed impieghi per 750 milioni, con 47 filiali, un numero che, precisa ancora Marco Jacobini, sottolineando la positività dell'andamento della banca umbra, potrebbe salire ad una sessantina di sportelli con quelli già acquisiti dalla Popolare di Bari nella stessa area. Del centro Italia. In un anno caratterizzato da una congiuntura economica particolarmente complessa si è peraltro registrata una crescita della raccolta complessiva del 3,2% raggiungendo così i 9,3 miliardi e della raccolta diretta dell’8,9% raggiungendo i 5,2 miliardi. Notevole è stato l’incremento degli impieghi attestatisi a 4,6 mld di euro (+11,4%), con una crescita dei mutui alle famiglie a 1,6 mld. (+ 10,8%) del credito al consumo del 12,5% e degli impieghi alle imprese a 2,11 mld. (+12,9%). «La crisi – ricorda ancora Marco Jacobini – si è avvertita maggiormente a partire da settembre e solo nel febbraio di quest'anno ha rallentato i suoi effetti, i settori che hanno sofferto di più sono stati quelli industriali, soprattutto le piccole e medie imprese, con i beni durevoli che hanno scontato un rallentamento delle vendite ed una riduzione di ordinativi». Anche per questo e in un contesto che comunque punta ad una tenuta del credito la Popolare di Bari ha previsto una cinquantina di milioni di euro di accantonamento, anche perchè, per dirla con Marco Jacobini «per continuare la crescita è necessario essere cauti» senza mai rinunciare ad una ottimizzazione dell'efficienza che rimane un obiettivo costante della banca, del resto nel 2009 il margine di intermediazione è risultato in aumento attestandosi a 276,3 mln (+2,6%). La banca può contare su 47.500 soci (+6,7% rispetto al 2008) e nel solo 2009 sono stati acquisiti 24.500 nuovi clienti, che hanno incrementato del 13,2% lo stock complessivo rispetto al 2008 mentre i costi operativi si sono attestati a 195,4 mln di euro (+1,8%). Peraltro in un contesto di particolare deterioramento del credito a livello mondiale e nazionale, la Popolare di Bari pur continuando nella crescita dell’attività di sostegno al territorio, alle famiglie e alle piccole e medie imprese, ha operato, in ottica prudenziale, rettifiche nette su crediti per l’1,1% circa degli impieghi medi determinando così un utile netto di 10,5 mln di euro ed una conseguente proposta di distribuzione del dividendo pari a 0,10 euro per le azioni con godimento pieno e 0,075 per le azioni emesse nel corso del 2009. Di sicuro la Popolare di Bari può contare su un incremento del patrimonio netto ma anche su una crescita della quota di mercato nei territori dove è maggiormente presente e se nel 2007 era tra le prime dieci banche oggi, in regioni come la Puglia la Basilicata, la Campania e l'Umbria, è tra le prime tre banche del territorio.
Banca Popolare di Bari, osservazioni sull’indagine della magistratura, scrive il 30 agosto 2017 Giovanni Falcone su "Wallstreetitalia.com". Banca Popolare di Bari, avviata un’indagine da parte della magistratura barese. Stante ai rumors apparsi sulla stampa di oggi, apprendo di una indagine della Procura della Repubblica di Bari nei confronti dei vertici – Presidente Jacobini & Figli – per presunte irregolarità nella gestione della Banca Popolare di Bari, con presunte irregolarità nei bilanci, prestiti allegri e addirittura “maltrattamenti ed estorsione” ai danni di un funzionario. Se queste sono le accuse, peraltro tutte da provare, verrebbe da dire: embè, qual è la novità? Intanto diciamo che trattasi del più grande, forse l’unico Istituto di credito del Mezzogiorno con solide basi ramificate sul territorio che, negli ultimi anni, anche grazie a giudizi favorevoli della Banca d’Italia sta sempre più assumendo i connotati di una banca di portata nazionale.
Ricordo personale. Al netto dei lavori in corso da parte dell’Autorità giudiziaria, trattasi dell’Istituto presso il quale, dopo aver volontariamente lasciato il Corpo della Guardia di finanza, fui assunto come Responsabile Aziendale Antiriciclaggio e Rapporti con le Autorità inquirenti (1999/2007). Ho svolto il citato incarico in assoluta autonomia ricevendo in otto anni ben cinque ispezioni dall’Organo centrale di vigilanza (ex UIC) – due direttamente e tre presso Istituti cui tenevamo il controllo al 100% – senza mai ricevere alcun rilievo anzi, solo complimenti dagli stessi Ispettori della Banca d’Italia intervenuti di volta in volta. Questa è storia! Grazie a questa opportunità, ho avuto la possibilità di conoscere in maniera più approfondita un lavoro che conoscevo solo in parte, nella veste di Ufficiale nel Corpo di provenienza. Lavoro che ancora oggi svolgo attraverso la Falcone Consulting Srl.
Osservazioni. Se oggi fossi chiamato a fornire un giudizio sulla Governance ed organizzazione di questa banca, per quanto parlo di conoscenze datate, direi che il vero problema di questa società del credito è che forse non è mai stata una banca nel senso più compiuto del termine, intesa come distinzione di ruoli e responsabilità delle funzioni, bensì una “ditta individuale” cui ci si faceva riferimento per ogni iniziativa di qualunque specie e natura. Trattasi di un problema per il quale ho ragione di credere che sia stato sollevato anche dall’Organo centrale di vigilanza che, nella realtà non ha mai trovato soluzione. Per intanto aspettiamo l’esito delle indagini appena iniziate. Buon lavoro all’Ufficio inquirente!
Guai giudiziari per la Popolare di Bari: Puglia in ginocchio, scrive il 30 agosto 2017 Daniele Chicca su "Wallstreetitalia.com". Dopo la Toscana ora a tremare è la Puglia. Anni di mala gestione, di bilanci in rosso e di prestiti anomali, aggravati peraltro dalla dubbia operazione di acquisto di Tercas: la banca Popolare di Bari è in crisi e se i suoi guai giudiziari dovessero portare a crac, potrebbero finire sul lastrico i suoi 70 mila azionisti e l’intera Regione Puglia. Come nei casi Mps e delle quattro banche regionali salvate con il bail-in, Banca Etruria, Carife, Carichieti e Banca delle Marche, la Popolare di Bari – che conta 70mila azionisti e 3.500 dipendenti, rischia la bancarotta. Dopo le rivelazioni di una “gola profonda”, la procura ha avviato indagini sul presidente della Popolare di Bari Marco Jacobini. Sotto inchiesta è finito anche l’ex direttore generale Vincenzo De Bustis, già amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena e di Deutsche Bank, Gianluca e Luigi (rispettivamente condirettore generale e vice), e i due figli di Jacobini, Luigi e Gianluca (rispettivamente vice direttore generale e condirettore generale). Nel mirino delle autorità giudiziarie ci sono anche il responsabile della linea contabilità e bilancio della popolare Elia Circelli, il dirigente dell’ufficio rischi Antonio Zullo. Insomma tutti i vertici della banca che da sola rappresenta la colonna reggente più importante dell’attività economica e creditizia della città di Bari, la capoluogo e città più grande della Puglia. La banca Popolare di Bari, come riporta Maria Chiarelli su La Repubblica, ha infatti concesso dei prestiti a migliaia di imprese e famiglie baresi e può contare su 70mila soci e sul lavoro di 3.500 dipendenti. “La Banca Popolare di Bari non può crollare: se ciò accadesse, i danni per l’economia regionale sarebbero incalcolabili. Ma una nuova inchiesta della Procura barese racconta anni di gestione irregolare, bilanci in perdita, prestiti anomali, aggravati dalla acquisizione di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo. E sullo sfondo, una vicenda di maltrattamenti ed estorsione ai danni di un funzionario troppo solerte”. Fatta eccezione per De Bustis i dirigenti sono accusati di associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia e false dichiarazioni nel prospetto informativo consegnato alla Consob. La famiglia Jacobini dovrà rispondere inoltre del reato di concorso in maltrattamenti ed estorsione. “La vicenda finita sul tavolo del procuratore aggiunto Roberto Rossi – racconta il quotidiano – riguarda un arco temporale che va dal 2013 al 2016, quando le irregolarità nascoste nei bilanci dell’istituto di credito sono state svelate da una gola profonda: un funzionario incaricato di mettere a posto le carte nell’ufficio rischi, ma che avrebbe esagerato, evidenziando ai vertici le irregolarità emerse durante la sua attività”.
Popolare di Bari: le inchieste e i danni ai piccoli azionisti. Con la prima inchiesta, avviata grazie alle rivelazioni di una “gola profonda”, probabilmente un insider della banca, gli inquirenti hanno iniziato a fare luce sulle attività anomali del più grande istituto di credito del Sud. Sono emersi “riscontri a ipotesi già emerse durante l’esame delle carte sequestrate” durante un’altra inchiesta, aperta con l’ipotesi di reato (a carico di ignoti) per ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza, quella coordinata dai pm Lydia Giorgio e Federico Perrone Capano. “Nello stesso periodo in cui la gola profonda raccontava, gli investigatori perquisivano le tre sedi baresi, portando via documenti utili a ricostruire il rilascio di linee di credito, in via diretta o indiretta, con l’acquisto di azioni”. Nell’ambito di una indagine separata, la Procura si sta occupando di verificare i sospetti che la Popolare di Bari abbia agevolato alcuni grossi azionisti: “gli ordini di vendita dei titoli sarebbero stati inseriti manualmente senza rispettare l’ordine cronologico e violando così il principio della parità di trattamento dei soci: il tutto a danno dei piccoli azionisti. Uno dei fatti più clamorosi contestati riguarda la cessione, prima della perdita di un quinto del loro valore, delle azioni della Popolare di Bari presenti nel portafoglio della società barese Debar. Secondo la ricostruzione dell’impianto accusatorio, Debar avrebbe ottenuto il permesso di vendere le azioni nell’asta di marzo dell’anno scorso, “prima cioè dell’assemblea dell’aprile successivo in cui le stesse azioni subirono un deprezzamento del 20 per cento (da 9,53 a 7,50 euro)”. Il reato ipotizzato è di ostacolo alle attività degli organi di vigilanza. L’integrazione tra Banca Teras e Banca Caripe è avvenuta a luglio dell’anno scorso, in un’operazione che è stata salutata da Jacobini come un importante passo verso il consolidamento significativo del posizionamento di mercato del Gruppo nei territori d’elezione “per accompagnarne la crescita in Puglia, Basilicata, Abruzzo, Campania e Umbria, attraverso l’evoluzione del modello di business e il miglioramento dell’efficienza operativa”.
Indagati i vertici della Banca Popolare di Bari: associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia e false dichiarazioni alla Consob, scrive “Il Corriere del Giorno" il 30 agosto 2017. Sotto inchiesta il presidente Marco Jacobini con i due figli Gianluca e Luigi. Anni di gestione irregolare, bilanci in perdita, prestiti anomali, aggravati dall’acquisizione di Tercas. E dietro le quinte una vicenda di maltrattamenti ed estorsione ai danni di un funzionario troppo ligio al suo dovere, “premiato” …con il licenziamento in tronco. ROMA – Il top management della Banca Popolare di Bari che annovera 70mila soci con 3.500 dipendenti, rischia seriamente di finire sotto processo a seguito di nuova inchiesta della magistratura barese che riguarda anni di gestione irregolare, bilanci in perdita, prestiti “allegri”… ed un bilancio appesantito dalle recenti acquisizioni della Tercas, (l’ex-Cassa di Risparmio di Teramo) con dietro le quinte una torbida storia di maltrattamenti ed estorsione ai danni di un funzionario ritenuto troppo solerte. E’ conseguenza dalla nuova indagine affidata dalla Procura ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria e che è già arrivata a un primo passo non indifferente: per la prima volta il vertice del più grande istituto di credito pugliese è finito nel registro degli indagati e con accuse abbastanza serie. Indagati il presidente Marco Jacobini, i suoi due figli, Gianluca e Luigi Jacobini (rispettivamente condirettore generale e vicedirettore generale), l’ex direttore generale Vincenzo De Bustis, precedentemente amministratore delegato del Monte dei Paschi di Siena e della Deutsche Bank, il dirigente dell’ufficio rischi Antonio Zullo del il responsabile della linea contabilità e bilancio Elia Circelli. Con esclusione del solo De Bustis che è accusato soltanto di “maltrattamenti”, tutti gli altri sono indagati per “associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia” e “false dichiarazioni nel prospetto informativo depositato alla Consob”. Nei confronti di Marco Jacobini e dei suoi due figli Gianluca (nella foto a lato) e Luigi anche i reati di “concorso in maltrattamenti” ed “estorsione”. La vicenda seguita dal procuratore aggiunto Roberto Rossi, si colloca un arco temporale che va dal 2013 al 2016, quando sono state svelate tutte le irregolarità nascoste nei bilanci dell’istituto di credito da una gola profonda: un funzionario incaricato di mettere a posto i documenti delle pratiche presso l’ufficio rischi, il quale sarebbe stato troppo, ligio al dovere segnalando ai vertici della Banca tutte le irregolarità emerse durante la sua attività di verifica e controllo. Queste segnalazioni, che in buona parte erano relative alla fase dell’acquisizione di Tercas, non sarebbero state gradite dal vertice della Popolare di Bari, al punto che il ligio funzionario sarebbe stato “mobbizzato” e successivamente licenziato in tronco. Azione di forza questa che però non ha fermato il bancario ed ha sortito un effetto contrario e negativo. Infatti il funzionario si è presentato in Procura raccontando tutto quello che riteneva illecito, elencando con minuzia e nel dettaglio numeri e fatti, prima di intraprendere contro di loro un procedimento per mobbing. Lo scorso dicembre gli investigatori della Guardia di Finanza di Bari che già stavano indagando da tempo sulle attività anomali della più grande banca di Puglia, hanno reperito nuovo riscontri documentali a delle ipotesi investigative di un’un’altra indagine già aperta coordinata dai pm Lydia Giorgio e Federico Perrone Capano, emerse durante l’analisi delle documentazioni sequestrate con l’ipotesi di reato (all’epoca dei fatti, a carico di ignoti) per ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza . Nello stesso periodo in cui il funzionario svelata i retroscena delle operazioni creditizie della banca, i finanzieri hanno perquisito le tre sedi baresi, portando via documenti utili a ricostruire “il rilascio di linee di credito, in via diretta o indiretta, con l’acquisto di azioni”. La Procura ritiene in merito alla precedente inchiesta che il vertice della Popolare di Bari per agevolare alcuni grossi azionisti, gli ordini di vendita dei titoli sarebbero stati inseriti manualmente senza rispettare l’ordine cronologico e violando così il principio della parità di trattamento dei soci: operazione questa in danno dei piccoli azionisti. Una delle contestazioni riguarda la vendita, prima che venissero deprezzate, delle 430mila azioni della Banca Popolare di Bari contenute nel portafoglio della società barese Debar. Alla quale – secondo l’accusa ipotizzata degli investigatori – sarebbe stato reso possibile di poter vendere le azioni nell’asta interna del marzo 2016, cioè poco prima dell’assemblea dell’aprile successivo, quando le stesse azioni subirono un tracollo e deprezzamento del 20 per cento scendendo da 9,53 a 7,50 euro. Anche in questa inchiesta la Procura di Bari ipotizza il reato di ostacolo alle attività degli organi di vigilanza. Gli inquirenti stanno svolgendo accertamenti anche sulle modalità di acquisizione di Tercas, la ex Cassa di Teramo. Nel dicembre 2016 la banca era stata oggetto di una perquisizione nell’ambito dell’inchiesta sul presunto ostacolo alle attività di Bankitalia. La Banca Popolare Bari avrebbe dovuto trasformarsi in spa se il Consiglio di Stato non avesse sospeso, appellandosi alla Consulta, la riforma che eliminava il principio “una testa un voto” negli istituti con oltre 8 miliardi di attivi. La 1semestrale dell’anno la Banca controllata dalla famiglia Jacobini, non è stata una bella semestrale, che ha visto il rallentamento la dinamica delle sofferenze lorde (-0,6% nei sei mesi), mentre si confermano consistenti i livelli di copertura: 61,7% per le sofferenze, 43% per i crediti deteriorati nel loro complesso. In relazione ai dati reddituali, il margine di intermediazione, pari a 202 milioni, si contrae del 7,9% rispetto alla semestrale 2016, a causa del persistere di un contesto di tassi bassi e conseguente riduzione del margine di interesse, e del calo dell’apporto dell’intermediazione sul portafoglio titoli, mentre beneficia di una significativa crescita delle commissioni nette (+9,9%) Il Gruppo sta completando una ulteriore operazione di cartolarizzazione di posizioni a sofferenza, per un importo di circa 350 milioni, per la quale, replicando la cessione del 2016, intende avvalersi della Garanzia dello Stato (GACS). Cioè alla fine paga sempre “pantalone”…
È stata altresì contabilizzata la svalutazione integrale della quota del Fondo Atlante investita nel salvataggio delle due banche venete per una cifra pari a 23,6 milioni di euro In funzione di quanto sopra, il risultato netto semestrale, inclusa la quota di pertinenza di terzi, evidenzia una perdita di 2,6 milioni (2,3 milioni al netto della quota dei terzi). Immediatamente la stampa barese, con in testa la Gazzetta del Mezzogiorno, di cui è bene ricordare la Banca Popolare di Bari detiene in pegno il 30% delle azioni, ha alzato le barricate difensive, sostenendo che “non può crollare: se ciò accadesse, i danni per l’economia regionale sarebbero incalcolabili”, e che la Popolare di Bari “regge da sola un pezzo importante dell’economia della città di Bari e della Puglia ed ha garantito prestiti a migliaia fra imprese e famiglie”. L’istituto di credito barese con una nota con riferimento alla notizia sull’indagine in corso della magistratura barese coadiuvata dalla Guardia di Finanza si difende: “Le dichiarazioni rancorose di un dipendente licenziato per giusta causa è bene che siano oggetto di ogni approfondimento da parte della Procura, per consentire poi alla Banca Popolare di Bari di agire nei confronti dell’autore di tali inaccettabili propalazioni». “Sia chiaro per la Banca contano solo i fatti, gli atti, i numeri, la trasparenza delle procedure e, di conseguenza, la fiducia dei soci e dei clienti – prosegue la nota – E’ così fortemente auspicabile che gli accertamenti (a cui vi è ampia disponibilità a cooperare) siano rapidi, per sostituire al clamore mediatico, la certezza della correttezza dei comportamenti tenuti”. Qualcuno non ha spiegato qualcosa alla famiglia Jacobini, e cioè che quello che conta è il rispetto delle norme di Legge, che è uguale per tutti e quindi invocare la rapidità è sintomo di debolezza ed arroganza nello stesso tempo. Le indagini hanno per legge dei loro tempi, e la Guardia di Finanza deve poter lavorare serenamente, per tutelare gli azionisti ed il mercato. Che non sembrano molto entusiasti dell’operato della vertice della banca e delle loro decisioni ed iniziative. Sono molti piccoli azionisti che hanno aderito a un comitato di tutela gestito dalle associazioni dei consumatori dopo che la Banca lo scorso anno ha svalutato le azioni del 21% a 7,5 euro.
Popolare di Bari, anche in Puglia rischiamo il disastro-banche. Ieri le anticipazioni su un’indagine della Procura di Bari sui vertici della banca pugliese: le accuse riguardano presunte irregolarità nascoste nei bilanci ma anche vendite di azioni in cambio di finanziamenti. Come nel caso delle banche venete. Il rischio è che il valore delle azioni cali a picco, scrive Fabrizio Patti il 31 agosto 2017 su "L'Inkiesta". Bisognerà osservare molto da vicino gli sviluppi dell’inchiesta sulla Popolare di Bari. Potrebbe sgonfiarsi oppure trasformarsi in un vulcano, ossia in un’altra crisi bancaria dagli esiti imprevedibili. A rischiare di scottarsi sono prima di tutto gli azionisti, che già oggi non riescono a vendere i propri titoli al prezzo finora negoziabile. Andiamo pure con i piedi di piombo. Quello che è emerso di nuovo, riguardo alla Banca Popolare di Bari, è che c’è un salto di qualità nelle indagini della Procura di Bari. Come ha anticipato Repubblica, la procura non sta più solo indagando sulla svalutazione del 20% del valore delle azioni, decisa nel 2016 dall’istituto, e sull’ipotesi che solo alcuni azionisti “privilegiati” siano riuscite a venderle saltando ogni graduatoria. La novità è l’accusa verso i vertici della banca di associazione per delinquere, truffa, ostacolo all’attività della Banca d’Italia e false dichiarazioni nel prospetto informativo consegnato alla Consob. L’indagine per associazione a delinquere parte dalle rivelazioni di una gola profonda, un funzionario che, ricostruisce Repubblica, doveva sistemare le carte nell’ufficio rischi e sarebbe stato mobbizzato e poi licenziato in tronco per aver riportato ai vertici le irregolarità emerse. Da qui la sua decisione di andare in Procura dove ha raccontato le presunte “irregolarità nascoste nei bilanci” portando “nomi, numeri e fatti”, prima di avviare un procedimento per mobbing. Al numero uno della banca Marco Jacobini e ai due figli Gianluca e Luigi sono contestati i reati di concorso in maltrattamenti ed estorsione. Per l’ex dg Vincenzo De Bustis l’accusa è di maltrattamenti. Subito è arrivata la replica secca della banca. «Le dichiarazioni rancorose di un dipendente licenziato per giusta causa è bene che siano oggetto di ogni approfondimento da parte della Procura, per consentire poi alla Banca Popolare di Bari di agire nei confronti dell’autore di tali inaccettabili propalazioni - dice una nota -. Sia chiaro: per la Banca contano solo i fatti, gli atti, i numeri, la trasparenza delle procedure e, di conseguenza, la fiducia dei Soci e dei clienti».
Ci sono state operazioni baciate? Tra le cose da chiarire ce ne sono almeno due. La prima: cosa si intenda per irregolarità nascoste nei bilanci. La seconda: se sia vera l’ipotesi che stanno seguendo i magistrati, cioè che ci siano state delle “operazioni baciate”, sul modello già tristemente conosciuto presso la Popolare di Vicenza e Veneto Banca. L’ipotesi della Procura è che i dirigenti della banca «procedono al rilascio di linee di credito, in via diretta o indiretta, con l’acquisto di azioni». Quando? Nella ricostruzione del giornale non è chiaro il momento, si fa riferimento a titoli emessi per gestire la liquidità necessaria per la trasformazione da cooperativa in Spa. Di sicuro l’istituto ha effettuato due aumenti di capitale nel novembre 2014 (azioni per 300 milioni e obbligazioni subordinate per 200 milioni circa) e nella primavera del 2015 (50 milioni). Lo scopo era digerire l’acquisizione della banca Tercas di Teramo e poi la più piccola Banca Popolare delle Province Calabre. Come ha sottolineato in un post su Linkerblog Fabio Bolognini, dall’acquisizione la banca barese è uscita con un’esplosione degli Npl e una riduzione della redditività. Questi due grafici rendono l’idea. Il salto di qualità delle indagini della Procura riguarda le presunte irregolarità nei bilanci. Sono state vendute azioni in cambio di crediti? E sono state iscritte correttamente nel bilancio? La risposta a queste domande è fondamentale per il futuro della banca. Secondo Andrea Cattapan, analista finanziario della società di consulenza Consultique, la domanda sull’esistenza operazioni baciate ha un’importanza fondamentale per il futuro della banca. Perché «se fosse vero la situazione sarebbe molto grave. È fondamentale appurare quanta quota ci sia di azioni “autofinanziate”, cioè di azioni sottoscritte da soci ma dove i soldi li dà la banca stessa. È chiaro che il patrimonio formato in questo modo non può essere solido, per questo tali azioni non possono formare il patrimonio di una banca. A Vicenza quando uscì fuori che il 30% del patrimonio era autofinanziato si capì che era la fine della banca».
Azioni, il prezzo è fuori mercato. Le azioni della Popolare di Bari sono già state al centro di un’indagine della Procura di Bari. Non è essendo la banca quotata, il valore delle azioni non oscilla sulla base della domanda e dell’offerta come avviene in Borsa. Nel 2016, a seguito di due perizie esterne di Deloitte e studio Laghi, il prezzo fu abbassato da 9,53 a 7,50 euro. L’occasione fu la registrazione delle perdite del 2015 (297 milioni di euro). Solo alcuni azionisti riuscirono a vendere le azioni a 9,53 euro e la Procura sta indagando per capire se sia stata data precedenza ad alcuni azionisti privilegiati, invece che rispettare il criterio cronologico. Ci sono state proteste dei piccoli azionisti proprio su questo aspetto, richieste di danni e la costituzione di un Comitato per la tutela degli azionisti della Banca Popolare di Bari. Gli avvocati dei consumatori chiesero in particolare il risarcimento del danno di tutti gli azionisti che sarebbero stati scavalcati dalla famiglia di imprenditori edili De Bartolomeo. È un dejavù, uno dei tanti, rispetto a quel che accadde a Vicenza e a Montebelluna. C’è però un problema ulteriore. Con lo scopo di creare un meccanismo simile a quello di mercato, le azioni della Popolare di Bari sono state rese scambiabili sulla piattaforma Hi-Mtf, noto anche come “borsino telematico”. Il risultato però è stato deludente. Le azioni vendute sono state pochissime, perché l’oscillazione massima consentita era ridotta. A oggi, nota Cattapan, «a un valore di 6,90 euro ci sono 6 milioni di azioni offerte e domanda per sole 100 azioni». Di fatto, nessuno compra (qui il link alla contrattazione della Popolare di Bari su Hi-Mtf). Perché? Perché il rapporto tra la capitalizzazione (prezzo per numero di azioni) e il patrimonio (valore di libro tangibile) è troppo alto. «Per la Popolare di Bari attualmente il rapporto è di circa 1, per le altre banche quotate è di 0,5-0,6 - nota Cattapan -. Perché il rapporto di 1 fosse accettabile, dovremmo avere un bilancio molto più integro, mentre la situazione degli Npl di Popolare di Bari rimane grave; oppure dovrebbe avere una redditività molto maggiore, con a un Roe pari a quello ante-crisi, del 5 o 10%, mentre oggi le banche lo hanno mediamente attorno all’1 per cento. Per Popolare di Bari è di 0,5%». L’utile di bilancio del 2016, pari a 4,5 milioni, ha evitato valutazioni peggiori, ma per Cattapan il “fair value” delle azioni della Bari è del «40% in meno rispetto ai valori attuali». Tutto questo vale tenendo conto dei numeri approvati, gli unici su cui si possono fare ragionamenti precisi. E se eventualmente gli accertamenti della magistratura dovessero imporre di pesare diversamente le azioni autofinanziate? Siamo nel campo delle ipotesi, ma secondo Cattapan lo scenario sarebbe gravissimo. «Le azioni diventerebbero illiquide, come successe per le banche venete. In altre parole, non si troverebbe nessuno disposto a comprarle. Non ci sarebbe neanche più un prezzo». La conclusione? «Sono abbastanza pessimista. I ministri hanno detto che la crisi delle banche venete sarebbe stata l’ultima a essere risolta. Io non credo, questo è un possibile altro caso. Sono pessimista soprattutto per gli azionisti, perché abbiamo visto che le banche in un modo o nell’altro le salvano, mentre il valore per gli azionisti va in fumo». «Sono abbastanza pessimista. I ministri hanno detto che la crisi delle banche venete sarebbe stata l’ultima a essere risolta. Io non credo, questo è un possibile altro caso. Sono pessimista soprattutto per gli azionisti, perché abbiamo visto che le banche in un modo o nell’altro le salvano, mentre il valore per gli azionisti va in fumo».
Il parallelismo con le banche venete. Dobbiamo concludere che la situazione della Popolare di Bari sia simile a quella delle venete? A guardare i numeri approvati no, continua l’analista, perché il rapporto tra i crediti deteriorati netti e il patrimonio netto è 1,4, un valore molto alto ma lontano da quello stratosferico di 3 delle banche venete. Anche il grado di copertura delle sofferenze è maggiore rispetto ai casi veneti ed è stato alzato. E la banca ha fatto dei passi, di cui c’è traccia nel bilancio 2016 e nella semestrale gennaio-giugno 2017, sul contenimento dei costi (soprattutto di personale, con 500 esuberi volontari annunciati) e sull’aumento dei ricavi da commissioni. Sebbene i numeri siano diversi, i parallelismi tra la banca pugliese e quelle venete sono diversi. Li ricordava un anno fa Bolognini: «una crescita fatta da una lunga serie di acquisizioni di altre banche, le ultime particolarmente controverse. La lunghissima gestione padronale della banca da parte di una famiglia. Una serie di aumenti di capitale e prestiti obbligazionari collocati presso la clientela. Il fastidio e il ritardo nel trasformarsi in spa per obbedire al decreto sulle banche popolari e da ultimo la svalutazione improvvisa del 20% del valore delle azioni - non quotate in Borsa - con il malumore di alcuni dei 70.000 azionisti che da mesi o forse più di un anno non riescono più a vendere quelle azioni nel mercatino gestito dalla banca stessa». Ora bisognerà vedere se un altro parallelo sia il ricorso ad operazioni baciate.
Le autorità di vigilanza. Uno scandalo alla Banca Popolare di Bari porrebbe anche domande sul ruolo svolto dalla vigilanza di Banca d’Italia, dopo le critiche arrivata per la gestione della crisi delle banche venete e in particolare di Banca Popolare di Vicenza. Un articolo di Vittorio Malagutti su L’Espresso nel novembre 2016 ha dato conto di un’ispezione di Bankitalia avvenuta in tre riprese nel 2013 presso la Popolare di Bari. Furono segnalate diverse criticità e in particolare che alcuni prestiti importanti sarebbero stati erogati senza verifiche adeguate sulla solidità del cliente, nel gergo bancario «eccessiva correntezza». Nell’ottobre 2013, scrive Malagutti, «poche settimane dopo quella severa reprimenda, proprio da Bankitalia era arrivato a Bari l’invito a farsi carico di Tercas, la vecchia Cassa di Teramo». Il ruolo di Bankitalia in questi casi non ha mai il bollino dell’ufficialità ed è difficilmente dimostrabile: un’indagine sulla cessione della Banca Popolare di Spoleto al Banco di Desio vide l’archiviazione per il governatore Ignazio Visco dell’accusa di abuso d’ufficio. Di «persone che un anno fa suggerivano a Banca Etruria un’operazione di aggregazione con la Popolare di Vicenza» parlò, squarciando un velo di silenzio, la stessa Maria Elena Boschi, allora ministro delle Riforme. In ogni caso l’acquisizione di Tercas da parte della Popolare di Bari non è dispiaciuta in via Nazionale. La stessa acquisizione è stata accompagnata, ricorda il professor Luca Erzegovesi, Università di Trento, da un combinato disposto di strumenti di sistema, per salvare Tercas e allo stesso tempo mantenere in sicurezza la Popolare di Bari. Tra le misure (a parte gli aumenti di capitale) c’è il fatto che metà dei sodi dell’acquisizione siano arrivati dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi (ci fu prima una bocciatura da parte della Commissione europea, che però avallo la costituzione di uno schema volontario di intervento, separato rispetto a quello obbligatorio posto a tutela dei depositi). Ci fu anche il primo caso in Italia di ricorso alla Gacs, la garanzia pubblica sulla tranche senior, che permette di alzare il prezzo di vendita medio delle sofferenze e quindi di limitare i buchi di bilancio per la svalutazione delle stesse sofferenze (che in genere sono inserite a un valore molto superiore a quello effettivo di vendita). Nel caso di Bari, la titolarità della tranche senior è rimasta nel portafoglio della stessa Popolare di Bari; il che significa che gli Npl così cartolarizzati sono stati lasciati nell’attivo di bilancio. Lo Stato in caso di perdite che dovessero superare il valore delle tranche junior e mezzanine si troverebbe a pagare, in forza della sua garanzia (che comunque non è gratuita). Altre domande riguardano il tema della trasparenza in caso degli aumenti di capitale e in particolare l’efficacia dei prospetti informativi approvati dalla Consob. Che il valore delle azioni non fosse in linea con quello di mercato non era un mistero e si poteva leggere chiaramente anche sui documenti relativi agli aumenti di capitale, nota Erzegovesi. Se si prende il prospetto Consob per l’aumento di capitale del novembre 2014, alla voce “Rischi connessi alle condizioni economiche delle Offerte”, si legge in effetti una frase significativa, circa la determinazione del prezzo di offerta delle azioni (8,95 euro, con uno sconto del 6% rispetto al prezzo di emissione di 9,53 euro): «L’Emittente non si è avvalso del supporto di esperti indipendenti (non è stata rilasciata alcuna fairness opinion)». Non solo: «Si segnala che i moltiplicatori “Price/Earnings” e “Price/Book Value” riferiti all’Emittente e calcolati sulla base del citato Prezzo di Offerta evidenziano un disallineamento rispetto ai multipli di mercato di un campione di banche popolari le cui azioni sono quotate in mercati regolamentati». Frase che si trova a pagina 3 sulle 411 del documento, ma che bisogna capire quanti dei 70mila soci della banca abbiano interpretato come un campanello di allarme da ascoltare attentamente.
Lo strascico politico. L’ultimo punto interrogativo che sollevano le anticipazioni di Repubblica sono i rapporti con la politica. «In quel momento - documentano le intercettazioni telefoniche - la banca si muove ad alti livelli anche con la politica, cercando di fare pressioni sul governo attraverso agganci locali e nazionali», si legge. Della Popolare di Bari parlò lo stesso Matteo Renzi in un attacco a Massimo D’Alema durante una Direzione Pd dello scorso febbraio. «Non vedo l’ora che parta questa commissione d’inchiesta sulle banche - disse l’ex premier -. Per mesi è sembrato che il problema fosse solo di due-tre banchette toscane. Ma quanto sarà affascinante e appassionante poter discutere delle banche pugliesi, della Banca Popolare di Bari, della 121». Materiale per discussioni di certo ora non manca.
Il giudice berico imbottito di droga e altre facezie della Vicenza "giudiziaria", scrive martedì 8 agosto 2017 Marco Milioni. Chi sarà mai il giudice delle immagini preliminari, ovvero il gip, di Vicenza che anni fa fu pizzicato imbottito di droga e in qualche modo salvato dagli artigli della legge? A chi si riferisce il giornalista Angelo Di Natale nell'articolo che firma oggi per Alganews? Per caso questo magistrato è ancora oggi in servizio a Vicenza? Per caso in questi mesi avrà avuto a che fare con eclatanti inchieste penali tuttora in corso? Per caso si tratta d'un magistrato le cui sorti, anche personalmente, hanno incrociato quelle di qualche big o ex big del mondo bancario veneto? Per caso le carte sanitarie che lo riguardano sono custodite presso gli archivi di qualche Ulss vicentina e magari sono transitate in forma di copia nelle casseforti di qualche politico o di qualche altro potentissimo big locale? E chi saranno mai i notabili veneti, di cui si parla nel servizio, che possono aver usato queste informazioni scottanti in modo da distorcere l'ordinario corso della giustizia? E ancora, quanti giornaloni della carta stampata veneta riprenderanno a breve la notizia?
VICENZA, SCEMPIO EDILIZIO E AFFARI PRIVATI ALL’OMBRA DEL NUOVO TRIBUNALE, MA VIENE PERSEGUITO CHI OSA PARLARE DI ABUSI, scrive l'8 agosto 2017 Angelo Di Natale, su "Alga News". Non lo chiameremo abuso edilizio perché se le autorità preposte hanno rilasciato le concessioni previste, abuso non è. Lo chiameremo semplicemente “scempio”, stupro del territorio con tanto di bollo del Comune e nel dispregio di tutte le norme – costituzionali, ordinarie, di settore, regionali, tecniche e amministrative – che avrebbero dovuto condurre l’istituzione competente a fare tutt’altro e ben altro. Parliamo dell’affaire-Cotorossi a Vicenza, ovvero il nuovo tribunale (non si dica “abusivo”, per carità!) edificato su una colossale speculazione affaristica in danno del bene pubblico, della città resa bella ed elegante dal Palladio, della sicurezza del territorio (l’edificio sorge laddove non potrebbe, tra due fiumi a rischio esondazione), a vantaggio esclusivo degli interessi di potenti gruppi privati che da quelle parti fanno da decenni il bello e il cattivo tempo, nella distrazione e forse grazie alla contiguità con organismi di controllo, vigilanza e garanzia. Il caso è trattato in questi giorni da diversi organi d’informazione ma preferiamo richiamare innanzitutto qualche precedente lontano, noto all’esperienza diretta di chi scrive, per coglierne meglio il senso e focalizzarne la portata. Negli anni 2003 e 2004 denunciai in diversi servizi, per l’emittente All-news del Triveneto Canale 68, lo scandalo del “Cotorossi”, un colossale sacco edilizio in favore di privati (tra i quali società berlusconiane e la Maltauro, di recente coinvolta nelle tangenti Expo e uscitane con il patteggiamento del suo responsabile) in danno della città di Vicenza per diverse centinaia di milioni di euro e con gravissimi rischi, come segnalato, per la sicurezza idrogeologica. Allora i lavori non erano iniziati ed era possibile bloccare tutto. Ma il problema non era solo il sindaco di Vicenza, berlusconiano fervente, al punto da avere ricevuto l’onore dall’allora “Cavaliere” di essere suo testimone nelle nozze celebrate con l’architetta Lorella Bressanello. In effetti la sposa in qualità di architetto lavorava per uno dei più grossi cementificatori della zona quando riesce ad “agganciare” il primo cittadino, vedovo per la morte prematura della moglie, e lo porta, riuscendo ad ottenere dal sindaco-consorte un ribaltone radicale di posizione politico-amministrativa, sulla linea degli interessi di quell’imprenditore del cemento. Interessi che al costruttore erano stati serviti su un piatto d’argento dalla precedente amministrazione la cui maggioranza però era andata in crisi e perduto le successive elezioni, passando all’opposizione, mentre l’amministrazione succeduta nel 1998 e guidata, per dieci anni, da quel sindaco, in precedenza quando era minoranza, aveva assunto una posizione totalmente contraria. Ma gli affari di cuore e i fiori d’arancio, ma ancor prima la frequentazione e il “fidanzamento”, furono più forti di ogni remora politica: per l’architetta che da lì a poco sarebbe diventata il vero dominus dell’urbanistica comunale, missione pienamente riuscita! Il problema era anche, e forse soprattutto, la Procura, perfettamente integrata nel circuito di interessi e affari privati che a Vicenza riuniva, come in un corpo solo, politica dominante, burocrazia, economia, finanza, banche, editoria, magistratura. Allora i lavori non erano iniziati, ma non c’era alcuna possibilità – eppure nel 1998 il centrodestra subentra al centrosinistra nel governo del Comune e nel 2008 succede il contrario – che ciò non accadesse. Mi sembrò stupefacente come gli stessi partiti e gruppi politici, dall’opposizione dicessero una cosa e, divenuti maggioranza, facessero tutt’altro: in ogni caso, sempre e comunque, gli interessi privatissimi dei signori del cemento. Ricordo pochissimi consiglieri comunali sempre coerenti e dalla parte della città: l’unico nome che mi sovviene è quello di Franca Equizi, eletta nelle file della Lega e poi espulsa per le sue posizioni indipendenti e l’indisponibilità ad inchinarsi agli interessi privati dei signori del cemento. A maggio 2004 lasciai Vicenza per impegni professionali altrove, con la consapevolezza che non ci sarebbe stato niente da fare fino a quando non si fosse messo mano seriamente in quel verminaio che erano la Procura ed altri settori non secondari degli uffici giudiziari del Tribunale. Tra le altre cose avevo raccontato il caso incredibile di un gip sorpreso con una grande quantità di droga in auto, salvato e messo sotto tutela dai manovratori di quegli interessi, pronti ad usarlo all’occorrenza. E ho visto bene più volte come l’abbiano usato! Di recente, a scandalo “Popolare di Vicenza” deflagrato, le cronache hanno svelato la storia, non meno incredibile, di un altro giudice, in questo caso un gip per bene che ebbi modo di conoscere direttamente, Cecilia Carreri, fatta fuori perché, nel 2005, dodici anni fa (io ero già andato via) si era opposta con solidissime motivazioni all’archiviazione di un procedimento penale contro la Banca Popolare di Vicenza del “pregiudicato” Zonin: si, già allora e da tempo, l’imprenditore era tecnicamente un cittadino pregiudicato per frode commerciale commessa nella produzione dei vini, ma in tutto il tempo di lavoro in Veneto ero stato il solo a scriverlo e a dirlo, mentre tutti lo ossequiavano! Se a Cecilia Carreri non avessero impedito – vessandola in tutti i modi fin quasi alla morte fisica e psicologica – di fare il suo dovere, dieci anni prima Zonin sarebbe stato smascherato e fermato in tempo, prima che la sua gestione depredasse centinaia di migliaia di famiglie di oltre dieci miliardi di euro e i contribuenti italiani del doppio. E invece tutto ciò è avvenuto anche per la complicità di una rete di affaristi e manovratori all’interno perfino delle più alte istituzioni di garanzia come settori della magistratura, sicché oggi quel banchiere, intestati i suoi beni ai familiari, con le loro carte di credito può circolare libero a Milano e fare shopping in via Montenapoleone. E dire che egli ha prodotto un danno economico e sociale infinitamente superiore a quello di cui in un’intera vita sarebbero contemporaneamente e complessivamente capaci tutti i ladri, i rapinatori e gli scippatori di strada in azione nel nostro Paese! Questa è l’Italia, bellezza, e tu – cittadino per bene – non puoi farci niente! La vicenda torna in questi giorni d’attualità perché alcuni ambientalisti sono stati trascinati in tribunale con richieste di risarcimento milionarie. Da vittime a carnefici – come scrive “la repubblica” il 5 agosto – in un batter d’occhio per aver denunciato una speculazione che ha pochi eguali in Italia. E con una procura che, in buona sostanza, sta indagando su se stessa o meglio sull’edificio che la ospita. È una storia lunga 15 anni quella dell’operazione Borgo Berga, a poche centinaia di metri da Villa Rotonda del Palladio, patrimonio dell’Unesco. Una vicenda che porta in sé più di un paradosso, di cui si trova traccia già nei primi anni del 2000 degli atti dell’amministrazione di centrodestra guidata da Enrico Hullweck. A suo tempo l’area era occupata dallo stabilimento ormai dismesso della famiglia Rossi. Una fabbrica storica poi acquisita da una delle società della galassia berlusconiana e successivamente ceduta a una cordata guidata dalla Maltauro (società di costruzioni nota ai pm di Milano per alcune vicende legate all’Expo). In quell’area il Comune di Vicenza decide di realizzare il nuovo Tribunale e in cambio i privati ottengono le autorizzazioni ad edificare su oltre centomila metri quadrati di terreno, con volumi e altezze imponenti, la cessione di aree pubbliche per una superficie doppia di quella ricevuta dal comune e un bel finanziamento per le opere di urbanizzazione. Nel 2006 – ricostruisce ancora “la repubblica” – i lavori partono con la demolizione del vecchio stabilimento, nonostante le prescrizioni della Soprintendenza. Arrivano le prime denunce da parte di Legambiente, Italia Nostra e del Comitato contro gli abusi edilizi. E arriva la prima inchiesta archiviata in tempi record. Strano, visto che gli edifici di Tribunale, attività commerciali e palazzoni di appartamenti vengono tirati su a ridosso di due fiumi, Retrone e Bacchiglione (nell’area storicamente sorgeva il porto fluviale). Nel 2008 cambia l’amministrazione, e nonostante da consigliere regionale avesse tuonato contro il Tribunale (definendolo “un mostro”), il nuovo sindaco Achille Variati del Pd fa approvare una variante urbanistica che di fatto conferma il vecchio piano. Nel 2013 arrivano nuove denunce degli ambientalisti e la magistratura è costretta a indagare nuovamente su casa propria. Fino al 2014 tutto tace e l’inchiesta resta a carico di ignoti, l’anno dopo viene indagato solo l’ex dirigente all’urbanista del Comune. Pochi mesi e si registra un sequestro preventivo chiesto dal pm Antonio Cappelleri e accolto dal Gip Massimo Gerace. Viene contestato il reato di lottizzazione abusiva dell’intera area, ma il sequestro riguarda soltanto uno dei lotti. Il giudice scrive nero su bianco che “sussiste l’illegittimità del piano di lottizzazione e dunque dei permessi a costruire rilasciati e da rilasciare”. Mancano “gli elaborati sulle zone sismiche, manca il rispetto delle prescrizioni della sovrintendenza, mancano valutazioni ambientali” e altro ancora. Qualcosa sembra muoversi. Sembra, perché in realtà non vengono sequestrati gli edifici realizzati o in via di realizzazione, ma solo un lotto completamente libero. Dunque si continua a costruire, a completare, a vendere o affittare unità immobiliari. Il tutto perché il giudice ritiene “i volumi in essere costitutivi di fatti compiuti non più modificabili”. Insomma, ormai l’abuso è fatto. La procura indaga, e si va avanti. Gli ambientalisti scrivono che i permessi a costruire sono scaduti, e si va comunque avanti. Arriva anche l’Anticorruzione di Raffaele Cantone e un’indagine della Corte dei Conti, e si continua a lavorare. Anzi di più. I mezzi di cantiere, che operano nelle aree libere, vengono autorizzati dalla magistratura ad attraversare il lotto sequestrato. L’Enac mette in discussione gli accordi tra Comune e privati che conterrebbero uno squilibrio nei profitti del privato a danno dell’amministrazione, quantificato in una decina di milioni di euro. Inoltre, le opere di urbanizzazione si sarebbero dovute effettuare con una gara pubblica e non, com’è accaduto senza bando. La Corte dei Conti apre un fascicolo per danno erariale, ma nulla sembra fermare l’operazione. Intanto la Procura chiede il sequestro dell’intera area, ma questa volta il gip dice di no. Al Riesame – si legge ancora su “la repubblica” – il pm si concentra sui danni economici, molto meno sulle relazioni dei consulenti e degli investigatori relative al danno ambientale, e il ricorso viene respinto. Ora si attende la decisione della Cassazione. Intanto gli ambientalisti si rivolgono alla Corte d’Appello chiedendo la revoca dell’indagine e al Csm con un esposto per chiedere conto del lavoro di Cappellieri. Nessuna risposta. Tutto tace e i lavori vanno avanti. O meglio quasi tutto tace. Perché se dell’indagine non si ha più notizia, sono già arrivate le citazioni in giudizio per i denuncianti da parte della “Cotorossi” che chiede in sede civile 3 milioni per danni e diffamazione. In questo caso l’udienza è fissata per dicembre. Da vittime a carnefici per averlo chiamato “abuso”.
“Guai giudiziari per Falcone, Salvarani, Scarpellini e Tolettini”, scrive Marco Milioni su “la Sberla”, l'11 marzo 2209. “Una raffica di denunce e un ponderoso esposto indirizzato alla procura della repubblica di Trento contro alcuni big della magistratura e delle forze dell’ordine del Vicentino. A redigere il tutto Angelo Di Natale, ex collaboratore di Canale 68 Veneto, oggi tra i giornalisti di punta della Rai siciliana. La vicenda cui fa riferimento Di Natale è collegata in modo indiretto ad una serie di scoop che lo stesso giornalista firmò per Canale 68 nel 2004. Reportage nei quali si parlava di abusi commessi a danno di minori ad opera di sacerdoti in una parrocchia di Thiene, nel vicentino. Direttamente la vicenda è collegata invece al libro Mani D’Angelo che Marco Milioni (estensore de LaSberla.net) pubblicò nel 2006. Nel libro si facevano le chiose al comportamento degli inquirenti seguito agli scoop di Canale 68. Per quel libro Di Natale e Milioni sono stati querelati per diffamazione da Giorgio Falcone (attuale pm presso la procura berica) e da Giovanni Scarpellini, all’epoca dei fatti comandante dei carabinieri di Thiene e ora comandante dei vigili urbani del medesimo comune. Il processo a carico dei due ha appurato che le indagini furono insabbiate, tanto che Di Natale dopo l’assoluzione definitiva è partito al contrattacco. Ieri sono stati denunciati infatti tra gli altri: il sostituto procuratore Falcone per il reato di calunnia; il procuratore Ivano Nelson Salvarani per i reati di falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale e di rifiuto di atti d’ufficio; l’ex capitano dei carabinieri Scarpellini per i reati di calunnia, di falsa testimonianza e di subornazione; il sovrintendente di polizia Flavio Bellossi per il reato di falsa testimonianza; il giornalista Ivano Tolettini de Il Giornale di Vicenza per il reato di rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. A dare la notizia è stato lo stesso Di Natale (nella foto) il quale in merito alla vicenda ha diramato oggi una nota breve e una più articolata unitamente all’intero testo dell’esposto.
Il tribunale di Vicenza, nuovo porto delle nebbie. Prima non si è occupata del caso BpVi, ora dichiara la sua incompetenza territoriale e spedisce gli atti a Milano, che a sua volta ha passato le carte alla Cassazione, scrive Paolo Madron su "Lettera 43" l'8 giugno 2017. La giustizia italiana ha un nuovo porto delle nebbie. No, non è più il tribunale di Roma, in passato famoso per la sua propensione a insabbiare. È quello di Vicenza che, di fronte al disastro della locale Popolare (siccome bisogna essere trasparenti con i lettori, azionista minore di questo giornale) ha girato la testa dall’altra parte. E quando qualcuno dei suoi magistrati pensò invece di non girarla, il tracollo era di là da venire ma già se ne intuiva qualche indizio, si pensò bene di risolvere il problema alla radice trasferendo l’impicciona, visto che era anche una discreta alpinista, nella ridente Cortina. Sto parlando del gip Cecilia Carreri, che nel 2002 respinse la richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Gianni Zonin, per oltre vent’anni incontrastato dominus della banca. Da allora nel tribunale della città del Palladio (il nuovo è un obbrobrio urban paesaggistico che non ha eguali) quello della Popolare di Vicenza è diventato un non luogo a procedere. Fino a due anni fa, quando la Bce squarciò il velo mostrando tutto il marcio che allignava in un istituto che tutti credevano sano e al riparo dai rovesci della crisi. Fu solo allora che, di fronte alla protesta di migliaia di risparmiatori ridotti sul lastrico e all’irrompere del caso Vicenza sul palcoscenico nazionale, la Procura si mosse accusando i vertici dell’istituto di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Ma, come quasi sempre avviene, al suo risveglio i buoi erano già scappati e il danno consumato. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano. Zonin aveva trasferito per tempo tutti i suoi beni a figli e parenti, e sui suoi sodali complici del misfatto non si registra esserci stata una particolare lena nell’indagarli. Almeno fino a quando due sostituti della Procura, meglio tardi che mai, hanno deciso di mettere sotto sequestro 106 milioni di euro chiedendo sei mesi fa al gip di convalidarla. Non a tutti, però, visto che tra coloro oggetto del provvedimento guarda caso non compare incredibilmente il presidente Zonin, ma solo l’ex direttore generale dell’istituto e il suo vice. Ma al danno ora i aggiunge la beffa. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano dove, fino a prova contraria, hanno sede molte importanti istituzioni ma non la Consob e nemmeno la Banca d’Italia. Ovviamente ai colleghi di Milano è bastata una rapida occhiata alle carte per dichiarare a loro volta l’incompetenza. Toccherà quindi alla Cassazione, non si sa bene quando, risolvere l’arcano. Un pasticcio che anche nel porto delle nebbie vicentino deve essere sembrato troppo, visto che il procuratore capo ha pubblicamente denunciato come abnorme la decisione del gip. Piccola nota conclusiva giusto per capire come gira da noi il mondo. Ricorda oggi Repubblica che le indagini aperte sul cda della Vicenza, quando ancora era additata come un modello di banca, per la mancata iscrizione a bilancio di alcuni milioni di minusvalenza furono repentinamente archiviate dall’allora procuratore capo Antonio Fojadelli. Il cui nome, una volta dimessosi dalla magistratura nel 2011, compare tra i consiglieri d’amministrazione della Nordest Merchant, società interamente controllata dalla Popolare di Vicenza.
L’ex magistrato: «Banche venete, i pm non vollero indagare su Bpvi. Così il “sistema” protesse Zonin». L’anticipazione del libro di Cecilia Carreri: «Ecco come mi hanno fermata», scrive il 21 giugno 2017 il "Corriere del Veneto". Ci sono delle volte in cui la vita prende i ritmi di una regata in barca a vela. E la decisione di cambiar rotta, una strambata improvvisa, muta per sempre il corso degli eventi. È capitato a Cecilia Carreri, fino al 2009 giudice in servizio al tribunale di Vicenza. La ribattezzarono «Ciclone Carreri» per come era riuscita a portare in aula uno dei pochissimi casi di Tangentopoli a Vicenza. Poi l’onta di vedersi processare da Csm: trasferita e sanzionata perché, nonostante il mal di schiena e gravi problemi familiari, aveva svolto delle attività sportive in mare. Per tutti divenne «il giudice skipper» e così forse sarebbe stata ricordata, se nel frattempo non fosse intervenuto il crollo della Banca Popolare di Vicenza. Perché, ripercorrendo a ritroso la storia giudiziaria dell’istituto, venne fuori che proprio lei fu l’unico magistrato a tentare di smascherare la (presunta) malagestione di Gianni Zonin, all’epoca potentissimo presidente di BpVi. E se le avessero dato retta, forse, le cose sarebbe andate diversamente. Oggi migliaia di risparmiatori vedono in Cecilia Carreri l’eroina che, sola contro un sistema inerte, cercò di mettere sotto inchiesta i manager della banca. Fallì. E ora quella vicenda è diventata un libro scritto proprio dall’ex magistrato (ha dato le dimissioni) che uscirà nelle librerie il 29 giugno per i tipi di Mare Verticale. Si intitola Non c’è spazio per quel giudice – Il crack della Banca Popolare di Vicenza e sono 350 pagine durissime, dove compaiono decine di nomi e cognomi di imprenditori, politici, giornalisti e (tanti) magistrati che all’istituto di credito erano collegati da una rete di affari, regali, parentopoli, posti di lavoro…
«Fojadelli mi prese di mira» «Quando nel 1997 arrivò Antonio Fojadelli come nuovo procuratore di Vicenza - scrive l’ex gip - iniziò subito a prendermi di mira. S’intrometteva di continuo nell’organizzazione dell’Ufficio indagini preliminari (…). Ma il motivo di maggiore tensione era dovuto al fatto che Fojadelli tratteneva per sé le indagini che riguardavano i personaggi più importanti della città, gli apparati politici e imprenditoriali e, spesso, il fascicolo di quelle indagini era trasmesso al nostro ufficio con una richiesta di archiviazione (...) che mi accusava di respingere troppo spesso.». Nel 2001 la procura di Vicenza aprì un fascicolo a carico di Zonin e altri, scaturito da alcune segnalazioni e da un’ispezione di Bankitalia. Le accuse andavano dal falso in bilancio alla truffa. «Da quelle ispezioni, perizie e memoriali – si legge nel libro – emergevano fatti molto gravi, operazioni e finanziamenti decisi da Gianni Zonin in palese conflitto di interesse tra le sue aziende private e la Banca usata come cassaforte personale. Balzava evidente l’assoluta mancanza di controlli istituzionali su quella gestione: un collegio sindacale completamente asservito, un Cda che non faceva che recepire le decisioni di quell’imprenditore, padrone incontrastato della banca. Nessuno si opponeva a Zonin, nessuno osava avanzare critiche, contestazioni». Come andò, è cosa nota: la procura chiese al gip Carreri di archiviare tutto. E nel libro, l’ex giudice racconta il «dietro le quinte» di quell’indagine finita nel nulla. Descrive le «voci» stando alle quali almeno due pm volevano quel fascicolo, perché «gestirlo era evidentemente molto importante». E lei che, intanto, lavorava «con un sottile senso di angoscia (…) guardavo fuori dalle finestre di casa per vedere se c’erano auto sospette che mi sorvegliavano». Arrivò una lettera anonima con una foto che ritraeva Zonin e Fojadelli seduti vicini, a un evento. Il corvo denunciava legami tra i pm e la banca, e riportava un lungo elenco di personalità (politici, giornalisti, carabinieri, prefetti) alle quali il presidente dell’istituto aveva inviato regali di Natale. «Certo, l’elenco conteneva solo amicizie e conoscenze di lavoro, destinatari di innocui regali, non dimostrava alcun reato. Però, anni dopo, avrei ritrovato alcuni di quei personaggi in rapporti di lavoro con Zonin o il suo Gruppo bancario». Nel libro sostiene di aver inviato la lettera alla procura generale di Ennio Fortuna ma che «sparì nel nulla».
«I reati erano evidenti» «Si capiva perfettamente, leggendo gli atti, che il procuratore (di Vicenza, ndr) non aveva voluto approfondire. Avrebbe dovuto procedere con intercettazioni, sequestri, verifiche bancarie, rogatorie, ordini di cattura. Il materiale poteva consentire indagini di alto livello. I reati balzavano agli occhi». Carreri ricostruisce alcuni episodi sospetti: dall’acquisto effettuato da Silvano Zonin - fratello di Gianni - di un palazzo a Venezia subito affittato a caro prezzo proprio a BpVi; ad alcune anomalie «che rappresentavano come Zonin usasse la banca come una delle sue tante aziende: un viaggio a Parigi a spese della banca, l’uso della carta di credito dell’Istituto per una vacanza personale, la elargizione di denaro della banca a sindacalisti e parrocchie del Veronese, l’uso personale di un aereo della banca…». Dettagli di cui custodisce le prove, e nel libro racconta di «vecchi scatoloni in cui conservo ancora oggi atti e documenti...». Ma la procura, si sa, la vedeva diversamente e chiese l’archiviazione. Nelle scorse settimane, Fojadelli ha difeso il suo operato: «La magistratura fece il suo dovere. Semplicemente, all’epoca non furono evidenziati comportamenti illegali». Cecilia Carreri scrive che «dopo giorni di lavoro ininterrotto, in completa solitudine, nel caldo opprimente dell’estate, avevo respinto quell’archiviazione e chiesto l’imputazione coatta. Avevo tentato così di salvare quel fascicolo disponendo che fosse celebrata subito l’udienza preliminare in cui discutere il rinvio a giudizio di Zonin e degli altri indagati». Cosa accadde in seguito? Per l’udienza preliminare «non si era riusciti a trovare un magistrato: quasi tutti avevano rapporti con quella banca per conti correnti, investimenti, mutui anche per importi molto rilevanti (…) Il gup che alla fine aveva celebrato l’udienza, Stefano Furlani, anziché limitarsi a valutare se disporre il rinvio a giudizio, aveva subito prosciolto Gianni Zonin e il consigliere delegato Glauco Zaniolo…». Decisione impugnata dalla procura generale, secondo la quale «il gup Furlani ha palesemente travalicato i limiti delle sue funzioni appropriandosi in modo non consentito del ruolo e dei compiti del giudice del dibattimento». Ma non cambiò nulla e Zonin alla fine ne uscì «pulito». Nel 2005 un nuovo rivolo dell’indagine finì in Corte d’appello «dove all’epoca vi erano diverse conoscenze, come il famoso pg Ennio Fortuna, Gian Nico Rodighiero, quello che mi aveva giurato vendetta e che si diceva andasse a caccia con Gianni Zonin, e Manuela Romei Pasetti, diventata presidente della Corte e che nel 2012 sarebbe stata cooptata nel Cda della siciliana Banca Nuova del Gruppo Popolare di Vicenza». Insomma, le inchieste non portarono alcun sviluppo investigativo nei confronti di «quella banca che già allora appariva come una centrale di affari che elargiva denaro a cascata. C’era stato un fuoco di sbarramento perché quegli atti non arrivassero neppure a un processo dibattimentale».
«Zonin era dappertutto» Gli anni successivi sono i più bui: il processo al suo mal di schiena, fino alla decisione di dimettersi. E oggi Carreri avanza la tesi di essere stata vittima di un complotto: «I fatti erano chiari: in un modo o nell’altro ero fuori dalla magistratura. Se volevano eliminarmi, ci erano riusciti facendo in modo che fossi io, disperata, a dare le dimissioni. Il linciaggio mediatico mi aveva dato il colpo di grazia e poteva aver avuto una regia occulta». L’ex gip che per primo si occupò di PopVicenza ricostruisce anche il successivo percorso professionale di alcuni dei protagonisti. «Oltre all’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio, nel 2013 Zonin aveva assunto anche Giannandrea Falchi - capo della segreteria di Mario Draghi - che aveva diretto una delle ispezioni su BpVi (…) Zonin aveva piazzato l’ex prefetto di Vicenza Sergio Porena, già probiviro della banca…». La lista è lunga (e comprende il figlio del pm Paolo Pecori «diventato uno degli avvocati della banca») anche perché «sembrava che Zonin fosse dappertutto». Infine, l’ultima stoccata è per i magistrati di Vicenza che attualmente indagano sul crollo dell’istituto. A colpirla, è «la clamorosa mancanza, da parte della procura, di sequestri di beni e patrimoni a garanzia delle parti lese, di ordinanze cautelari di arresto e carcerazione». Tutti gli indagati sono rimasti «a piede libero e hanno potuto tranquillamente inquinare le prove o fuggire all’estero, far sparire il loro patrimonio personale. Mai vista una cosa simile».
Ispettori, magistrati e Gdf ecco la rete di protezione della Popolare Vicenza. Tutti i segnali del crac ignorati da Bankitalia e pm con l'aiuto anche di diplomatici e prefetti. Gli esposti sono rimasti inascoltati e oggi 118 mila risparmiatori chiedono giustizia, scrive Franco Vanni il 4 giugno 2016 su "La Repubblica". Li chiamavano "i pretoriani". E anche se nessuno lo ha mai esplicitato, nei corridoio della Popolare di Vicenza tutti intuivano quale fosse la loro missione: controllare i controllori. Adesso dicono che questa è sempre stata l'idea fissa di Gianni Zonin, presidente della banca dal 1996 allo scorso 23 novembre. E' stato lui, già celebre come re dei vini, a segnare l'ascesa e la caduta di questo istituto, che dal Veneto si è esteso in tutta Italia con 5 mila dipendenti e 482 filiali. Un castello di carte ridotto in cenere, bruciando in pochi mesi 6,2 miliardi di euro e lasciando sul lastrico 118 mila soci che avevano investito i loro risparmi in azioni passate dal valore di 62,5 euro a dieci centesimi. Il 2 giugno le vittime del crac hanno manifestato davanti alla villa di Zonin, chiedendo alla magistratura di sequestrarla. Ma ufficialmente non è più sua, perché si è liberato di ogni proprietà, forse pronto a trascorrere la vecchiaia nei suoi possedimenti esteri. Il crollo è stato rapidissimo mentre le indagini dei pm che lo hanno scalzato dal vertice dell'istituto sono lente, tanto da non prevedere sviluppi prima dell'autunno. Eppure nel corso degli anni i campanelli di allarme sulla solidità della banca, che sponsorizzava squadre sportive e finanziava film da Oscar come la "Grande Bellezza", non sono mancati: dal 2001 al 2014 ci sono stati esposti, ispezioni di Bankitalia e due inchieste della procura che avrebbero dovuto approfondire proprio gli elementi poi rivelatisi determinanti nello sgretolamento del forziere vicentino. Ad esempio, secondo quanto accertato dalla Bce negli anni passati, la crescita di BpVi che nel ventennio di Zonin ha portato all'acquisizione di Banca Nuova e Cari Prato è stata sostenuta imponendo ai soci l'acquisto di azioni della stessa banca come condizione necessaria per la concessione di prestiti. Una pratica denunciata da gruppi di piccoli risparmiatori già agli esordi della presidenza di Gianni Zonin. "Sin dall'inizio il suo intento era mettere al riparo la Popolare di Vicenza da verifiche e guai giudiziari - dice Renato Bertelle, avvocato di Malo, presidente dell'associazione nazionale azionisti BpVi -. Come lo ha fatto? Con nomine e assunzioni. Ha creato una rete di protezione, per evitare che franasse tutto. Ha cercato di mettere a libro paga quelli che potevano dargli fastidio, o i loro capi. E in molti casi ce l'ha fatta". Non è un caso che fra le prime iniziative del nuovo amministratore delegato Francesco Iorio ci sia stata la sostituzione dei "pretoriani", arruolati ai vertici delle istituzioni che avrebbero dovuto tenere sotto controllo la banca. Porte girevoli che hanno permesso di passare dai ranghi della magistratura, delle Fiamme Gialle, di Bankitalia a quelli della Popolare.
Le crepe e i guadagni. Le inchieste avviate dalla procura di Vicenza sulla gestione di BpVi fino a oggi sonostate affossate da archiviazioni, prescrizione dei reati e sentenze di non luogo a procedere, arrivate dopo anni dall'apertura dei fascicoli. Un ventennio di occasioni sprecate. "La cosa che fa più male, vedendo i soci che hanno perso tutto, è che già nel 2001 le crepe erano visibili - sottolinea Antonio Tanza, avvocato e vice presidente dell'associazione Adusbef, che prima del 2008 aveva presentato 19 esposti contro gli amministratori vicentini - . E sono quelle stesse crepe che si sono allargate fino a provocare il crac". L'epilogo è stato il salvataggio da parte di Fondo Atlante, costretto a rastrellare per 1,5 miliardi tutte le azioni della banca, dopo il flop della sottoscrizione di capitale. "È assurdo che si sia arrivati a tanto. Le premesse del disastro erano chiare quindici anni fa", conclude Tanza.
L'ispezione di Bankitalia. Nel 2001 Bankitalia dispone un'ispezione sulla Popolare di Vicenza, la prima da quando Zonin è presidente. Al centro degli accertamenti, i criteri con cui la Popolare ha valutato le azioni. Gli ispettori, al lavoro da febbraio a luglio, concludono che il valore di 85.196 lire (44 euro) era "poco oggettivo". E che la banca, nonostante si fosse all'inizio della presidenza Zonin, era già caratterizzata da un "modello gestionale verticistico che limita l'attività del cda". Unico oppositore di Zonin in consiglio di amministrazione è l'avvocato Gianfranco Rigon, che nel 1999 lascia la vicepresidenza. A suo dire, "il ruolo presupponeva sudditanza alla autoritaria e autocratica gestione di Zonin ". Già allora c'è un episodio illuminante, sottolineato dall'avvocato Bertelle: "La storia sembra incredibile, ma è agli atti dell'inchiesta milanese su Antonveneta. Nicola Stabile, che nel 2001 era nel team ispettivo di Bankitalia, riferì di avere ricevuto un invito da Zonin a trascorrere le vacanze in una sua tenuta nel Chianti". Non solo. Luigi Amore, funzionario della Vigilanza di via Nazionale che ha firmato quella verifica, sarà poi chiamato alla Popolare come responsabile dell'Audit. Allo stesso modo Andrea Monorchio, dopo tredici anni come Ragioniere generale dello Stato, sarà nominato nel cda di BpVi fino a divenirne vicepresidente nel 2014. L'uomo che ha arbitrato i bilanci del Paese diventa una sorta di ambasciatore di Zonin nei palazzi romani del potere.
Affari di famiglia. Le segnalazioni che hanno dato il via all'ispezione della Banca d'Italia finiscono sui tavoli della procura di Vicenza, che nello stesso 2001 apre un'inchiesta. Zonin viene indagato per falso in bilancio. Secondo gli esposti, gli amministratori avrebbero fatto sparire dal rendiconto del 1998 quasi 58 miliardi di lire di minusvalenze, frutto dell'acquisto di derivati. All'attenzione dei pm vicentini vengono portate anche alcune operazioni immobiliari intraprese dalla banca nel 1999 con la società Querciola Srl diretta da Silvano Zonin, fratello di Gianni. L'istituto avrebbe pagato affitti per un valore eccessivo, con danno per i soci. L'allora procuratore capo, Antonio Fojadelli, avoca a sé il fascicolo. Esperto in criminalità organizzata - aveva guidato le inchieste sulla mala del Brenta - chiede l'archiviazione. Il gip Cecilia Carreri respinge la richiesta e ordina l'imputazione coatta per Zonin. Ma nel 2005 la giudice viene travolta da uno scandalo dai contorni oscuri, nato dalla pubblicazione di una sua foto sul giornale locale. Per Zonin la vicenda si chiude con una sentenza di non luogo a procedere. Fojadelli nel 2011 lascia la magistratura e tre anni dopo Zonin lo chiama nel cda della Nord Est Merchant, detenuta da BpVi. Direttamente dalla guardia di finanza arriva invece Giuseppe Ferrante, ex capo del nucleo di polizia Tributaria di Vicenza, già dal 2006 responsabile della direzione Antiriciclaggio della banca. Anche l'avvocato Massimo Pecori, figlio di uno dei pm di punta della procura cittadina, ottiene incarichi per l'istituto. Ma, come spiega lui stesso, la Popolare "ha centinaia di legali sotto contratto". L'istituto di Zonin infatti è il simbolo stesso della ricchezza in un NordEst che all'epoca non conosce crisi.
Gli esposti del 2008. Adusbef il 18 marzo 2008 segnala a Bankitalia e alla procura di Vicenza "il ricorso illegittimo da parte della Popolare al prestito obbligazionario subordinato per reperire 220 milioni dei complessivi 950 di rafforzamento patrimoniale" e denuncia "il valore inverosimile della quotazione azionaria". Per la prima volta, si fa riferimento a "metodi estorsivi per diventare azionisti, pena la mancata concessione di prestiti, mutui, fidi", ipotesi alla base delle attuali inchieste aperte dopo il crollo. Nel 2008 il procuratore di Vicenza è Ivano Nelson Salvarani. L'inchiesta viene affidata al pm Angela Barbaglio, che il 15 aprile 2009 chiede archiviazione, "non ravvisando credibili ipotesi di reato". Il 21 aprile l'ufficio del gip di Vicenza chiude il fascicolo senza nemmeno comunicarlo ad Adusbef. Intanto, Zonin rafforza la fortezza attorno alla banca, continuando ad arruolare magistrati e uomini di vertice delle istituzioni bancarie. Già alla fine del 2008 arriva Mario Sommella, assunto come addetto della Segreteria generale dell'istituto, lo stesso ruolo che aveva ricoperto in Banca d'Italia.
Le porte girevoli. Luigi Amore e Mario Sommella non sono gli unici uomini di vertice di Bankitalia ad approdare a Vicenza. Nel 2013 Zonin ingaggia alle relazioni istituzionali di BpVi Gianandrea Falchi. Già membro della segreteria quando governatore era Mario Draghi, aveva condotto una seconda ispezione sulla Popolare di Vicenza, i cui risultati costituiscono la spina dorsale dell'attuale inchiesta della procura di Vicenza sulla gestione Zonin. Nel dicembre 2012 la verifica si conclude con un verdetto "parzialmente sfavorevole" e senza sanzioni. Come "ambiti di sofferenza" viene indicata la valutazione dei cespiti ricevuti a garanzia dei crediti. Quello che la verifica non mette in luce fino in fondo è il cuore del problema: il meccanismo della concessione di finanziamenti in cambio dell'acquisto di azioni della banca, che sarà reso esplicito solo quindici mesi dopo dall'intervento della Bce, con i conti ormai irrimediabilmente compromessi. Nel 2012 Zonin appare ancora forte, come il gruppo che guida. Da un anno il prezzo delle azioni è fissato a 62,5 euro e il numero dei soci (che nel 2008 erano 60mila) lievita. È in quei mesi che il cda di Banca Nuova istituto con 100 sportelli in Sicilia, creato nel 2000 a Palermo da BpVi - nomina come consigliere indipendente Manuela Romei Pasetti, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, competente sul territorio di Vicenza. "Zonin, come sempre nella sua vita, ha fatto le cose in grande anche quando si è trattato di comporre i cda di fondazioni e controllate - dice l'avvocato Bertelle - verso la fine della sua avventura in banca, aveva così tanto potere da portarsi in casa prefetti e diplomatici". Il prefetto è Sergio Porena, rappresentante degli Interni a Vicenza fra il 1989 e il 1991, e già probiviro di BpVi. Zonin gli apre le porte del cda della Fondazione Roi, di cui lui stesso è presidente. Il diplomatico è Sergio Vento, già ambasciatore a Parigi, ingaggiato da Zonin come vice presidente di Nord Est Merchant Due, società di risparmio gestito di BpVi. Nulla di straordinario. In centri di provincia come Vicenza, Arezzo, Treviso, Chieti, Ancona, Ferrara gli istituti locali erano il cuore della ricchezza e del potere, elargivano finanziamenti, incarichi e offrivano prestigiose poltrone. In ogni città si è ripetuto un copione simile, con controllori incapaci di riconoscere i segnali del crollo. E adesso il prezzo di quella grande illusione lo pagano migliaia di risparmiatori. Senza che nessuno si ponga il problema di cambiare le regole e creare meccanismi più efficaci di vigilanza. Una settimana fa, durante la visita di Sergio Mattarella ad Asiago, un gruppo di azionisti della Popolare di Vicenza, una rappresentanza dei tanti che hanno visto il valore dei loro investimenti passare da 62,5 euro ad azione a soli dieci centesimi, gli ha consegnato un appello: "Siamo stati educati a rimboccarci le maniche e lavorare ancora di più per ricostruire quanto abbiamo perduto, ma non vogliamo sentire denigrare o irridere la nostra operosità. Vogliamo giustizia, vogliamo che i responsabili di questo tracollo siano messi di fronte alle proprie responsabilità ".
Quel traffico d’oro che imbarazza Banca Etruria, scrivono Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi per il Sole 24 Ore il 3 luglio 2017. La leggenda aretina narra che nelle fortune del distretto dell'oro ci sia lo zampino di Licio Gelli, passato alla storia come il Venerabile della Loggia P2. La città racconta ancora che nella scomparsa di decine di tonnellate d'oro che facevano parte di un carico di 60 tonnellate che l'allora re diciottenne della Jugoslavia Pietro II Karadordevic fece partire con un treno speciale il 17 marzo 1941, Gelli avesse avuto una parte rilevante. L'intera riserva di un Paese sotto l'attacco di Adolf Hitler, stipata in 57 vagoni e oltre 1.300 bauli, non riuscì però a lasciare la Jugoslavia per raggiungere l'Egitto e venne nascosta nelle grotte del Montenegro, presto occupato dai fascisti. Nel 1943, non si sa come, il regime rintracciò l'oro e Benito Mussolini affidò al giovane fascista Gelli il compito di portare il carico a Trieste, evitando la frontiera hitleriana e facendolo viaggiare su un treno speciale e blindato, con a bordo 73 malati di vaiolo. Da quel punto la leggenda narra che Gelli affidò 8 tonnellate alla Banca d'Italia e ne sottrasse 52, una parte delle quali giunse a destinazione nei pressi della stazione ferroviaria di Arezzo per la felicità di una collettività che mise a frutto quel dono insperato. Per dare un'idea dell'immenso valore di quel carico, attualizzando alle cifre correnti il valore, il tesoro varrebbe tra 1,8 e 2 miliardi, una cifra pari all'ultimo dato censito sull'export del distretto aretino. La leggenda è più intricata e fascinosa di quanto si possa pensare perché il prosieguo narra di 25 tonnellate rimaste nella disponibilità del futuro piduista e 27 tonnellate cedute all'allora Pci. Come spiegò nel 1984 l'allora parlamentare radicale Massimo Teodori, da pagina 37 della Relazione di minoranza della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla loggia massonica P2, «fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il Pci, attraverso la componente del Cln, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita». Vero? Falso? Verosimile? Fascinazione? Gelli ha sempre negato ma resta il fatto che il 14 settembre 1998, abilmente nascosti perfino nelle fioriere della lussuosa Villa Wanda a Castiglion Fibocchi (Arezzo), dove ha vissuto fino alla morte, sopraggiunta il 15 dicembre 2015, gli investigatori sequestrarono 164 chili d'oro distribuiti in centinaia di piccoli lingotti. La maggior parte dell'oro recava punzonature e timbri di Paesi dell'Est (ex Unione sovietica in primis), altri erano stati sdoganati in Svizzera, altri ancora non si sapeva da dove provenissero. Oro in “nero”. Sedici anni prima, correva il 1983, dieci lingotti riconducibili a Gelli spuntarono in una banca argentina di Buenos Aires mentre nel 1986 la magistratura elvetica scoprì, in una cassetta di sicurezza dell'Ubs di Lugano, 250 chili d'oro in lingotti, verosimilmente frutto della spoliazione del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Gelli o non Gelli, il distretto orafo si sviluppa nell'area aretina (Arezzo, Capolona, Castiglion Fibocchi, Civitella in Val di Chiana, Monte San Savino, Subbiano) e nella Val di Chiana aretina (Castiglion Fiorentino, Cortona, Foiano della Chiana, Lucignano, Marciano della Chiana), alla quale si aggiungono i comuni di Laterina e Pergine Valdarno. La gamma della produzione è omnicomprensiva ma i marchi di fabbrica locali sono l'oreficeria e l'argenteria a maglia catena e stampata. La lavorazione dei metalli preziosi si è sviluppata soprattutto negli anni Settanta ed Ottanta, grazie al ruolo svolto per molti anni dall'impresa leader (Uno A Erre) nell'attivare processi di gemmazione imprenditoriale e trasferimento di innovazioni. Il distretto orafo della provincia di Arezzo, riconosciuto con delibera del Consiglio regionale della Toscana n. 69 del 21 febbraio 2000, conta 1.592 imprese, di cui 1.216 con meno di 50 addetti, 7.669 persone occupate e un export di quasi 4 miliardi (fonte: Osservatorio nazionale dei distretti italiani, dati 2013/2014). Le statistiche del Club degli orafi italiani, che le aggiorna periodicamente con Banca Intesa, indicano il distretto di Arezzo in testa alle esportazioni con oltre 1,8 miliardi (-1,1% sul 2015) e un import di 86,3 milioni nel 2015 (-24.4% sul 2014). Anche se questo polo non è più ricco come una volta, le grandi aziende orafe e i banchi metalli - come Uno a Erre e Chimet - continuano ad alimentare l'economia del luogo e la loro visibilità è perenne. Sui taxi, ad esempio, il loro logo è una costante, così come le continue sponsorizzazioni a manifestazioni, eventi e iniziative. La crisi ha aggravato la posizione soprattutto delle realtà più piccole e molte, tra quelle rimaste, per sopravvivere praticano il “nero”. l fatturato italiano calcolato dal Club degli orafi per il 2016 è stato di oltre 7,7 miliardi (+9,3% sul 2015), esportazioni per 6,2 miliardi (di cui 5,4 miliardi solo gioielli in preziosi, vale a dire in oro, argento o altri metalli preziosi anche rivestiti o placcati) con un calo complessivo del 4,6% sull'anno precedente. I dati Istat relativi alla produzione (-1,9%) e alle esportazioni, sia in valore (-4,6%) che in quantità (-1,8% per i soli gioielli in metalli preziosi) confermano le difficoltà del settore orafo nel 2016, in corrispondenza con un calo importante della domanda mondiale di gioielli in oro, in particolare da parte dei due grandi acquirenti (Cina e India). Nel 2016 le esportazioni italiane di gioielleria e bigiotteria hanno perso circa 300 milioni rispetto al 2015, con cali diffusi a quasi tutti i mercati di sbocco e con una nuova contrazione importante verso gli Emirati Arabi Uniti (-15%, pari a 160 milioni in meno), Paese di “entrata” per il resto del Medio oriente e l'India. Negative anche le esportazioni verso Svizzera e Francia (-6,7% e -10,6%), Paesi dove sono spesso spediti i gioielli made in Italy commissionati dalle grandi maison di moda (successivamente destinate ad altri mercati di sbocco finali) e verso Hong Kong (-9,1%). Secondo le statistiche sul fatturato (indagine Istat campionaria rivolta alle imprese con più di 20 addetti) il settore gioielleria e bigiotteria avrebbe, invece, chiuso il 2016 in crescita del 9,3%, grazie a risultati brillanti sia sul mercato interno (+6,7%) che su quelli esteri (+10,7%), dato in contraddizione con le informazioni sui flussi di export, che sottolinea le difficoltà di monitorare un settore altamente frammentato come quello orafo. Nessuna tra le fonti intervistate dal Sole-24 Ore ha voluto metterci la faccia o la voce ma tutti concordano nel dire che, ormai, (almeno) un'operazione su due non è tracciabile e sfugge ai radar del Fisco. Accade ad Arezzo ma accade anche negli altri distretti dell'oro (Valenza Po, Marcianise e Vicenza) tra loro legati più di quanto possa apparire e non solo per i legami commerciali ma anche sul fronte delle indagini giudiziarie. In vero il “nero” compare in tutte le operazioni commerciali, qualunque settore si prenda in considerazione ed è logico che il settore orafo non faccia eccezione. Le più recenti indagini delle Fiamme Gialle, su delega della Procura di Arezzo, lo provano, anche se tutti i processi, spesso suddivisi in più filoni giudiziari, devono ancora essere definitivamente chiusi. Tra l'11 e il 14 febbraio 2015 il Nucleo di Polizia tributaria della Gdf ha messo a segno un'indagine – denominata Argento vivo – sul conto di alcune azienda del distretto orafo aretino. Ancora una volta una frode fiscale in atto nel settore del commercio di metalli preziosi (principalmente argento, ma anche platino e palladio), perpetrata attraverso modalità e tecniche analoghe a quelle delle cosiddette “frodi carosello” all'Iva. Uno dei quattro soggetti colpiti dal provvedimento di fermo ha chiesto di essere interrogato subito da Marco Dioni, il pubblico ministero titolare delle indagini, al quale ha reso dichiarazioni di grande valore probatorio, confermando la bontà dell'impianto accusatorio. Per la collaborazione ha ottenuto gli arresti domiciliari. Il 14 febbraio 2015, il Gip del Tribunale di Arezzo Annamaria Loprete ha ritenuto confermati i gravi ed eclatanti indizi di colpevolezza, fortificati dalle dichiarazioni confessorie rese nel corso degli interrogatori per la convalida della misura precautelare, resi il giorno prima dai quattro indagati, emettendo nei loro confronti un'ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari presso le rispettive abitazioni e con divieto di comunicazione, poiché ha ritenuto sussistere il pericolo di reiterazione di reati analoghi, nonché di inquinamento probatorio. La Procura della Repubblica di Arezzo ha ordinato il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca delle disponibilità finanziarie detenute dagli indagati e dalle società a questi riferibili, da bloccare presso gli Istituti di credito, fino a concorrenza della somma di 3.270.203,06 euro, corrispondente ad un valore equivalente al profitto del reato finora determinato. In poco meno di tre mesi (da ottobre a dicembre 2014), seguendo le tracce delle utenze mobili in uso agli indagati per le comunicazioni “one to one” e attraverso osservazioni, pedinamenti e riscontri, è stata fatta luce sull'esistenza di due presunte e distinte organizzazioni criminali, originariamente operative in modo unitario, capeggiate da due aretini che pur non avendo alcun ruolo formale nelle società coinvolte negli illeciti fiscali, erano in grado di controllarne l'operatività, dirigendo i sistemi fraudolenti.
Il principale sistema di frode, comune ai due sodalizi, prevedeva l'acquisto di metalli preziosi sfruttando meccanismi di applicazione dell'Iva che prevede un sistema di inversione contabile per il quale l'acquirente diventa debitore d'imposta: per l'argento rivolgendosi a banchi metalli ed applicando il “reverse charge”; per il platino ed il palladio acquistandolo da operatori intracomunitari. I metalli venivano poi commercializzati interponendo una o più imprese costituite ad hoc ed intestate a prestanome che, oltre a non dichiarare al Fisco le imposte dirette, omettevano il versamento dell'Iva, corrisposta dal cliente finale, rappresentato da una azienda aretina operante nel settore della commercializzazione di metalli preziosi, la Oro Italia trading spa (società partecipata al 100% da Banca Etruria) che secondo l'accusa trasferiva però mensilmente il credito Iva derivante dalle predette operazioni alla controllante, che lo utilizzava in compensazione dell'Iva a debito di Gruppo. In estrema sintesi, i sistemi fraudolenti consentivano ai membri delle associazioni criminali di intascare l'Iva generata dalle operazioni commerciali strumentalmente realizzate e al cliente finale di acquistare i metalli preziosi a un prezzo sensibilmente inferiore a quello che avrebbe potuto spuntare se si fosse rivolto direttamente alle aziende che fornivano i beni alle società coinvolte nei sistemi fraudolenti e che davano inizio al circuito economico che le indagini hanno dimostrato essere artificioso e messo in piedi al solo scopo di poter frodare l'Erario. Teniamo bene a mente il nome di uno tra gli indagati principali di questa operazione: Plinio Pastorelli, che all'epoca era consigliere delegato di Oro Italia trading, dove era entrato come amministratore il 9 luglio 2007 ed è uscito quattro giorni dopo il disvelamento dell'indagine, il 18 febbraio 2015. Pastorelli, indagato per associazione a delinquere e truffa, anticipando le mosse sulla scacchiera del licenziamento, si è dimesso e per il momento si gode la pensione.
Pastorelli entra dunque nell'indagine con l'accusa di acquistare l'oro sotto il prezzo del fixing per il metallo e pagando l'Iva al 20% ai venditori, per poi compensare il credito d'imposta all'interno delle società del Gruppo Banca Etruria. A quanto trapela da fonti che al momento preferiscono restare coperte, Pastorelli non avrebbe fatto in tempo a effettuare la compensazione ma questo ai fini delle accuse in sede penale non rileva. Semmai, interessa il rapporto con l'Agenzia delle Entrate. Nel complesso l’indagine ha consentito di accertare che il meccanismo fraudolento delle società cartiere ha consentito di evadere 15,45 milioni di euro nel periodo compreso tra il 2012 e il 2015 in operazioni che riguardano tanto l’oro quanto l’argento e il platino. La domanda logica da porsi è se Oro Italia trading si fosse accorta di questo sistema fraudolento della quale lei per prima ne sarebbe uscita danneggiata e che, per quattro indagati, ha già portato a con condanne nel giudizio di primo grado mentre Pastorelli è indagato a piede libero in attesa di giudizio. Il Sole-24 Ore si è rivolto in due occasioni a Nuova Banca Etruria (del Gruppo Ubi Banca), chiedendo di avere risposte a questo e ad altri quesiti, oltre ad avere indicazioni, nel corso degli anni, sulle policy di trasparenza negli acquisti e nelle rendicontazioni contabili. Per ben due volte e nonostante una successiva sollecitazione, i vertici Ubi, che controlla Nuova Banca Etruria, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni limitandosi a rimandare alla breve comunicazione telefonica con la quale a metà maggio l'ufficio stampa di Nuova Banca Etruria aveva messo le mani avanti dicendo che «Pastorelli non è più da noi». Eppure se è lecito chiedere lumi, cortese dovrebbe essere rispondere soprattutto alla luce del fatto che il nome di Oro Italia trading – ormai senza Pastorelli da tempo – rispunta nell'indagine Melchiorre della Guardia di finanza di Torino del 14 febbraio 2017, anche se ancora una volta senza alcun coinvolgimento societario. Francesco Angioli è l'uomo considerato dalla Procura di Torino l'intermediario tra i clienti e i principali indagati accusati di comprare l'oro rubato e ripulirlo, per poi rimetterlo formalmente in commercio attraverso una società di diritto ungherese. Questo soggetto indagato, è un procacciatore d'affari che, scrive testualmente il Gip Elena Rocci a pagina 106 dell'ordinanza di custodia cautelare firmata il 13 ottobre 2016, nel periodo d'imposta 2014 risulta aver percepito redditi, tra gli altri, dalla Oro Italia trading spa «con la quale, evidentemente, collabora». Nulla di più naturale, dunque, se il procacciatore d'affari, si legge a pagina 109 del provvedimento, «dimostra di avere ottime entrature con Oro Italia trading, in particolare per lo stretto rapporto che dimostra di avere con Bernardini Francesco». Francesco Bernardini – che non è indagato – è il responsabile del comparto oro di Oro Italia trading ed è l'uomo che il 23 luglio 2013 lanciò sulla stampa specializzata il “conto oro”. Il 2 marzo 2016, alle 11.48 la sala intercettazioni della procura capta, tra le tante che coinvolgono le utenze telefoniche della società totalmente controllata da Nuova Banca Etruria, una conversazione che il Gip sintetizza così a pagina 71: «Mentre si trova all'interno della Gianluca Ciancio Srl (la società che secondo l'accusa si fa carico di acquistare e fondere l'oro), Angioli Francesco contatta la Oro Italia trading spa, al fine di parlare con Bernardini Francesco, responsabile del comparto oro di Banca Etruria». Deve convincere Ora Italia Trading che le spedizioni delle verghe aurifere partono da Torino e non dall'Ungheria, perché a Torino, alla Ciancio srl, il materiale viene testato. L'oro, però, non si sarebbe mai mosso da Torino e la triangolazione è apparente. «Dalle conversazioni — continua il gip — la prima delle quali avviene con Frati Paolo (non indagato, ndr), dipendente di Oro Italia Trading spa, si desume l'ulteriore modalità operativa adottanda, che vede nuovamente, quale destinatario finale del metallo aurifero raccolto, la Oro Italia Trading, nonché il procedimento per il ritiro e il trasporto dell'oro».
Oro Italia trading è iscritta dal 30 novembre 2000 al registro delle imprese di Arezzo come società di commercio all'ingrosso di metalli preziosi. Costituita con un capitale sociale di 500mila euro conta appena due dipendenti (la cui retribuzione complessiva è di 59.058 euro) sulle cui spalle grava un fatturato che nel 2016 ha registrato 314 milioni e perdite per 1,4 milioni. In termini quantitativi negoziati, Nuova Banca Etruria è passata da 4,52 tonnellate del 2015 a 8,06 del 2016 (+78% nell'intermediazione dell'oro) e da 42,2 tonnellate del 2015 a 45,7 del 2016 (+8% nell'intermediazione dell'argento). Una società cosi “snella” – nel numero di dipendenti ma che contempla in vero ben sei sindaci e tre amministratori – in realtà gestisce partite miliardarie, essendosi conquistata negli anni una leadership nazionale. Dopo la Banca d'Italia sarebbe l'istituto con in pancia il maggior quantitativo di riserve aurifere. La data di avvio della società non è casuale. Pochi mesi prima, il 17 gennaio 2000, il Parlamento ha infatti approvato la legge n 7, che ha rotto il monopolio delle banche sui metalli preziosi stabilendo che sul mercato possano operare anche altri intermediari autorizzati dalla Banca d'Italia. In questo caso la veste è cambiata ma è pur sempre una banca – attraverso il controllo totalitario – a operare nel settore. L'oro, per Nuova Banca Etruria, costituisce un asset fondamentale, al punto da avere conti correnti in valuta, la cui unità di misura è espressa in once di oro finanziario. Con questi appositi conti correnti è possibile effettuare bonifici in oro finanziario, regolare il pagamento delle rate del mutuo e, se supportato da una linea di fido, beneficiare di uno scoperto di conto. Nel 2016 è cresciuto lo stock di oro custodito nei caveau della banca e – come si legge a pagina 41 della relazione di bilancio – ciò ha contribuito a rafforzare ulteriormente la leadership dell'Istituto di credito nell'ambito dell'oro da investimento. Anche sul fronte dei lingotti di piccolo taglio (2, 5, 10, 20, 50 e 100 grammi), il 2016 si è rilevato un anno decisamente positivo per Nuova Banca Etruria. Sono state infatti circa 1.500 le pezzature vendute, per un totale di oltre 44 kg. Sul lato degli impieghi in oro, il dato mostra un totale di circa 104 milioni, di cui oltre 8 milioni rappresentati dai mutui in oro. Il dato, che risulta sostanzialmente invariato rispetto al 2015, è la sommatoria di due variabili che si sono mosse in direzioni opposte. Nel 2016 si è infatti assistito ad un incremento degli affidamenti in oro ad altre banche, che al 31 dicembre 2016 rappresentavano circa 20 milioni e al contempo ad una riduzione degli affidamenti al tessuto orafo produttivo. La più recente, del 1° aprile 2017, è stata condotta dal Nucleo di polizia tributaria della Gdf agli ordini del colonnello Peppino Abbruzzese. L'hanno battezzata “Groupage” e vedremo il perché di questo nome. Sotto la lente è finita una presunta organizzazione criminale, costituita da italiani e algerini, che comprava ingenti quantitativi di oreficeria “in nero” prodotta da aziende aretine e la vendeva – dietro pagamento in contanti – per l'esportazione nei Paesi del Nord Africa. Lo schema era semplice: un intermediario giungeva in volo in Italia dall'Algeria e soggiornava ad Arezzo per definire gli accordi contrattuali per l'acquisto di materiali preziosi. Trovato l'accordo commerciale, l'intermediario provvedeva a fare l'ordine della merce (appunto il cosiddetto “groupage”) per conto dei propri clienti (residenti in Paesi del Nord Africa) con le aziende orafe di Arezzo, veicolando l'ordinativo tramite alcuni operatori orafi aretini di provata fiducia, che provvedevano a ripartire l'ordinativo alle varie aziende compiacenti. Quando l'ordinativo era pronto, arrivavano ad Arezzo in auto uno o più corrieri algerini, che portavano il denaro contante necessario per l'acquisto dell'oreficeria ordinata e ritiravano la merce. Nella rete sono caduti, tra gli altri, due soggetti già noti agli investigatori. Uno è già finito nella “mamma” di tutte le inchieste aretine, Fort Knox. L'altro, nel 2012, risultò avere rapporti commerciali poco trasparenti con soggetti nord africani.
Nell'ambito di un'operazione condotta dalla Polizia di Melilla (Spagna) nel maggio del 2012, vennero arrestati due marocchini trovati in possesso di 140,232 chili di oreficeria, che venne sequestrata. I due soggetti, in sede di interrogatorio, dichiaravano di averla acquistata legalmente il 20 maggio dalla srl unipersonale di cui il soggetto entrato nuovamente nel radar della Giustizia è rappresentante legale. Il 20 dicembre 2016, il Nucleo Pt della Gdf di Arezzo ha invece portato alla luce, con l'operazione Iberia, un'altra presunta organizzazione criminale, stabilita in Spagna e con ramificazioni in Portogallo, Slovenia ed Italia. Tra gli indagati, a testimonianza che certi meccanismi sono rodati e possono far conto su un nocciolo duro di professionisti, una vecchia conoscenza già incrociata dalla Gdf nelle operazioni Argento vivo e Fort Knox. L'organizzazione, ricorrendo al sistema noto come “frode carosello”, secondo l'accusa avrebbe creato una fitta rete di aziende in quattro Paesi (Spagna, Portogallo, Italia e Slovenia) ed operanti nei settori degli idrocarburi e dei metalli preziosi che hanno permesso a una società iberica riconducibile ad un italiano e beneficiaria finale dell'illecito, di non versare l'Iva (circa 20 milioni) dovuta sui proventi del commercio di idrocarburi, in quanto compensata, indebitamente, con l'Iva detratta sugli acquisti documentati da fatture false prodotte dalle altre società del gruppo, operanti nel settore dei metalli preziosi che, ricoprono i ruoli di “cartiere” e/o “aziende filtro”. La Gdf, proseguendo le indagini, ha svelato il coinvolgimento nel sistema di frode anche di un'azienda aretina che, attraverso la vendita di oro puro, si prestava consapevolmente al riciclaggio di una parte dei proventi della frode perpetrata in territorio spagnolo nel biennio 2015/2016, nei confronti delle aziende spagnole e portoghesi riconducibili all'organizzazione. L'organizzazione, al fine di riciclare i cospicui proventi illeciti delle frode, oltre ad essere entrata nel circuito delle gare motociclistiche mondiali, attraverso la sponsorizzazione di due team spagnoli della Moto Gp Uno, stava tentando un'analoga infiltrazione in Italia attraverso la sponsorizzazione di un team automobilistico, che gareggia nel campionato mondiale Fia Wtcc (World touring car championship, meglio noto come campionato del mondo turismo). L'indagine condotta in collaborazione con il Gruppo di criminalità economica dell'Unità operativa centrale della Guardia Civil della Spagna, coordinata anche da Europol ed Eurojust, ha consentito di pervenire complessivamente in Italia alla denuncia a piede libero di quattro persone per i reati di associazione per delinquere, riciclaggio, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti, oltre al sequestro di 26,4 chili di oro puro per un controvalore di 924mila euro. In Spagna e Portogallo sono state arrestate 20 persone, oltre al sequestro di 50 chili di oro per un controvalore complessivo di oltre 1,7 milioni.
Banca Etruria, la preferita dalla P2. L'istituto di Arezzo tornato di recente al centro delle cronache economiche, giudiziarie e politiche ha un precedente di tutto rilievo: ospitava il conto di Licio Gelli per raccogliere le quote di adesione alla loggia, scrive Paolo Biondani il 6 marzo 2017 su "L'Espresso". Licio Gelli in una foto del 1988La massoneria nera ha inquinato la storia di Banca Etruria? Questo interrogativo, rilanciato con il tracollo dell’istituto di Arezzo e le polemiche contro il governo Renzi, è stato spesso drammatizzato dalle più fantasiose teorie complottistiche. Eppure una risposta chiara e documentata esiste da più di trent’anni: la Popolare dell’Etruria era la banca che custodiva il conto segreto della P2 di Licio Gelli. Il 17 marzo 1981, quando i magistrati di Milano scoprono la lista degli affiliati alla loggia, nell’ufficio di Gelli viene infatti sequestrato anche un libretto di risparmio, numero 218/G, nome in codice “Primavera”. In quegli anni i libretti al portatore, poi vietati dalle leggi anti-riciclaggio, erano il mezzo più usato per gestire fondi neri in modo anonimo. Gelli ha usato lo stesso sistema, appoggiandosi alla banca di Arezzo, per incassare e depositare, dal maggio 1977 al febbraio 1981, centinaia di versamenti che non poteva ufficializzare: le quote d’iscrizione pagate dagli affiliati. La commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Tina Anselmi indica proprio quel libretto, analizzato dalla Guardia di Finanza dopo aver perquisito la sede di Banca Etruria, come «una prova documentale inconfutabile» dell’affiliazione di almeno 276 piduisti. Tra quegli iscritti compaiono protagonisti dell’epoca come il banchiere Roberto Calvi o gli ufficiali dei servizi che depistarono le stragi nere, ma anche personaggi poi diventati ancora più potenti, tra cui Silvio Berlusconi. Gli atti dell’inchiesta P2 sono oggi consultabili anche su Internet grazie a una meritoria associazione per la memoria storica, la “Rete degli archivi per non dimenticare”. Gelli è morto nel 2015 dopo essere stato condannato in tutti i gradi di giudizio, tra l’altro, come principale responsabile e primo beneficiario della bancarotta da 1.192 miliardi di lire dell’Ambrosiano, il più grave crack bancario dell’Italia repubblicana. Ma per nascondere i soldi degli affiliati, il burattinaio della P2 si fidava solo di Etruria.
Derivati, Corte dei Conti: 4,1 miliardi di danni. Per la prima volta viene resa nota la ripartizione delle contestazioni tra Morgan Stanley (2,9 miliardi) e i dirigenti del Tesoro (1,2 miliardi) per i contratti rivelati da L'Espresso. Ora si attendono le argomentazioni dei soggetti chiamati in causa, scrive Luca Piana il 19 febbraio 2017 su "L'Espresso". Le parole più pesanti sono quelle pronunciate da Donata Cabras e da Massimiliano Minerva, procuratori della Corte dei Conti del Lazio: alcuni dei derivati sottoscritti dal Tesoro con la banca d'affari Morgan Stanley, che nel 2012 sono costati 3,1 miliardi di euro allo Stato, «evidenziavano profili speculativi». Dunque i contratti non potevano servire per l'unica finalità consentita dalle norme per questo genere di strumenti finanziari, e cioè la «ristrutturazione del debito pubblico», visto che «non è ammissibile per lo Stato assumere rischi rilevantissimi». Rischi speculativi che, invece, quei derivati avevano determinato. Pochi giorni dopo la pubblicazione da parte L'Espresso dei contratti firmati con Morgan Stanley, un nuovo colpo alla linea difensiva del Tesoro sui motivi che hanno spinto lo Stato a sottoscrivere contratti derivati con diverse banche, che stanno costando miliardi di euro alle casse pubbliche, è arrivato venerdì 17 febbraio dalla presentazione della relazione annuale della Corte dei Conti. Per la prima volta è stato quantificato il danno erariale complessivo ipotizzato dalla Procura per il caso Morgan Stanley, che sale a 4,1 miliardi: ai 3,1 miliardi di euro pagati dal Tesoro alla banca americana a inizio 2012, si sommano circa 700 milioni di euro di costo dei debiti fatti dal Tesoro per poter sostenere quei pagamenti, più altri 270 milioni di oneri finanziari versati negli anni precedenti la chiusura anticipata dei derivati, che la banca aveva deciso di esigere alla fine del 2011 e che vennero appunto pagati nei primi giorni dell'anno successivo. Della cifra complessiva, 2,9 miliardi sono stati chiesti all'istituto, mentre i restanti 1,2 miliardi vengono contestati ad alcuni dirigenti pubblici. I nomi non sono stati fatti ma, secondo fonti citate dall'agenzia Reuters, sarebbero confermati quelli di due ex ministri come Domenico Siniscalco e Vittorio Grilli, ai quali si aggiungono due dirigenti del Tesoro, Maria Cannata e Vincenzo La Via. Il procedimento della magistratura contabile non è ancora concluso: la banca e le persone coinvolte sono state invitate a presentare le loro argomentazioni, una fase necessaria per arrivare a eventuali contestazioni definitive.
Derivati, il nuovo scandalo: profitti miliardari delle banche sull'Alta velocità. L’Espresso ha rivelato nel numero scorso i contratti segreti che stanno seppellendo l’Italia sotto un mare di debiti. E mentre governo e banche continuano a tacere, lo scandalo non finisce: ecco come l'Italia ha perso una montagna di quattrini grazie alla finanza creativa dell'era di Tremonti e Siniscalco, scrive Luca Piana il 19 febbraio 2017 su "L'Espresso". Nei pochi dati che il Tesoro ha iniziato a diffondere per rispondere alle pressioni dell’opinione pubblica sui prodotti derivati che stanno costando ai cittadini italiani miliardi e miliardi di euro, ce n’è uno che pochi finora hanno potuto approfondire. È contenuto nel rapporto annuale sul debito pubblico che i tecnici del ministro Pier Carlo Padoan hanno cominciato a redigere dopo le richieste arrivate dal parlamento. In poche righe molto scarne si dice che esiste una specifica categoria di derivati su cui il Tesoro sta perdendo 1,3 miliardi di euro. I numeri più aggiornati sono fermi a fine 2015 e possono sembrare poca cosa rispetto al buco potenziale di tutti i contratti sottoscritti dal governo, che arriva a 36,6 miliardi. Ma non è questo il punto. Il problema è che quel genere di derivati, chiamati dal ministero “ex Ispa” e ben poco spiegati nello stesso rapporto annuale, nasconde una di quelle vicende che solo l’Italia sembra capace di regalarsi. Lo rivelano, ancora una volta, i contratti firmati dal Tesoro con Morgan Stanley, che l’Espresso ha pubblicato in esclusiva la scorsa settimana. La banca americana faceva parte di un pool di istituti che si erano infilati in un’operazione voluta da Giulio Tremonti, l’ex ministro dell’Economia dei governi di Silvio Berlusconi che oggi ama cavalcare l’onda anti-establishment di Donald Trump. “Ispa” era infatti il nome contratto di una società battezzata nel 2002, chiamata “Infrastrutture Spa”, che nei programmi di Tremonti avrebbe dovuto finanziare la costruzione dell’Alta Velocità fra Torino e Napoli. In quegli anni il ministro più potente dell’era berlusconiana aveva varato diversi progetti che i sostenitori amavano dipingere come «innovativi», mentre ai critici sembravano piuttosto «creativi». In breve: Ispa nasce sotto il controllo di una società pubblica (la Cassa Depositi e Prestiti), viene dotata di un suo patrimonio e, forte di quello, formula un piano di finanziamento sul mercato per prestare 25 miliardi di euro al progetto dell’Alta Velocità. Nel frattempo, mentre compie questi passaggi, non manca però di sottoscrivere con alcune banche d’affari una montagna di derivati, sui quali - secondo un copione che sembra ripetersi sempre uguale a se stesso - finirà per perdere un sacco di quattrini. Anzi, come vedremo, non saranno l’Ispa o la controllante Cassa Depositi a doversi sorbire la fetta più consistente delle perdite bensì, anche in questo caso, direttamente lo Stato italiano. A ben guardare, con la costruzione dei binari dei futuri Frecciarossa, l’intera operazione ha poco a che fare. Fin da subìto, infatti, l’operazione viene letta dagli osservatori come un modo per spostare fuori dai conti pubblici - o almeno da quelli rilevanti ai fini delle regole europee - i debiti fatti per compiere le opere. A erigere viadotti e scavare tunnel pensano infatti altri soggetti, mentre Infrastrutture Spa, stando al mandato, deve trovare i soldi necessari. Morgan Stanley entra in gioco nel 2003, quando assieme a due altre banche - la svizzera Ubs e l’italiana Mediocredito Centrale - partecipa alla progettazione di un piano di finanziamento da 25 miliardi di euro. Come abbiamo detto, dell’operazione che Tremonti cuce addosso a Ispa fanno parte anche dei derivati, che nelle intenzioni dichiarate dovrebbero servire per coprire i rischi di un’evoluzione negativa dei tassi d’interesse o dei cambi. La Corte dei Conti, in una relazione dai toni molto duri redatta più tardi, ne conterà ben undici, per un valore nominale di 5 miliardi di euro. Sono quasi tutti datati 2005, anche se per alcuni contratti prevedono che le parti firmatarie inizino a scambiarsi i flussi di pagamento stabiliti dagli accordi molti anni più tardi, addirittura nel 2026. Morgan Stanley, con cinque contratti, fa la parte del leone, seguita da Lehman Brothers e Ubs con due e da J.P.Morgan e Ubs con uno. Non si può dire che per Tremonti e per il successore Domenico Siniscalco, che prenderà il posto del professore di Sondrio il 16 luglio 2004, restituendogli la poltrona il 22 settembre 2005, i derivati Ispa rappresentino una medaglia da appuntarsi sul petto. Calcola la Corte dei Conti che, nei pochi anni in cui sono rimasti in carico alla società controllata dalla Cassa Depositi quei prodotti siano costati alla società un flusso di interessi netto negativo per 126 milioni di euro. Poi, alla fine del 2006, il nuovo governo di Romano Prodi decide di smantellare Ispa, trasferendo i debiti della società direttamente al Tesoro. L’operazione avviene sotto una forte pressione da parte dell’allora numero uno delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, il quale sostiene che il gruppo ferroviario rischia di fallire: i canoni pagati da Trenitalia e dalle altre compagnie di trasporto per l’utilizzo della Rete ferroviaria erano infatti congelati presso Ispa, che li utilizzava come leva per indebitarsi. Moretti vuole rientrare in possesso di quella liquidità, e nella finanziaria per il 2007 il governo toglie di mezzo Ispa. Ma qui, dove inizia il secondo capitolo della storia, avviene il patatrac. Già per la defunta Infrastrutture Spa, i derivati fatti con Morgan Stanley erano quelli che stavano causando il maggior esborso in termini d’interessi. Quando vengono trasferiti al Tesoro, per certi versi la situazione peggiora ulteriormente. Nel contratto originario fra la banca e Ispa, infatti, non esisteva la tanto discussa clausola presente invece nell’accordo quadro che all’epoca regolava tutti i derivati sottoscritti con Morgan Stanley dal Tesoro. Si tratta del cosiddetto “master agreement” del 1994, i cui contenuti sono stati rivelati dall’Espresso nel numero di domenica scorsa. Che cosa dice la clausola? Che l’istituto di New York può chiedere la chiusura di tutti i contratti in essere con il governo italiano, se il valore di mercato complessivo degli stessi supera la soglia di 50 milioni di dollari. Ebbene, nel 2007 quella stessa quota di 50 milioni è già stata superata, quindi Morgan Stanley è già tecnicamente nelle condizioni di esigere la chiusura anticipata dei contratti - anche se la loro scadenza naturale è prevista trent’anni più tardi - incassando il valore di mercato. Eppure i derivati ex Ispa vengono lo stesso trasferiti al Tesoro, e il valore della clausola contestata viene esteso anche a loro. Il passaggio è cruciale. Per fare un paragone, è come se Morgan Stanley si ritrovasse in mano un asso che prima non aveva, che gli dà la possibilità di far saltare il banco: anche sui derivati ex Ispa, infatti, ha ora la possibilità di incassare tutto e subito un valore di mercato che, in teoria, il passare del tempo e il cambiamento delle condizioni di mercato potrebbe diminuire in misura sostanziale. Ma perché il Tesoro ha accettato di estendere una clausola tanto sfavorevole anche a contratti che prima ne erano privi, accrescendo il rischio di vedersi chiedere un maxi esborso? È questo l’aspetto che, nell’intera vicenda, colpisce maggiormente. È infatti solo nel 2007, quando si accollano i contratti di Infrastrutture Spa, che i dirigenti del Tesoro dicono di accorgersi dell’esistenza di quel codicillo presente negli accordi del 1994. «Ci siamo accorti della clausola quando abbiamo dovuto trasferire le posizioni ex Ispa nel nostro portafoglio. Personalmente non (ne) avevo conoscenza sino al momento in cui non abbiamo dovuto assorbire quel pacchetto di contratti», dirà la responsabile della direzione debito pubblico del Tesoro, Maria Cannata, durante una testimonianza, i cui contenuti sono citati dal perito incaricato dalla procura di Roma di esaminare i contratti, Ugo Pomante. Nella sua perizia, scritta nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria chiusa con l’archiviazione, Pomante critica la «mancata gestione» di un problema come quello rappresentato dalla soglia di 50 milioni di dollari, che invalida qualsiasi logica possa avere, per uno Stato, il sottoscrivere strumenti finanziari come i derivati, conosciuti per la loro portata speculativa e per i rischi che si portano appresso. Ma c’è di più: anche dopo aver assorbito i contratti ex Ispa, i dirigenti del Tesoro non paiono preoccupati dal fatto di aver ormai superato il livello critico, e di essere dunque nelle condizioni in cui Morgan Stanley può passare all’incasso: «C’è sempre stata la convinzione che la clausola non era da esercitarsi (…) si era convinti e certi che la stessa non sarebbe mai stata attivata», dichiarerà Maria Cannata nella testimonianza già citata. Sui mercati finanziari, fare troppe previsioni espone sempre al rischio di essere smentiti dai fatti. E, in effetti, alla fine del 2011, la banca americana compie l’atto che i dirigenti del Tesoro dicevano di non aspettarsi: comunica di voler chiudere i contratti e esige il pagamento di 3,1 miliardi di euro, che verrà effettuato all’inizio del 2012 dal governo di Mario Monti, insediatosi da poche settimane e alle prese con una durissima crisi finanziaria. Badate bene: lo fa quando il valore di mercato dei derivati in essere è di 3,5 miliardi di dollari, settanta volte la soglia di allarme che già le dava la possibilità di esercitare la clausola. Tra gli altri, viene chiuso anche uno degli “Interest rate swap” ereditati da Ispa. Il contratto originario del 2005 prevedeva che, per un periodo di vent’anni, fino al 2026, la società a controllo pubblico pagasse una somma annuale pari al 5,48 per cento su un valore nominale di 1 miliardo di euro (ovvero 54,8 milioni). Contestualmente, Morgan Stanley le avrebbe versato una somma pari al tasso di mercato Euribor, maggiorato dello 0,235 per cento. Queste stesse identiche condizioni vengono trasferite anche nel contratto, firmato l’11 luglio 2007, in cui il Tesoro subentra a Ispa. Quello che cambia, è la clausola di chiusura anticipata che Morgan si ritrova in mano. Prima, per incassare i profitti generati dall’operazione, avrebbe dovuto arrivare anno dopo anno fino al 2026, aspettando che anno dopo anno affluissero gli interessi pagati dal Tesoro. Ora, invece, può calare l’asso, come fa alla fine del 2011, costringendo il governo italiano - per quel singolo Interest rate swap che proviene dall’Ispa - a sborsare sull’unghia 305,9 milioni. Questi trecento e passa milioni potrebbero sembra un’eredità sufficiente della finanza creativa dei primi anni Duemila. Purtroppo, però, non è finita qui. Per capirlo basta tornare al dato citato all’inizio dell’articolo: sui derivati ex Ispa le perdite potenziali sono ancora pari a 1,3 miliardi di euro. Che cosa vuol dire? Significa che da qui a quando scadranno tutti i derivati della defunta società, in base alle attuali condizioni di mercato, il governo dovrà sborsare interessi netti per 1,3 miliardi di euro. Quando finirà questo stillicidio non si sa, perché il Tesoro non ha mai comunicato quali dei contratti originali con Lehman Brothers, Ubs, Depfa, J.P. Morgan e di quelli residui con Morgan Stanley sono effettivamente terminati o, magari, sono stati ristrutturati. In teoria, alcuni di quei vecchi contratti sarebbero scaduti soltanto nel 2045. Quando i Frecciarossa correranno sui binari dell’Alta Velocità ormai da quasi quarant’anni.
Derivati, ecco i contratti segreti che hanno svenduto l’Italia alle banche. Pubblichiamo per la prima volta i contratti con la banca americana Morgan Stanley che nel 2013 ci sono costati più di tre miliardi di euro. Sull'Espresso in edicola domenica 12 l'inchiesta integrale, scrive Luca Piana il 10 febbraio 2017 su "L'Espresso". Cade il segreto che le istituzioni hanno cercato di porre per impedire la divulgazione dei contratti derivati fatti dal Tesoro con le banche d'affari, e che stanno costando miliardi di euro alle casse pubbliche. Nel numero in edicola domenica 12 febbraio, L'Espresso pubblica infatti per la prima volta i contratti che nei primi giorni del 2012 hanno costretto il governo di Mario Monti a versare 3,1 miliardi di euro alla banca americana Morgan Stanley, per effetto di strumenti finanziari ad alto rischio che erano stati sottoscritti negli anni precedenti. Si tratta di quattro famiglie di derivati molto complessi, che l'istituto ebbe la facoltà di terminare in largo anticipo rispetto alla data di scadenza prevista, per effetto di una discussa clausola di chiusura anticipata prevista in un vecchio accordo del 1994, mai esercitata in precedenza. Nei dettagli i contratti chiusi erano due “Interest rate swap” e due “swaption”, che vengono descritti nell'articolo dell'Espresso assieme ad altri documenti relativi ai rapporti fra il Tesoro e Morgan Stanley. Ci sono i memorandum con i quali, proprio in concomitanza con l'avvicendamento a Palazzo Chigi tra il premier uscente Silvio Berlusconi e Monti, la banca americana comunicava al governo la decisione di rientrare di una cifra di 3,5 miliardi di dollari. E ci sono i contenuti di una perizia richiesta dalla procura di Roma nel corso di un'indagine giudiziaria avviato nel 2015 e poi archiviato. Il professor Ugo Pomante, l'esperto interpellato dai magistrati romani, nella sua ricostruzione sostiene che per effetto di quella clausola del 1994 i vertici del Tesoro avrebbero dovuto astenersi dal fare nuovi contratti con Morgan Stanley. Al contrario negli anni che vanno dal 2004 al 2008 vennero rinegoziati derivati precedenti o ne vennero fatti di nuovi, come dimostrano i documenti rilevati da L'Espresso, perché i vertici del Tesoro non erano a conoscenza o sottovalutarono gli effetti della clausola in mano alla banca americana.
Deriva di Stato, i contratti segreti che hanno svenduto l'Italia alle banche. Pubblichiamo per la prima volta i contratti con la banca americana Morgan Stanley che nel 2013 ci sono costati più di tre miliardi di euro. Il governo li ha sempre nascosti. L’Espresso ora li rivela, scrive Luca Piana il 13 febbraio 2017 su “L’Espresso”. Il linguaggio è l’inglese standard delle banche d’affari. I termini utilizzati sono spesso tecnici, com’è naturale quando si tratta di strumenti finanziari complessi. Le cifre in gioco appaiono astronomiche, un miliardo di dollari, un miliardo e mezzo di sterline: tre miliardi di euro. Soprattutto, però, ci sono tutti gli elementi per ricostruire un suicidio finanziario a cui l’Italia si è sottoposta, accettando di incassare alcune decine di milioni di euro come contropartita di contratti che, nel giro di pochi anni, l’hanno poi costretta a sborsare trenta volte tanto. Si presenta così, in un fascicolo di quasi 300 pagine, la soluzione a uno dei misteri meglio custoditi d’Italia: gli strumenti derivati sottoscritti dal Tesoro con alcune banche internazionali che, anno dopo anno, stanno costando alle casse pubbliche un flusso ininterrotto di perdite miliardarie. Per la prima volta, infatti, l’Espresso è in grado di pubblicare i contenuti di un pacchetto di contratti che nei primi giorni del 2012 misero il governo di Mario Monti con le spalle al muro, costringendolo a versare 3,1 miliardi di euro nelle casse della banca americana Morgan Stanley. Quando la notizia trapelò, a dispetto dei tentativi del Tesoro di far passare l’operazione sotto silenzio, la questione dei derivati esplose con virulenza, determinando indagini parlamentari, inchieste da parte della magistratura e dando il via a un accertamento da parte della Corte dei Conti, che sta valutando una richiesta danni miliardaria. Nonostante il pressing dell’opinione pubblica, però, fino a oggi i contratti siglati dallo Stato con Morgan Stanley o con le altre banche internazionali non hanno mai passato la barriera di riservatezza eretta dal Tesoro. Il governo e le istituzioni respingono le richieste che arrivano da più parti per poterli visionare, al fine di capire come ha fatto il ministero a impelagarsi in una serie di operazioni finanziarie che diversi osservatori giudicano eccessivamente rischiose. I derivati, infatti, sono strumenti che permettono a chi li sottoscrive di muovere cifre enormi, impegnando un capitale iniziale ridotto. Possono avere una loro utilità, se concepiti per proteggersi dagli scossoni dei mercati. Ma possono anche rivelarsi estremamente rischiosi, se utilizzati con un fine speculativo. Di qui gli interrogativi che sono nati sull’operato del Tesoro: soltanto nel quinquennio dal 2011 al 2015, stando agli ultimi dati noti, i derivati hanno avuto un impatto negativo sui conti pubblici di 23,5 miliardi di euro, fra interessi netti pagati alle banche e altri oneri connessi. E ancora: gli ultimi conteggi disponibili dicono che gli strumenti tuttora in essere nel portafoglio del Tesoro presentano perdite potenziali per ulteriori 36 miliardi di euro. Fatti due conti si può dedurre che al governo di Paolo Gentiloni basterebbe non avere questa zavorra per evitare la manovra di aggiustamento da 3,4 miliardi di euro che l’Unione europea ha chiesto all’Italia. Alla luce di questi numeri, in molti hanno provato a capire che cos’è davvero successo in questa zona segreta dell’attività dello Stato. Con un’azione pilota, il giornalista Guido Romeo, fondatore della onlus “Diritto di sapere”, ha chiesto di accedere ai contratti prima al Tesoro, poi al Tar del Lazio, infine al Consiglio di Stato. Niente da fare, su tutti e tre i fronti. Nel 2015 la Commissione Finanze della Camera ha condotto un’indagine conoscitiva sul fenomeno, senza ottenere i documenti. Infine un gruppo di parlamentari del Movimento 5 Stelle si è rivolto alla Commissione che a Palazzo Chigi regola l’accesso agli atti della pubblica amministrazione. Zero risultati. Oggi, finalmente, eccoli. Quando Morgan Stanley bussò alla porta del neo-premier Mario Monti, nelle ultime settimane del 2011, era un periodo già di per sé difficile: la crisi dello spread stava mettendo a dura prova i conti pubblici e molti paventavano un default dell’Italia. Il maxi esborso da 3,1 miliardi di euro fece sensazione ma, da quel momento, le preoccupazioni non sono diminuite, viste le nuove perdite che sono andate materializzandosi su altri derivati. Le banche coinvolte in questo genere di operazioni sono diciannove, da J.P. Morgan a Ubs, da Deutsche Bank a Goldman Sachs, stando a una lista diffusa qualche tempo fa dal ministero. Ma al di là dei nudi nomi, poco si sa. Non sono note le posizioni del Tesoro con ognuno degli istituti interessati, con quali ci sta guadagnando e con quali perdendo, quali motivi hanno determinato la scelta di firmare alcuni specifici contratti e quali analisi di rischio sono state condotte prima di farlo. Ecco perché il caso Morgan Stanley, al di là del tempo trascorso, resta di grandissima attualità. Quei derivati ormai chiusi rappresentano infatti la punta di un iceberg costituito da decine e decine di contratti per ora ignoti, che i vari governi hanno sempre voluto mantenere il più possibile sotto il pelo dell’acqua. «La divulgazione», è la posizione espressa da Pier Carlo Padoan, ministro dell’Economia, «avrebbe riflessi pregiudizievoli che determinerebbero uno svantaggio competitivo» dell’Italia rispetto alle banche e agli «altri Stati che fanno uso di questi strumenti». Tuttavia, anche senza rivelare i particolari più minuti, nel faldone di documenti che hanno portato al maxi esborso del 2012 balzano agli occhi alcuni aspetti che meriterebbero risposte più precise. I contratti che hanno determinato il maxi salasso di cinque anni fa sono principalmente quattro. Due sono di un genere chiamato “interest rate swap”, spesso indicato con le iniziali “Irs”; gli altri due nel gergo finanziario vengono invece definiti “swaption”. L’Irs è un accordo che vincola le due parti a scambiarsi un flusso d’interessi, a scadenze e tassi prefissati. Nel più tipico dei casi, il Tesoro si impegna una volta l’anno a versare alla banca un tasso fisso pari, ad esempio, al 4 per cento di una cifra indicata come riferimento (tipo un miliardo di euro); la banca al contrario versa al Tesoro un tasso variabile, ad esempio l’Euribor. Se l’Euribor vale più del 4 per cento, ci guadagna lo Stato; se vale meno, la banca. A questa struttura, le swaption aggiungono un tassello. Si tratta di opzioni che il Tesoro ha venduto alle banche e che, in un momento successivo, permetteranno loro di entrare in un Irs o in un altro genere di swap, a tassi definiti già in partenza. Ovviamente, quando l’opzione sarà esercitabile, la banca lo farà solo se le condizioni di mercato saranno a lei favorevoli. I documenti che l’Espresso ha potuto consultare, in realtà, mostrano che le operazioni intraprese con Morgan Stanley non sono state fissate una volta e mai più toccate. I contratti sono infatti stati ridiscussi a più riprese, in alcuni casi quando la versione precedente aveva poche settimane di vita. È quindi più corretto parlare di quattro “famiglie” di derivati, incatenati l’uno all’altro. Anche qui il lessico della finanza prevede una parola ad hoc: si dice che i contratti vengono “ristrutturati”, cioè che le condizioni vengono modificate cambiando l’entità degli interessi, piuttosto che la durata. Perché in alcuni casi questo sia avvenuto nel giro di pochissimo tempo, accrescendo in misura sensibile i rischi a cui il Tesoro si sottoponeva, è uno dei misteri che la semplice lettura degli atti non chiarisce. Per inquadrare bene i fatti, bisogna partire dalla fine, e cioè dai drammatici giorni di metà novembre 2011 in cui stava cadendo l’ultimo governo di Silvio Berlusconi. Con i mercati in subbuglio e il fiato dei grandi organismi internazionali sul collo del successore Monti, Morgan Stanley invia al Tesoro una serie di sei memorandum «strettamente privati e confidenziali» nei quali affronta una discussione delicata. Il primo è datato 14 novembre, il giorno stesso dell’incarico di governo a Monti, l’ultimo risale invece al 20 dicembre. In quei documenti la banca americana sottopone ai dirigenti del ministero dell’Economia la decisione di esercitare una clausola presente in un vecchio accordo di 18 anni prima, datato 10 gennaio 1994, chiudendo anticipatamente tutti i contratti derivati sottoscritti da allora con il Tesoro e incassando sull’unghia svariati miliardi di dollari. Che cosa diceva quella clausola? La risposta si trova nel documento originale del 1994, anzi in un allegato del cosiddetto “Isda master agreement”, una specie di accordo quadro firmato quando il direttore generale del Tesoro era Mario Draghi, oggi presidente della Banca centrale europea. A pagina 7 dell’allegato è esplicitato quello che viene definito “Exposure Limit”. Semplificando al massimo, il senso è questo: se il valore di mercato dei derivati sottoscritti con il Tesoro è favorevole a Morgan Stanley e supera la soglia di 50 milioni di dollari, la banca può decidere di chiudere in anticipo tutti i contratti, esigendo dal governo il pagamento dell’intera cifra. Per inquadrare bene il peso specifico di questa clausola, bisogna capire che cos’è il valore di mercato di un derivato, detto anche “mark to market”. Come abbiamo visto in precedenza, questo genere di strumenti prevede uno scambio di quattrini fra le due parti. Il valore di mercato del contratto, dunque, è la stima del flusso netto dei pagamenti che avverranno fra il Tesoro e la banca per l’intera durata del derivato, calcolato in base alle attuali condizioni di mercato. Quando si dice che il “mark to market” dei derivati del Tesoro è negativo per 36 miliardi, significa che, con le correnti condizioni dei tassi, il governo durante la vita residua dei contratti pagherà alle banche 36 miliardi in più di quanto riceverà da loro in termini di interessi. Le condizioni di mercato naturalmente variano, e il Tesoro ha sempre sostenuto che parlare di perdite future è fuorviante, perché la situazione potrebbe migliorare. Vero, come però è altrettanto vero che gran parte di quelle perdite sono attese verificarsi negli anni più prossimi, quando la probabilità che effettivamente si concretizzino è più elevata. Ecco il punto: quando Morgan Stanley si rivolge al Tesoro, nel novembre 2011, il valore di mercato dei derivati supera già in maniera abnorme la soglia di 50 milioni di dollari definita nel 1994. Il dettaglio viene messo nero su bianco in uno dei rari documenti scritti in italiano nella corrispondenza fra le due parti, un memorandum datato 22 novembre 2011. In questo appunto vengono elencati sei contratti che la banca intende chiudere o trasferire a altre controparti, il cui valore di mercato è negativo per il Tesoro per 3,5 miliardi di dollari, settanta volte il livello d’allarme di 50 milioni indicato nel “master agreement” di 18 anni prima. Date le sue dimensioni, è del tutto evidente che quel “buco” non si era formato nel giro di pochi giorni, ma in un periodo ben più lungo, e che quota 50 milioni era stata superata già da diversi anni. Perché allora la banca americana ha aspettato così tanto tempo per presentarsi all’incasso? E perché il Tesoro ha lasciato che il “mark to market” dei derivati sottoscritti con Morgan Stanley si gonfiasse fino a un livello così insostenibile ma nel frattempo, come vedremo più avanti, non ha smesso di fare nuovi contratti con l’istituto? Nei documenti della banca americana una risposta alla prima domanda si rintraccia in una lettera spedita a cose fatte a Maria Cannata, responsabile della direzione debito pubblico del Tesoro, nella quale Morgan Stanley sostiene che le autorità degli Stati Uniti e della Gran Bretagna avevano acceso un faro sui rischi presenti nel suo portafoglio, di fatto chiedendo all’istituto di esercitare la clausola per mettere al sicuro i profitti maturati. La lettera, inviata su richiesta della stessa Cannata, si chiude con una frase che suona come un atto di disponibilità, dopo una vicenda che al Tesoro doveva essere rimasta sullo stomaco: «Speriamo di lavorare con voi per raggiungere una soluzione accettabile per entrambi». Più difficile da digerire rischia di essere la risposta alla domanda sul perché il Tesoro non aveva smesso di fare derivati con l’istituto, quando già erano state superate le condizioni della clausola che metteva Morgan Stanley in una posizione di forza. Si tratta di un fatto importante, perché invalida qualsiasi motivazione tecnica potessero avere i contratti: che senso ha stipulare un accordo che dovrebbe, ad esempio, garantire il Tesoro da un’evoluzione indesiderata dei tassi o dei cambi, se già al momento della firma la banca è nelle condizioni di chiudere il contratto e esigere il pagamento del valore di mercato? Per spiegare ciò che sembra apparentemente inspiegabile, bisogna ricorrere a un documento diverso dai contratti e dalle lettere della banca. Si tratta di una perizia scritta all’inizio del 2015 per la procura di Roma da un professore dell’Università di Tor Vergata, Ugo Pomante. I magistrati della capitale avevano avviato un’indagine nei confronti di Monti e Padoan sul caso Morgan Stanley, sollecitati dalle denunce presentate da due associazioni dei consumatori, Adusbef e Federconsumatori. L’indagine si è conclusa con una richiesta di archiviazione, accolta dal Tribunale dei ministri, ma la perizia presenta lo stesso alcuni passaggi di grande interesse, che fanno nascere un dubbio: al Tesoro non tutti erano a conoscenza della clausola incriminata. E chi doveva occuparsene, forse non ne ha valutato le conseguenze con la necessaria attenzione. Nella sua perizia Pomante non esclude che, al momento del master agreement del 1994, la clausola avesse una sua legittimità. Osserva però che una soglia così bassa com’erano i 50 milioni di dollari rendeva necessario come minimo un monitoraggio costante della situazione dei contratti, al fine di essere coscienti dei rischi che si correvano. E sostiene che, una volta avvicinata la soglia, il Tesoro avrebbe dovuto «evitare di stipulare nuovi contratti con Morgan Stanley, in quanto ciò avrebbe accresciuto il valore nominale complessivo dell’esposizione in derivati, accrescendo di conseguenza il rischio di allontanarsi ulteriormente dalla soglia stessa». Il problema, dice il perito, è che, in base alla documentazione esaminata, nessuno sembra aver preso in considerazione le possibili conseguenze del contratto. «È lecito ipotizzare che tale indifferenza sia figlia del fatto che il Ministero dell’Economia ignorasse l’esistenza della suddetta clausola», scrive Pomante, citando una testimonianza di Maria Cannata, nella quale la dirigente sostiene di «non aver avuto conoscenza di tale clausola sino al momento in cui il Tesoro ha dovuto assorbire il pacchetto di contratti della ex Infrastrutture Spa», e cioè nel luglio 2007. A conferma di una mancata valutazione che si è rivelata fatale, Pomante cita anche una e-mail inviata alla stessa Cannata da un altro funzionario del Tesoro, Fabrizio Tesseri: «Ritengo doveroso sottolineare come ci si sia ritrovati in questa “difficile” situazione per l’esistenza stessa della clausola (…) per la mancata enfasi posta dalla controparte sull’importanza della stessa fino a pochissimo tempo fa», scrive Tesseri nel documento, sottolineando - con tanto di punto esclamativo finale - come «con altre controparti abbiamo lavorato anni per l’eliminazione di clausole ben meno importanti!». Dopo gli appartamenti e le polizze vita a insaputa dei beneficiari, scopriamo così che in Italia esistono anche i contratti con clausole ignote a chi dovrebbe gestirli. Da altre testimonianze già emerse in precedenza, si sa che il Tesoro si è sempre detto convinto che quella clausola non sarebbe stata esercitata e che la soglia di 50 milioni di dollari era già stata superata «da almeno dieci anni», come ha avuto modo di raccontare Maria Cannata. Mettendo insieme questi elementi con quelli che emergono ora dai documenti esaminati dall’Espresso, dunque, il problema è che gran parte del salasso di 3,1 miliardi subìto dal Tesoro nei primi giorni del 2012 è dovuta a derivati stipulati o rinegoziati in anni in cui la clausola era, per così dire, già “attivata”. E avrebbe dovuto, di conseguenza, sconsigliare la firma di nuovi accordi con la banca americana. Nel dicembre 2003, ad esempio, viene rinegoziata una swaption venduta a Morgan Stanley nel 1999. Anche qui è necessario semplificare un po’, perché si tratta di accordi molto complessi. Il vecchio contratto permetteva alla banca di entrare, a partire dal 2014, in un Irs del tipo classico: se lo avesse esercitato, Morgan Stanley per i successivi 25 anni avrebbe pagato al Tesoro un tasso variabile pari al Libor a 6 mesi su un valore nominale di un miliardo di sterline, incassando in cambio un fisso pari al 5 per cento. Quando dopo quattro anni il contratto viene rinegoziato, il Tesoro sembra fare una scommessa ancora più impegnativa su un futuro andamento rialzista dei tassi. Posticipa al 2028 la data in cui Morgan Stanley potrà esercitare la swaption; allunga la durata dello swap che ne nascerebbe di altri cinque anni, portandola a complessivi trent’anni; e soprattutto gonfia da 1 a 1,5 miliardi di sterline il valore nominale a cui si applicano i tassi per determinare i pagamenti che ne verrebbero. Una serie di rinegoziazioni caratterizza anche un’altra swaption, venduta dal Tesoro nel 2002, modificata leggermente nel settembre 2006 e in maniera più radicale appena due anni più tardi, nell’agosto 2008. Anch’essa verrà chiusa, esattamente come la precedente, con l’accordo di fine 2011, con un pesante esborso per il Tesoro. Dalla lettura dei contratti e dalle considerazioni di Pomante emerge una possibile ragione di questi due contratti. Entrambi sono collegati a altri derivati, degli swap sulle valute. Vendere le opzioni a Morgan Stanley, una mossa che il perito definisce «poco prudente», aveva come contropartita una riduzione degli oneri che il Tesoro pagava su questi ulteriori swap. Sta di fatto che, come abbiamo visto dal memorandum del 22 novembre 2011, tutti e quattro i contratti alla fine presentavano valori di mercato fortemente negativi per il Tesoro (in totale: oltre 2 miliardi di dollari), che è stato costretto a sborsare cifre consistenti per chiudere entrambe le swaption e rimodulare i contratti sulle valute. Insomma, in cambio di un beneficio di cassa immediato, il ministero ha accettato di caricarsi di rischi che, al dunque, gli si sono scatenati contro. Certamente poteva andare diversamente ma, come osserva Pomante, per coprirsi dai rischi le opzioni andrebbero comprate, non vendute. Questa strategia traspare in maniera ancora più evidente dal più pesante dei contratti che Morgan Stanley ha deciso di chiudere in quelle prime, durissime settimane del governo Monti. L’operazione nasce il 12 luglio 2004, quattro giorni prima che l’allora premier Berlusconi promuovesse ministro dell’Economia il professore torinese Domenico Siniscalco, che conserverà insieme alla nuova carica quella di direttore generale del Tesoro, dove l’aveva portato Giulio Tremonti. Visti a posteriori, i termini dell’operazione mettono i brividi. Il Tesoro vende all’istituto americano una swaption che potrà essere esercitata appena un anno più tardi, il 26 agosto 2005. Passano poche settimane e il 28 ottobre l’opzione viene rinegoziata, cambiando in parte i termini dell’Irs che Morgan Stanley potrà imporre esercitandola. Se con il primo contratto il valore nominale a cui applicare i tassi era pari a 2 miliardi di euro, con il secondo sale a 3 miliardi. Questo significa che aumenteranno in maniera cospicua i flussi d’interessi che le due parti si scambieranno ma è chiaro che la banca ha il coltello dalla parte del manico: eserciterà la swaption soltanto se i tassi saranno a sua favore, dando vita a un contratto che legherà le due parti fino al 2035. Ma perché il Tesoro si è invischiato in un’operazione del genere? Forse per i premi che ha incassato: 29 milioni con la vendita della prima opzione, più altri 18 con la rinegoziazione. Il totale fa 47 milioni. Purtroppo l’estate successiva i nodi vengono al pettine: Morgan Stanley esercita la swaption, entra in un Irs che al Tesoro costa moltissimo: alla fine del 2011 il suo valore sarà negativo per 1,57 miliardi di dollari. Per chiuderlo la banca americana esigerà l’intera cifra, incassando 1,35 miliardi di euro. Quale poteva essere la ratio di una simile operazione? Il professor Pomante tenta un’interpretazione: «Può essere una strategia di gestione del debito pubblico in grado di definire, in ipotesi di esercizio dell’opzione, un tetto massimo all’indebitamento a tasso fisso in euro». Una sottigliezza che si scontra con un conto più banale ma, forse, non meno vero: nel 2004 il Tesoro ha voluto incassare 47 milioni di euro, puntando sul fatto che i tassi sarebbero saliti. Non è successo, e la scommessa gli è costata una perdita pari a 33 volte tanto. La lettura dei contratti originali, dunque, fa nascere molti interrogativi. Uno di questi riguarda la natura della riservatezza che il Tesoro ha imposto sui derivati. Il ministro Padoan, che dalla sua ha il merito di aver rinunciato a questo genere di strumenti, limitandosi a ristrutturare quelli che i predecessori gli hanno lasciato in scomoda eredità, ha certamente le sue ragioni per motivare il rifiuto. Ma resta forte il sospetto che qualcosa, negli anni della finanza creativa, non abbia funzionato. E per scardinare il segreto un suggerimento potrebbe venire proprio dalla clausola di riservatezza presente nel già citato allegato del “master agreement” del 1994. Dice che i contenuti dell’accordo possono essere divulgati solo con l’autorizzazione di Morgan Stanley. Ma che la “parte B”, ovvero il Tesoro, può divulgarli se a chiederli sono alcune istituzioni, fra le quali è citato un “order” di un “legislative body”. Forse, dunque, basterebbe una mozione del parlamento per iniziare a fare chiarezza. Chissà se una simile clausola è presente in tutti i contratti, anche quelli sottoscritti con le altre banche.
Derivati, in un libro il perché dello scandalo. “La voragine”, scritto dal giornalista dell’Espresso Luca Piana e appena pubblicato da Mondadori indaga il complicato mondo dei derivati, strumenti finanziari che nel silenzio generale hanno scavato un buco enorme nei conti pubblici italiani, e i cui effetti rischiano di farsi sentire ancora per molti anni sulla vita pratica dei cittadini, scrive Stefano Vergine il 13 febbraio 2017 su "L'Espresso". L’Italia non è stata l’unica a scommettere sui derivati. Delle nazioni che fanno parte dell’Unione europea, però, il nostro Paese è quello messo peggio. È questo uno dei dati più impressionanti contenuti nel libro “La voragine”, scritto dal giornalista dell’Espresso Luca Piana e appena pubblicato da Mondadori. Con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, il libro indaga il complicato mondo dei derivati, strumenti finanziari che nel silenzio generale hanno scavato un buco enorme nei conti pubblici italiani, e i cui effetti rischiano di farsi sentire ancora per molti anni sulla vita pratica dei cittadini. I derivati in teoria dovrebbero servire per assicurarsi contro i rischi, come per esempio l’aumento dei tassi d’interesse. Se i tassi aumentano, infatti, crescono generalmente anche i costi per chi si è indebitato. Poiché l’Italia ha uno dei maggiori debiti pubblici al mondo, può non sorprendere il fatto che il nostro Paese abbia sottoscritto parecchi derivati. I rischi connessi a questi strumenti sono però altissimi. E noti da tempo. Warren Buffett, considerato unanimemente il più grande investitore di Borsa di tutti i tempi, già nel 2002 li aveva definiti «armi finanziarie di distruzione di massa». Armi che hanno procurato ferite pesantissime al bilancio pubblico italiano, ma non a quello degli altri Paesi europei che li hanno sottoscritti. Gli unici dati ufficiali che permettono di tracciare un confronto con le altre nazioni risalgono al 2013, quando la situazione dei contratti firmati dal nostro ministero dell’Economia non era ancora degenerata ai livelli raggiunti negli anni successivi. Già allora, tuttavia, la situazione era grave. Per capirlo bisogna prendere in considerazione il “mark to market”, valore che indica il guadagno o la perdita potenziale dei derivati comprati da un Paese. Ebbene, nel 2013 il mark to market dei derivati sottoscritti dall’Italia era negativo per 28,9 miliardi di euro. Tralasciamo pure il fatto che solo un anno dopo il rosso teorico era già arrivato a 42 miliardi. Il punto è un altro. E cioè che ai nostri vicini la scommessa è andata meglio, a volte molto meglio. Nel 2013 le perdite potenziali della Germania erano infatti pari a 16 miliardi, quelle della Grecia sfioravano i 4 miliardi, quelle del Portogallo ammontavano a poco più di 1 miliardo. Alcuni Paesi, come Spagna e Belgio, non hanno mai sottoscritto derivati, mentre tra quelli che hanno deciso di scommettere c’è anche chi potrebbe guadagnarci.
Nazioni come la Danimarca, l’Olanda, la Svezia, la Finlandia, l’Irlanda e la Francia segnavano infatti – sempre nel 2013 - mark to market positivi, ovvero potenziali profitti su quei contratti. Com’è possibile? I governi che si sono succeduti in Italia negli anni passati sono stati sfortunati nelle loro scommesse finanziarie o hanno consapevolmente scaricato le perdite sui loro successori? Risposte precise a queste domande sono impossibili da dare perché, come spiega Piana nel suo libro, «a dispetto degli interessi in gioco e del diritto degli italiani a essere informati sul modo in cui i loro quattrini vengono spesi, sui derivati esiste di fatto un segreto di Stato». Insomma, non si possono conoscere i dettagli di tutti i derivati sottoscritti con le banche d’affari, e non si possono di conseguenza attribuire con certezza eventuali responsabilità dei politici o dei dirigenti che si sono succeduti al ministero dell’Economia. Di sicuro c’è un fatto. Come emerso grazie all’indagine della Commissione Finanze della Camera e ai calcoli contenuti ne “La voragine”, solo dal 2011 al 2015 l’Italia ha subito un costo di 23,5 miliardi di euro per effetto degli interessi netti pagati sui derivati e degli altri oneri connessi. In media equivalgono a 4,7 miliardi l’anno. Una somma enorme. Basti dire che per aiutare i cittadini più poveri lo Stato spende 1 miliardo l’anno. La scommessa persa sui derivati ha dunque privato il Paese di risorse importanti in un momento di crisi. E potrebbe non essere finita qui. I contratti attivi restano molti, anche se non si sa con precisione quanti siano. Gli ultimi scadranno nel 2062.
Derivati, dizionario di una catastrofe. Cosa sono, quando nascono e quanto costano: tutto quello che bisogna sapere sui contratti, scrive Luca Piana il 13 febbraio 2017. I contratti derivati sono strumenti che impongono alle parti che li sottoscrivono di scambiarsi flussi finanziari, a condizioni e a scadenze predeterminate. Prendono il nome dal fatto che il loro valore “deriva” dalle quotazioni di mercato di alcuni fattori a cui sono legati, come i cambi di una valuta o i tassi d’interesse.
I più presenti nel portafoglio del Tesoro sono i cosiddetti “Interest rate swap” (o Irs), che significa “scambio di tassi d’interesse”. In genere sono del tipo “tasso fisso” contro “tasso variabile”. Un esempio può essere questo: dato un valore di un miliardo di euro, detto nominale, prevedono che una volta l’anno il Tesoro verserà alla banca il 4 per cento di un miliardo (il “tasso fisso”), mentre la banca verserà al Tesoro il tasso Euribor applicato a un miliardo (il “variabile”). Se l’Euribor sarà sopra il 4 per cento, ci guadagnerà il Tesoro; se sarà sotto, la banca.
Se ben costruiti, possono avere una finalità assicurativa: quando i tassi d’interesse aumentano, il Tesoro è costretto a corrispondere agli investitori che comprano titoli di Stato interessi più elevati. In linea teorica, un Irs può dunque scaricare sulla banca controparte il costo aggiuntivo di un irrigidimento dei tassi.
Come si intuisce dall’esempio, i derivati possono muovere enormi quantità di denaro senza investimenti iniziali. Ci si può guadagnare molto, se i mercati si muovono nelle condizioni a noi favorevoli; allo stesso modo si possono perdere cifre colossali. La loro rischiosità è nota da tempo, visto il ruolo avuto in alcuni casi di fallimento che hanno fatto storia, dalla banca inglese Barings (1995) alla compagnia energetica texana Enron (2001). I derivati sono stati chiamati in causa anche per il default della Grecia, che li ha utilizzati per nascondere le vere condizioni dei conti pubblici.
Il governo italiano inizia a fare ricorso ai derivati negli anni Ottanta, per proteggersi dalle perdite potenziali sui titoli di Stato emessi in valuta estera, in un periodo in cui la lira era soggetta a forti svalutazioni. I primi sono del tipo “cross currency swap”, legati dunque al cambio della lira (e poi dell’euro).
Il 10 novembre 1995 il premier Lamberto Dini firmò un decreto con regole più precise per la sottoscrizione dei derivati, ampliando il tipo di quelli utilizzabili. Venne così formalizzata la possibilità di utilizzarli per ristrutturare i prestiti in lire, ovvero per cambiare il flusso degli interessi previsto dai tassi d’interesse dei titoli di Stato. Da allora si intensificano gli swap.
A metà degli anni Novanta gli enti locali iniziano a indebitarsi sempre più e, nel 1996, il governo di Romano Prodi li obbliga a coprirsi con un derivato dal rischio cambio, nel caso emettano prestiti in valuta. La svolta arriva però dal 2001 con Giulio Tremonti ministro dell’Economia. Regioni, Province e Comuni sottoscrivono un numero crescente di derivati, così come fa lo Stato. Come ha spiegato in parlamento Maria Cannata, dirigente del Tesoro, tra il 2000 e il 2005 attraverso i derivati il governo aveva perseguito il duplice obiettivo di contenere il fabbisogno di cassa e di allungare la vita del debito.
Per ottenere questi obiettivi, oltre agli “Interest rate swap” vengono utilizzati anche dei contratti più complessi, chiamati “swaption”. Si tratta di opzioni che le banche comprano versando al Tesoro una certa cifra (il cosiddetto premio), ottenendo la possibilità di entrare in seguito un Irs a condizioni prefissate. In pratica, pagando il premio, la banca si assicura la possibilità di accendere un nuovo swap, e di farlo se e soltanto l’andamento dei tassi lo renderà conveniente, a danno dello Stato.
Nel 2006, con l’arrivo di Tommaso Padoa-Schioppa al ministero dell’Economia, viene ristretta la possibilità degli enti locali di fare nuovi derivati e, stando a quanto riferito da Maria Cannata, abbandonata la strategia di contenere il fabbisogno di cassa del Tesoro. Stando ai dati ufficiali, è dal 2006 che la gestione dei derivati smette di generare un flusso netto d’interessi positivo per le casse dello Stato. Quanto questo dipenda dai contratti firmati negli anni precedenti e quanto da quelli successivi, in base alle informazioni rivelate finora è però impossibile da sapere. L’allarme derivati scoppia all’inizio del 2012, quando il Tesoro è costretto a chiudere una serie di contratti fatti con Morgan Stanley, versando alla banca 3,1 miliardi di euro in due tranche. L’operazione nasce da un accordo quadro del gennaio 1994 che regola questo genere di strumenti fra il Tesoro e l’istituto; nell’accordo è presente una clausola unilaterale che permette alla banca di chiudere in anticipo tutti i contratti sottostanti, nel momento in cui le condizioni di mercato fanno prevedere incassi futuri favorevoli all’istituto superiori a 50 milioni di dollari. Come si scoprirà in seguito, la soglia era stata superata da tempo, senza che la clausola fosse esercitata. Nel 2012 il responsabile di Morgan Stanley in Italia è Domenico Siniscalco, che tra il 2001 e il 2005 è stato direttore generale del Tesoro.
Negli anni successivi emerge un dato che suscita preoccupazioni ulteriori. Il valore di mercato (o “mark to market”) dei derivati del Tesoro in essere peggiora sempre più, raggiungendo alla fine del 2014 un picco di 42 miliardi. Il Tesoro sostiene che non si tratta di un fatto a cui dare troppo peso, visto che le condizioni di mercato potrebbero cambiare, riducendo le perdite. Su questa linea si schiera anche il ministro Pier Carlo Padoan, che sottolinea allo stesso tempo come i derivati siano un problema ereditato dal passato e che non ne verranno più fatti di nuovi. Questa spiegazione nasconde però due problemi. Il primo è che ogni anno, tra oneri finanziari netti versati alle banche e costi connessi, le perdite si materializzano via via in costi reali. I dati relativi al quinquennio 2011-2015 dicono che si tratta di 23,5 miliardi in totale, con una media annua di 4,7 e un record di 6,7 miliardi nell’ultimo anno del periodo, il 2015 (vedi figura a pagina 25). Il secondo è che le perdite future, almeno negli anni più vicini, non sono soltanto potenziali ma molto probabili.
Il Tesoro e le altre istituzioni finora si sono sempre rifiutati di mostrare i contratti dei derivati a chi ne faceva richiesta. Il giornalista Guido Romeo, co-fondatore dell’organizzazione non governativa “Diritto di Sapere” ha fatto una richiesta di accesso agli atti al Tesoro, senza ottenere risposta. Si è dunque appellato prima al Tar, poi al Consiglio di Stato, venendo sempre respinto. Ci hanno provato anche alcuni parlamentari del Movimento 5 Stelle, la cui richiesta è stata respinta dalla Commissione per l’accesso ai documenti della Pubblica amministrazione. Tra gli esponenti del Tesoro, l’ultimo a rispondere negativamente è stato il direttore generale del Tesoro, Vincenzo La Via, durante l’indagine conoscitiva effettuata dalla Commissione Finanze della Camera nel 2015.
L’anno scorso la Corte dei Conti del Lazio ha fatto sapere di aver avviato un’indagine sui derivati sottoscritti fra il Tesoro e Morgan Stanley, costati alle casse pubbliche 3,1 miliardi di euro. In un documento pubblico ha ipotizzato un danno a carico dello Stato pari a 3,8 miliardi, che tiene conto anche dei costi sostenuti per reperire la somma miliardaria versata nel 2012 alla banca americana. Lo scorso luglio Morgan Stanley ha reso noto in bilancio di aver ricevuto una prima contestazione da parte della Corte, nei confronti della quale ha annunciato di volersi difendere, ritenendola non corretta. Il 14 settembre scorso, poi, il sito del quotidiano la Repubblica ha rivelato che un pubblico ministero della Corte, Massimiliano Minerva, ha convocato la banca e quattro fra dirigenti del Tesoro e ex ministri, avviando le audizioni per portare, eventualmente, a contestazioni formali. Si tratta degli ex ministri Siniscalco e Vittorio Grilli, oltre ai dirigenti La Via e Cannata.
"C'è il tesoro di Mussolini in quel caveau". La verità su 2 mila sacchi e 419 plichi: inestimabile. In una stanza di sicurezza della Banca D'Italia è conservato, anche se letteralmente abbandonato, il tesoro di Benito Mussolini. Ci sono 419 plichi e circa duemila sacchi di juta, tutto con sigillo ministeriale. Dentro sono racchiusi documenti dal valore storico inestimabile, ma anche oggetti preziosi. Come riporta il Giornale, in quel caveau c'è il collare della Santissima Annunziata donato dai Savoia a Mussolini, la tuta da meccanico che indossava Claretta Petacci nella fuga verso la Svizzera, oltre alle banconote che lei e Mussolini avevano con sé. E poi brillanti dell'ordine dell'Aquila tedesca, prodotta in un unico esemplare, una medaglia celebrativa dei patti Lateranensi, senza dimenticare la montagna di oggetti di valore sequestrati a casa Savoia e quelli contenuti nella cassaforte di donna Rachele della villa Mantero di Como. Solo nel 2006 era stata fatta una ricognizione, ma parziale. Dopo tre tentativi da parte dell'ex grillino Giuseppe Vacciano, pochi giorni fa il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan ha riferito in Parlamento, mantenendosi però vago e confuso. Quel tesoro apparterrebbe al ministero dell'Economia, ma la sua valutazione deve passare da un altro ministero. Da qui il buco burocratico che tiene bloccato nel dimenticatoio un tesoro che potrebbe riempire ben più di un museo, oltre che raccontare dettagli storici finora sconosciuti.
Inchiesta Ubi Banca: le intercettazioni di Napolitano con Bazoli. Una conversazione tra l’ex presidente della Repubblica e il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo nell'ambito dell'inchiesta coordinata dalla Procura di Bergamo, scrive l'1 febbraio 2017 Panorama. Una conversazione tra l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa San Paolo Giovanni Bazoli è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta su Ubi Banca coordinata dalla Procura di Bergamo. Lo rivela Panorama in un articolo pubblicato nel numero in edicola dal 2 febbraio 2017. La telefonata risale al 19 marzo 2015 (circa due mesi dopo le dimissioni dal Quirinale di Napolitano). Panorama riporta la trascrizione del colloquio così come riassunto dalla Guardia di Finanza dove, tra l’altro, si legge: «Napolitano dice che come gli aveva anticipato, aveva fissato un incontro con il presidente (Mattarella) per alcuni argomenti urgenti per cui ha colto l’occasione per rappresentargli la situazione». In quel momento Giovanni Bazoli è ufficialmente indagato dalla procura di Bergamo per associazione a delinquere finalizzata alla commissione di vari reati e impegnato in prima persona nella battaglia per il controllo di Rcs e Corriere della Sera, che si concluderà con la vittoria di Urbano Cairo, editore e patron de La 7. Dal contenuto della telefonata, partita da un’utenza direttamente in uso al Quirinale, e dalla lettura di tutte le trascrizioni emerge un ruolo attivo di Napolitano nelle questioni più delicate del paese. Per esempio la guerra per il controllo del Corriere della Sera. Riassumono le Fiamme Gialle: «Napolitano specifica di aver fatto riferimento (con Mattarella, ndr) anche al dialogo di questi anni tra loro (e cioé tra Napolitano e Bazoli, ndr) e prima ancora con Ciampi. Napolitano dice che questi (Mattarella) ha apprezzato, ed ha detto che considera naturale avviare uno stesso tipo di rapporto “schietto”, informativo e di “consiglio”. Napolitano suggerisce di formulare, attraverso la segreteria, una richiesta di incontro che sicuramente accetterà. Bazoli dice che lo cercherà per i canali ufficiali nei prossimi giorni. Napolitano dice speriamo bene, anche perché ha sentito fare un nome “folle”, ovvero di quel signore che si occupa o meglio è il factotum de La 7». Nell’ampio servizio pubblicato da Panorama vengono inoltre ricostruite tutte le conversazioni nella quali il banchiere, tra il 2014 e il 2015, fa riferimento con diversi interlocutori all’allora Capo dello Stato poi divenuto senatore a vita. In uno di questi colloqui, risalente all’aprile del 2014, Bazoli rivela di avere avuto un incontro “al Colle” ed aggiunge «io gli ho chiesto espressamente ed ho avuto da lui l’assicurazione che quantomeno fino alla fine dell’anno lui rimane». Un mese prima, al telefono con Giulia Maria Crespi, afferma che «quando parla dei suoi problemi 'in alto, al colle', trova sempre una grande corrispondenza». In un’altra telefonata, questa volta del marzo 2015 con una persona non identificata in cui si fa riferimento ad una udienza in Cassazione, «Bazoli riferisce che andrà a Roma da Napolitano, in quanto "avrei una cosa importante su cui lui forse può dare un consiglio"».
Giorgio Napolitano intercettato con Bazoli: le mani sul Corriere della Sera, scrive il 2 febbraio 2017 "Libero Quotidiano". Nel marzo 2016 Giorgio Napolitano organizza un incontro tra il suo successore Sergio Mattarella e Giovanni Bazoli, all’epoca presidente di Intesa e attivo nella battaglia per il controllo del Corriere della Sera. Lo rivela Panorama in edicola oggi, riportando i contenuti di un’intercettazione sull’utenza di Bazoli, indagato nell’inchiesta su Ubi banca. La telefonata parte da un’utenza in uso al Quirinale (Napolitano si era dimesso da due mesi). L’incontro Bazoli-Mattarella avrebbe dovuto affrontare "alcuni argomenti urgenti", scrive la Guardia di Finanza che riassume la conversazione. Tra questi argomenti, la lotta per il controllo del Corriere. Scrivono le fiamme gialle: "Napolitano specifica di aver fatto riferimento (con Mattarella, ndr) anche al dialogo di questi anni tra loro (e cioé tra Napolitano e Bazoli, ndr) e prima ancora con Ciampi. Napolitano dice che questi (Mattarella) ha apprezzato, ed ha detto che considera naturale avviare uno stesso tipo di rapporto schietto, informativo e di consiglio. (...) Napolitano dice speriamo bene, anche perché ha sentito fare (riguardo al Corriere) un nome folle, ovvero di quel signore che si occupa o meglio è il factotum de La 7". Quell'Urbano Cairo che poi le ha messe, le mani sul Corsera. Dopo la conversazione, il banchiere, passando per la segreteria del Quirinale, fissa un incontro con Mattarella: il faccia a faccia avviene il 27 marzo. Dieci giorni prima, il 17 marzo, l'ex Capo dello Stato è anche oggetto di una conversazione tra Bazoli, azionista del Corsera, e l'allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro, la concorrenza: "Se tu lo tieni in mano (il Corsera, ndr) io sono tranquillo", afferma Mauro. Dunque l'invito a Bazoli a "non lavarsene le mani di queste scelte". Poi spunta Napolitano: "La situazione ha ancora un margine di incertezza e ti spiegherò se ci vediamo perché, niente, devo vedere Napolitano...insomma, devo, tengo rapporti con lui". Sempre lui. Sempre Re Giorgio, che dimostra di avere rapporti consolidatissimi con Bazoli. I due infatti si incontrano al Colle il 13 marzo 2014, quando Napolitano è ancora Capo dello Stato. E ancora, il 15 aprile dello stesso anno, in una telefonata tra il patron di Intesa San Paolo e Gian Maria Gros-Pietro, presidente del consiglio di gestione della stessa banca, Bazoli, notano gli inquirenti, "fa presente che giovedì sarà al Colle per un tema diverso dalle banche". Tre giorni dopo, sempre al telefono con Gros-Pietro, Bazoli "riferisce di essere stato a Roma e di aver avuto un incontro col Colle ed aggiunge 'io gli ho chiesto espressamente ed ho avuto da lui l'assicurazione che quantomeno fino alla fine dell'anno lui rimane. Mi pare una notizia molto rassicurante'...". Le mani di Napolitano, insomma, erano ovunque: Colle, banche, Corriere della Sera.
Banche, le sette sorelle malate. Da Monte Paschi a Pop Vicenza, radiografia degli istituti in crisi, scrive il 4 gennaio 2017 "L'Espresso".
Veneto Banca. La notizia è arrivata poco prima di Natale: il prossimo 5 gennaio il fondo Atlante, attraverso il quale il sistema finanziario ha condotto il salvataggio dell’istituto di Montebelluna, effettuerà un versamento di 628 milioni «in conto futuro aumento di capitale». La ricapitalizzazione verrà decisa più avanti dagli organi sociali di Veneto Banca e potrebbe essere più ampia, alla luce delle valutazioni che il management sta facendo su due fronti: un’approfondita valutazione sul bilancio e il progetto di fusione con la Popolare di Vicenza.
Pop Vicenza. Altra banca, stesso azionista, stesso schema. Anche a Vicenza il fondo Atlante è dovuto intervenire negli ultimi giorni del 2016, annunciando sempre un’iniezione da 310 milioni, in vista di un prossimo aumento di capitale. Il nuovo amministratore delegato Fabrizio Viola è entrato anche nel consiglio di Veneto Banca, con l’obiettivo di definire il piano di fusione. Le questioni aperte sono diverse: dalle operazioni per rafforzare il capitale alle procedure per rimborsare i vecchi azionisti privati di una parte delle perdite subite con la crisi delle due banche.
Unicredit. L’operazione è mozzafiato: Unicredit deve trovare 13 miliardi, che in febbraio chiederà ai soci con un aumento di capitale. Ma i vertici del gruppo e il numero uno Jean Pierre Mustier, impegnati in una profonda riorganizzazione, sono tranquilli. Il termine chiave della ricapitalizzazione è “consorzio di garanzia”: diciannove banche internazionali hanno firmato un pre-accordo per comprare le azioni che non saranno eventualmente sottoscritte dagli investitori, garantendo il successo dell’aumento. Mustier si è detto dunque sicuro: i 13 miliardi arriveranno, senza la necessità di aiuti pubblici.
Banca Etruria. Trattativa all’ultimo respiro per Popolare Etruria, Banca Marche e CariChieti, le tre banche salvate un anno fa dal governo di Matteo Renzi assieme a CariFerrara. Il negoziato per la cessione dei tre istituti è andato avanti fino agli ultimi giorni dell’anno, al fine di comporre un puzzle estremamente complesso: il piano prevede la cessione a terzi dei crediti deteriorati che non erano stati girati nel 2015 alla “bad bank”, oltre a un aumento di capitale da parte del Fondo di risoluzione della Banca d’Italia, l’arrivo delle autorizzazioni e, infine, l’ingresso negli istituti del nuovo azionista.
CariFerrara. Oggi Carife si chiama Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara ma i problemi sono lontani dall’essere risolti. Ubi non ha voluto comprarla e chi ha fatto un tentativo (era circolato il nome di Cariparma) si è tirato indietro. Il 21 dicembre la banca ha incontrato i sindacati e annunciato una dura ristrutturazione: si prevede un dimezzamento dei 900 dipendenti «con ricorso prioritario a strumenti agevolativi». Solo a quel punto si farebbe avanti «un primario gruppo», che pare essere la Popolare dell’Emilia Romagna. Prima, però, Cariferrara verrebbe acquistata dal Fondo interbancario.
Carige. Un mese di tempo in più. Lo ha dato la Bce all’istituto ligure, spostando dal 31 gennaio al 28 febbraio prossimo il limite per presentare «un piano strategico e operativo» per ridurre i crediti deteriorati. Per Carige, che ha trovato nell’imprenditore Vittorio Malacalza un nuovo socio di riferimento (ha il 17,5 per cento), è una boccata d’ossigeno. Da mesi la banca sta preparando la cessione di un pacchetto di crediti deteriorati da 1,8 miliardi, grazie al meccanismo di garanzie statali pensato da Pier Carlo Padoan, chiamato Gacs. Novità attese nel giro di poche settimane.
Popolare Bari. Le questioni più urgenti sono due. La prima è un’indagine della magistratura, per ora contro ignoti, per i prestiti concessi a imprenditori che acquistavano anche azioni della Popolare. La seconda è la trasformazione in società per azioni, i cui termini nelle ultime settimane hanno visto crescere i margini d’incertezza a causa di alcuni ricorsi (ma il 21 dicembre la Corte costituzionale ha riconosciuto la validità del decreto voluto dal governo Renzi). Il fatto che collega le due questioni è l’irrequietezza dei soci, che lo scorso aprile hanno visto scendere da 9,5 a 7,5 euro il prezzo a cui la banca s’impegna a riacquistare i suoi titoli, non quotati in Borsa.
Mps, chi si è arricchito col panico dei piccoli risparmiatori. Qualcuno ha guadagnato tanto con il Monte dei Paschi. Rastrellando bond a prezzi da saldo negli ultimi giorni prima della sospensione. Un caso di allarmismo finanziario per ottenere un profitto politico e, viceversa, di allarmismo politico per ottenere profitti finanziari, scrive Gianfranco Turano il 02 gennaio 2017 su "L'Espresso". Il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena dominerà le cronache finanziarie del 2017. È un pasticcio che poteva essere risolto già a luglio con la statalizzazione della banca. Ma è soprattutto un caso di allarmismo finanziario per ottenere un profitto politico e, viceversa, di allarmismo politico per ottenere profitti finanziari. Negli scorsi mesi, mentre il governo, gli economisti, la stampa nazionale e internazionale prevedevano disastri sui mercati se non fosse passata la riforma costituzionale, si è scrutato l’orizzonte in cerca di una soluzione privata per la banca più antica del mondo. I cavalieri bianchi non si sono mai palesati. Chi sa se ci sono mai stati e se l’autunno caldo di Rocca Salimbeni non è una colossale manipolazione del mercato. Ma partiamo dalla cronaca degli ultimi giorni. Venerdì 23 dicembre il titolo e le obbligazioni Mps vengono sospesi dalle contrattazioni poche ore dopo che il consiglio dei ministri ha emanato il decreto di salvataggio statale per il Monte. La sospensione arriva al termine di un trimestre catastrofico che ha visto crollare i bond Mps fino a un valore di 45 sul nominale di 100. In borsa si chiama junk, spazzatura. A titolo di paragone, i “bonos” del Venezuela sull’orlo del default viaggiano intorno a quota 60. Il crollo verticale delle obbligazioni Mps in dicembre è dovuto all’annuncio del burden sharing, la condivisione degli oneri con i risparmiatori che si accompagna all’intervento dello Stato e che, si dice, avrà un impatto disastroso sul valore dei bond subordinati che, in ordine crescente di rischio, sono classificati come lower tier 2, upper tier 2 e tier 1. Eppure nei giorni a ridosso del decreto i volumi di contrattazione sono stati molto superiori alle medie, considerando che le emissioni obbligazionarie Mps sono spesso di poche centinaia di milioni di euro e dunque difficili da scambiare o, in gergo tecnico, illiquide. In altre parole, qualcuno vende a qualunque prezzo e in larga perdita terrorizzato dallo spauracchio di una conversione a prezzi di mercato. Ma qualcuno sta comprando, perché scommette o sa che la conversione a prezzi di mercato non può esserci per legge. Le informazioni diffuse fino al 23 dicembre indicano che il burden sharing risparmierà solo gli obbligazionisti cosiddetti retail che nel 2008 hanno sottoscritto l’Upper tier 2, finalizzato alla sciagurata acquisizione di Antonveneta e venduto a un taglio minimo di 1.000 euro. Per restare alla terminologia pittoresca di piazza Affari, il retail è composto dagli orfani e dalle vedove indotti ad acquistare prodotti troppo rischiosi. Loro saranno salvati e rimborsati al 100 per cento. Venerdì 23 dicembre, ultimo giorno di contrattazioni prima della pausa natalizia, accade un’altra cosa che va contro ogni logica apparente. I bond subordinati di tre banche in difficoltà, il cui destino è legato a doppio filo al Monte e al decreto statale da 20 miliardi, vanno alla grande. L’emissione Carige 2020 sale del 9 per cento fino a sfiorare quota 79. La Popolare Vicenza 2025 cresce del 13 per cento da 50 a circa 61. Veneto Banca 2025 strappa da 46 a 62 con un +35 per cento in una sola giornata. Come mai? Chi compra ha letto con attenzione la direttiva europea Brrd e le altre norme Ue che regolano il burden sharing e il bail-in. Sono leggi complesse ma fissano alcuni principi chiave tutto sommato semplici. Ribadiscono la gerarchia di rischio degli investimenti dall’obbligazione senior (rischio basso), all’obbligazione subordinata o junior (rischio medio) e infine all’azione (rischio alto). L’altro principio è quello del no creditor worse off: nessun creditore deve perdere più di quanto gli accadrebbe in caso di fallimento della banca che, però, ha patrimonio netto positivo e possibilità di rimborso al 100 per cento. I 40 mila acquirenti dell’Upper tier 2 emesso nel 2008 non potevano essere trattati meglio degli altri in base a una differenza fra investitore retail e il cosiddetto high street investor che va vista caso per caso su decine di migliaia di conti titoli e ha già mostrato la corda nei casi delle quattro banche in crisi (Etruria, Marche, Chieti e Ferrara). Comprare un bond junior a 50 mila euro non significa essere nella categoria di Warren Buffett e un’emissione lower tier 2 può essere in mano a un gambler oppure a un pensionato, magari altrettanto avido. Inoltre, solo 4 mila dei 40 mila sottoscrittori dell’Ut2 a 1000 euro il pezzo hanno tenuto nel cassetto l’obbligazione dal 2008. Gli altri l’hanno messa sul mercato. Chiunque può averla comprata sulle piattaforme Mot o Etlx e trovarsi premiato dallo Stato. Chi ha giocato alla lotteria del 23 dicembre ha scommesso che anche i bond della Veneto, della Carige e della Popolare Vicenza avranno lo stesso trattamento di quelli Mps, pena un’ondata di cause di risarcimento, anche se alla riapertura del 27 dicembre i subordinati sono tornati a scendere di prezzo dopo che la Bce ha portato da 5 a 8,8 miliardi di euro l’aumento Mps. Questa altalena si poteva evitare. Per mesi i manager e i consulenti di Mps hanno detto che oltre alla cessione dei crediti deteriorati e alle conversioni degli obbligazionisti, andato oltre ogni aspettativa a quota 2,45 miliardi di euro, era indispensabile chiudere il cerchio con un anchor investor, un privato che mettesse fino a 1,5 miliardi di euro. Per Jp Morgan e Mediobanca, le due banche d’affari incaricate di garantire l’aumento di capitale, era in gioco una commissione mostruosa a rischio zero: 550 milioni di euro, pari all’11 per cento dell’aumento di capitale chiesto allora dalla Bce. Non solo. Il contratto originale consentiva alle due merchant di incassare anche senza il buon fine dell’aumento di capitale. Lo ha rivelato l’ad Mps Marco Morelli al Sole 24 ore: solo grazie a lui è stata annullata questa clausola capestro. Ma anche lui ha cercato fino alla fine il fantomatico anchor investor fra la Qia (Qatar investment authority, il fondo sovrano degli al Thani), George Soros, un consorzio di undici banche europee o altri investitori coperti come nel caso della proposta di Corrado Passera, rigettata dal cda della banca. Nessuno dei pretendenti ha mai confermato. Alla fine la Bce si è stancata e ha negato l’ennesima proroga chiesta dai manager del Monte dopo il referendum del 4 dicembre, quando presumibilmente è bastata una telefonata in Qatar o a Soros per sentirsi dire: non siamo interessati. Lo sono mai stati? Il presidente di Mps, Alessandro Falciai, è certo di sì e ha così spiegato la sparizione dell’anchor in un’intervista al Corriere della sera del 24 dicembre. «È innegabile che gli investitori istituzionali scottati dall’esito del referendum sulla Brexit, dalla poco prevedibile vittoria di Trump in Usa, ponessero il problema di capire come poteva evolvere la situazione post referendum in Italia». È evoluta così: continuità di governo assoluta, stesso ministro dell’Economia, indice di Borsa che dopo il 4 dicembre è cresciuto di circa il 20 per cento in tre settimane, uno spunto che non si vedeva da parecchio. Le otto banche che dovevano fallire secondo il Financial Times, Mps incluso, sono ancora aperte. La vittoria di The Donald ha fatto schizzare tutti gli indici di Wall Street, con una crescita nell’indice settoriale delle banche da 75 a 93 punti. E sei mesi dopo Brexit non risulta che, salvo la svalutazione della sterlina, ci siano tumulti per il pane nelle piazze del Regno Unito. La vicenda Mps è ancora lontana da una conclusione. Da qui a qualche mese i bond convertiti in azioni saranno negoziabili. Si spera che non ci siano nuovi crolli e che l’istituto senese possa essere risanato e di nuovo privatizzato, magari con un profitto dello Stato come negli Usa con le nazionalizzazioni post-subprime. Tornando alla questione posta all’inizio: il governo poteva intervenire prima? Certo. Secondo alcuni, il decreto di salvataggio di Mps era pronto a giugno. Perché aspettare allora? Per esempio, perché il referendum è stato caricato di valenze finanziarie che non ha mai avuto. Eppure era improbabile che gli investitori istituzionali fossero messi in fuga dal permanere del Cnel. Oltre a questo, c’era il provincialismo dell’americano a Roma, il personaggio di Alberto Sordi che vuole essere più a stelle e strisce degli stessi Usa. Quindi, mercato, mercato e ancora mercato, anche se Barack Obama ha messo in sicurezza il sistema creditizio con fondi pubblici. È stata una catena di gesti spregiudicati e di incompetenze, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore c’è stato dolo. Non una novità nella gestione Monte Paschi degli ultimi dieci anni.
Che cosa ci insegnano Mps e le altre. Il mancato salvataggio. Il “bail in”. Un sistema del credito basato sulle relazioni. Tutti gli errori della crisi senese, fino all’ingerenza del premier, scrive Bruno Manfellotto il 30 ottobre 2016 su “L’Espresso”. Non è ancora finita, i tempi sono stretti, intralci possono essercene ancora, certo, ma finalmente il piano per mettere in sicurezza il Monte dei Paschi di Siena c’è: filiali e dipendenti saranno tagliati; una parte delle obbligazioni convertite in azioni e 28 miliardi di crediti in sofferenza ceduti sul mercato, premessa per un aumento di capitale di 5 miliardi che dovrebbe scattare dopo il referendum di dicembre, decisivo giro di boa dal quale si fa ormai dipendere ogni cosa, pure la sorte delle banche e il sì o il no dell’Europa alla manovra 2017. Bene, era ora, si riparte. Nell’attesa, gli unici a gongolare sono i raider che, giocando sui boatos che s’inseguivano lungo l’asse Bruxelles-via XX Settembre-Rocca Salimbeni, hanno scommesso sulle azioni Mps raddoppiando l’investimento in poche settimane. Vallo a raccontare ai risparmiatori di Banca Etruria che aspettano di sapere se e quando verranno risarciti... Ora però c’è da augurarsi che la questione non finisca in archivio e che si sfrutti l’occasione per capire cos’è successo, chi ha sbagliato, che cosa non ha funzionato. E quali sono i veri mali del sistema. Che restano. In principio fu una clamorosa sottovalutazione. Forse per dovere istituzionale o per spirito nazionale, governi e authority hanno fatto a gara nel dirci che pericoli non ce n’erano, anche fidando nel fatto che le banche italiane, a differenza di quelle tedesche, non sono imbottite di titoli tossici. E così ogni intervento è stato rimandato mentre gli altri correvano ai ripari: la Spagna con 52 miliardi di euro, la Grecia con 40, l’Irlanda 42, la Germania 238... E la povera Italietta? Non servono soldi, proclamò il premier Mario Monti. Orgoglio? Leggerezza? Vincoli di bilancio? Come che sia, alla fine lo Stato tirò fuori appena un miliardo. Poi però Mps si è mangiato da solo 15 miliardi di ricapitalizzazioni, e ormai l’Europa ha provveduto a vietare aiuti di Stato. Su come stanno le cose si è saputo qualcosa di più solo un anno fa, dopo il default di Banca Etruria e delle casse di Marche, Ferrara e Chieti quando governo e partiti si sono trovati ad affrontare le conseguenze del famigerato “bail in” che scarica su obbligazionisti e anche i correntisti il peso del crac e che essi stessi avevano avallato a Bruxelles nel 2014. E sono emerse le magagne. La prima è che le autorità di vigilanza o non hanno fatto fino in fondo il loro dovere (Consob), o non si sono spinte oltre la semplice denuncia formale (Banca d’Italia). Poi Renzi ci ha messo il suo addebitando loro buona parte delle responsabilità. L’altra verità è che il sistema bancario è appesantito da crediti incagliati, cioè difficili o impossibili da riscuotere, per 350 miliardi. Né ci fanno dormire sonni tranquilli le rassicurazioni del governatore della Banca d’Italia secondo il quale le sofferenze vere, cioè non garantite da accantonamenti, non arrivano a 90 miliardi. Perché al di là della cifra, pur sempre pari a tre-quattro manovre finanziarie, la crisi ha rivelato un tessuto debolissimo di piccole e medie imprese finite a gambe all’aria perché tenute in vita solo da un sistema del credito schiavo del familismo finanziario, del capitalismo di relazione e dei prestiti facili riservati agli amici degli amici. Così andavano le cose anche a Siena, naturalmente, dove agli eccessi di campanilismo creditizio si aggiunge pure il peccato originale di un incauto acquisto favorito da Bankitalia, quello di Antonveneta, a carissimo prezzo, a debito, e con l’ausilio di un complicato e oscuro prodotto finanziario dal nome di dentifricio (Fresh) accreditato dall’autorevole timbro di Vittorio Grilli, allora alto dirigente del Tesoro, oggi salvatore della patria come capo in Italia della Jp Morgan chiamata a curare, a carissimo prezzo, l’aumento di capitale del Monte. Corsi e ricorsi. Per non dire dell’«odor di massoneria» evocato da Alessandro Profumo, uomo generalmente attento a pesare gesti e parole. Che pasticcio. Anche in questo caso Renzi se n’è fatto carico in prima persona, a costo di mettere il naso dove forse non doveva, convocando a Palazzo Chigi gli uomini di Jp Morgan, disponendo rimozioni e nomine ai vertici di Mps, annunciando e promettendo. Insomma, personalizzando. Del resto le vicende Banca Etruria e Mps lo hanno segnato, coincidendo perfino con un punto di svolta nella sua immagine di rottamatore e nei suoi rapporti con l’opinione pubblica. Insomma, anche il “piano banche” lo vive in qualche modo come un referendum: non c’entra la Costituzione, ma la fiducia nel sistema del credito e in chi lo governa, sì.
Consorte, la verità dell'ex capo di Unipol: "Perché non hanno salvato Mps ed Etruria", scrive il 4 gennaio 2017 Pietro Senaldi su “Libero Quotidiano”.
«Non stiamo pagando un funerale, anche se sono assolutamente inaccettabili le modalità e le argomentazioni con le quali ora la Bce impone che l'aumento di capitale per Monte dei Paschi salga dai 5 miliardi prospettati per mesi, agli 8,8 miliardi chiesti improvvisamente. La motivazione è che negli ultimi giorni c' è stata un'ulteriore perdita di liquidità: i risparmiatori hanno ritirato 20 miliardi dalla banca...La Bce ha gestito in modo ambiguo il veto ad allungare i termini dell'aumento di capitale ai privati e ora chiede un ulteriore sacrificio imprevisto con argomentazioni discutibili. Sono i tipici comportamenti che allontanano i cittadini dall' Unione Europea».
Perché la gente non capisce. Non è una difesa di bandiera?
«In realtà i problemi di Mps non sono certo dovuti all' Europa Nel resto d' Europa, dalla Spagna alla Germania, le nazioni hanno affrontato il problema delle banche in difficoltà nella loro globalità, subito prima dell'approvazione del bail-in, ma da noi non è stato fatto. Abbiamo votato per l'introduzione del bail in senza valutare gli effetti che avrebbe avuto sul nostro sistema del credito e senza pretendere dalla Ue un'introduzione graduale della norma. Gli altri prima si sono ripuliti e poi hanno cambiato le leggi in senso rigido mentre noi continuammo a finanziare le banche con bond onerosi, aggravandone la situazione (basti pensare ai Monti bond del 2013 per Mps), e poi acconsentimmo a una legge che strozzava chi le aveva sostenute».
Com' è stato possibile?
«I nostri rappresentati in Europa non sono stati all'altezza. Non avevano, a mio parere, le caratteristiche professionali per discutere le norme alle quali dovevano attenersi le banche. Torniamo ai guai di Mps I problemi nascono da acquisizioni mal condotte, fatte senza valutarne l'impatto industriale e patrimoniale e pagando cifre esagerate. Non mi riferisco solo ad Antonveneta, acquistata a 10,3 miliardi da Mussari (oltre tre miliardi in più di quanto era stata pagato due anni prima da Santander) dopo un solo anno di presidenza del Monte, un uomo che non aveva nessuna esperienza bancaria; ma anche all' acquisizione di Banca Agricola Mantovana nel 1998, alla quale seguì l' anno dopo quella di Banca del Salento per 1,2 miliardi, che ritenevo a quel tempo una cifra molto alta, sotto la presidenza del Prof. Fabrizi e dell' Ing. De Bustis che proveniva dalla banca del Salento. Successivamente la Banca del Salento vendette delle filiali a MPS, che erano già state pagate in sede di acquisizione della Banca. Credo che un'indagine parlamentare sarebbe auspicabile per definire responsabilità e ridare fiducia a clienti e investitori di Mps».
Che ricordo ha di Mussari?
«Quando da presidente Unipol gli telefonai per suggerirgli di far comprare Bnl da Mps, garantendogli il nostro appoggio, mi rispose gelido: "Anche a Siena abbiamo il pallottoliere". Certo non l'ha usato nell' acquisto Antonveneta, fatto senza una due diligence che ne verificasse lo stato di salute: una cosa senza precedenti nel panorama bancario e industriale, che ha legittimato dubbi e perplessità; ma non dimentichiamo che poi Mussari venne promosso presidente dell'Abi. Se avesse fatto tutto da solo, poi non avrebbe fatto tanta carriera».
Quindi i 27 miliardi di crediti inesigibili (NPL) non sono decisivi?
«In buona parte sono anche eredità delle onerose acquisizioni senza i dovuti approfondimenti sullo stato dei crediti. Poi certo, è possibile anche che Mps sia stata usata in una logica di toscanità per sostenere un sistema che imprenditorialmente non stava più in piedi; saranno stati concessi crediti sulla base di valutazioni che immagino più di politiche locali che di merito creditizio. Si sapeva che c'era la polvere ma la si metteva sotto il tappeto pensando che tutto si sarebbe ripulito da sé. Ma io non ho mai visto nulla ripararsi senza sudore e fatica. La sensazione però è che sul salvataggio Mps più che la Bce abbia perso tempo l'Italia: ci siamo affidati per mesi ad una trattativa con Jp Morgan ma poi la banca d' affari americana ci ha lasciati in braghe di tela Si è sottovalutato il problema della diversità degli interessi in campo: Jp Morgan non aveva problemi di tempo e voleva fare affari e pagare poco, Mps aveva necessità di chiudere rapidamente e al massimo del realizzo. Jp Morgan, avendo compreso l'urgenza del problema Mps, ha provato a forzare l'operazione, tirando giù il prezzo d' acquisto. Chi ha trattato con gli americani ha sottovalutato questi aspetti: forse si pensava che da Jp Morgan Grilli ci avrebbe aiutato ma da quelle parti gli affari sono una cosa seria. In Italia ci siamo illusi che il problema sarebbe stato risolto solo perché andava risolto a ogni costo. C' è stata buona fede, ma ancora più ingenuità. Per mesi abbiamo pensato che il titolo di Mps crollasse perché c'era un compratore alla finestra che ne manovrava l'andamento Non era così: il titolo è stato in balia della speculazione ribassista».
Perché l'offerta di Passera non è stata presa in considerazione?
«Non la conosco nel merito ma sono rimasto molto sorpreso che neppure la stampa abbia dato informazioni di dettaglio sulla proposta di Passera. Credo che abbiano giocato ancora una volta fattori politici e territoriali: è stato fermato perché è un big, e per di più italiano, e avrebbe avuto molta voce in capitolo».
È stata giusta alla fine la scelta della nazionalizzazione?
«Più che giusta, indispensabile. Solo andava fatta prima, perché tra la speculazione in atto e le pressioni della Bce è stato un errore illudersi che qualche privato avrebbe comprato».
Di Mps si sa da anni che è in crisi, di Etruria prima che fallisse si conosceva a stento l'esistenza: le pare giusto che i privati che hanno investito in Mps vengano salvati e quelli che hanno investito in Etruria abbiano perso tutto?
«La domanda è a effetto ma le situazioni sono differenti. In entrambi i casi il governo ha sbagliato. Con Etruria è entrato nel panico e ha applicato pedestremente il bail in perché sotto schiaffo dell'Europa a cui non ha osato ribellarsi. Andava chiesta un'applicazione spostata nel tempo: non si può far pagare gli obbligazionisti in base a una legge che non era in vigore quando questi sottoscrissero i titoli».
È lì che il governo Renzi ha cominciato a perdere popolarità?
«Sì. Nessuno ha valutato che lo scandalo Etruria sarebbe stato pagato dal governo in modo così grave. Anche perché ha coinvolto mediaticamente il padre della Boschi, il ministro più vicino al premier. Renzi aveva compreso la pericolosità politica della vicenda rispetto a qualsiasi decisione avesse preso e, per inesperienza specifica nel settore bancario, ha preferito la mera e semplicistica applicazione del bail in che lo metteva al riparo dalle critiche e avrebbe avuto il consenso della Ue. Ma è stato un errore. E pensare che Etruria si sarebbe potuto tentare di salvarla con un piano di ristrutturazione alternativo che scongiurasse l'applicazione immediata del bail in. Questa non l'ho mai sentita...Se avesse ceduto in una logica di sistema, coinvolgendo banche e Assicurazioni le sue partecipazioni: la sua compagnia Vita (120 milioni), trasformava i bond in capitale come è stato proposto e perseguito per Mps (390 milioni), vendeva a un prezzo di mercato e non di pronto realizzo i crediti inesigibili (470 milioni anziché 370), chiedeva ai soci di aderire ad un aumento di capitale (100 milioni) cedeva la Banca di risparmio gestito Del Vecchio, chiedeva 300 milioni di intervento al fondo interbancario, Etruria era salva. E con lei l'immagine del premier e della sua sinistra».
Su Mps invece lei sostiene che c' è stato un errore opposto?
«Ma sempre originato dal timore di scontentare l'Europa. Ha giocato la carta dell'ottimismo. Quando il titolo era a 0,3 euro ha detto che l'avrebbe comprato anche a 1,20 ma i mercati, e gli italiani, non gli hanno creduto».
Ma l'Europa cosa c' entra?
«La campagna per il referendum ha determinato il prolungamento dell'agonia di Mps. Il premier temeva un nuovo effetto Etruria e ha congelato la situazione. Sapeva che aprire davvero il capitolo Mps gli sarebbe costato un nuovo bagno di sangue in termini di popolarità. E poi l'Europa era la sua grande alleata nel referendum, certo non poteva sfidarla in piena campagna referendaria aprendo il tavolo Mps e chiedendo l'immediata nazionalizzazione della Banca, a cui la Bce si opponeva. Dietro le cattive gestioni del caso Etruria e Mps ci sono sempre il timore di scontentare l'Europa e la debolezza del nostro governo».
Ma le nostre banche le abbiamo messe in ginocchio noi. Di chi è la colpa: politici, banchieri, industriali, Bankitalia, organi di vigilanza?
«La politica nazionale c' entra poco. Dal Veneto, a Mps ai quattro istituti del Centro Italia, la crisi bancaria ha messo in evidenza che il sistema era nelle mani di potentati locali che coprivano ruoli chiave non in quanto professionalmente capaci ma perché rappresentativi di forze politiche e sociali di territorio. In questo senso sono tutti colpevoli. Soprattutto gli organi di vigilanza nazionali, le società di revisione, la Consob, che per tirare avanti la baracca hanno avallato per anni situazioni fallimentari. Mi pare impossibile che nessuno se ne sia accorto».
Chi compra Banco Veneto?
«Non vedo all'orizzonte nessun investitore, se prima non si chiarisce qual è la situazione effettiva patrimoniale e finanziaria, e la struttura costi-ricavi della banca. Fatto fuori dalla giustizia delle procure e non dei tribunali quando era al timone di Unipol, la gigantesca società per azioni quotata in borsa controllata dalle coop dell'Emilia rossa, Giovanni Consorte oggi ha risolto i problemi della giustizia, con 14 tra assoluzioni e archiviazioni, e non ha mollato il colpo. Anche il giorno di Santo Stefano è nel suo ufficio nel centro di Bologna, dove ha sede la Network Consulting & Private Equity, società di consulenza che si occupa di ristrutturazioni, acquisti e cessioni di imprese. Mi occupo di economia reale - spiega - ma non è che prima non lo facessi. Quando io e Sacchetti prendemmo Unipol partimmo da una situazione di perdite per centinaia di miliardi di lire accumulatesi nell' allora Unipol Finanziaria (oggi Finsoe). Di Unipol Assicurazioni ne abbiamo fatto un gioiello, il secondo gruppo assicurativo italiano. Nel 2005 chiudemmo il bilancio con 11 miliardi di fatturato, 350 milioni di utile netto e 6 miliardi di mezzi propri. Forse siamo stati poco abili nei settori in cui le varie abilità hanno portato altri a compiere grandi disastri. Poi arrivarono l'avviso di garanzia per il tentativo di scalata di Unipol a Bnl e le dimissioni. Non avevo esperienze giudiziarie, racconta senza rimpianto Consorte, feci un errore a dimettermi, anche se sono stato spinto dalla proprietà a farlo, oggi non lo rifarei».
Perché le chiesero di dimettersi sulla base di un avviso di garanzia?
«Io e Sacchetti non eravamo amati dalle Coop di consumo, ma facevamo grandi risultati ed erano obbligati a tenerci. Quando ci arrivò l'avviso di garanzia, che a quel tempo era considerato già una condanna, a certa gente non parve vero di liberarsi di noi con l'obiettivo di far assumere il controllo del gruppo alle cooperative di consumo. Cosa che è avvenuta. Oggi forse non le sarebbe più richiesto: il governo ha confermato sottosegretari indagati Lo considero un fatto positivo. L' Italia ha pagato un prezzo enorme, il potere della magistratura ha avuto riflessi pesanti sull' economia. Per i processi di contenuto economico e finanziario occorrerebbe prevedere specializzazioni nel mondo della giustizia».
Perché la sinistra mangia i suoi figli e fa fuori i migliori?
«Come mi disse un suo collega di lunga militanza rossa: "La sinistra è tenuta insieme da potere e invidia e tu ne hai troppo e devi morire". Quando mi sono ammalato, all'inizio delle indagini, pensai fosse una sentenza definitiva. Per fortuna non fu così».
Visti i risultati di Unipol perché il partito non l'ha difesa?
«Quando intervennero i pm, i Ds ritennero che era più utile defilarsi piuttosto che prendere posizione. A fare scandalo fu la sua super consulenza: 50 milioni (Consorte e Sacchetti) per il passaggio di Telecom dalle mani pubbliche a Gnutti e Colaninno, quelli che D' Alema definì "I capitani coraggiosi" La Procura di Milano ci ha restituito le somme sequestrate. La parcella era congrua. Era un'operazione da 11 miliardi con un utile di 5 miliardi, io e Sacchetti abbiamo partecipato a vario titolo al successo dell'operazione. Per il nostro lavoro siamo stati remunerati con lo 0,45%, ma i partecipanti dell'operazione hanno guadagnato centinaia di milioni pro capite a partire da Unipol. Dovrebbero fare più scandalo le liquidazioni per decine di milioni riconosciute ai manager di banche, anche se ricoprono per brevi periodi i suddetti ruoli. La super consulenza fu associata alla scalata di Unipol a Bnl Sì ma le indagini poi smentirono ogni accusa. Di fatto la mia messa in stato d' accusa servì solo a farmi fuori da Unipol e a compromettere l'acquisto di Bnl. La magistratura ebbe un ruolo anticipatorio, io e Sacchetti fummo indagati d' ufficio: l'operazione fu bloccata non in base a una sentenza, ma sulla base di un avviso di garanzia, e lo scenario economico e politico del Paese cambiò per sempre».
Ma perché da presidente Unipol decise di acquistare una banca?
«Inizialmente non era nostra intenzione ma dopo la trattativa fallita con Bbva ci decidemmo a lanciare l'opa. Unipol aveva sei milioni di clienti e Bnl quattro milioni; il progetto di acquisizione di Bnl partiva con l'obiettivo di realizzare una integrazione tra l'attività bancaria e quella assicurativa, e quindi perseguire una sinergia di clientela, nonché di ricavi e di costi. Unipol sarebbe diventato il secondo gruppo finanziario italiano con delle prospettive di sviluppo enormi».
Che errori si rimprovera?
«Più che un errore, non ho fatto i conti con il sistema di potere dell'epoca. Avevamo le risorse finanziarie, ritenevamo che avremmo avuto il sostegno della sinistra, il progetto era valido e solo per questo pensavamo che sarebbe andato a buon fine. Non avevamo calcolato che aumentando il nostro potere in settori chiave come quello bancario e assicurativo, avremmo rotto equilibri politici e finanziari consolidati. Pensavamo che tutte le forze progressiste avrebbero visto con favore l'operazione di Unipol su Bnl, una banca nata come banca dei lavoratori. Peccammo di ingenuità e fummo affossati da fuoco amico e nemico».
Nel dettaglio, chi la sabotò?
«Oltre ai soliti nomi che facevano riferimento alla Margherita e a Rutelli, si schierarono contro importanti esponenti Ds allora all' opposizione e alcune frange del sindacato. E poi Montezemolo, Della Valle ed altri. Ma allora è vero che tentò una sorta di golpe economico-finanziario con i furbetti del quartierino? I furbetti del quartierino prima dell'operazione ossia 1 luglio 2005, neanche li conoscevo, come hanno dimostrato le intercettazioni. E quando li conobbi, nell'ambito della trattativa con il contropatto Bnl, ebbi un rapporto conflittuale. Unipol non fece mai nessuna operazione con i cosiddetti furbetti del quartierino, che invece erano finanziati per centinaia e centinaia di milioni di euro da importanti banche nazionali ed estere, che nessuno ha mai menzionato».
Il Pd fu accusato per il famoso abbiamo una banca di Fassino: ma è una frase così sbagliata?
«È sbagliata l'espressione ma l'entusiasmo per un'operazione del genere era comprensibile».
Il Pd voleva le nozze tra Unipol e Mps, perché lei si oppose?
«Visto come sono andate le cose, meno male che mi opposi, non trova? Storia e origini delle due entità erano troppo diverse. Avevamo la banca più antica al mondo e un gruppo assicurativo controllato dalle Coop che in 20 anni era diventato importante, non c'erano le condizioni per amalgamare le due realtà. Si poteva al più perseguire un'alleanza strategica. Fondere Unipol e Mps sarebbe stato come fondere Ds e Margherita in politica, guarda caso nello stesso periodo. Quello che poi è successo Ma non ha portato a nulla di buono ed è costato a Prodi due volte la poltrona di premier e una quella di presidente della Repubblica. Ds e Margherita avevano un unico solo comune denominatore, la base popolare, ma questa non basta quando si arriva da storie e valori totalmente diversi. Litigarono subito sul patrimonio Ds, affidato a delle fondazioni, fu una fusione a freddo che ancora non ha cessato di fare danni».
Crede che il Pd si spaccherà?
«Spero di no ma penso di sì: ci saranno un partito di sinistra e uno di centro di Renzi. E poi la destra, tutto come vent' anni fa».
E Berlusconi dove lo mette?
«Con Renzi non ci può stare. Non lo vuole Matteo e non lo vogliono gli elettori di entrambi. Gli conviene radunare i cocci della destra e provare a restare primus inter pares. Lui però ora tifa governo per salvaguardare Mediaset Non so se esistono i presupposti giuridici per fermare la scalata dei francesi di Bolloré a Mediaset. Il caso Mediaset va guardato nella filiera Telecom-Generali-Mediobanca: i francesi ci comprano, d' altronde loro hanno quell' orgoglio nazionale che a noi manca e li porta a scalare gli altri. Non ci siamo giocati Alitalia, Parmalat. E Fiat: qualcuno non crederà mica che è ancora un'azienda italiana?. Ma come: Silvio è europeista e pro immigrati mentre Salvini e Meloni sono sovranisti Sono cose che si aggiustano. Se il Cavaliere vuole rimanere influente deve cercare assolutamente di portare dalla sua Lega e Fratelli d' Italia».
La resistenza di D' Alema a Renzi è eroica o patetica?
«Nessuna delle due, direi personalistica. Se Renzi si fosse schierato per il No al referendum, D' Alema avrebbe sostenuto la campagna del Sì. D' Alema ha vinto e si è vendicato ma certo il referendum, a mio parere non lo rilancia politicamente. Però deve aver provato una grande soddisfazione, e si vive anche per queste cose».
E Bersani, qual è stato il suo errore più grande?
«Fare, per anni e anche in campagna elettorale, una politica incentrata contro Berlusconi, come nemico da abbattere, perché poi gli ha impedito di cercare l'accordo con lui e l'ha costretto a umiliarsi in streaming con Grillo. Evidentemente il caso Bnl non gli ha insegnato molto. Anche chiedere aiuto a Renzi per le elezioni e farsi fotografare al ristorante con lui subito dopo averlo battuto non gli ha giovato, ha rilanciato subito Matteo».
Renzi ha ancora un futuro?
«Sarà il prossimo candidato premier: la debolezza degli altri è la sua migliore assicurazione sul futuro».
E vincerà?
Se ce la farà, non sarà certo un trionfo. Per anni ha detto di avere con sé il 41% degli italiani, ma alle Europee del 2014 votò solo il 50% degli elettori. In realtà al massimo del suo fulgore, Renzi aveva con sé un italiano su cinque. Occhio poi, se perde il referendum sul Jobs Act potrebbe prendere una tranvata definitiva».
Renzi pagherà per aver promosso la Boschi o gli sarà perdonato?
«La gente capisce che non si è fatto indietro e che Gentiloni ha alle calcagna una persona di massima fiducia di Renzi, in grado di informarlo in tempo reale di qualsiasi mossa del governo. Non è una bella immagine».
Il ministro Poletti, che venendo dalle Coop lei conosce bene, deve dimettersi per aver definito una zavorra di cui è bene liberarsi i giovani che vanno via per lavorare?
«La frase è infelice, tanto più se detta da un uomo di sinistra. È contraria alla cultura di qualunque uomo contemporaneo e di buon senso. Sono rammaricato ma non stupito che Poletti l'abbia detta. Ma non credo che sia il caso di parlare di dimissioni».
Per l'Italia la moneta unica è un vantaggio o uno svantaggio?
«Visto che abbiamo un debito di oltre 2200 miliardi con paletti rigidi da rispettare, forse è ancora un vantaggio. Ma se avessimo avuto l'accortezza di ridurre il debito, oggi potrebbe essere uno svantaggio».
Cosa ne pensa del referendum per lasciare l'euro?
«Non è un'espressione di coscienza come per il divorzio: occorre un'attenta valutazione economico finanziaria prima di esprimersi, serve un piano su cui votare. La Brexit è stata un successo Non credo che avrà le conseguenze nefaste che si prevedevano perché Ue e Gran Bretagna troveranno delle mediazioni. Ma anche perché Londra ha la sterlina, e il governo inglese può stampare autonomamente moneta».
Perché il mondo si è ripreso dalla crisi e l’Europa ancora no?
«La Ue manca di unità politica e gli Stati non decidono insieme le politiche economiche ma solo i vincoli. È stato un errore posporre l'unità politica a quella monetaria. E poi la Germania è un comandante che esercita un'azione di freno rispetto a tutte le altre economie dei i Paesi Ue». Pietro Senaldi
Banche in paradiso, contribuenti all'inferno: salvate dallo Stato eludono il fisco. Dall’istituto di Siena a Intesa, da Unicredit a Mediolanum: ecco come i grandi gruppi del credito eludono il fisco italiano attraverso le loro controllate in Lussemburgo, a Bermuda e nelle Cayman. Ma quando le cose vanno male, lo Stato deve intervenire con miliardi di soldi pubblici, scrive Stefano Vergine il 4 gennaio 2017 su "L'Espresso". Hanno incassato all’estero decine di milioni di euro. Hanno gonfiato di profitti filiali registrate nei più aggressivi paradisi fiscali. Uffici senza nemmeno un dipendente. Eppure, lo Stato italiano corre in loro soccorso. Le aiuta mettendo a disposizione denaro pubblico. Soldi di chi ha pagato le tasse in Italia usati per salvare chi le tasse le ha pagate spesso fuori dai confini nazionali. È il paradosso di Monte dei Paschi di Siena, Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Too big to fail, direbbero gli americani. Troppo importanti per essere lasciate al loro naturale destino, è l’argomentazione del governo italiano. Fatto sta che le tre grandi banche salvate al grido di «tuteliamo i risparmiatori» fanno parte della lista degli istituti con il vizietto dell’offshore. Big del credito che per anni hanno dichiarato buona parte dei propri guadagni in Stati o Staterelli dove le imposte sono basse, bassissime, a volte addirittura inesistenti. Dai grandi classici europei come Irlanda e Lussemburgo ai paradisi esotici a sovranità britannica tra cui Cayman e Bermuda. Fino a Singapore ed Emirati Arabi, le nuove piazze asiatiche tax-free. Premessa. La tendenza a fatturare offshore non è una specificità tricolore. Lo fanno un po’ tutte le banche d’Europa. Per dire: l’anno scorso la francese Bnp Paribas ha incassato in nazioni a fiscalità agevolata o nulla il 12 per cento dei suoi utili, la tedesca Deutsche Bank è arrivata a un quarto del totale. Per l’Italia, però, la questione è oggi decisamente più rilevante. Il Fondo Atlante, finanziato in parte con i soldi della Cassa depositi e prestiti, è infatti diventato proprietario della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca. E dalle casse dello Stato arrivano direttamente anche i 20 miliardi di euro messi recentemente a disposizione dal governo di Paolo Gentiloni per salvare le altre a rischio, prima fra tutte Mps. Con il conseguente aumento del debito pubblico nazionale, già altissimo rispetto a quello dei concorrenti europei. Ecco perché è importante sapere se finora le banche hanno pagato le tasse in Italia, soprattutto quelle che resteranno in piedi grazie al denaro dei contribuenti. I dati emergono da un’analisi dei bilanci condotta da l’Espresso. Un’inchiesta possibile grazie all’obbligo, imposto dall’Unione europea a partire dal 2015, di pubblicare il rendiconto dei principali dati finanziari relativi a tutti i Paesi in cui l’istituto ha delle attività. Novità assoluta a livello mondiale, il cui scopo è proprio quello di limitare il trasferimento di utili verso Paesi dove la pressione fiscale è più bassa. Contrastare l’elusione fiscale, insomma, fenomeno che toglie alle finanze pubbliche del Vecchio Continente dai 50 ai 70 miliardi di euro ogni anno, secondo le stime della stessa Commissione. I risultati dell’indagine dell’Espresso dimostrano che l’obbligo di trasparenza ha portato alla chiusura di alcune filiali offshore, ma il ricorso ai paradisi fiscali rimane fondamentale per i protagonisti della finanza nostrana. «Una situazione preoccupante soprattutto adesso che vengono usati soldi pubblici per aiutare le banche», sottolinea Tommaso Faccio, esperto di fiscalità internazionale e docente di Economia aziendale alla Nottingham University Business School, in Inghilterra. Il timore del professore «è che questi fondi possano essere spostati all’estero invece che tornare nelle casse dello Stato, tramite utili tassati in Italia, una volta che le banche si saranno rimesse in carreggiata». Partiamo da Mps, la grande malata d’Europa. I bilanci dimostrano che fra il 2014 e il 2015 il gruppo ha chiuso due società in Irlanda e una in Olanda. Offshore, però, ne rimangono aperte ancora parecchie: due controllate in Lussemburgo, una in Irlanda e ben otto nel Delaware, rifugio tax-free a stelle e strisce. Risultato? Gli utili pre-tasse registrati in paradisi fiscali l’anno scorso sono stati 107 milioni di euro. Equivalenti a quasi un terzo del totale: il 27,9 per cento. Che una grande azienda abbia filiali in tutto il mondo, e paghi perciò una fetta delle imposte all’estero, è più che normale. A sorprendere, però, è la sproporzione fra attività economica e numero di lavoratori. Prendiamo la Mps Preferred Capital I Llc, società del gruppo con base fiscale nel Delaware. L’anno scorso ha fatto 44,9 milioni di euro di utili. Con zero dipendenti. Praticamente un miracolo. Più limitato il ricorso ai paradisi da parte della Popolare di Vicenza. L’istituto per anni presieduto da Gianni Zonin, ora finito sotto il cappello del Fondo Atlante, a fine 2015 aveva una sola filiale all’estero, in Irlanda. È la Bpv Finance International Plc, cinque impiegati in tutto. Dopo aver macinato utili per anni, ha chiuso l’ultimo bilancio con un rosso di 99,8 milioni di euro. «Cesserà di esistere definitivamente all’inizio del 2017», assicurano da Vicenza. Clamoroso il caso dell’altro istituto salvato dal Fondo Atlante: Veneto Banca. A differenza dei cugini vicentini, l’istituto guidato per anni da Vincenzo Consoli ha aperto filiali in diverse nazioni. Albania, Croazia, Romania, Moldavia. Un tentativo di allargarsi nei promettenti mercati nell’Est Europa, dove sono state assunte oltre 600 persone. Al contempo sono state aperte succursali anche in mercati non proprio emergenti: Svizzera e Irlanda. E dalla patria di James Joyce sono arrivati gli unici guadagni consistenti incamerati negli ultimi due anni: 103 milioni di euro in totale, incassati grazie ai soli sei dipendenti della filiale. Gli irlandesi, evidentemente, sono dei gran lavoratori. A fatturare offshore sono però soprattutto i grandi istituti italiani, quelli più in salute. Le prime tre banche commerciali convogliano nei paradisi fiscali quote dei loro guadagni che variano da un sesto fino alla metà del totale. Per un totale, nel solo 2015, di quasi 2 miliardi di euro. Intesa Sanpaolo, il principale istituto del nostro Paese per capitalizzazione di Borsa, ha registrato in Paesi a fiscalità agevolata il 23 per cento degli utili pre-tasse del gruppo. Eppure in quei posti è impiegato solo lo 0,5 per cento dei dipendenti totali. Emblematico il caso di Dubai. Nell’Emirato più famoso al mondo, il gruppo guidato da Carlo Messina ha fatturato 49 milioni di euro (senza versare un euro di tasse) con solo 18 dipendenti. Una produttività da record. Significa che ogni lavoratore in media ha fatto incassare alla banca 2,7 milioni. In Italia, per capirci, la media fatturata da ogni impiegato è di 315 mila euro. Quasi nove volte meno. Ancora più evidente la sproporzione in casa Unicredit. Le controllate di Bermuda, Cayman e Jersey non hanno nemmeno un dipendente all’attivo. Stesso discorso per le succursali domiciliate a Malta e nel Regno Unito, altre nazioni in cui il carico fiscale per le imprese può arrivare a livelli minimi. A cosa servono allora delle società in quei luoghi? Attività finanziarie, è la generica spiegazione fornita nel documento ufficiale. Di certo c’è un dato. Nei Paesi a fiscalità agevolata Unicredit ha incassato l’anno scorso circa il 15 per cento dei suoi utili pre-tasse. La fetta più grande appartiene a Irlanda e Lussemburgo, paradisi nel cuore del Vecchio Continente. Una tendenza valida per quasi tutte le banche italiane, comprese Ubi e Banca Generali, che nei due Stati europei piazzano spesso le società che gestiscono obbligazioni e fondi comuni. Proprio cavalcando questo fenomeno Mediolanum è diventata già da anni, come raccontato più volte dall’Espresso, la regina italiana dell’offshore. Il gruppo controllato da Ennio Doris e Silvio Berlusconi non ha filiali a Panama o alle British Virgin Islands. La “banca costruita intorno a te”, come si presenta negli spot pubblicitari, punta tutto sugli evergreen europei: Irlanda e Lussemburgo, appunto. Da qui l’anno scorso è arrivato infatti il 52,5 per cento degli utili pre-tasse del gruppo. Vuol dire che oltre la metà dei guadagni di Mediolanum non è stato tassato in Italia. Come succede all’irlandese Mediolanum International Funds Ltd, che si occupa di gestione di fondi d’investimento ed è la vera gallina dalle uova d’oro del gruppo. Con soli 26 lavoratori a tempo pieno, la succursale di Dublino ha un fatturato di 531 milioni di euro e un utile pre imposte di 527 milioni. Nessun costo, in pratica. E grazie al regime fiscale locale, che tassa normalmente le imprese al 12,5 per cento contro il 30 per cento italiano, la finanziaria dei Doris a fine anno ha guadagnato 461,9 milioni di euro netti. Una redditività da record. Con tanti saluti all’Agenzia delle Entrate.
Così le banche italiane hanno spedito centinaia di milioni in Lussemburgo. Grazie a un broker con decine di clienti cifre importanti sono transitate nelle filiali di Intesa e Ubi. La procura di Milano indaga, e poi archivia. Ma la Cassazione può riaprire il caso. E qui riveliamo i nomi coinvolti, scrive Vittorio Malagutti e Gloria Riva il 30 giugno 2016 su "L'Espresso". Questa è una storia di straordinario malaffare. Centinaia di milioni di euro decollati dall’Italia per rimbalzare fino in Lussemburgo, via Svizzera, Montecarlo e i paradisi offshore dei Caraibi. I documenti che "l’Espresso" ha potuto consultare raccontano una trama con un cast davvero assortito. Un ruolo decisivo viene svolto da grandi banche come Intesa e Ubi. E tra i protagonisti della storia troviamo imprenditori, manager e professionisti. Nomi già noti alle cronache come il gruppo guidato da Giuseppe Pasini, l’immobiliarista milanese coinvolto e poi assolto sei mesi fa in primo grado nel processo per le tangenti del cosiddetto "sistema Sesto" di Filippo Penati, pezzo grosso del Pd lombardo anche lui prosciolto. E poi Marco Marenco, imprenditore arrestato un anno fa per un crac da 3,5 miliardi e titolare, tra l’altro, della Borsalino, il famoso marchio dei cappelli. Nella lista troviamo anche l’azienda meccanica friulana Brovedani con il patron Benito Zollia, le acciaierie Valbruna della famiglia Amenduni, la Laworwash un tempo quotata in Borsa. La grande centrifuga del denaro nero ha girato a pieno regime per almeno una dozzina di anni. Fino a quando, nel 2012, una lite tra gli eredi del gruppo piemontese Giacomini ha portato alla luce gli ingranaggi del sistema. La procura di Verbania e poi quella di Milano hanno raccolto e analizzato migliaia di documenti che disegnano i contorni di quella che appare come una gigantesca frode fiscale. Si è scoperto che grandi marchi del credito nazionale come Intesa e Ubi hanno fatto soldi a palate aprendo le porte delle loro filiali in Lussemburgo ai clienti italiani in fuga dalle tasse. C’è di più. I file raccolti dagli investigatori rivelano che all’occorrenza Intesa inviava propri dirigenti ad amministrare le società lussemburghesi da cui transitavano i flussi di denaro sospetti. Nelle carte della procura di Milano compare anche il nome del banchiere Giuseppe Castagna, da poco promosso amministratore delegato del nuovo grande gruppo che nascerà dalla fusione tra Popolare Milano e Banco Popolare. All’epoca dei fatti, cioè tra il 2003 e il 2009, Castagna era un manager di punta della divisione Corporate and investment banking (Cib) di Intesa nonché consigliere di amministrazione della Société Européenne de banque (Seb), filiale lussemburghese del gruppo bancario all’epoca guidato da Corrado Passera. Nell’estate del 2012 i riflettori della cronaca hanno illuminato solo la vicenda dei Giacomini, che nell’arco di una ventina di anni avevano nascosto all’estero oltre 200 milioni di euro. "L’Espresso", sulla base di documenti giudiziari e carte riservate, è però in grado di rivelare che molti altri imprenditori e professionisti hanno utilizzato sistemi simili per trasferire denaro all’estero. Tutti i nomi della lista, a cominciare dai Giacomini, avevano un unico broker di riferimento, uno spallone d’alto bordo in grado di garantire ai suoi clienti un servizio rapido, discreto ed efficiente. L’uomo del Lussemburgo si chiama Alessandro Jelmoni, 49 anni, un veneto di San Donà di Piave che ha imparato in banca i segreti del mestiere per poi mettersi in proprio come consulente. Era lui, Jelmoni, il capo di quella che i pm di Milano, Giordano Baggio e Andrea Civardi, descrivono come un’organizzazione criminale creata allo scopo di favorire l’evasione fiscale. La giostra del denaro nero ruotava attorno a una società lussemburghese, la Titris, organizzata come una scatola con molti cassetti, ciascuno dei quali era intestato a un cliente, oppure serviva per uno specifico affare. Un report di un centinaio di pagine agli atti dell’inchiesta segnala 38 comparti in totale. Secondo questo rapporto, affidato dalla Procura di Milano al consulente tecnico Roberto Pireddu, gran parte dei movimenti di denaro transitavano su conti bancari di Ubi international. Diverse operazioni risalgono molto indietro negli anni, fino al 2004 e a volte la documentazione recuperata dagli investigatori è incompleta, probabilmente distrutta o messa al sicuro prima dell’inizio delle indagini. In alcuni casi diventa quindi difficile associare una persona a un singolo affare sospetto. C’è un comparto (numero 21) denominato Borsalino, che fa riferimento al già citato Marco Marenco. Un altro, il numero 15, è intestato all’immobiliarista milanese Michele Carasi. Alla famiglia Di Leo, proprietaria della Astor immobiliare di Atella (Potenza) era stata messa disposizione la piattaforma 28, su cui sono transitati 8 milioni di euro. All’azienda Brovedani, guidata da Benito Zollia, comparto numero 29, è invece associata un’operazione del valore di 21,4 milioni. Il "cassetto" 25 della grande scatola Titris risulta assegnato a Paolo Monteverdi, uomo d’affari finito sui giornali qualche anno fa come il titolare del residence in via Olgettina a Milano dove Silvio Berlusconi ospitava le sue amiche, da allora in poi meglio conosciute come "Olgettine". Giunti ai numeri 36 e 37, gli investigatori sono inciampati in un rebus difficile da risolvere. Si legge infatti nella relazione tecnica agli atti dell’indagine che quei comparti erano intestati al commercialista Lorenzo Barbone insieme a un non meglio identificato Maurizio Lupi. Nome e cognome corrispondono a quelli del parlamentare del Nuovo Centrodestra, nonché ex ministro del governo di Matteo Renzi. Nelle carte però non compare nessun altro elemento utile a individuare la persona: niente data di nascita, residenza, professione. Solo quel nome e cognome. Va però segnalato che Barbone è socio di studio del tributarista Raffaello Lupi ed entrambi hanno assistito Jelmoni per alcuni affari all’estero. L’intestazione dei comparti 36 e 37 potrebbe essere quindi il frutto di un errore materiale: un Lupi al posto di un altro. Maurizio invece di Raffaello. L’ipotetico errore è stato ripetuto più volte, almeno quattro, in diverse pagine dello stesso faldone di atti, dove non compare mai Raffaello Lupi, ma sempre e soltanto Maurizio. Il nome dell’ex ministro ha ovviamente incuriosito i magistrati che hanno chiesto spiegazioni a Jelmoni. Interrogato dal pm Civardi il 12 settembre 2012, il broker risponde che «Lorenzo Barbone è in rapporti stretti di lavoro con il professore Raffaello Lupi. Sicché per me è un errore l’indicazione di Maurizio». Caso risolto? Non proprio, perché Jelmoni era in ottimi rapporti con gli ambienti milanesi di Comunione e Liberazione, gli stessi da cui proviene il politico Lupi. Quei rapporti si erano a suo tempo trasformati in una relazione d’affari. La società di gestione di fondi di proprietà di Jelmoni, la RMJ sgr, compariva infatti tra i finanziatori di "Tempi", periodico di riferimento di Cl. In quello stesso interrogatorio del settembre di quattro anni fa, il finanziere ha liquidato la questione come una semplice coincidenza. «Replico che non conosco nemmeno il parlamentare (cioè Lupi, ndr)», ha tagliato corto il patron di Titris, aggiungendo però che forse in passato l’aveva «conosciuto in una occasione» con Simone (Antonio Simone, ciellino, a processo con Roberto Formigoni per le tangenti sulla clinica Maugeri, ndr) senza che però siano «stati presentati». La vicenda, a quanto pare, si è chiusa qui. Dagli atti dell’inchiesta non risulta che i pm abbiano svolto ulteriori approfondimenti. Sta di fatto che i comparti 36 e 37 sono serviti a gestire alcuni affari immobiliari in Germania, a Berlino, conclusi attraverso la società tedesca Capital Investment spv 2. Quest’ultima è solo una delle tante operazioni descritte nella relazione del consulente della procura. Semplificando al massimo, il canovaccio seguito da Jelmoni era il seguente. I soldi in arrivo dal cliente in Italia venivano triangolati dal Lussemburgo verso sigle offshore nei Caraibi per poi affluire su conti bancari, anche questi all’estero, riferibili ai presunti evasori fiscali. Anche lo studio panamense Mossack Fonseca aveva dato una mano: alcune delle società schermo risultano costituite con l’assistenza dei legali diventati famosi nel mondo per via dello scandalo dei Panama Papers. Il processo contro Jelmoni e i suoi principali collaboratori (Nerina Cucchiaro, Mario Iacopini e altri) è iniziato ai primi di giugno, quattro anni dopo l’arresto del broker. Procedimenti separati, anche in altre città italiane, sono invece stati avviati contro gli imprenditori e i professionisti accusati di aver dribblato il Fisco nostrano. È il caso dei fratelli Giacomini (Andrea, Corrado ed Elena) che però potranno essere giudicati per frode fiscale solo per i fatti successivi al 2011. Tutte le altre accuse, che riguardano giochi di sponda finanziari per decine di milioni di euro, sono già state azzerate dalla prescrizione. E le banche? Nel 2012 i pm Baggio e Civardi hanno iscritto nel registro degli indagati anche Intesa e la sua controllata in Lussemburgo, la Seb, insieme all’amministratore delegato di quest’ultima, Marco Bus, e al già citato Castagna. In sostanza, i manager erano sospettati di riciclaggio per aver gestito il denaro frutto dell’evasione fiscale dei Giacomini. Gli istituti di credito erano invece chiamati a rispondere in base alla legge sulla responsabilità amministrativa degli enti. A ottobre dell’anno scorso, però, i due pubblici ministeri hanno chiesto e ottenuto l’archiviazione del filone d’inchiesta che riguarda Intesa, un provvedimento deciso dal giudice per le indagini preliminari (Gip), Cristina Di Censo. La partita non è ancora chiusa. L’avvocato Mario Zanchetti, il legale di parte civile che assiste l’azienda Giacomini spa, ha fatto ricorso in Cassazione contro l’archiviazione. Motivo: il decreto del Gip, datato 19 ottobre 2015, non ha tenuto conto dell’opposizione formulata da Zanchetti a tutela delle ragioni del gruppo Giacomini. Secondo l’accusa infatti, l’azienda novarese, che ha un migliaio di dipendenti e filiali in tutto il mondo, sarebbe stata depredata dai suoi proprietari che hanno nascosto all’estero un vero tesoro. Il ricorso della parte civile riguarda il solo Bus. Il 12 luglio la Cassazione deciderà quindi se rimandare al Gip gli atti che riguardano l’ex amministratore delegato di Seb, che ha lasciato il suo incarico in Lussemburgo ma lavora ancora nel gruppo Intesa come manager di Imi. In teoria è quindi possibile che l’archiviazione venga annullata. Di conseguenza ripartirebbero le indagini sul banchiere che quindi rischia di andare a processo. Numerose testimonianze, decine di documenti societari e anche un rapporto riservato redatto dagli ispettori interni della banca, confermano che Intesa aveva rapporti strettissimi con i Giacomini. Nei file agli atti dell’inchiesta giudiziaria vengono ricostruiti versamenti e prelievi per milioni di euro, anche in contanti, senza che i funzionari abbiano mai segnalato queste operazioni sospette all’antiriciclaggio di Bankitalia. In una nota della direzione internal audit di Intesa, si legge che tra il 2002 e il 2005 dai conti della Giacomini spa in Italia sono usciti 22 milioni verso la società lussemburghese The Net. Nei sei anni successivi, fino al 2011, sono volati in Lussemburgo 33 milioni, questa volta a favore di un’altra società del Granducato, la J&Be. La famiglia piemontese aveva collaudato un sistema per portare all’estero milioni di euro all’anno mascherandoli come pagamenti di fatture per prestazioni inesistenti. Ed erano Jelmoni e i suoi collaboratori a gestire il flusso di denaro attraverso le lussemburghesi The Net e J&Be. Quest’ultima aveva un conto corrente a Ubi bank international, filiale nel Granducato della bergamasca Ubi banca. Lo stesso Bus, interrogato a più riprese dei magistrati, ha parlato dei fondi offshore gestiti da Seb per conto dei Giacomini. Nei verbali viene tra l’altro citata una società delle British Virgin Island, la Henderson services group, costituita, dichiara Bus ai pm, «su incarico di Seb» per conto di Alberto Giacomini (deceduto l’anno scorso). E il Fisco? «In pratica non ci era richiesto di verificare che le somme che gestivamo fossero effettivamente dichiarate», ha precisato il manager alla domanda dei pm milanesi. Nel 2009, secondo Bus, «la sensibilità su questo tema si sarebbe modificata». Risultato: solo allora alla Seb di Lussemburgo sarebbero cessati i rapporti con le società situate nei paradisi offshore. Per il gruppo bancario italiano, però, il colpo grosso porta la data del 2006. Nei primi mesi di quell’anno, infatti, la famiglia Giacomini decide di riportare sui conti di Intesa nel Granducato oltre 100 milioni di euro che cinque anni prima aveva ritirato e accreditato presso altri istituti. L’operazione viene gestita da Bus insieme a Jelmoni. Il patron di Titris era una vecchia conoscenza nei corridoi della Seb. Per anni infatti, fin dal 1993, il broker poi finito agli arresti, aveva lavorato per conto di Cariplo International in Lussemburgo, poi diventata Intesa e infine Société Européenne de banque. Nel 2001 Jelmoni si mette in proprio, ma continua a fare da consulente per i Giacomini che in quell’anno avevano deciso di azzerare i loro depositi alla Seb. Nel 2006 gli industriali piemontesi fanno marcia indietro e circa 116 milioni tornano sui conti della filiale lussemburghese di Intesa. I soldi arrivano dall’isola di Man, un altro paradiso fiscale, dove erano nella disponibilità del "Giacomini trust". Jelmoni recita più parti in commedia. È consulente della famiglia e allo stesso tempo è il protector del trust all’isola di Man, cioè il garante della correttezza della gestione del patrimonio. In pratica il broker di San Donà di Piave doveva controllare se stesso. Per Intesa quei soldi di un cliente come i Giacomini significano milioni di euro di profitti sotto forma di commissioni. Per questo i vertici di Seb decidono di premiare Jelmoni. La banca sigla un contratto di consulenza con Rmj, la piccola società di gestione del broker. È lo stesso Bus, interrogato dai pm, ad ammettere che quello fu il prezzo da pagare «per recuperare il cliente». A due anni di distanza, quei 116 milioni, a cui se ne sono aggiunti nel frattempo un’altra quarantina, vengono utilizzati come garanzia per un prestito di 129 milioni erogato da Seb ad Alberto Giacomini e ai suoi tre figli Andrea, Corrado ed Elena. I soldi del finanziamento servivano per liquidare altri due rami della famiglia e invece di smontare il trust si decise di indebitarsi con la banca. Di lì a poco, però, Andrea comincia a litigare con Corrado ed Elena. L’azienda diventa un ring dove i parenti si parlano a suon di carte bollate. La fine è nota. Nel 2011, arriva la Guardia di Finanza e poi i pm. Tutti a processo, salvo la banca e i banchieri. Secondo i pm Baggio e Civardi, non sarebbe infatti possibile sostenere in giudizio l’ipotesi d’accusa di riciclaggio perché non «si può ritenere raggiunta la prova» che quei 116 milioni confluiti nel Giacomini trust e accreditati a Seb siano di «provenienza delittuosa». In altri termini, non è detto che i soldi volati via da Intesa Lussemburgo nel 2001, denaro frutto di evasione fiscale, siano gli stessi che i Giacomini hanno poi collocato nel trust dell’isola di Man con il conto (dal 2006) alla Seb. Quindi, secondo i pm, Bus poteva non sapere che i soldi che gestiva, intestati a un trust offshore, erano provviste in nero. Eppure, lo stesso Bus in uno dei suoi interrogatori ammette la "sostanziale identità" tra le somme uscite nel 2001 e rientrate cinque anni dopo. Niente da fare. Per Baggio e Civardi il processo al manager d’Intesa non s’ha da fare.
Lo strano rapporto M5S-banche dalle finte guerre alle nomine. Dopo l'incontro confermato con Widiba (100% Mps), i grillini fanno le prove generali con San Paolo a Torino, scrive Giampiero Timossi, Mercoledì 04/01/2017, su "Il Giornale". Tutte le banche dei Cinque Stelle. Sognate, ereditate, annusate e usate, comunque. Ieri Beppe Grillo ha confermato l'incontro di fine anno tra Davide Casaleggio e Andrea Cardamone, amministratore delegato di Widiba, la banca online di Mps, il Monte dei Paschi di Siena. Il leader pentastellato ha scritto sul suo blog: «Una falsità totale, che stravolge un fatto vero». Infatti l'incontro c'è stato ed è confermato da quanto scritto su beppegrillo.it, dove viene spiegato (testualmente) anche «il fatto vero, ossia che Davide Casaleggio ha accettato di incontrare l'ad di una banca online che ha ricevuto vari premi per l'innovazione tecnologica, utilizzando il web per scambiare esperienze e idee sulla Rete e sulle sue possibilità, così come incontra decine di aziende innovative». Perfetto, così trapela anche la verità grillina sul possibile argomento dell'incontro. Certo, poi il comico fa il proprio mestiere, difende la creatura e «propone una giuria popolare per le balle dei media», attaccando notizie che lui stesso definisce «un fatto vero». Il post difende l'operato del figlio di Gianroberto Casaleggio, ma tralascia di scrivere che l'appuntamento milanese di fine dicembre era stato fissato con l'ad di una banca online controllata al 100% da Monte dei Paschi. La stessa banca che, sempre sul suo blog, Grillo definiva «banca di riferimento del mondo della sinistra». Era il 16 settembre 2015. Un altro fatto vero. Come è vero che il salvataggio di Mps costerà 8,8 miliardi di euro, dei quali 6,6 a carico dello Stato e quindi di tutti i contribuenti italiani. Non solo banche annusate, incontrare e accettate da anni come inserzionisti pubblicitari sul sito del leader. Ci sono, certo, le banche ereditate. Siena la «rossa» era la città del Monte? Torino la «grillina» è la città di Intesa San Paolo, la prima banca italiana, e della sua fondazione, la Compagnia di San Paolo. Ed è la stessa città della Fondazione Crt, azionista di Unicredit: il comune nomina due consiglieri in Compagnia di San Paolo e tre nella Fondazione Crt: è in questa città che nasce in maniera diretta il rapporto tra banche e Movimento Cinque Stelle. A giugno, appena insediata, la sindaca Chiara Appendino aveva chiesto le dimissioni del presidente Francesco Profumo, nominato nel consiglio generale insieme a Barbara Graffino. Erano i due nomi indicati dall'ex sindaco Piero Fassino. «Dimettermi, non ci penso neppure», aveva risposto Profumo. La ragionevolezza e il senso civico della sindaca pare abbiano fatto scoppiare la pace. E intanto, in estate, è arrivata la prima nomina grillina nella Compagnia. La regola dice che il presidente eletto decade dalla carica sottostante? Bene, Profumo liberava dunque un posto in consiglio generale. Dove Appendino ha indicato la ricercatrice universitaria Valeria Cappellato. Selezionata in base «al curriculum», dissero in Comune. Curriculum che al momento non è presente sul sito della Compagnia di San Paolo, ma non è certo colpa del sindaco. Appendino che, probabilmente, dovrà aspettare altri quattro anni per vedere il nome del suo candidato alla presidenza della Fondazione. Perché una regola «non scritta», una sabauda consuetudine, vuole che il vertice della piramide si scelga tra i candidati indicati da sindaca o sindaco. A Torino ci aveva già pensato Fassino, anche per questo esplose il caso-Profumo, poi sistemato. Ed eccoci alle banche sognate. E qui basta prendere un grillino qualsiasi e chiedergli quale modello di banca sogna per un mondo migliore. La risposta? Una sola, comprensibile: «La Grameen Bank, invenzione dell'economista bengalese Muhammad Yumus, Nobel per la Pace nel 2006, il padre del microcredito alle imprese». Ecco, questa è la linea ideale, la suprema simpatia ideologica, il migliore dei modelli da seguire. La banca sognata, diversa dalla Widiba annusata e pure da quelle ereditate.
Da De Benedetti alla Marcegaglia: Mps prestava i soldi ai ricchi, loro non li ridavano, scrive di Nino Sunseri il 28 dicembre 2016 su “Libero Quotidiano”. Fra i debitori che non hanno onorato i debiti verso il Montepaschi c’è anche Giuseppe Garibaldi. Incidenti che capitano alla banca più antica del mondo. Evidentemente anche in tempi non sospetti, a Siena sentivano il fascino della camicia rossa. Ma soprattutto rivelavano una certa reverenza nei confronti dei poteri forti. Preferibilmente in odore di massoneria. Nell'archivio della banca c'è questa lettera dell'Eroe dei Due Mondi: «Signor Esattore mi trovo nell'impossibilità di pagare le tasse. Lo farò appena possibile». Correva l'anno 1863 e non sapremo mai il destino di quel debito. C'è anche da dire che a Siena avevano una certa dimestichezza con i protagonisti del Risorgimento. Fra il 1928 e il 1932, infatti, la banca era entrata in possesso della tenuta di Fontanafredda che Vittorio Emanuele II aveva regalato alla Bella Rosina. Gli eredi se l'erano fatta espropriare per un debito non pagato. Un npl (non performing loans) in versione reale. Giuseppe Garibaldi e i nipoti della moglie del Re che non poteva diventare Regina. A Siena sono sempre stati molto trasversali nella scelta dei loro clienti. E anche le sofferenze rifiutano il monocolore. Così fra i clienti che non hanno rimborsato figurano la Sorgenia della famiglia De Benedetti e Don Verzè che, grazie anche all'amicizia con Silvio Berlusconi aveva fondato l'ospedale San Raffaele portandolo anche al dissesto con un buco di duecento milioni. Dagli archivi risultava anche, almeno fino all'anno scorso, una fidejussione di 8,3 milioni che il Cavaliere aveva rilasciato a favore di Antonella Costanza, la prima moglie del fratello Paolo. La signora aveva acquistato, per nove milioni, una villa da sogno in Costa Azzurra e poi aveva dimenticato di pagarla. A Siena, però, conoscevano bene la famiglia Berlusconi e si fidavano. Erano stati i primi a credere nella capacità imprenditoriali di Silvio e non se n'erano certo pentiti. Non altrettanto bene però, sono andate le cose con il gruppo che fa capo a Carlo De Benedetti, l'eterno rivale del Cavaliere. Sorgenia, il gruppo elettrico guidato da Rodolfo, primogenito dell'Ingegnere, ha lasciato un buco da 600 milioni. Le banche hanno trasformato i debiti in azioni. Ora sperano di trovare un compratore. Il cuore di Sorgenia è rappresentato da Tirrenia Power le cui centrali sono localizzate in gran parte fra la Liguria e l'Italia centrale. Naturale che Mps fosse in prima linea nel sostenere l'investimento e oggi a dover contabilizzare le perdite. Ma i problemi di Mps non si fermano alla Toscana e zone circostanti. La forte presenza in Lombardia attraverso la Banca Agricola Mantovana ovviamente l'ha portata in stretti rapporti d'affari con il gruppo Marcegaglia che ha sede da quelle parti. Fra l'altro Steno, fondatore dell'azienda siderurgica, era stato uno dei soci della Bam che aveva favorito l'ingresso di Siena. Tutto bene fino a quando al timone è rimasto il vecchio. Poi è toccato ai figli Antonio ed Emma. Complice la crisi economica, hanno accumulato un'esposizione di 1,6 miliardi che le banche hanno dovuto ristrutturare aggiungendo altri 500 milioni. Ma a parte questi nomi eccellenti chi sono gli altri debitori che hanno mandato in crisi la banca più antica del mondo? La ricerca non è facile. Il gruppo dei piccoli azionisti del Monte guidato da Maria Alberta Cambi (Associazione del Buongoverno) ha cercato l'identità delle insolvenze. I dirigenti della banca si sono rifiutati di rispondere schermandosi con le regole della privacy. Qualcosa, però, hanno detto. Non i nomi ma almeno la composizione. Viene fuori che il 70% delle insolvenze è concentrato tra i clienti che hanno ottenuto finanziamenti per più di 500mila euro. In totale si tratta di 9.300 posizioni e il tasso di insolvenza cresce all'aumentare del finanziamento. La percentuale maggiore dei cattivi pagatori (32,4%) si trova fra quanti hanno ottenuto più di tre milioni di euro. Ovviamente un tasso di mortalità così elevato sulle posizioni più importanti apre molti interrogativi sulla gestione. Anche perché la gran parte dei problemi nasce dopo l'acquisizione di Antonveneta. Prestiti concessi nel 2008 che finiscono a sofferenza nel 2014. Certo sono gli anni della grande crisi. Ma non solo. La scansione dei tempi dice anche un'altra cosa: Mussari e Vigni hanno concesso i crediti. Profumo e Viola hanno dovuto prendere atto che erano diventati fuffa. Nino Sunseri
Ecco chi sono i debitori del Monte dei Paschi. Dai costruttori romani Mezzaroma al Comune di Colle Val d’Elsa, tutti i crediti a rischio dell’istituto in cui entrerà lo Stato, scrive Mario Gerevini il 10 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". I costruttori romani Mezzaroma hanno un problema: alla loro holding sono state protestate 111 cambiali per milioni di euro da maggio fino a ieri. Ma chi rischia un bagno di sangue per averli copiosamente affidati? Banca Monte dei Paschi. Al Comune di Colle Val d’Elsa (Siena), stabile roccaforte del centrosinistra, si è aperto un buco (nei bilanci) per il fallimento di una costosa iniziativa immobiliare. A pagarne il prezzo maggiore, però, è chi l’ha finanziato: Mps. Antonio Muto voleva costruire alberghi e parcheggi a Mantova, con i soldi di Siena. Sono arrivati 27 milioni, 13 utilizzati. Degli altri 14 non si sa più nulla. Ma esiste anche una società dove Mps, peggior cliente di sé stesso, riesce ad autoinchiodarsi. Si chiama Valorizzazioni Immobiliari. Storie di soldi che evaporano e di vicende paradigmatiche che hanno contribuito ad affondare la banca. Certo, occorre distinguere tra sofferenze vere, incagli, crediti ristrutturati eccetera. E poi tra debitore e debitore. Ma, in sostanza, cambia solo la quantità di soldi persi. Mps in pool con altre banche ha finanziato, come noto, aziende poi entrate in crisi: la Risanamento di Luigi Zunino o Sorgenia del gruppo De Benedetti (600 milioni di esposizione complessiva Mps a fine 2014 trasformati, dopo la ristrutturazione di parte del debito, in 88 milioni di strumenti finanziari partecipativi e 44 milioni di obbligazioni convertende). Anche Giuseppe Statuto, proprietario di lussuosi hotel come il Four Season e il Mandarin a Milano o il San Domenico di Taormina sta dando grattacapi al Monte (in pool con Popolare Emilia e Aareal Bank) che dopo diverse rate del mutuo da 160 milioni non pagate gli ha pignorato l’Hotel Danieli di Venezia. Ora per Siena rischia seriamente di aprirsi il fronte Mezzaroma. La Impreme, holding di famiglia, è insolvente e starebbe cercando la protezione di un concordato. Mps (soprattutto) e Unicredit sono esposte per centinaia di milioni. Già nel 2013 era stato firmato un accordo di ristrutturazione ma i successivi piani industriali sono stati clamorosamente «bucati» (100 milioni di perdite tra il 2014 e il 2015). In più l’azienda ha ricevuto decreti ingiuntivi, istanze di fallimento e ipoteche giudiziali su una parte significativa del patrimonio immobiliare. Tanti soldi del Monte (tra un po’, quando entrerà lo Stato, anche «nostri») sono a rischio. Già qualche anno fa se n’erano andati una cinquantina di milioni per la scalata a debito di Massimo Mezzaroma al Siena calcio, fallito un anno fa. A Mantova il costruttore calabrese Antonio Muto, accusato di legami con la ‘ndrangheta ma assolto nel filone principale dell’indagine perché il fatto non sussiste, aveva ottenuto 27 milioni da Mps nel 2011 per costruire su un’area di 21mila metri quadrati in piena città. Secondo le informative dei carabinieri aveva relazioni ad altissimo livello a Siena dove andò più volte. Nel 2015 l’allora presidente del consiglio comunale di Mantova, Giuliano Longfils, presentò un esposto in procura: la società di Muto — denunciava — è fallita nel maggio 2015, sono stati sostenuti costi di circa 13 milioni per i lavori (cifra confermata da una perizia del tribunale); dunque che fine hanno fatto gli altri 14 milioni? Nessuna notizia, per ora. E intanto Mps dovrà salutare quei 27 milioni. Così come i 20 milioni destinati a un progetto immobiliare promosso anni fa dal Comune di Colle Val D’Elsa attraverso la controllata Newcolle, poi fallita. Solo che la Newcolle è partecipata al 49% dal Monte. Un imbarazzante intreccio: Mps per far valere i suoi diritti di creditore dovrebbe danneggiare se stesso. Con la Valorizzazioni Immobiliari (Vim) è andata anche peggio: 166 milioni di perdita negli ultimi tre bilanci. Era del Monte fino al 2008, gestiva un pacchetto di immobili non strumentali. Quell’anno fu venduta alla coppia Lehman Brothers-Sansedoni (Fondazione Mps) che pagarono con i soldi prestati dal Monte. Poi il mercato immobiliare è crollato e Lehman pure. Vim ora è in liquidazione e invece di essere un problema della Fondazione è attaccata all’ossigeno della banca che l’aveva venduta. Ma lasciandoci dentro 150 milioni di crediti.
Mps, dalle Coop all'Atac: ecco gli altri debitori eccellenti, scrive Martedì, 10 gennaio 2017, "Affari Italiani”. Mps, trapelano altri nomi dalla lista segreta dei 600 debitori inesigibili. La polemica prosegue e l'elenco dei nomi dei debitori eccellenti di Mps ormai trapelati continua ad allungarsi. In attesa che, dopo la aperture del governo, la lista dei 600 clienti inesigibili della banca senese salvata con i soldi dello Stato venga pubblicata, ecco un'altra serie di società debitrici. Non solo De Benedetti con la sua Sorgenia o Zunino e Zaleski come rivelato ieri da Affaritaliani.it, insomma, ma anche altre famiglie di peso, senza contare poi le coop rosse e le municipalizzate, stando a quanto pubblica Libero. Tutti a chiedere soldi senza mai restituire, tutti casi simili a quello di e Benedetti e la sua Sorgenia, con la banca costretta a trasformare il credito vantato in capitale azionario. E' il caso del gruppo Marcegaglia, ad esempio, debitrice per decine di milioni con la Banca agricola mantovana, controllata da Siena. Quello del colosso dell'acciaio, si fa notare dalla stessa azienda però, è un caso diverso da quello degli altri debitori eccellenti finiti nella lunga lista delle sofferenze di Mps. I prestiti elargiti al gruppo Marcegaglia sono stati infatti sempre restituiti. L'azienda guidata dai due figli del patron Steno non risulta dunque insolvente nei confronti di Palazzo Sansedoni. Tante cooperative rosse del mondo delle costruzioni e dei servizi, che nel corso degli anni sono andate a chiedere soldi e che alla fine si sono ritrovate la Fondazione Mps nel capitale, sono finite nella black list. Tra i casi più importanti c'è quello della Sansedoni Siena spa, gruppo nato in Unieco e poi diventato parte di Mps proprio per non aver saldato i debiti. Qui parliamo di 25,9 milioni, diventati il 21,75% del capitale. Stesso giochino per altre tre controllate, direttamente o indirettamente, della Sansedoni Siena spa: Marinella spa (26,9 milioni), Sviluppo e Interventi Immobiliari spa e la Beatrice srl (48,4 milioni, ora congelati perché la società è in liquidazione). Insomma, l'esposizione totale della Sansedoni Siena nei confronti del Montepaschi, a fine 2016, ammontava a ben 104,7 milioni di euro. Altro debito non saldato riguarda la società emiliana La Robinie spa, controllata all'80% da Unieco e il cui 20% è ora in mano a Mps, sempre per lo stesso motivo. Non sono rientrati nelle casse senesi neppure i 20 milioni concessi alla concittadina NewColle srl, ormai dichiarata fallita dopo che la banca era entrata nel capitale, né gli 11,3 milioni prestati al gruppo Fenice della famiglia Fusi e alle relative controllate come Una spa, quella degli hotel, Euro srl e Il Forte spa. Tralasciando il caso Menarini, per il quale è stata aperta anche un'inchiesta, c'è anche il settore pubblico a mungere la vacca Mps. Soprattutto le municipalizzate e società regionali toscane, ma non solo. Partiamo dalla Fidi Toscana spa, che al 31 agosto scorso ha ricevuto l'ok ad un altro prestito da 98 milioni di euro, con Mps già al 27,46% del capitale. Poi ci sono le Terme di Chianciano, esposte per 10 milioni, e i 4,8 dell'Interporto Toscano A. Vespucci spa. Ma a Siena arrivano anche da altre parti d'Italia. Ecco allora che spuntano i nomi delle romane Atac e Metro C. Nei confronti della società di trasporto locale il Montepaschi, che nel 2013 aveva partecipato ad un pool di banche che concessero un finanziamento per oltre 200 milioni, poi rischedulato a 163 milioni, rischia circa 30 milioni.
Mps, i grandi debitori: spuntano altri nomi, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano" il 10 gennaio 2017. Per ora chi dovrebbe fare luce sui crediti facili concessi da Mps non ha alcuna intenzione di svelare chi non ha restituito il dovuto all’istituto senese, e continua a difendere la privacy dei bidonisti, come ha fatto anche il nuovo amministratore delegato della banca, Marco Morelli: «Non possiamo fare quei nomi, altrimenti rovineremmo la loro reputazione». Di più: i vertici della banca hanno avvertito con una mail-circolare anche i propri dirigenti e dipendenti: se uscirà qualcuno di quei nomi, scatteranno inchieste interne e provvedimenti disciplinari. Ma il pressing mediatico e politico-istituzionale per fare pubblicare la lista di chi ha preso i soldi e non li ha restituiti è così alto e continuo che difficilmente lo scudo di Morelli potrà resistere a lungo. Anche perché se Mps si trova in queste condizioni e ancora una volta bussa alla porta dello Stato chiedendo un salvataggio pagato dai contribuenti, non poco è dovuto a quei 47 miliardi di sofferenze lorde che si sono accumulate in modo esponenziale negli ultimi anni proprio per il credito facile concesso a medie e piccole aziende. Mentre il Monte si blinda, però qualche nome di quell’elenco Libero è in grado di farlo, grazie alla consultazione dei bilanci di alcuni clienti della banca senese e alle doverose comunicazioni alle autorità di vigilanza fatte in questi anni quando si è trattato di ristrutturare la posizione debitoria di alcuni di loro. Si tratta sempre di imprese che non hanno restituito quello che avevano ricevuto dalla banca, che in molti casi ha dovuto condonare parte del debito e concedere nuove linee di credito nella speranza di non perdere proprio tutto. In altri casi ha escusso i pegni che aveva, non rientrando quasi mai però dell’esposizione. In altri ancora Mps è stata costretta a trasformare il credito vantato in capitale azionario, concedendo poi nuova finanza a quella che era divenuta una parte correlata e partecipando alla copertura annuale delle perdite quando la situazione non si raddrizzava. Casi simili, dunque, a due di quelli già emersi in questi giorni: quello di Sorgenia, in cui Mps fu costretto ad entrare dopo avere dato senza possibilità di riaverli indietro 650 milioni di euro al gruppo che all’epoca era di Carlo De Benedetti, e quello del gruppo Marcegaglia esposto per decine di milioni di euro con la Banca agricola mantovana, controllata da Mps. Nelle stesse condizioni si trovano altri rilevanti gruppi pubblici e privati. Così in quell’elenco dei cattivi pagatori sono entrati una dopo l’altra negli anni le più importanti cooperative rosse del mondo delle costruzioni e in qualche caso anche nel settore del consumo. Siccome non riuscivano a restituire più i soldi ricevuti essendo andato in crisi il loro mercato di riferimento, sia Mps che la omonima Fondazione sono entrate nel capitale di società di quei gruppi, iniziando una disavventura che di anno in anno è diventata più drammatica. Uno dei casi più significativi è stato quello del gruppo Sansedoni Siena spa, nato all’interno di Unieco e oggi proprio per i soldi non restituiti divenuto parte correlata della banca senese. Mps ha trasformato il credito vantato (25,9 milioni) nei confronti della capogruppo nel 21,75% del capitale, e poi ha concesso altri prestiti. Anche perché la stessa cosa è accaduta con società controllate a valle: Marinella spa, che non era in grado di restituire 26,9 milioni. Stessa situazione nei confronti di altre due controllate dirette o indirette dalla Sansedoni Siena: la Sviluppo ed Interventi immobiliari spa e la Beatrice srl in liquidazione, per cui è stato congelato un debito di 48,4 milioni di euro. L’esposizione complessiva del gruppo Sansedoni Siena nei confronti di Mps ammontava a giugno 2016 a 104,7 milioni di euro. Per restare ai difficili rapporti finanziari con il cliente Unieco, un altro debito di 20 milioni è in ristrutturazione fra Mps e la società di Reggio Emilia Le Robinie spa, che all’80% è controllata dalla coop di costruzioni e dove il restante 20% è diventato di proprietà di Mps proprio per la trasformazione dei crediti in azioni. Altri 20 milioni di euro sono finiti nel calderone delle sofferenze non più recuperabili e riguardavano una società senese, la New Colle Srl, che è stata dichiarata fallita un anno fa dopo anni di tentativi di ristrutturazione da parte del gruppo Mps, che avevano anche portato a un ingresso nel capitale di Mps Capital services spa. Cifre inferiori, pari a 11,3 milioni di euro riguardano invece il gruppo Fenice della famiglia Fusi (quella della Baldini Tognozzi Pontello- Btp) e soprattutto le relative controllate immobiliari Una spa (hotel), Euro srl, Il Forte spa. Anche in questo caso prima di cercare di ristrutturare il debito Mps ha convertito parte dei prestiti non restituiti in quote di capitale, arrivando al 20,54% della Fenice holding spa sia attraverso la banca capogruppo (4,16%) che attraverso Mps Capital services (16,38%). Altri problemi con i privati sono arrivati dall’antico rapporto con il gruppo farmaceutico Menarini, ma in questo caso si è messa di mezzo anche una indagine della magistratura con il sequestro di beni e liquidità dell’azienda. C'è poi il settore pubblico, che è una vera idrovora per Mps. Le società regionali o le municipalizzate toscane si sono rivelate un pozzo senza fondo, continuando a pompare risorse dalla banca, poi costretta ad entrare nel loro capitale quando i soldi non venivano restituiti. Così è accaduto con Fidi Toscana spa (27,46% del capitale in mano a Mps), per cui ancora il 31 agosto scorso è stato garantito un ulteriore affidamento di 98 milioni di euro. C’è una esposizione di poco inferiore ai 10 milioni di euro, già più volte ristrutturata e allungata con la concessione di nuova finanza, con le Terme di Chianciano, e analoghi problemi ci sono stati con l’Interporto Toscano A. Vespucci spa, dove è stato convertito in azioni un credito vantato e non pagato di 4,8 milioni di euro. Per restare al settore pubblico una delle maggiori spine di Mps viene dalla capitale: le municipalizzate del comune di Roma oggi guidato da Virginia Raggi (che c’entra poco però con quei debiti). Ci sono state rimodulazioni del debito con Acea e Metro C, ma i veri problemi vengono dall’Atac, la società di trasporto locale della capitale. Mps aveva partecipato con altre 3 banche a un finanziamento in pool nel 2013 per più di 200 milioni di euro, che è poi è stato rischedulato a 163 milioni di euro nell’autunno scorso, davanti alla evidente impossibilità di Atac di ripagare il dovuto. Il rischio per la banca senese in questo caso è intorno ai 30 milioni di euro. Ma i casi qui citati sono solo una piccola punta di quell’iceberg che sta per venire fuori.
Franco Bechis su “Libero Quotidiano" l’8 gennaio 2017: noi diamo i soldi a Mps e loro proteggono chi li ha messi ko. L'unico atto di rilievo finora firmato dal governo di Paolo Gentiloni è la variazione di bilancio e il successivo decreto salva banche che autorizza lo Stato ad indebitarsi di 20 miliardi in più per quello scopo. Più di un terzo di quella somma- 8 miliardi- servirà al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, l'istituto di credito messo peggio di tutti. Con i soldi dei contribuenti italiani verrà messa una toppa a una pessima gestione del credito che oggi conta 47 miliardi lordi di sofferenze. In gran parte soldi prestati a grande imprese per amicizia o per storici legami, senza chiedere le adeguate garanzie. Quelle non hanno restituito il dovuto, e la banca oggi affoga nei suoi guai. Da cronache giornalistiche sappiamo che in quell'elenco c'è il gruppo Sorgenia che all'epoca apparteneva a Carlo De Benedetti, e - attraverso la controllata Bam- il gruppo Marcegaglia guidato da Emma Marcegaglia. Nè l'uno nè l'altra hanno chiesto scusa per i guai causati al sistema pubblico, anzi. Entrambi continuano pure a fornire prediche sui mali e guasti dell'Italia di cui proprio loro sono responsabili. La Marcegaglia è stata pure premiata come manager e chiamata alla presidenza dell'Eni dal governo di Matteo Renzi. Ma chi sono gli altri che hanno preso i soldi da Mps e non li hanno mai restituiti? La domanda è stata fatta più volte invano in assemblea dai piccoli azionisti Mps, che hanno sempre trovato di fronte un muro di gomma. E' accaduto anche il 24 novembre scorso, quando a rispondere era il nuovo amministratore delegato di Mps, Marco Morelli, il manager che avrebbe dovuto salvare con capitali privati la banca e che oggi invece bussa alla porta dello Stato per avere il salvagente. Morelli ha risposto così: "Faccio presente che ai sensi della disciplina vigente e precisamente per la legge sulla privacy, non è possibile fornire i nominativi dei soggetti cui si riferiscono i crediti in sofferenza, che riceverebbero un significativo danno reputazionale dalla diffusione di tali informazioni". Capite? Il danno causato da quei signori lo pagano i contribuenti italiani, che nessuno protegge. Ma chi ha preso i soldi ed è scappato via è tutelato più di ogni altro, perché mai si sapesse in giro che è solito comportarsi così, si rovinerebbe la sua reputazione. Una tesi grottesca. Ancora di più se si pensa che in questi anni le banche hanno dato soldi solo a gente così. Chiudendo la porta in faccia ai piccoli o ai giovani che cercavano finanziamenti per una buona idea con cui gli istituti di credito avrebbero sicuramente rischiato assai meno...
Mps, altro che i cento debitori: fuori i nomi di chi ha permesso i finanziamenti, scrive Massimo Famularo il 10 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Adesso che l’entità della problema Monte Dei Paschi comincia a diventare più chiaro, si fanno sentire le grida indignate di chi vorrebbe individuare e punire i responsabili. In particolare, un utile capro espiatorio potrebbe essere costituito dai primi 100 debitori in sofferenza che “sicuramente” costituiscono dei perfidi approfittatori a cui chiedere conto del dissesto dell’istituto e avrebbero la conveniente caratteristica di essere relativamente pochi, facilmente individuabili e, verosimilmente, diversi da noi e dai politici per i quali simpatizziamo. Fermiamoci un istante e proviamo ad accendere il cervello: è più importante sapere chi i soldi li ha ricevuti oppure identificare chi ha preso le decisioni di erogare i finanziamenti? Cosa viene fuori se tiriamo fuori i più grandi debitori insolventi di una banca? In primo luogo è probabile che si tratti di imprese perché raramente i finanziamenti di grande importo sono concessi a persone fisiche. Inoltre è probabile che grandi imprese insolventi siano da tempo soggette a procedure concorsuali o di crisi aziendale e dunque che le informazioni sul loro dissesto siano di fatto pubblicamente disponibili. Last but not least, è probabile che i finanziamenti più rilevanti siano stati concessi in pool con altri istituti, dunque quando alcuni dei top debitori insolventi sono condivisi tra più istituti complicando l’analisi delle responsabilità in sede di erogazione. A che serve allora pubblicare l’elenco maggiori debitori insolventi? A ribadire informazioni che probabilmente sono già pubbliche e che poco o nulla ci dicono sulle reali responsabilità del dissesto della banca che ha finanziato. Dove andrebbe allora indirizzata la legittima indignazione di chi troppe volte è costretto a saldare il conto della cattiva gestione pregressa? Anche questo non è molto difficile, proviamo a indicare tre obiettivi. Obiettivo 1: i pesci grossi. Dall’acquisizione di banca 121 a quella di Antonveneta, passando per intricate e discutibili manovre di bilancio e operazioni disinvolte in derivati, tutte le decisioni maggiormente dannose per l’istituto sono agevolmente attribuibili. Un bel documento sintetico, indicante le dieci o venti scelte manageriali più esecrabili, ordinate per importo di valore distrutto con l’indicazione di tutti i soggetti interni ed esterni coinvolti, inclusi consulenti e autorità che avrebbero dovuto vigilare, sarebbe moto utile per comprendere le reali responsabilità del dissesto. Sarebbe anche un buon punto di partenza per avviare eventuali azioni di responsabilità e richieste di risarcimento oltre che per evidenziare pubblicamente anche quanto hanno funzionato i meccanismi di nomina indirizzati dalla politica. Obiettivo 2: i pesci medi. Il processo di erogazione di un fido è sicuramente articolato e non è agevole risalire a delle responsabilità individuale. Si può tuttavia verificare se, alcuni organi deliberanti hanno performato in modo peggiore rispetto alla media, concedendo crediti a soggetti che poi si sono rivelati inadempienti con una frequenza maggiore rispetto allo standard dell’intero portafoglio. Questa non deve essere una lista di condanna, ma ancora una volta un punto di partenza per avviare delle indagini sui soggetti che hanno “prodotto più sofferenze” rispetto ai loro colleghi. Obiettivo 3: i pesci piccoli. A questo livello non è possibile fare elenchi di colpevoli perché le responsabilità sono troppo diffuse. Val la pena tuttavia considerare che casi come quello di Mps hanno distrutto tanto valore per la collettività anche con la collaborazione silenziosa di tanti piccoli risparmiatori ed elettori delle amministrazioni locali che hanno espresso la governance dell’istituto. Se queste moltitudini di elettori fedeli di un partito o investitori fiduciosi nei consigli della filiale di riferimento avessero avuto qualche dubbio, è plausibile che una parte del danno si sarebbe potuta evitare. A questo proposito vale anche la pena ribadire l’importanza dell’educazione economica e finanziaria sulla quale i percorsi di studi del nostro paese sono ancora troppo carenti. In sintesi, serve a poco puntare il dito contro i debitori insolventi, grandi o piccoli che siano, giacché le responsabilità del dissesto di Mps e degli altri istituti per i quali si è reso e si renderà necessario l’intervento dello Stato, fanno capo a chi ha preso le decisioni di gestione degli istituti e autorizzato le pratiche di affidamento. Occorre altresì evitare troppo facili semplificazioni: non è sufficiente osservare la dinamica di deterioramento di un credito, occorre anche ricostruire le condizioni sia di controparte che di mercato esistenti al momento in cui il credito è stato erogato, per stabile se e in che misura vi sono stati degli abusi.
Vittorio Feltri il 12 gennaio 2017 su “Libero Quotidiano”: Mps, i partiti difendono i paraculi. Quale era la cosa più inutile (e stupida) che si potesse fare davanti allo scandalo del Monte dei Paschi, la banca più puttana del mondo che rubava ai poveri per regalare ai ricchi? Istituire una Commissione parlamentare di inchiesta. Un tipo di iniziativa diventata famosa perché totalmente inefficace ai fini di ricostruire e denunciare le magagne italiane. Tanto è vero che già mezzo secolo fa negli ambienti della Camera e del Senato si diceva scherzosamente (ma non tanto) che il modo migliore per affossare una vergogna nazionale fosse appunto quello di dare vita a una Commissione parlamentare di inchiesta. In effetti di Commissioni del genere ne abbiamo viste a decine e non ce n’è mai stata una che sia riuscita a fare chiarezza, informando i cittadini delle peggiori porcherie commesse nel nostro vituperato Paese. Sarà così anche stavolta? Ovvio. Tanto più che stavolta tale Commissione, bene che vada, camperà poco tempo e non sarà in grado di combinare alcunché. Per il semplice motivo che verrà sciolta contestualmente alla scadenza naturale della legislatura, cioè entro un anno. Mettere in piedi un ambaradan simile pur sapendo che non porterà ad alcun risultato pratico è una idiozia. Anzi. Una presa per i fondelli. Non è gratuito il sospetto che i partiti siano ricorsi a questa “non soluzione” per proteggere i paraculi che hanno svaligiato il Monte senese, da cui si sono fatti prestare svariati milioni senza avere alcuna intenzione di restituire un euro. La politica in pratica invece di mirare a fare chiarezza e a svillaneggiare coloro che hanno depredato la banca dei misteri, fa di tutto e di più per nascondere sotto il tappeto i loro misfatti, che poi sono ladrocini della peggiore specie. Ci eravamo illusi che gli apparati statali, prima di salvare l’istituto toscano in agonia, si premurassero di rendere noti i nomi dei saccheggiatori e provvedessero a perseguirli civilmente e penalmente; viceversa si stanno rivelando loro complici, il che ci induce a pensare che tra furfanti si sia stabilita una alleanza truffaldina. Non è una ipotesi, ma una certezza, a questo punto. Ma la cosa che più ci sorprende è la constatazione che anche i partiti di destra (Forza Italia compresa), avversari della sinistra che ha amministrato per anni il Monte, stanno al gioco sporco della Commissione di inchiesta, ossia il mezzo più idoneo per stendere un velo di oblio su quelli che non è esagerato definire furti o almeno inadempienze. Cosicché la situazione si aggrava suscitando allarme nella opinione pubblica, i cui interessi noi cerchiamo di tutelare, reclamando ancora la pubblicazione immediata dei nomi e dei cognomi degli insolventi, i quali si godono il bottino sottratto alla banca che hanno assaltato senza pagare il fio. Ecco perché non demordiamo. Il governo esponga al pubblico ludibrio i personaggi che hanno approfittato della bischeraggine dei banchieri, e solamente dopo averli puniti adeguatamente provveda a tappare i buchi di bilancio con i nostri quattrini. E sottolineo nostri. Siamo dispiaciuti dell’infarto che ha colpito il premier Gentiloni e gli auguriamo una pronta guarigione, ma anche dal suo letto di dolore egli agisca in favore della gente sacrificando l’onorabilità dei ricchi che hanno troppo sgraffignato a danno della collettività.
Banche, dall’Etruria alle due popolari venete il conto per l’Italia arriva a 68 miliardi. E' questa la somma del valore di azioni e obbligazioni vaporizzate, aumenti di capitale di Mps bruciati, interventi dello Stato e contributo del sistema bancario, che comprende anche parti di denaro pubblico come i 500 milioni immolati dalla Cassa Depositi e Prestiti, scrivono Carlo Di Foggia e Giorgio Meletti il 9 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco sono molto contenti. Il crac della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca, lasciate marcire per anni da una Vigilanza bancaria distratta se non complice, è stato risolto impegnando 17 miliardi dei contribuenti, ma era “l’unica soluzione, comunque la migliore”. E adesso, soprattutto, ci assicurano che la crisi bancaria è finita, che è tutto a posto, non ci sono altre minacce in vista. È vero, lo avevano già detto il 22 novembre 2015, dopo il come sempre frettoloso e sgarruppato bail-inall’italiana di Banca Marche, Etruria, Cassa Ferrara e Carichieti.Assicurarono che, in mezzo a tanti strepiti populisti su quattro banchette di infima dimensione, loro avevano, in silenzio, messo in sicurezza il Monte dei Paschi e le due banche venete. Non era vero, ma chi non fa non falla. Quindi adesso ci fidiamo. La crisi bancaria è finita ed è tempo di bilanci. Quanto è costata al Paese? A oggi, primo provvisorio bilancio, 68 miliardi.Prese le sette banche “salvate”, è questa la somma del valore delle azioni e delle obbligazioni vaporizzate, degli aumenti di capitale di Mps bruciati, degli interventi dello Stato e del contributo del sistema bancario, che comprende anche parti di denaro pubblico come i 500 milioni immolati dalla Cassa Depositi e Prestiti o i 260 milioni offerti da Poste Vita. È doveroso chiarire che i 68 miliardi non sono stati “bruciati”, come amano dire gli analisti compiacenti che trattano queste vicende alla stregua di catastrofi naturali. Il denaro non si crea e non si distrugge, ma passa da una tasca all’altra. In questa storia c’è gente rovinata mentre qualcuno si è molto arricchito, per esempio alcuni furbacchioni che sono riusciti a farsi comprare da Popolare di Vicenza e Veneto Banca le azioni a prezzo pieno un attimo prima della catastrofe. Nella migliore delle ipotesi il denaro è passato in modo quasi indolore da quella destra a quella sinistra del medesimo soggetto. Intesa Sanpaolo per esempio ha buttato 1,5 miliardi nel fondo Atlante che doveva salvare le due banche venete ma se li è ripresi con gli interessi grazie al generoso contributo statale per risalvare le due banche venete; e lo stesso fondo Atlante, dopo aver buttato 3,5 miliardi affidatigli dalle banche per ricapitalizzare le venete, adesso cercherà di rifarsi speculando sui crediti inesigibili (sofferenze) di Mps, comprati al 21 per cento contro il 27 per cento già pattuito un anno fa, cioè con uno sconto, tanto per cominciare bene, di 1,5 miliardi. Se rivende le sofferenze al 35 per cento il conto è pari. Il conto lasciato dal grande Mussari – Esattamente dieci anni fa il presidente di Mps Giuseppe Mussari ebbe l’idea meravigliosa di comprare per 9 miliardi la Banca Antonveneta che ne valeva forse 3, forse 5. Lo sapevano tutti, Bankitalia compresa, meno lui. L’obiettivo era di rendere Rocca Salimbeni non scalabile. Centrato in pieno: chi se la poteva comprare una schifezza del genere? Solo lo Stato, e infatti. Nel 2007 Mps valeva in Borsa oltre 6 miliardi: ai possessori di quelle azioni, in primo luogo la Fondazione Mps, non è rimasto niente. Ma per finanziare l’Antonveneta Mussari chiese 5 miliardi di aumento di capitale: visti e persi. Poi fece una montagna di debiti assurdi, con la Banca d’Italia che, a guardia della sana e prudente gestione, benediceva. Nel 2012 sono stati mandati Fabrizio Viola e Alessandro Profumo a cercare di metterci una pezza. Viola ha fatto due aumenti di capitale: 5 miliardi nel 2014, 3 miliardi nel 2015. Non sono bastati: visti e persi anche gli 8 miliardi. Mentre Matteo Renzi giurava che Mps era una banca fichissima su cui quelli furbi come lui avrebbero investito di corsa, la Bceun anno fa ha chiesto altri 5 miliardi di capitale. Renzi ha detto: “No problem, ci pensa il mio amico Jamie Dimon di Jp Morgan con il suo plenipotenziario per l’Italia Vittorio Grilli”. Non ci sono riusciti e allora la Bce ha detto: “Visto che il mitico mercato non vi dà 5 miliardi, adesso trovatene 9”. Ed è subito salvataggio statale, con azzeramento delle obbligazioni subordinate. L’impresa di Mussari e della Banca d’Italia che fingeva di vigilare è finita per costare 27 miliardi. Il conto lasciato dal grande Zonin – Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono due storie parallele. Nel 2015 le azioni della prima valevano in tutto 6,2 miliardi, quelle della seconda 5 miliardi. Vaporizzate alla velocità della luce. Nel 2015 la Vigilanza Bce-Bankitalia stabilisce che Zonin ha lasciato un buchetto da 1,5 miliardi, da coprire con apposito aumento di capitale. Tutto questo con Zonin ancora sul trono, indiscusso e indiscutibile, affiancato dall’amministratore delegato Francesco Iorio, passato alla storia per essere stato cacciato dopo meno di un anno e mezzo avere incassando non solo la buonuscita milionaria ma anche la buonentrata. Unicredit si presta come garante dell’aumento, ma poi scopre che nessuno sottoscrive e il miliardo e mezzo ce lo deve mettere lei. Panico. Nasce il fondo Atlante che raccoglie 4,2 miliardi tra le banche e le Fondazioni per andare in soccorso delle due venete. Mette 1,5 miliardi su Vicenza e 1 miliardo su Veneto Banca a giugno 2016. Subito dopo scopre che il buco è ben maggiore e il presidente della Fondazioni Giuseppe Guzzetti denuncia che i prospetti dei due aumenti di capitale erano falsi. Bce e Bankitalia fischiettano. A fine 2016 Atlante deve mettere un altro miliardo per non far chiudere le due banche. Inizia la trattativa infinita con Bruxelles per l’intervento statale. Solo a giugno Padoan, dopo mesi di studio, scopre che le due banche non hanno i requisiti per la “ricapitalizzazione precauzionale”, ed è subito liquidazione coatta amministrativa, con Intesa Sanpaolo che si prende tutta la polpa con tanto di contributo miliardario e garanzie dello Stato. Il conto finale sfiora i 33 miliardi di euro. Il conto lasciato da Etruria & C. – In confronto a Mps e alle venete il caso appare di modesta entità. Però anche qui, degli 8,4 miliardi di costo totale del disastro, 5,8 ce li ha messi il sistema bancario. Ma il denaro non si crea e non si distrugge. Le banche si stanno già rivalendo sui correntisti aumentando i costi di tenuta dei conti.
Banche, la via crucis del credito: la rete di errori da Mps al Veneto. Oltre ai comportamenti scorretti dei manager sono sotto tiro le responsabilità della Vigilanza, Bankitalia e Consob. Ma anche Tesoro e politica, scrive Massimo Giannini il 3 aprile 2017 su “La Repubblica". "La crisi delle banche non esiste. Esistono alcune banche in crisi, che è una cosa molto diversa". Chi in questi mesi di credit crash tricolore avesse l'occasione di scambiare due chiacchiere con Ignazio Visco, lo troverebbe "serenamente preoccupato", per usare un ossimoro moroteo. Preoccupato perché almeno una decina di istituti traballano. Ma sereno, perché secondo il governatore "non è a rischio il sistema". Mps, Popolare Vicenza, Veneto Banca, Etruria e le altre tre banche "in risoluzione", Carige, e poi Cassa di Cesena, Rimini, Popolare di Bari. Le difficoltà ci sono, ma a determinarle è stata "una crisi economica straordinaria". In otto anni, si dice a Palazzo Koch, il crollo effettivo del Pil è stato del 30% e le sofferenze nette sul totale dei prestiti sono salite di 3 punti. Risultato: 600 miliardi di caduta del Pil hanno generato 60 miliardi di aumento dei crediti avariati. Un disastro, ma "quasi fisiologico". Messa in questi termini, la crisi bancaria italiana è come le sette piaghe d'Egitto. Ti arriva addosso, e non puoi farci niente. Ma è davvero così? Come diceva Prezzolini, gli "apoti" questa "non la bevono". Non è colpa solo della Grande Recessione, se l'Italia con il suo bel 18% di crediti deteriorati lordi rispetto agli impieghi resta la maglia nera d'Europa. Se dopo 30 miliardi di ricapitalizzazioni dilapidate solo per quella "sporca dozzina" di istituti, e dopo uno "scudo" da 20 miliardi creato a fine 2016, gli analisti stimano un ulteriore fabbisogno di capitali tra 40 e 55 miliardi. Oggi le banche "salvate" sono ancora "sommerse". Vuol dire che nella politica qualcosa non ha funzionato. Solo nel "triangolo delle Bermude" Mps-Popolare Vicenza-Veneto Banca sono scomparsi 65 miliardi di depositi in 5 anni, e un milione e mezzo di risparmiatori ci ha rimesso quasi 15 miliardi. Certo, i "furbetti del credito" hanno anche rubato. Ma i controllori non hanno controllato. Tutti hanno un pezzo di colpa, nella via crucis bancaria di questi anni. Ora la politica, con la sua cattiva e tardiva coscienza, ha inventato un ridicolo Golgota finale: la commissione parlamentare d'inchiesta, che non scoprirà un bel niente (come tutte le commissioni d'inchiesta, da Ustica a Bnl Atlanta). Sarà un inutile ricettacolo di veleni e di vendette.
Il groviglio di Siena. La prima "stazione" della via crucis è a Rocca Salimbeni, madre di tutte le sciagure del "socialismo municipale". Mps, "groviglio armonioso" diventato "rovinoso". Rovina nel dicembre 1999, quando ingoia per 1,3 miliardi un boccone rancido come Banca 121 (già Banca del Salento, cassaforte dalemiana). Rovina nel novembre 2007, quando ingoia un boccone enorme come Antonveneta (vale 6 miliardi, ma il Santander gliela rifila per oltre 9 miliardi). Due "uova del serpente", che nella pancia senese generano 18 miliardi di debiti. L'ineffabile Mussari li occulta con le truffe in derivati ("Fresh" e "Santorini", nascosti in cassaforte). Deflagra lo scandalo giudiziario. Nel frattempo, un tourbillon di aumenti di capitale (9 miliardi tra 2014 e 2015). Fino al caos odierno: decreto legge di fine dicembre e salvataggio pubblico da 20 miliardi. Secondo Pierluigi Piccini, ex sindaco di Siena, "Mps l'hanno ucciso le faide interne al Pd, D'Alema che sbagliò a nominare Mussari e Veltroni che non capì l'enorme scontro finanziario in atto nell'Italia di quegli anni". Ma premesso questo: dov'era la Banca d'Italia di Antonio Fazio, ai tempi dell'indigestione Banca 121? Dov'era la Banca d'Italia di Mario Draghi, ai tempi del bagno di sangue su Antonveneta? E dov'era la Consob di Lamberto Cardia, ai tempi dell'intossicazione da derivati? Dal 2010 la fuga dei depositi ha raggiunto i 50 miliardi. La politica continua a offrire il peggio di sé. Renzi, che usa la commissione d'inchiesta come una clava contro D'Alema e i Ds, da premier ha combinato altrettanti pastrocchi. Si è inopinatamente fidato di Jp Morgan per la ricapitalizzazione privata da 5 miliardi, cacciando l'ex "ad" Viola e imponendo Morelli. Di fronte al fiasco ormai certo, ha rinviato l'intervento pubblico (che a luglio 2016 la Ue gli avrebbe consentito), per evitare schizzi di fango prima del referendum costituzionale. Il governo Gentiloni ci ha messo una pezza alla vigilia di Natale. Ma il salvagente dello Stato non è ancora scattato, per un kafkiano cortocircuito con Bce e Bruxelles. Per dare via libera all'aumento di capitale "precauzionale", Mps deve dimostrare di possedere "i requisiti patrimoniali minimi". Cioè, per avere l'autorizzazione Bce sugli 8,8 miliardi di capitali chiesti dalla stessa Bce, Siena deve prima dimostrare di non averne bisogno. Siamo fermi a questo paradosso, di cui il silente ministro Padoan non sembra in grado di venire a capo.
La trappola di Etruria. Renzi se ne fa ancora un vanto (sorvolando tartufescamente sul conflitto d'interessi di papà Pierluigi Boschi): "Il salvataggio delle 4 banche regionali ha messo al sicuro i risparmi di 1 milione di correntisti e obbligazionisti, per un controvalore di 12 miliardi". La fa troppo facile: anche in questo caso la politica di impicci ne ha combinati tanti. Il decreto di "risoluzione" per Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti (seconda "stazione" della via crucis) piove sulla testa degli italiani il 22 novembre 2015, quando scattano per la prima volta il "bail in" e il "burden sharing". È una pioggia gelata. Fino ad allora (nonostante perdite per 1,7 miliardi e crediti deteriorati per 6) non si sapeva granché del buco delle quattro "banchette". E fino ad allora (nonostante una gestazione comunitaria iniziata nel 2013 "con l'accordo di tutti i governi compreso quello italiano ", come Mario Monti ricorda all'immemore Matteo) non si sapeva nulla della "rivoluzione" in arrivo. A dicembre 2015 è il caos. I risparmiatori (spesso costretti a sottoscrivere quote in cambio di prestiti) scendono in piazza. Un pensionato-cliente di Etruria si suicida. E allora si svegliano tutti. Renzi dice che senza il suo decreto sarebbe scoppiata l'Armageddon. Il presidente dell'Abi Patuelli obietta che "il bail-in è incostituzionale ". La Banca d'Italia ricorda che il governatore andò per primo a illustrare alle Camere le criticità del bail in e la necessità di applicarlo gradualmente.
Sindrome bail-in. A Palazzo Koch si racconta che a negoziare con l'Europa, fino al 2014, "furono Grilli, Saccomanni e Padoan, tre ministri diversi, mentre per i tedeschi c'era sempre e solo Schaeuble". Si sottolinea che la comunicazione fatta a Bruxelles prevedeva di falcidiare dell'8% tutti (correntisti, subordinati e non) e poi liquidare le quattro "banchette", e questo "grandguignol" è stato evitato solo grazie a Bankitalia. E si aggiunge, infine, che se tutto è precipitato in fretta, nel novembre nero 2015, è perché la legge sul "burden sharing" (che ha recepito la direttiva Brrd e ha consentito di distinguere tra le diverse categorie di risparmiatori) fu approvata dal Parlamento nel luglio 2015 con 7 mesi di ritardo, e rimase parcheggiata a Palazzo Chigi per altri 4 mesi.
Gli scenari della Consob. Dunque, ancora una volta la politica ha fatto i suoi errori. Ma dov'erano gli "sceriffi", mentre i "gangster" Fornasari e Bianconi piazzavano a carissimo prezzo i loro "junk bond" agli ignari clienti? A Banca Etruria la prima ispezione Bankitalia è del 2010, e il commissariamento solo del febbraio 2015. In mezzo, altre ispezioni, irregolarità, lettere come quelle che Visco scrive il 5 dicembre 2013, in cui parla di "degrado irreversibile" dell'istituto. Ma questi rilievi non finiscono nel prospetto informativo autorizzato dalla Consob (che pochi giorni dopo accompagna la nuova emissione di obbligazioni) perché "non assumono in ogni caso un'entità tale da pregiudicare il mantenimento dei requisiti prudenziali". Dunque, un "degrado irreversibile" nella gestione di Etruria non è bastato, per Banca d'Italia e Consob, a lanciare un allarme ai risparmiatori? Non solo. Fino al 2011, per le obbligazioni subordinate, la Consob accludeva ai prospetto informativi gli "scenari probabilistici", con i quali si spiegava ai clienti quanto fosse alta la probabilità di perdere parte del capitale investito (30, 50, 70%, a seconda della rischiosità dell'obbligazione). Perchè dal 2012 il presidente Giuseppe Vegas fa eliminare questa informazione dai prospetti? La Consob risponde che "gli scenari probabilistici sono stati più volte bocciati in sede europea...". Suona quasi come una "fake news": la Ue non "boccia" niente e non obbliga nessuno. Intanto la crisi delle quattro banche (finite in carico a Ubi e Bper) è tutt'altro che risolta.
I manager "popolari". La terza stazione è a Genova. Le "banche del territorio" dovevano essere il polmone finanziario delle economie locali, e invece si sono rivelate il "caveaux del malaffare". Il ragionier Giovanni Berneschi (ex presidente di Carige appena condannato a 8 anni e 2 mesi) è "l'eroe brechtiano": quello che capisce che per fare soldi, invece di rapinare una banca, conviene amministrarla. Nel 2006 è stato indagato per l'appoggio dato a Consorte e Fiorani nella scalata su Antonveneta. A Genova, fino all'arresto del 2014, è successa la qualunque. Truffe immobiliari, prestiti agli amici. Tra 2013 e 2015, due aumenti di capitale da 1,6 miliardi polverizzati e perdite cumulate per quasi 3 miliardi. Si riaffaccia il dubbio amletico? Bankitalia dov'era? E dov'era mentre dilagavano i buchi delle Popolari? Domande che riaprono la contesa tra politici e authority. Renzi rivendica: se il suo governo non "avesse prontamente realizzato la riforma" oggi sarebbe saltato per aria "l'intero sistema bancario italiano". La Vigilanza di Via Nazionale, guidata da Carmelo Barbagallo, racconta l'esatto contrario. È Palazzo Koch che si è battuta per far passare la riforma, mentre il Parlamento la osteggiava e difendeva il voto capitario. È Palazzo Koch che ha lavorato ai fianchi i cda e a tavolino con le Procure. Ma ci sono voluti tre anni per far arrestare Berneschi a Genova, tre anni per rimuovere Consoli da Vicenza, due anni per far fuori Bianconi da Banca Marche. Troppi: il "sacco bancario" si era già compiuto.
L'abisso delle venete. L'ultima stazione della via crucis porta nel Nord Est. La Popolare di Vicenza del cavalier Gianni Zonin (ex re del Prosecco interrogato dai pm martedì scorso per 11 ore) in tre anni ha bruciato 6,2 miliardi di valore, lasciando carta straccia in mano ai 118 mila poveri azionisti. La Veneto Banca del ragionier Vincenzo Consoli (abituato a volare sul suo Learjet Executive 60 XR, agli arresti domiciliari da agosto 2016 e appena scarcerato) di miliardi ne ha bruciati 5, con lo stesso meccanismo delle "operazioni baciate" imposte a 90 mila risparmiatori ridotti sul lastrico. Che dice la Consob? Dipende da Bankitalia. Che dice Bankitalia? Dipende dalla Consob. Via Nazionale ha agito dietro le quinte. Ispezioni a raffica, dal novembre 2013, rimozione di Consoli, "moral suasion" per far fondere i due istituti. Poi, da dicembre 2014, è subentrata la Vigilanza Bce, e il bubbone è scoppiato. Ora la fusione c'è di fatto, sotto le insegne del Fondo Atlante guidato da Alessandro Penati. Ma è già alla canna del gas pure quello. Finanziato per 3,4 miliardi dalle altre grandi banche (che non vogliono buttarci dentro neanche un euro in più) Atlante alza le mani di fronte ad altri 1,9 miliardi di perdite 2016 di Vicenza. I nuovi "ad", Viola e Carrus, chiedono con urgenza la ricapitalizzazione "precauzionale", cioè l'intervento pubblico come per Mps. E dunque si profila anche per loro il micidiale "Comma 22" con Bce e Ue. Servirebbe anche in questo caso una guida forte al governo e al Tesoro. Ma di Gentiloni e Padoan non si hanno notizie. E le due banche affondano nella palude dell'incertezza. Dal 2013 si sono volatilizzati depositi per 11 miliardi a Vicenza, per 4 miliardi a Montebelluna. Avanti così, il Golgota è vicino.
Banche Venete: la verità! Perchè la retorica del «regalo a Intesa» è falsamente insinuante e strumentale. I numeri del piano predisposto dal governo e dalla Banca d'Italia. I parallelismi assurdi e fuorvianti con il caso spagnolo del Banco Popular, scrive Carlo Torino su “Il Foglio" il 28 Giugno 2017. No: non s’è trattato di un regalo a Intesa. E ogni polemica tesa a esaltare l’immagine del favore elargito, della connivenza, dei sottintesi Stato-banche, non altro è se non «cattiva propaganda», inutile strumentalizzazione di una vicenda complessa sul piano tecnico almeno quanto dolorosa sotto il profilo umano e sociale. E prova ne siano i numeri: l’intervento dello Stato – esborso effettivo e garanzie (aleatorie) – si configura «fino a» un importo complessivo di 17 miliardi di Euro. All’incirca un punto percentuale di Prodotto interno lordo. Su questo è opportuna una considerazione di natura politica: l’Italia ha sinora contribuito per 16 miliardi – a fronte di un impegno a versarne fino a 125 – al Meccanismo europeo di stabilità (Esm), l’istituzione continentale preposta alla gestione delle crisi finanziarie dei paesi aderenti. L'Italia non ha, ad oggi, utilizzato alcuna risorsa del fondo – non un singolo euro – per il rafforzamento del proprio sistema finanziario, pur così rilevante in termini di masse. Ha però onorato i suoi impegni quando a chiederne un intervento sono stati, in ordine cronologico, il governo Greco, Cipriota e Spagnolo.
Ma c’è di più: in media i paesi aderenti all’Unione monetaria hanno utilizzato l’otto per cento del proprio Prodotto interno lordo per la messa in sicurezza dei rispettivi sistemi finanziari nazionali; inclusa la virtuosa Germania. Ebbene, il governo di Roma (Renzi prima, Gentiloni poi) attraverso il «decreto di Natale», passato alla storia come «salva-banche», stanzia la ragionevole cifra di 20 miliardi. Cinque, all’incirca, verranno utilizzati per la ricapitalizzazione precauzionale del Monte dei Paschi: nel quale, è bene ricordarlo, lo Stato diverrà a tutti gli effetti azionista. Intervento, peraltro, in totale conformità con la direttiva europea in materia di «aiuti di Stato». 5 miliardi ulteriori costituiscono l’esborso (certo), per cassa, a beneficio di Intesa al fine di garantire la stabilità dei coefficienti patrimoniali. La capitalizzazione della storica Sga – che dovrà gestire le procedure di recupero delle posizioni deteriorate esulanti il perimetro di attivi ceduti a Intesa –, al netto del prestito di cinque miliardi concesso dall’istituto torinese (all’uno per cento, con garanzia dello Stato), viene posta in essere tramite la conversione dei subordinati e del residuo patrimonio netto degli istituti liquidati. Il totale delle garanzie è nell’intorno di 12 miliardi, ma si tratta di un valore aleatorio, sul quale peseranno fattori esogeni difficili da prevedere. Non si esclude che una buona gestione possa nel tempo conseguire buoni tassi di recupero delle sofferenze; e che l’importo effettivo in garanzia sia inferiore di misura a quello messo a disposizione. Le somiglianze e i parallerismi col Banco Popular? Del tutto inappropriati. Santander eredita una banca con sofferenze svalutate fino al 20% del valore originario; attore primario nel segmento dei prestiti alle piccole e medie imprese spagnole; con un’impressionante penetrazione nel settore immobiliare. Per converso, le venete rilevate da Intesa, conseguivano perdite operative prima ancora delle svalutazioni sui crediti; poggiando su un’attività di remunerazione degli impieghi alquanto insostenibile, e un tasso di sofferenze da far tremare le vene e i polsi. Naturale che Intesa pretendesse garanzie. E solide. Si poteva negoziare meglio con il gruppo piemontese? Forse. Ma quale sarebbe stata l’alternativa. È escluso che il Presidente della Repubblica avesse mai potuto cedere a pressioni per inviare l’esercito alle porte di Ca’de Sass. Con buona pace dei nostalgici. Viene in tal modo a dilacerarsi l’Unione bancaria? Nulla di più falso. Quanto fatto dal Ministero dell’Economia e dal governo, è pienamente conforme alle norme sugli aiuti di Stato, e alle deliberazioni degli organi della Banca centrale europea: Meccanismo unico di supervisione, e Comitato di risoluzione unico. La temuta risoluzione ai sensi della direttiva sul risanamento degli istituti in crisi (Brrd), non trovava ragion d’essere alla luce delle condizioni maturate. Per nostra fortuna, ci permettiamo di aggiungere. Il merito va tutto al governo, al Ministro dell’Economia, e alla Banca d’Italia per la loro tempestività. Si rassegnino gli accigliati accademici che urlano allo scandalo, al «salvataggio» delle banche, all’onta dei «regali». Era preferibile la ricapitalizzazione precauzionale? Era evidente che lo fosse. Ma non c’è stata concessa per la mancanza di una “soluzione privata” credibile. Si badi: credibile! Quattro fondi hedge (due dei quali dei perfetti sconosciuti), non soddisfano il criterio minimo del principio di affidabilità. E ancora: con quali prospettive gestionali? E con quale ottica d’investimento?
Scandalo banche: l’autista con la terza media che faceva il “direttore”, scrive il 14/12/2015 Luigi Perfetti su "L'Ultima ribattuta". Continua il viaggio nello scandalo che ha caratterizzato la “mala gestio” di Banca Marche, Etruria, Carife e Carichieti, peggiorata dalla “distrazione” di Bankitalia. Stavolta i “riflettori” li puntiamo sulla Cassa di risparmio di Chieti: quando fu deciso di commissariarla, nel settembre del 2014, non fu solo per le gravi perdite. Ma anche (o soprattutto) per le “gravi irregolarità amministrative” scoperte dalla Banca d’Italia. “Modesto sviluppo, eccesso di assunzioni, promozioni in numero del tutto anomalo, riconoscimento di incentivi ad personam non legati ai risultati o alla tipologia di mansioni svolte” si legge in una relazione. Le “irregolarità” erano l’incentivo all’esodo da 3 milioni di euro dato al precedente direttore generale quattro anni prima, e la riassunzione di un dipendente che, stando alle carte della Banca d’Italia, “esercita influenza diretta e indiretta sui membri del consiglio” e che “ha influenzato, pervasivamente, tutte le attività della banca, dalla politica del personale, alle sponsorizzazioni, alla gestione di favore dei rapporti con le parti correlate”. Chi era questo individuo capace di condizionare le decisioni della Cassa di risparmio di Chieti? Non un manager, non un dirigente ma un autista: Domenico Di Fabrizio. Con la terza media. Una figura potentissima, capace di influenzare le dinamiche della banca. A notare la sua presenza, nel 2012, fu un ispettore della Banca d’Italia che fece una segnalazione ai vertici. Casualmente Di Fabrizio poco dopo andò in pensione. Salvo poi essere riassunto nel 2013, perché si era sentito in dovere di “stare vicino alla banca”. Com’è possibile che un autista abbia potuto assumere un ruolo del genere? E poi ci stupiamo se questi istituti di credito si siano ritrovati in questa situazione disastrosa? Certo, anche il presidente venezuelano Nicolas Maduro era stato autista di autobus. E, per restare in Italia, Francesco Storace era l’autista del ras del Msi laziale Michele Marchio. Ma basta questo a diventare banchieri? Non esiste un servizio di sorveglianza? E Bankitalia? Lungi dal voler trasformare Di Fabrizio in un capro espiatorio è indubbio che è un degno rappresentante di un malcostume tipicamente italiano.
Banche italiane, oltre un secolo di scandali. Il primo scandalo fu nel 1892. Poi vennero la Bis e l'Ambrosiano. La BpL ed Mps. Viaggio negli intrighi finanziari italiani. Tra fallimenti e operazioni al limite, scrive Carlo Cattaneo il su "Lettera 43" l'1/09/2017. Il governo ha trovato il modo di pensare a loro. Quattro banche, (Banca Marche, le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti, Banca Popolare dell’Etruria) sono state salvate a un passo dal fallimento. Da un punto di vista strettamente tecnico, non si tratta proprio di un salvataggio di Stato, poiché i quasi 4 miliardi di euro necessari a coprire la voragine dei conti saranno indennizzati da altre banche. A lui, Luigino D’Angelo, pensionato di Civitavecchia, nessuno ha pensato per tempo. L’azzeramento di una vita di risparmi (110 mila euro), il sentirsi truffato, ridicolizzato ha portato l’uomo al suicidio.
L'UE CONTRO IL GOVERNO. Ora il problema riguarda circa 130 mila famiglie cui Matteo Renzi ha promesso degli spiccioli di risarcimento, rispetto al capitale investito (e perduto), pur di salvare la faccia dell’esecutivo. Nonostante la dichiarazione stonata, per usare un eufemismo, del ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, «è una misura umanitaria volta a tutelare le fasce deboli dei risparmiatori, non ha nulla a che vedere con l'operazione finanziaria in quanto tale». L’Unione europea non sembra, però, pensarla allo stesso modo. Basta ascoltare la durezza delle parole con cui il commissario Ue ai servizi finanziari, Jonathan Hill, liquida il decreto: «Le quattro banche salvate vendevano prodotti inadatti. Il governo italiano è responsabile».
UN RAPPORTO CONTROVERSO. La storia del nostro Paese vive, dall’Unità d’Italia, un rapporto controverso con gli istituti di credito, costellato da una lunga serie di scandali, fallimenti e operazioni al limite della legalità. È alla fine del 1892, per esempio, che deflagra il caso della Banca Romana. Alla Camera (presidente Giovanni Giolitti) si discute la proroga, di sei anni, mirata a concedere, ad alcune banche sparse sul territorio del Regno, la possibilità di stampare moneta per conto dello Stato stesso. Nel tipico stile italiano voci, malignità, allusioni e insinuazioni risuonano e accompagnano i lavori. Giolitti, per frenare l’onda delle pressioni sempre più insopportabili, decide di imporre un’ispezione capillare per tutti gli istituti coinvolti. Verso la fine di gennaio, una volta terminati gli accertamenti, si evidenzia una gestione “allegra” da parte della Banca Romana che, autorizzata a stampare circa 60 milioni di lire, fa circolare, abusando del mandato, un volume quasi doppio di milioni con identici numeri di serie.
LA NASCITA DELLA BANCA D'ITALIA. Si tratta di banconote assolutamente regolari cui vengono apposti numeri di serie di vent’anni prima, quando la banca faceva parte dello Stato Pontificio. Fanno scalpore gli arresti del senatore Bernardo Tanlongo (governatore della banca) e dell’amministratore, barone Michele Lazzaroni. Lo scandalo causa un tale sconquasso nell’opinione pubblica che il governo è costretto dapprima a mettere in liquidazione la banca e, successivamente, a istituire, dal primo gennaio 1894, la Banca d’Italia. Non meno rumore provoca, solo qualche anno dopo, il fallimento della Banca di sconto (Bis) nata in precisa contrapposizione alla Banca commerciale e al Credito italiano (fondate con capitali stranieri) a cavallo della “Grande guerra”.
I FINANZIAMENTI A FIAT E ANSALDO. Agli interventisti dell’epoca serviva, necessariamente, un gruppo che non fosse legato alla Germania (Commerciale e Credito italiano vantavano, all’atto della creazione, capitali di ebrei tedeschi). Alla presidenza viene nominato un uomo di prestigio, Guglielmo Marconi. La Bis risulta essere la principale finanziatrice di quelle imprese capaci di convertirsi alla produzione bellica, come la Fiat di Torino e l’Ansaldo di Genova. Alla fine della guerra l’assenza di un mercato civile crea problemi di liquidità e competitività.
IL PARALLELO COL SALVABANCHE. Se Fiat riesce a salvarsi acquistando la maggioranza del Credito Italiano, l'Ansaldo, del finanziere napoletano Ferdinando Maria Perrone, molto indebitata con la Bis, tenta di mettere le mani sull’altro istituto di credito, la Banca Commerciale Italiana, senza riuscirci. Qui si sviluppa il parallelo con il “salvabanche” di Renzi. Salvare l’Ansaldo oppure la Bis? Salvare diverse migliaia di posti di lavoro oppure un solo scaltro speculatore? Anche in quest'occasione a pagare il conto sono i 500 mila risparmiatori che hanno creduto nella Bis. Anche in quest'occasione a pagare sono i cittadini italiani: da questa esperienza nasce l’Iri.
IL CASO SINDONA. Veniamo al dopoguerra. Dopo un periodo di apparente tranquillità, alla metà degli Anni 70, iperinflazione, tensioni sociali e terrorismo creano una miscela esplosiva che lo Stato cerca di disinnescare. In questo clima ancora colmo di paura e tensione, il banchiere siciliano, Michele Sindona, continua le sue redditizie speculazioni finanziarie collegando politica, Vaticano, massoneria e mafia. Arrestato negli Stati Uniti per il crac della Franklin Bank viene estradato in Italia in seguito all’accusa di essere il mandante del delitto Ambrosoli, liquidatore di uno dei suoi istituti. Nonostante sia guardato a vista nel supercarcere di Voghera morirà dopo aver bevuto un caffè corretto al cianuro. Omicidio o suicidio? Sulle tracce di Sindona i giudici milanesi scoprono l’esistenza della Loggia massonica denominata P2, nonché i legami esistenti tra il finanziere siciliano e Roberto Calvi. Un’altra morte misteriosa. Un altro banchiere. Un nuovo scandalo, quello del Banco Ambrosiano. Come per Sindona, anche la vicenda Calvi vede sullo sfondo un protagonista: lo Ior, la banca vaticana, guidata all’epoca da monsignor Paul Marcinkus. Dopo la misteriosa morte di Roberto Calvi, avvenuta a Londra il 18 giugno 1982 la Banca d’Italia impone un’improvvisa accelerazione. Dalle ceneri del vecchio Banco (debiti accertati superiori a 4 mila miliardi di vecchie lire) ne sorge uno nuovo con la partecipazione del sistema bancario. Le quote sono così ripartite: Banca popolare di Milano con il 20%, Bnl 16,70%, Imi 16,65%, Istituto Bancario San Paolo di Torino 16,65%, Banca agricola commerciale di Reggio Emilia, successivamente Credem 10%, Banca San Paolo di Brescia 10%, Credito Romagnolo 10%.
LO SCANDALO BANCOPOLI. Alla guida del Nuovo Banco è nominato Giovanni Bazoli, uomo di fiducia del ministro del Tesoro, Nino Andreatta. Ancora una volta per salvare i correntisti si sacrificano i vecchi azionisti. Nel rapporto tra istituti di credito italiani e risparmiatori non mancano, nell’estate del 2005, pagine al limite del grottesco. Peccato che a subire il danno più grave, ancora una volta, siano stati i risparmi depositati da moltissimi correntisti presso gli sportelli della Banca Popolare di Lodi. Giampiero Fiorani, numero uno di BpL, all’interno dello scandalo definito “Bancopoli”, ammette spontaneamente davanti ai magistrati di aver spalmato le perdite sui conti correnti aumentando le commissioni di deposito. Nel settembre dello stesso anno è costretto alle dimissioni a causa dell’azione della procura di Milano che lo accusa dei reati di aggiotaggio, insider trading e ostacolo all'esercizio delle funzioni degli organi di vigilanza.
L'ARRESTO DI FIORANI. Il 13 dicembre 2005 Fiorani e due ex dirigenti della Banca Popolare di Lodi vengono arrestati con l'accusa di “associazione per delinquere finalizzata all’appropriazione indebita”. Fiorani ottiene, a maggio, il patteggiamento a tre anni e tre mesi per associazione a delinquere, truffa e appropriazione indebita. Il 28 maggio 2011 viene condannato in primo grado a un anno e otto mesi per i reati di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza della commissione di controllo sulle operazioni bancarie. Un anno dopo, il 28 maggio 2012, la condanna si riduce in appello a 12 mesi. Per quanto riguarda, invece, il tentativo di scalata ad Antonveneta il processo si conclude con una condanna definitiva a tre anni e sei mesi. Parallelamente giunge a compimento la centenaria storia del Monte dei Paschi di Siena. Nel mirino della magistratura, dopo una lunga indagine, finiscono nomi importanti di manager della banca toscana (spiccano fra tutti quelli dell’ex presidente Giuseppe Mussari e dell’ex direttore generale Antonio Vigni e di Gianluca Baldassarri, responsabile della finanza, poi arrestato). I reati contestati sono manipolazione dei mercati e ostacolo alle attività di vigilanza.
ANTONVENETA E L'OMBRA TANGENTI. Tutto parte nell’agosto del 2007 quando il Banco de Santander acquista Banca Antonveneta per 6,3 miliardi nell’ambito della scalata ad Abn Amro. Meno di tre mesi dopo la banca con sede a Padova viene ceduta a Mps. E qui, tra costo d’acquisto e oneri vari, il prezzo pagato vola vicino alla stratosferica cifra di 17 miliardi. Perché pagare un prezzo tanto alto? I magistrati sospettano che il costo maggiorato, chiamiamola pure plusvalenza, servisse per pagare tangenti sia in Italia sia in Spagna. A questo filone d’inchiesta se ne apre uno parallelo che riguarda i contratti derivati sottoscritti con Nomura e Deutsche Bank che, sempre a giudizio della procura, erano utili per edulcorare bilanci in affanno a causa dell’acquisto di Antonveneta. Lo scandalo investe quasi contemporaneamente anche la politica italiana. Perché? Molto semplicemente perché Mps è “patrimonio” della Fondazione Mps. Chi guida la Fondazione? All’epoca dei fatti, lo statuto prevedeva che Comune di Siena e Provincia nominassero 13 componenti su 16 della deputazione generale. Da sempre, a Siena, è forte e sentita l’egemonia rossa.
L'INCHIESTA DERIVATI. Pci, Pds, Ds e poi Pd hanno controllato le due principali istituzioni del territorio. Di qui il sospetto che decidessero, attraverso le ramificazioni locali, le strategie della banca in un gioco di specchi e di aiuti reciproci, per anni tacitamente accettato. Il 31 ottobre 2014 si conclude il processo riguardo al filone dell'inchiesta “derivati”. Tutti gli imputati vengono condannati a tre anni e sei mesi di reclusione ciascuno. Con l'interdizione dai pubblici uffici per cinque anni di Giuseppe Mussari, Antonio Vigni e Gialuca Baldassarri, per ostacolo all'Autorità di vigilanza. Tuttavia, la Procura di Siena non ha finito il proprio lavoro. Resta ancora aperto il caso della “banda”. O meglio della 'banda del 5%'. Si tratta, come spiega l’Espresso, di un gruppo ristretto di persone che, tra il 2009 e il 2011, avrebbe messo mano su decine di miliardi di euro, muovendo oltre 100 milioni al giorno. Su ogni operazione finanziaria (in estrema sintesi), la banda tratteneva per sé il 5%.
LA BANDA DEL 5%. Il castello di carta crolla il 28 luglio 2011 quando un membro della “banda” invia una lettera anonima alla Consob. Si fanno i nomi di Baldassarri, Mussari, Vigni e di tutte le persone coinvolte in queste operazioni compiute ai danni di Mps. Nella primavera del 2012 arriva l'ispezione di Bankitalia. Quella che era considerata una delle realtà più forti e solide del Paese scopre il suo vero volto. Sono poco meno di 5 miliardi i debiti di Mps. Alessandro Profumo diventa nuovo presidente. Parte, quasi immediatamente, il piano di riorganizzazione sul territorio. Si parla di poco più di 4.500 licenziamenti e 400 filiali chiuse entro il 2015. A causa della drammatica situazione dei conti, Mario Monti è obbligato a intervenire attraverso i celebri “Monti-bond” nel febbraio 2013.
MANCA UNA STRATEGIA DI SISTEMA. Il rapporto di fiducia tra Stato, banche e cittadini non è mai stato così scricchiolante. Non sarà certo la lettera aperta di Roberto Nicastro (alla guida di tutte e quattro le banche ponte create dal decreto del 22 novembre) a consolare coloro che, nel giro di pochissimo tempo, hanno visto azzerati i risparmi di una vita. A favore, peraltro, dei soliti noti. Al governo, apparentemente impegnato a promuovere la stagione delle riforme, sembra sfuggire l’incipit dell’art. 47 della Costituzione: «La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito». I nostri governanti, non fa eccezione Renzi, vivono perennemente nell’angoscia di affrontare l’emergenza che verrà. Può palesarsi con nomi diversi: eventi climatici, terremoti, lavoro, immigrazione, oppure come in questo caso banche. La risposta avrà, al solito, le caratteristiche dell’inadeguatezza poiché non sviluppata nell’ottica di una strategia di sistema capace di tutelare anche i sacrifici dei risparmiatori.
Ispezioni sospette: la Procura indaga sulla Banca d’Italia. Esposto presentato dal banchiere D’Aguì, il suo legale è cugino del premier Gentiloni, scrivono Giorgio Meletti e Valeria Pacelli l'1 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La Procura della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo d’indagine sulla vigilanza della Banca d’Italia. L’inchiesta, per ora senza indagati, è stata affidata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone ai sostituti Maria Sabina Calabretta e Stefano Pesci, già titolari dell’indagine su Veneto Banca che vede l’ex amministratore delegato Vincenzo Consoli indagato per ostacolo alla vigilanza e aggiotaggio. L’inchiesta nasce da un memoriale di Pietro D’Aguì, ex manager della Banca Intermobiliare (Bim), boutique finanziaria controllata da Veneto Banca in liquidazione. Il memoriale è stato depositato il 30 giugno scorso dall’avvocato Michele Gentiloni Silveri, cugino del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Secondo autorevoli indiscrezioni, il premier è informato della vicenda e ne ha già potuto valutare, durante le brevi vacanze estive, l’impatto politico. A novembre scade il mandato del governatore Ignazio Visco. La decisione se confermarlo o no spetta al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a Gentiloni, e sarà presa in coincidenza con l’avvio della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. È auspicato o temuto, secondo i punti di vista, che un tema centrale siano le responsabilità della vigilanza, cioè Consob e Bankitalia. Alle accuse ricorrenti su distrazioni, miopie e strabismi di Bankitalia, l’inchiesta della procura di Roma aggiunge l’ipotesi di reati, cioè di scorrettezze dolose. Gli sviluppi dell’azione penale potrebbero gettare nuova legna su un fuoco che per ora cova sotto la cenere: fino a ieri le indiscrezioni autorizzate non hanno messo in dubbio la volontà di Quirinale e Palazzo Chigi di rinnovare la fiducia a Visco. Il memoriale di D’Aguì è stato accompagnato da una lettera dell’avvocato Gentiloni che ne sintetizza i contenuti segnalando “alcuni dati idonei a costituire notizie di reato” e indicando due nomi di peso: il capo del “Dipartimento Vigilanza bancaria e finanziaria” della Banca d’Italia Carmelo Barbagallo e l’ispettore Emanuele Gatti. Sono tre i capitoli riguardanti l’operato della vigilanza raccomandati a Pignatone per gli approfondimenti dall’avvocato Gentiloni.
Primo. Comportamento della vigilanza durante l’acquisizione di Bim da parte di Veneto Banca (2010-2011) “con successivo inadempimento da parte di quest’ultima alle obbligazioni assunte”. La Bim fu in parte pagata da Consoli con azioni di Veneto Banca e (secondo le accuse di D’Aguì) relativa e inevasa promessa di riacquisto in tempi rapidi. Sul punto D’Aguì ha denunciato Consoli che dal 6 aprile scorso è indagato dai sostituti Calabretta e Pesci anche per truffa ed estorsione.
Secondo. L’ispezione compiuta da Gatti sulla Bim nel 2012, per la quale l’avvocato Gentiloni raccomanda alla procura la “valutazione degli errori compiuti” e il ruolo di Barbagallo “nella fase successiva all’ispezione”. In quell’ispezione Gatti diagnosticò una riduzione di due terzi del capitale di vigilanza, portandolo a soli 157 milioni contro i 435 indicati nella semestrale 2012. A fine 2012 il bilancio Bim (quotata in Borsa) indicava il patrimonio di vigilanza a 322 milioni, il doppio di quanto calcolato da Gatti, senza che nessuno abbia sollevato obiezioni. Nel frattempo però, sulla scorta dell’ispezione di Gatti e dell’istruttoria di Barbagallo, il governatore Visco ha scritto alla Bim ordinando perentoriamente di revocare i poteri a D’Aguì. Dopo averlo sentito per anni lamentarsi di non aver mai avuto il potere di rimuovere i banchieri sospetti, scopriamo che già quattro anni fa Visco poteva, quando Barbagallo lo decideva, scrivere “la Banca d’Italia dispone” per ordinare il licenziamento.
Terzo. Comportamento della vigilanza “in relazione al mancato acquisto” della Bim da parte di una cordata di investitori guidata da D’Aguì, e “motivi reali del mancato consenso all’operazione da parte delle autorità di vigilanza”. Nell’agosto 2014, D’Aguì, con numerosi soci tra cui Carlo De Benedetti, Luca di Montezemolo e il fondo britannico Duet Alternative Investment, ha contrattato il riacquisto di Bim per 562 milioni.
Dopo mesi di tira e molla, il 16 giugno 2015 la vigilanza europea, su proposta della Banca d’Italia, ha comunicato il diniego all’operazione con lettera del presidente della Bce Mario Draghi. Secondo D’Aguì in quella procedura sono state inserite notizie false sulla sua situazione processuale che avrebbero determinato la mancanza dei requisiti di onorabilità per il leader della cordata, e quindi il diniego. L’operazione avrebbe attenuato la crisi di Veneto Banca rimpolpandone il patrimonio di vigilanza di circa 50 preziosi punti base. A distanza di soli due anni il commissario liquidatore Fabrizio Viola sta vendendo la Bim per un valore indicato tra 100 e 150 milioni. Lo stop della vigilanza è costato ad azionisti e creditori di Veneto Banca oltre 400 milioni. L’apertura dell’inchiesta su Palazzo Koch non è una sorpresa. Dopo l’esplosione della crisi bancaria quasi tutti gli amministratori degli istituti in crisi sono stati indagati per ostacolo alla vigilanza: la Banca d’Italia, accusata da più parti di aver vigilato a vuoto, ha reagito denunciando i banchieri alle Procure di mezza Italia, accusandoli di aver sistematicamente ingannato i suoi ispettori sulle reali condizioni finanziarie delle banche. E quasi tutti i banchieri indagati hanno reagito accusando gli ispettori della Banca d’Italia di aver sempre saputo (e silenziosamente approvato) tutto. Il copione, inaugurato con il processo a Giuseppe Mussari di Montepaschi, in questo momento viene interpretato con particolare vigore da Consoli, in attesa dell’udienza preliminare che deciderà sul suo rinvio a giudizio. La cannonata più forte arriva adesso da D’Aguì, imputato con Consoli per un fatto marginale e non certo catalogabile come suo sodale dopo che lo ha denunciato per estorsione e truffa. La Procura vuole vedere chiaro anche nel comportamento della vigilanza "in relazione al mancato acquisto" della Bim da parte di una cordata di investitori guidata da D'Aguì, e sui "motivi reali del mancato consenso all'operazione da parte delle autorità di vigilanza". "Nell'agosto 2014, D'Aguì - ricostruisce sempre il Fatto - con numerosi soci tra cui Carlo De Benedetti, Luca di Montezemolo e il fondo britannico Duet Alternative Investment, ha contrattato il riacquisto di Bim per 562 milioni. Dopo mesi di tira e molla, il 16 giugno 2015 la vigilanza europea, su proposta della Banca d'Italia, ha comunicato il diniego all'operazione con lettera del presidente della Bce Mario Draghi. Secondo D'Agul in quella procedura sono state inserite notizie false sulla sua situazione processuale che avrebbero determinato la mancanza dei requisiti di onorabilità per il leader della cordata, e quindi il diniego. L'operazione avrebbe attenuato la crisi di Veneto Banca rimpolpandone il patrimonio di vigilanza di circa 50 preziosi punti base. A distanza di soli due anni il commissario liquidatore Fabrizio Viola sta vendendo la Bim per un valore indicato tra 100 e 150 milioni. Lo stop della vigilanza è costato ad azionisti e creditori di Veneto Banca oltre 400 milioni".
BankItalia finisce sotto inchiesta. Faro della Procura sul caso Bim. I Pm romani che indagano su Veneto Banca aprono un fascicolo sulla Vigilanza dopo un memoriale firmato dall'avvocato Michele Gentiloni, cugino del premier, scrive l'1 settembre 2017 "Affari Italiani". Una bomba sulla Banca d'Italia, già sotto il fuoco delle critiche per le responsabilità di vigilanza (assieme alla Consob) dopo i casi Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti e quelli nordestini con Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Una bomba che azzera con molta probabilità le speranze di riconferma di Ignazio Visco per un secondo mandato al timone di Palazzo Koch e che, secondo alcuni, spiana la strada a Lucrezia Reichlin, economista italiana che insegna alla London School of Economics ed ex Bce (ora siede nel Cda di UniCredit come consigliere indipendente), per Via Nazionale. Proprio ora che con l'uscita di Matteo Renzi da Chigi, l'economista napoletano succeduto a Mario Draghi iniziava a intravedre qualche possibilità di reincarico. La Procura della Repubblica di Roma ha aperto un fascicolo d'indagine sulla vigilanza della Banca d'Italia, indagine affida dal procuratore capo Giuseppe Pignatone ai sostituti Maria Sabina Calabretta e Stefano Pesci, già titolari dell'indagine su Veneto Banca. La notizia è riportata dal Fatto Quotidiano e, secondo quanto scrive il giornale, fa seguito a un memoriale depositato il 30 giugno scorso dall'avvocato Michele Gentiloni Silveri, cugino del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, per conto del suo assistito Pietro D'Aguì, ex amministratore delegato di Banca Intermobiliare, cacciato dal gruppo nel 2012. Per il momento, nel registro degli indagati non è stato iscritto nessuno dei vertici di Via Nazionale, ma oltre a Visco, nel mirino pare siano finiti il capo del "Dipartimento Vigilanza bancaria e finanziaria" della Banca d'Italia Carmelo Barbagallo e l'ispettore Emanuele Gatti, autore delle indagini sul Banca Intermobiliare, boutique finanziaria controllata da Veneto Banca e in via di cessione dopo il crack dell'istituto nordestino. La Procura di Roma ha acceso un faro su ipotesi di reato in ispezioni della vigilanza che a questo punto appaiono sospette. Ispezioni a seguito delle quali Pietro D'Aguì fu cacciato e la Vigilanza impedì la cessione dell'istituto per 562 milioni a una cordata capeggiata dallo stesso D'Aguì.Bim oggi è invece in vendita per circa 100-150 milioni (capitalizza circa 190 milioni ed è oggetto delle manifestazioni d'interesse di quattro fondi; Attestor e Warbur Pincus sarebbero i favoriti per l'acquisto) con grosso danno per i soci. Un passaggio del memoriale dell'avvocato Gentiloni - scrive il Fatto - riguarda "'l'ispezione compiuta da Gatti sulla Bim nel 2012, per la quale l'avvocato Gentiloni raccomanda alla procura la valutazione degli errori compiuti' e il ruolo di Barbagallo 'nella fase successiva all'ispezione'. In quell'ispezione Gatti diagnosticò una riduzione di due terzi del capitale di vigilanza, portandolo a soli 157 milioni contro i 435 indicati nella semestrale 2012. A fine 2012 il bilancio Bim (quotata in Borsa) indicava il patrimonio di vigilanza a 322 milioni, il doppio di quanto calcolato da Gatti, senza che nessuno abbia sollevato obiezioni. Nel frattempo però, sulla scorta dell'ispezione di Gatti e dell'istruttoria di Barbagallo, il governatore Visco ha scritto alla Bim ordinando perentoriamente di revocare i poteri a D'Aguì". Mossa che stona con quanto lamentato spesso da Banca d'Italia nei casi di banche finite sotto stress finanziario e cioè di non aver mai avuto il potere di rimuovere i banchieri sospetti.
I “salumi” del banchiere e i doveri della vigilanza, scrive il 7 agosto 2017 di Giovanni Falcone su Wallstreetitalia.com". In uno dei più importanti passaggi delle “Considerazioni finali” formulate dal Governatore della Banca d’Italia di qualche anno addietro, si leggeva testuale: “Alle attività tradizionali le banche affiancano oggi in misura crescente quello di distribuzione di una molteplicità di prodotti finanziari.” Il riferimento, oltre alla salvaguardia del buon nome della banca, voleva evidenziare l’incidenza del “prodotto” nella composizione del rischio sofferto dal risparmiatore invitato ad investire le proprie risorse, che risulterà direttamente proporzionale alla correttezza di comportamento nel magnificare la qualità dei prodotti finanziari. E’ tutto vero! L’esperienza degli ultimi anni ormai maturata da migliaia di risparmiatori truffati per effetto dei tanti scandali finanziari e la stessa crisi finanziaria globale in atto, stanno lì a dimostrarlo. Il problema non è solo nostro ma tocca confini planetari. Emblematica la vicenda della più grande truffa finanziaria del secolo scorso, realizzata com’è noto da un arzillo vecchietto ed ex presidente del NASDAQ, Sig. Bernard MADOFF, con un bottino di oltre 50 miliardi di dollari laddove, ancora una volta, si capì che l’intero meccanismo della finanza mondiale era malato, perché alla mercé di plurispeculatori. Lo stesso MADOFF, dopo aver spontaneamente vuotato il sacco e descrivendo nei dettagli il sistema piramidale della truffa (basata su una miserabile catena di Santo Antonio, dove praticamente i primi investitori remuneravano massicciamente il capitale con le risorse degli ultimi arrivati fino a scoppiare quando i nuovi “arrivi” sono cominciati a scarseggiare anche per effetto della crisi finanziaria globale e questo a conferma che i profitti non possono moltiplicarsi come i “pani ed i pesci” del dettato evangelico), si presentò alle autorità americane per essere immediatamente arrestato. Già dalle prime risultanze investigative si dimostrò che la ingentissima frode fu’ possibile non per carenza di strumenti legislativi ma per l’assoluta incapacità nell’usarli da parte delle autorità di sorveglianza come la stessa SEC, posta giustamente sotto accusa. Ogni mondo è paese e in Italia, la situazione non è e forse, ahimè, non sarà molto diversa. Senza nulla aggiungere ai tanti commenti sui recenti fallimenti bancari, la vicenda della Banca 121 – ex banca del Salento poi acquistata dal MPS – che emetteva obbligazioni con acronimi in tutto simili ai “Titoli di Stato” e che per anni hanno tradito la fiducia dei risparmiatori, la dice lunga sul concreto interesse di tutelare il risparmio. Era così difficile immaginare una “valutazione preventiva” da parte della CONSOB o Banca d’Italia su quale “acronimo” utilizzare per la emissione di tali obbligazioni? Un altro grande scandalo si è rivelato quello della pressione per l’acquisto di azioni emesse dalla banca alla quale si rivolgeva l’imprenditore per avere un affidamento, la dice lunga sulla carenza o insufficiente “controllo istituzionale” continuato per anni. Insomma, con controlli interni inesistenti, quelli Istituzionali approssimativi, i risultati non potevano che essere disastrosi. Nella vecchia MIFID le funzioni di controllo erano demandate a dei meccanismi di “compliance”, ossia ad organi di vigilanza interni agli intermediari stessi con il compito di verificare il rispetto della normativa. Le autorità di vigilanza e gli intermediari – si diceva – avrebbero dovuto adottare ogni misura ragionevole per identificare i conflitti d’interesse che possono nuocere ai clienti, e di renderli maggiormente visibili. Da un po’ di tempo si parla della nuova MIFID che, si dice, mette al primo posto le esigenze di tutela del risparmio e, di converso, gli interessi del risparmiatore. In tale quadro, si torna a parlare di una nuova era della “Vigilanza bancaria” dove si pensa, per esempio, già da tempo ad una nuova Agenzia europea dedicata esclusivamente alle banche aventi un’attività transfrontaliera, sostituendo di fatto la fallimentare esperienza delle diverse Autorità nazionali. Questo potrebbe essere un primo passo, ma certamente quello che occorre fare è ben altro a cominciare da:
Dalla verifica preliminare da parte di un’Autorità indipendente sulla effettiva patrimonializzazione e capacità di assorbimento dei rischi da parte degli emittenti i titoli negoziati sul libero mercato. Tale importante attività, non potrà più basarsi soltanto sulle certificazioni di bilancio o sulle valutazioni di affidabilità delle società di rating;
L’elaborazione e la messa in vendita degli strumenti finanziari – spesso sconosciuti agli stessi emittenti – deve avere una preliminare valutazione di conformità da parte della stessa Autorità indipendente;
La scheda informativa da esibire al risparmiatore, invitato ad investire le proprie risorse, oltre ad essere assolutamente chiara nei contenuti, deve anche essere leggibile (attualmente neanche con il miglior cannocchiale si riesce a leggere il contenuto).
Così facendo, forse, per il futuro, si riuscirà a garantire una qualità degli investimenti almeno pari a quella che ogni giorno ci viene assicurata dal nostro “salumiere”.
I pesi e le misure di Bankitalia: a Vicenza tollerato per anni il valore "gonfiato" delle azioni, per Bene Banca (s)gonfiato un bilancio, scrive Giovanni Coviello (Direttore responsabile) Giovedi 24 Agosto su "Vicenza più". Dopo «"Tu non obbedisci e io ti commissario, ma anche... no": la storia che ha opposto Bankitalia a Bene Banca. L'ex dg Silvano Trucco la ricostruisce a puntate e la incrocia con quella di BPVi e Veneto Banca», abbiamo proposto «Un caso esemplare per l'ex dg di Bene Banca Silvano Trucco: Bankitalia la commissaria "preventivamente". La seconda puntata con BPVi e Veneto Banca in filigrana» e, quindi, la terza parte («Un caso esemplare del "sistema" bancario, gli strani intrecci tra Bene Banca e BPVi: storia di un deposito milionario») della ricostruzione dei fatti secondo l'ex dg della piccola BCC cuneese, commissariata nonostante stesse... bene e che bissa coincidenze o contrasti nei rapporti con Bankitalia delle storie di BPVi e Veneto banca. Della ricostruzione oggi proponiamo la quarta di 8 puntate mentre, lo ripetiamo, continuiamo a essere pronti a riferire di eventuali repliche o di diverse versioni che ci pervenissero dal "sistema". Grazie.
I pesi e le misure di Bankitalia: a Vicenza tollerato per anni il valore "gonfiato" delle azioni, per Bene Banca invece un bilancio (s)gonfiato. Era il 9 marzo 2015 e l'ex Presidente di Bene Banca denunciava il Commissario DUSO per lo strano deposito milionario "poco remunerativo" della Bene Banca alla BPVi (di tale procedimento penale già si è parlato nella precedente puntata). Proprio nella primavera 2015 a Vicenza era al lavoro il team ispettivo della BCE che avrebbe poi contestato nel proprio report, tra le altre criticità, le operazioni "baciate" riscontrate a valere sugli ultimi aumenti di capitale. Nel contempo, ad aprile 2015, le azioni di Banca Popolare di Vicenza venivano svalutate del 23%, con il CdA presieduto da Zonin che ne riduceva il valore da 62,50 a 48 euro. In tarda primavera cadevano così le prime teste, a partire dall'A.D. Samuele Sorato, seguito a ruota dai Vice Direttori Generali Emanuele Giustini (responsabile Divisione Mercati) e Andrea Piazzetta (responsabile divisione Finanza). A settembre 2015 arrivarono le perquisizioni della GdF e solo a novembre si dimetteva il Presidentissimo. Da allora non c'è stata settimana in cui i principali quotidiani non parlassero almeno una volta della Banca Popolare di Vicenza, il "grande malato" del Sistema bancario nazionale, il cui epilogo è a tutti tristemente noto. A ben vedere, già nel Prospetto Informativo dell'Aumento di Capitale della vicentina del 2016, al prezzo di 0,10 euro ad azione (solo 15 mesi prima il valore era di 62,50), poi pressoché integralmente sottoscritto dal Fondo Atlante, si parlava di rischio dell'Emittente di essere "presumibilmente sottoposto a misure di risoluzione da parte del Single Resolution Board". Un prospetto che citava indicatori di adeguatezza patrimoniale e di liquidità sotto le soglie minime, un CET1 ratio del 6,65% contro un 7% minimo ed un 10,25% imposto alla BPVi dalla BCE, un LCR (Liquidy Coverage Ratio) del 47,5% contro un requisito regolamentare del 70%. Ed ancora "un capitale circolante di cui dispone il Gruppo alla data del prospetto, INSUFFICIENTE per i suoi fabbisogni di liquidità correnti (..)". L'operazione di sistema ideata con Atlante è stata una ulteriore beffa per gli azionisti della BPVi, che hanno visto, nel volgere di poco più di un anno, crollare i loro titoli da 62,5 a 0,10 euro, senza di fatto poter fare alcunché se non assistere impotenti dato che le azioni erano bloccate e congelate, stante l'assenza di un mercato ufficiale ed il divieto di riacquisto imposto alla BPVi per il difetto dei requisiti patrimoniali. A Vicenza, a frittata completata, la Banca d'Italia ha dichiarato che, pur sapendo, non poteva fare nulla per impedire questa "iper valutazione" del prezzo delle azioni, decisa di propria sponte dal CdA, se non bacchettare i vertici, tollerando di fatto per anni un valore "gonfiato" : una verità che oggi è sotto gli occhi di tutti, uno scandalo che ha bruciato oltre 6 miliardi di valore, sudati risparmi di 118.000 azionisti della vicentina. Con l'azione a 62,5€ la Popolare di Vicenza valeva infatti circa 1,7 volte il patrimonio netto tangibile, un valore spropositato superiore a qualsiasi altra banca, che la poneva ai vertici (la terza) del panorama bancario nazionale per capitalizzazione. Nel 2016 a 0,10€, post aumento di capitale, la vicentina veniva prezzata a 0,377 il patrimonio netto, un valore in linea con il sistema seppur a livelli superiori ad altre banche più in salute, tanto che lo stesso amministratore delegato Iorio allora parlò pubblicamente di un "numerone, un ottimo risultato"... 10 Centesimi era allora il valore delle nuove azioni, una cifra che attribuiva alla banca una capitalizzazione ante aumento di 10 mln di euro, una somma inferiore addirittura ai compensi erogati nel 2015 ai vertici della vicentina, un valore che però sancì una perdita del 99,84% per i vecchi azionisti. In 12 mesi bruciati 6,2 miliardi di capitali! Uno dei più grandi falò della storia italiana, titolava il quotidiano IlSole24Ore dell'epoca. Altri 12 mesi di gestione sotto la proprietà del Fondo Atlante e l'epilogo funesto della Liquidazione Coatta Amministrativa ed il de profundis di ogni residuo valore delle azioni. Ma un po' più ad ovest, a Bene Vagienna in provincia di Cuneo, accadeva invece tutt'altro: nel bilancio di fine commissariamento (peraltro della procedura più veloce della storia bancaria nazionale) al 31.05.2014 non sono state valutate volutamente 11,7 milioni di plusvalenze lorde, pari a 8,324 milioni al netto della fiscalità, al solo fine di chiudere un conto economico in perdita di 7,8 mln e così poter giustificare ai soci ed al Territorio l'intervento pesantissimo di Banca d'Italia. Altro che super valutazione, per Bene Banca un bilancio letteralmente "sgonfiato"! Ma la Banca d'Italia dov'era ?? A Bene Vagienna bilancio di fine commissariamento proposto dal Commissario, puntualmente approvato dal Comitato di Sorveglianza ma anche e soprattutto dai vertici di Palazzo Koch nel gennaio 2015. Ma anche tale comportamento non è sfuggito agli occhi attenti dell'ex Presidente Francesco Bedino che con esposto presentato in data 3 luglio 2015 ha denunciato penalmente il Commissario DUSO, il Presidente del Comitato di Sorveglianza e la stessa Banca d'Italia nelle persone del legale rappresentante pro-tempore (il Governatore), del Responsabile Dipartimento Vigilanza (Dott. Carmelo Barbagallo) e del titolare del servizio Costituzione e Gestione delle crisi (Dott.Pier Luigi Conti), per i presunti reati di false comunicazioni sociali, nonché per gli eventuali ulteriori reati fiscali ravvisabili.
Querela dl Bedino, ex presidente di Bene Banca, contro Duso, commissario. Stralcio sulla querela dl Bedino, ex presidente di Bene Banca, contro Duso, commissario. Ma a Bene Vagienna chi era preposto a controllare l'operato del Commissario DUSO? In primis il Comitato di Sorveglianza ed in subordine la Banca d'Italia alla quale spetta la supervisione. Guarda caso però il Presidente del Comitato di Sorveglianza era il Prof. Giovanni Ossola dell'Università di Torino, già membro del Collegio Sindacale di Milano Assicurazioni, al quale a fine 2013, per "la gravità oggettiva delle violazioni riscontrate" e per "la gravità soggettiva delle condotte poste in essere", la CONSOB ha comminato una sanzione da 382.000 euro, per la cronaca trattavasi della sanzione più elevata mai inflitta ad un Collegio Sindacale (3,7 milioni complessivi di multa ai membri dei collegi sindacali di Fondiaria Sai e Milano Assicurazioni) motivata dalle ripetute violazioni dell'Art.149 del Testo Unico della Finanza, ossia del non avere ottemperato con diligenza al proprio dovere di vigilanza. Una circostanza che si commenta da sola, ma al riguardo voglio riportare testualmente l'interrogativo che il grandissimo Elio Lannutti ha citato nel proprio libro "LA BANDA D'ITALIA": "nomine ad hoc per tutelare banche amiche? I bracconieri nominati guardiacaccia". Sempre il senator Lannutti quale Presidente ADUSBEF, dal 2008 ha presentato in terra vicentina ben 19 denunce sul valore "gonfiato" delle azioni della BPVi, esposti caduti tutti pressoché nel vuoto visto che soltanto sul finire del 2015 sono partite le indagini, quando la frittata era ormai servita. Banca d'Italia sapeva ma non ha fatto nulla ed il Governatore Visco in audizione al Senato il 19 aprile 2016, si è ostinato a difendere Palazzo Koch dichiarando che l'azione della Vigilanza negli anni della recessione "ha prevenuto l'insorgere di una crisi profonda e generalizzata del sistema bancario". Ma nello stesso arco temporale pressoché decennale, nonostante gli ultimi mesi di evidente declino, la governance della Popolare di Vicenza è sempre rimasta rigorosamente al proprio posto, con il benestare di Visco. Solo a situazione pressoché irreversibile, a fine 2015 il Presidente Zonin ha rassegnato le proprie dimissioni dalla guida della popolare berica. Intanto a Bene Vagienna le plusvalenze milionarie lasciate in dote al nuovo corso dal Commissario venivano prontamente utilizzate, visto che in soli 13 mesi il CdA individuato da Bankitalia ha subito approfittato del cadeau dell'emissario di Visco. Infatti, dopo i 7,35 mln contabilizzati nel bilancio al 31.12.2014 (di soli 7 mesi di esercizio: 1-6 / 31.12), nella semestrale al 30.06.2015 il nuovo corso ha realizzato altri utili da cessione titoli per 6,65 mln, portando così il totale delle plusvalenze realizzate a 14 milioni di Euro! La riprova delle corrette affermazioni nella segnalazione alla Magistratura si riscontrava facilmente nelle riserve POSITIVE del portafoglio titoli della Bene Banca che di contro si erano di molto assottigliate (al 30.06.2015 pari ad Euro 1,397 milioni, contro gli 11,7 mln lasciate in dote dal Commissario!). Ecco che così facendo l'ultima riga del conto economico della nuova gestione della Banca poteva esprimere valori positivi. Poca onestà intellettuale manifestò all'epoca il Presidente Vietti gridando ad agosto 2015 all'UTILE RECORD della storia della bcc benese citando il risultato semestrale positivo di oltre 3,2 milioni di euro, quando, da una semplice lettura del rendiconto della Bene Banca - pubblicato sul sito istituzionale della bcc benese - chiunque poteva riscontrare come tale risultato finale fosse stato raggiunto perché sono state FINALMENTE realizzate le plusvalenze sul portafoglio titoli, quelle famose poste attive VOLUTAMENTE NON CONTABILIZZATE dal Commissario nel bilancio di fine procedura per chiudere un esercizio in perdita e così giustificare l'iniziativa pesantissima di Banca d'Italia. Ma a quali esiti si è giunti con la querela contro il Commissario e Banca d'Italia per le false comunicazioni sociali? Dopo neanche un anno di indagini, il PM assegnatario del fascicolo, il dott. Maurizio Picozzi (cari lettori tenete bene a mente questo nome, lo rivedremo in seguito) in data 7.6.2016 ha avanzato al GIP istanza di archiviazione con una motivazione scarna e stringata, che vale la pena riportare di seguito: "le approfondite indagini della Ten.GdF di Mondovì (annotazione 8.2.2016 in particolare) escludono prove di responsabilità penale nei fatti denunciati dal Bedino considerato anche che questi era stato a sua volta inquisito in via amministrativa dal Duso per il suo precedente incarico dirigenziale della stessa Bene Banca"). In sostanza il movente della querela era una acredine personale, piuttosto che il sacrosanto dovere civico di segnalare fatti e circostanze di sospetta illiceità di cui si è a conoscenza...Ebbene il GIP di Cuneo, in data 18.11.2016, dopo l'udienza di discussione dell'opposizione alla scarna istanza di archiviazione sopra riportata, ha decretato l'archiviazione con la seguente motivazione:" dato che il bilancio è stato approvato dal Comitato di Sorveglianza e dalla Banca d'Italia, i quali non hanno formulato alcuna osservazione in merito, una perizia al riguardo apparirebbe pertanto meramente esplorativa e non giustificata dalle risultanze in atti. Difetta quanto meno l'elemento soggettivo del reato ed eventuali contestazioni in merito alla bontà delle valutazioni potranno e dovranno di conseguenza essere sollevate nelle competenti sedi civili e amministrative." Un commento, anzi no è superfluo, però una considerazione a tale pronuncia è doverosa: peccato che la denuncia sia stata rubricata solo contro il Commissario, quando era dal querelante direttamente indirizzata anche contro il Presidente del Comitato di Sorveglianza e contro il legale rappresentante della Banca d'Italia, nonchè nei confronti del Dott. Carmelo Barbagallo (Capo Dipartimento Vigilanza) e del Dott. Pier Luigi Conti (titolare del servizio Costituzione e Gestione delle crisi), questi ultimi perchè con delega del Direttorio in data 15.1.2015 avevano approvato il bilancio di fine procedura .... A quanto pare per la Magistratura gli uomini della Vigilanza bancaria hanno la qualifica di soggetti infallibili, e quindi, non avendo formulato osservazione alcuna in merito, tutto archiviato con buona pace dei soci della banca che "potranno e dovranno di conseguenza sollevare eventuali osservazioni nelle competenti sedi civili e amministrative". Silvano Trucco (ex D.G. Bene Banca)
Tesoro, Banca d’Italia, Consob: 20 mesi di disastrosa gestione delle banche. E il conto lo pagano gli italiani, scrive Giovanni Pons il 26/6/2017 su "It.businessinsider.com". Il decreto legge varato dal Consiglio dei ministri domenica 25 giugno definisce il salvataggio di Banca Popolare di Vicenza e di Veneto Banca con un impiego di soldi pubblici ingente, 5,2 miliardi di cassa direttamente a Intesa Sanpaolo a cui si aggiungono fino a 12 miliardi di garanzie statali per coprire eventuali svalutazioni di crediti che finiscono nella bad bank. Inoltre c’è il sacrificio totale degli azionisti (il fondo Atlante aveva versato 3,5 miliardi solo un anno fa per avere il controllo assoluto delle due banche) e degli obbligazionisti subordinati che potrebbero essere rimborsati soltanto se verrà provato il misselling, cioé se nella vendita non sono stati rispettati i profili di rischio. E’ un finale – ma forse non è neanche questo, visto che all’orizzonte c’è il caso Carige, con un aumento di capitale da 800 milioni che i soci non sono in grado di sottoscrivere – inglorioso per il governo e in particolare per il ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, di ben 20 mesi di crisi delle banche gestite nel peggiore dei modi, mettendo sulle spalle dei contribuenti circa 20 miliardi nuovo debito pubblico e sui conti dei correntisti bancari le maggiori spese che le principali banche hanno già trasferito o trasferiranno per far fronte ai maggiori impegni del Fondo interbancario di garanzia.
Ecco in sintesi i principali errori che sono stati fatti.
Il Bail in. Tesoro e Banca d’Italia hanno clamorosamente sottovalutato l’impatto che avrebbe avuto sulle banche italiane l’introduzione della direttiva Brrd, quella sul cosiddetto Bail in, volta a scaricare i principali costi di una crisi bancaria sugli investitori privati – siano essi azionisti, obbligazionisti subordinati, obbligazionisti senior, correntisti – invece che sui contribuenti. Questo perché in precedenza Germania, Inghilterra e Francia avevano impiegato enormi risorse pubbliche per salvare le proprie banche a causa della crisi finanziaria del 2008.
La svalutazione delle sofferenze. Nel salvare Banca pop Etruria, Banca delle Marche, Carichieti e CariFerrara si sono svalutati i crediti non performanti assegnandogli un valore di 18 centesimi e creando così un benchmark di riferimento per tutti i crediti in sofferenza presenti nei bilanci di tutte le banche italiane. Da quel momento gli analisti finanziari e la Borsa hanno cominciato ad applicare quel prezzo a tutti gli Npl e a ipotizzare le quantità di capitale necessarie per far fronte a un’ipotetica svalutazione di quegli asset. Come conseguenza i titoli delle banche a Piazza Affari sono stati massacrati dalle vendite per circa 20 mesi, un danno enorme nell’ordine delle decine di miliardi di minor capitalizzazione.
Il crollo dei titoli in Borsa. Una caduta delle quotazioni dei titoli bancari in Borsa non è senza conseguenze. E’ vero che le banche falliscono per carenza di liquidità ma la caduta dei prezzi genera sfiducia nei correntisti e risparmiatori e può provocare una corsa agli sportelli o la non sottoscrizione di bond. Questo aspetto è stato clamorosamente sottovalutato da tutte le autorità che hanno invece continuato a inveire contro gli speculatori finanziari che in una sorta di complotto mondiale contro l’Italia vendevano i titoli a mani basse. Dunque scarsissima comprensione dei meccanismi che regolano i mercati finanziari da parte delle autorità italiane.
Tempi biblici. Il tempo non è una variabile ininfluente, se una crisi resta aperta 20 mesi, come è successo all’Italia, gli effetti negativi si moltiplicano a valanga. In questo campo l’Italia ha subito una dura lezione dalla Spagna: la crisi del Banco Popular, istituto con 51 miliardi di sofferenze, è stata aperta e chiusa nel giro di pochi giorni, facendolo inglobare dal Santander con un aumento di capitale da 7 miliardi. In questo modo si è evitata una pericolosa fuga di depositi che invece si è verificata per il Monte dei Paschi e per le due banche venete. Il fatto che la Vigilanza bancaria sia stata trasferita a Francoforte e che nel processo sia stata sempre coinvolta la Dg Comp (direzione generale della concorrenza presso la Commissione Ue) di certo non ha agevolato le autorità italiane. Il tutto condito da continue fughe di notizie sui giornali, alimentate anche da leaks provenienti da Bce e Dg Comp, che gli italiani hanno subìto senza poter controbattere.
Mps legata al referendum. Un altro gravissimo errore è stato commesso da Renzi e Padoan quando nel luglio 2016 hanno deciso di affidare la ricapitalizzazione di Mps alle mani di investitori privati che Jp Morgan e Mediobanca avrebbero dovuto trovare. Inoltre, l’aumento di capitale risultava fin da subito legato a doppio filo all’esito del referendum costituzionale, che i mercati consideravano un elemento di instabilità soprattutto in caso di vittoria del no. E così è stato, JP Morgan e Mediobanca si sono velocemente sfilate, i soldi dei privati anche e il governo ha dovuto varare in tutta fretta un decreto legge che stanziava 20 miliardi per salvare banche e risparmio tradito.
La strage dei risparmiatori. Ciò che differenzia le banche italiane da quelle di molti altri paesi europei è il fatto che il funding è fatto emettendo bond che vengono collocati in larga misura presso gli sportelli delle stesse banche, grazie a un rapporto fiduciario che esiste storicamente con correntisti e risparmiatori. In questi casi il profilo di rischio dei clienti passa in secondo piano e così molte obbligazioni subordinate, quelle più rischiose, sono state vendute a risparmiatori non consapevoli. Ora con la direttiva del Bail in le prime a essere sacrificate, oltre al capitale, sono proprio le subordinate, creando panico, contestazioni e cause legali. Ma Tesoro, Consob e Banca d’Italia ben sapevano da tempo di questo problema.
Debito pubblico sempre più in alto. Quei 20 miliardi stanziati per salvare le banche in crisi e praticamente esauriti tra Mps e banche venete andranno finanziati con nuovo debito pubblico che così aumenterà invece che diminuire. Padoan voleva cercare di farlo scendere con le privatizzazioni, ma in quattro anni di governo ce ne sono state pochissime. La vendita delle Fs e la seconda tranche delle Poste di sicuro non verranno realizzate nel 2017 e dunque c’è anche il rischio che a ottobre, una volta passate le elezioni tedesche, la Ue possa tornare alla carica con una procedura per debito eccessivo nei confronti dell’Italia.
Il costo scaricato sui correntisti. Per i correntisti e i risparmiatori, oltre il danno la beffa. Per far fronte agli esborsi per finanziare il Fondo interbancario e gli altri interventi di salvataggio, alcune banche stanno con diverse modalità alzando i costi di tenuta dei conti correnti. E così il costo dei salvataggi alla fine si scarica sul pubblico indistinto mentre i manager che guidano le banche restano al loro posto e, anzi, si vantano di aver arginato la crisi bancaria.
La flessibilità di bilancio sprecata. Per Renzi e Padoan c’è sempre stato un doppio tavolo su cui contrattare con la Ue: i provvedimenti per il salvataggio delle banche e la flessibilità sui conti pubblici dell’Italia. Nell’estate 2016 i nostri hanno preferito non intervenire subito con soldi pubblici nel Montepaschi per avere così maggiori margini di trattativa per la flessibilità delle misure contenute nella legge di Bilancio in vista del referendum. Ma un po’ di soldi distribuiti a pioggia non sono bastati a vincere la consultazione elettorale e in più la Ue nel 2017 ci ha chiesto il conto con una manovra aggiuntiva da 3,4 miliardi.
Il team italiano inadeguato. Spiace dirlo, ma negli anni ’90 e 2000 i tecnici italiani ai vertici delle istituzioni finanziari erano di ben altra levatura rispetto a quelli di oggi. In particolare alla direzione generale del Tesoro si sono succeduti negli anni banchieri preparati come Mario Draghi e Vittorio Grilli. Il primo è poi diventato governatore della Banca d’Italia prima di salire alla guida della Bce, mentre il secondo ha ricoperto incarichi internazionali. Dal 2012c’è Vincenzo La Via per il quale nessuno ha mai speso parole di stima e lo stesso Padoan ha una preparazione più da economista che da tecnico esperto in trattative serrate sui temi bancari. Ignazio Visco è sicuramente un bravo economista ma durante la sua gestione la Banca d’Italia non è mai riuscita a prevenire alcun caso di malversazione bancaria, è sempre arrivata dopo, quando i buoi erano scappati dalla stalla. E la Consob di Giuseppe Vegas ha approvato prospetti informativi per bond e aumenti di capitale delle banche che in seguito si sono rivelati non aderenti alla realtà inducendo perdite fortissime per investitori istituzionali e risparmiatori.Insomma ci voleva ben altro per contrastare Danielle Nouy alla Bce, Marghrete Vestager alla Dg Comp e ai tedeschi che hanno occupato posizioni chiave in Europa come il capo di gabinetto di Juncker, Martin Selmayr, la numero due della vigilanza bancaria della Bce Sabine Lautenschlaeger, la capa del Single Resolution Board, Elke Koenig.
Di fronte a questa sequenza di errori culminati in un ritorno all’impiego di soldi pubblici nel peggiore dei modi (se Mps e le venete fossero state nazionalizzate fin da subito avrebbero potuto essere risanate e rivendute con profitto successivamente) coloro che hanno tenuto in mano le redini del comando in questo periodo non accennano ad assumersi delle responsabilità. Renzi vuol tornare a fare il primo ministro, Padoan non resterà al governo ma si dice avrà un importante incarico europeo, Visco difficilmente verrà riconfermato, Vegas è in scadenza a fine anno. Mentre al popolo italiano toccherà pagare il conto.
Vicenda Banca d’Italia: solo una lotta di potere per il Signoraggio? Scrive Pierluigi Paoletti su "Centro Fondi". La pietra dello scandalo è stata portata alla luce alla fine del 2003 da un'analisi dell'ufficio studi di Mediobanca sui bilanci delle banche italiane dal quale è emerso che gli azionisti di Bankitalia sono le stesse banche che la BdI deve controllare, la cosa viene riportata solo dal Sole 24 ore e da Famiglia Cristiana. Da quel momento tutta la parte indipendente della comunità finanziaria poi seguita da moltissime altre persone sensibili al problema, ne parla e solleva il caso Bankitalia alimentato in seguito dagli scandali sul collocamento da parte delle banche delle obbligazioni Argentina, Cirio e Parmalat. La Lega e Tremonti, allora super ministro dell’economia e del Tesoro si schierano apertamente contro Fazio. Tutto però si ridimensiona con le dimissioni forzate di Tremonti e anche la Lega ritorna sui suoi passi dopo che Bankitalia ha evitato il fallimento alla banca della Lega Credieuronord, facendola acquisire dalla Popolare di Lodi oggi Popolare Italiana di Fiorani. Fino ad allora Fazio ha sempre agito con la disinvoltura e la spavalderia di chi godeva della copertura politica del governo che l’ha difeso a spada tratta in molte occasioni, a volte anche contro l’evidenza come nel caso Cirio e Parmalat, fino a questa estate quando con le intercettazioni telefoniche che hanno messo in piazza gli intrecci con la cricca di Fiorani & c. si è rotto qualcosa. Da quel momento tutti i mass media, che fino ad allora avevano scelto la strada dell’omertà, si sono schierati contro Fazio ed anche la copertura politica che lo ha sempre accompagnato, grazie anche alle bordate del ministro Siniscalco, si è notevolmente affievolita facendo stringere sempre più il cerchio attorno al Governatore della Banca d’Italia che non vuole dimettersi. Il consiglio dei ministri in tutta fretta ha varato le linee guida della riforma di Bankitalia introducendo un mandato a termine per il Governatore e l’intenzione di riportare in mani pubbliche la Banca Centrale e molti giornali hanno riportato anche diversi nomi graditi a Ciampi che potrebbero sostituire Fazio a via Nazionale: Tommaso Padoa Schioppa, Mario Draghi, Mario Monti oltre allo stesso Siniscalco. L’intera vicenda ha qualcosa di strano: perché questo improvviso accanimento di mass media e politici contro Fazio? Non credo infatti alla storia della credibilità internazionale dell’Italia sbandierata da tutti. Sotto, secondo me, c’è dell’altro. Se notate bene tutte le persone citate in neretto protagoniste della vicenda, fanno parte di quella che Marco Saba, ricercatore del Centro Studi Monetari, chiama le Brigate Rothschild, ammesse al Bilderberg group circolo ristrettissimo che decide delle sorti del mondo e sono tutte schierate contro l’attuale Governatore mentre sappiamo che il religiosissimo Fazio è benvoluto dal sen. Giulio Andreotti e dall’Opus Dei. La richiesta delle dimissioni di Fazio nasconderebbero allora una lotta di potere tra Banchieri e Opus Dei? E per quali oscuri motivi si contenderebbero la guida della Banca d’Italia? Probabilmente per controllare i proventi dal signoraggio italiano incamerati dalla Banca d’Italia attraverso la sua partecipazione nella BCE. In ballo infatti c’è una cifra pari al debito pubblico di cui lo Stato italiano è debitore nei confronti della Banca Centrale (1.439.755 milioni di euro nel 2004). Lo stato infatti per un oscuro motivo ha rinunciato alla facoltà di emettere il denaro di cui ha bisogno e l’ha ceduta prima alla BdI e oggi alla BCE. Facendo ciò non si indebita per il solo costo di stampa delle banconote, come sarebbe naturale visto che la valuta non ha alcuna copertura, ma per il loro valore facciale e su quello emette i titoli di stato (BOT BTP CTZ ecc.) i cui proventi vanno interamente alla Banca Centrale per aver stampato le banconote. E scandalo nello scandalo, nel bilancio della Banca Centrale al passivo non figurano i costi tipografici (carta, inchiostro ecc), ma il valore facciale delle banconote e all’attivo il ricavato della vendita dei titoli di stato con la conseguenza che i bilanci sono sempre vicini al pareggio. Il fatto che per una convenzione il mercato dia valore a dei semplici pezzi di carta non significa che questi siano ricchezza – quella gliela diamo noi accettandola in cambio del nostro lavoro- in realtà sono sempre e solo pezzi di carta colorata e poiché è solo questo che fornisce la Banca Centrale, in bilancio dovrebbe essere iscritto al passivo solo il costo di produzione di questi biglietti colorati (pochi eurocent a banconota invece che 50-100-500 euro). Con il quasi pareggio di bilancio, gli utili da spartire tra l’azionariato sono molto esigui e quindi l’operazione del governo di riportare le azioni di Bankitalia in mano pubblica risulta essere solamente un’operazione di facciata, utile solo a togliere ai controllati (le banche) la proprietà del controllore (Bankitalia), mentre rimane tuttora un mistero la strada che prende il denaro derivante dalla vendita dei titoli di stato (Signoraggio). Speriamo che qualcuno prima o poi faccia luce anche su questo che non è, purtroppo, solo un “giallo” italiano.
Cosa è il Signoraggio? Signoraggio. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il signoraggio (letteralmente «aggio del signore», di derivazione medioevale) è l'insieme dei redditi derivanti dall'emissione di moneta. Il premio Nobel Paul R. Krugman, nel testo di economia internazionale scritto con Maurice Obstfeld, lo definisce come il flusso di «risorse reali che un governo guadagna quando stampa moneta che spende in beni e servizi». Il termine è un prestito linguistico dal provenzale senhoratge, che è un derivato di seigneur (corrispondente all'italiano signore). Nel Medioevo, infatti, i signori feudali di tutta Europa cercarono di rendersi indipendenti dai sovrani attribuendosi il diritto di battere moneta e la titolarità dei relativi redditi.
Età antica. Nell'antichità, quando la base monetaria consisteva di monete in metallo prezioso, chiunque disponesse di metallo prezioso poteva portarlo presso la zecca di Stato, dove veniva trasformato in monete con l'effigie del sovrano. I diritti spettanti alla zecca e al sovrano erano esatti trattenendo una parte del metallo prezioso. Il signoraggio in tale contesto è dunque l'imposta sulla coniazione, noto anche come diritto di zecca. Il valore nominale della moneta e il valore intrinseco delle monete non coincidevano, a causa del signoraggio e dei costi di produzione delle monete. L'imposta sulla coniazione serviva poi a finanziare la spesa pubblica. Nel caso in cui lo Stato possedesse miniere di metallo prezioso, il signoraggio coinciderebbe con la differenza tra il valore nominale delle monete coniate e i costi per estrarre il metallo prezioso e coniare le monete. Già con i romani, da Settimio Severo si può parlare di signoraggio: questo imperatore dimezzò la quantità di metallo prezioso contenuto nelle monete, mentre lasciò invariato il valore nominale.
Medioevo. Tra l'800 e il 1200 d. C. il sistema monetario europeo era semplice, basato quasi esclusivamente sul denarius introdotto da Carlo Magno. Con la caduta di Costantinopoli, le signorie europee, a partire da Genova e Firenze, tornarono a battere moneta (1252). Essendo in circolazione tanti diversi tipi di moneta, con diverse denominazioni, coniate in differenti metalli (oro, argento, rame) e con diversi standard di purezza, si pose il problema giuridico se il monarca potesse imporre una tassa di signoraggio sulla produzione delle monete. La scuola giuridica dei canonisti elaborò un orientamento favorevole; quella dei romanisti sostenne che il signoraggio avrebbe dovuto essere nullo.
Età contemporanea. Con la rivoluzione industriale e, nel XX secolo, con la Conferenza di Bretton Woods si assistette al graduale abbandono dei sistemi monetari fondati sui metalli preziosi e sulla convertibilità delle monete in metalli preziosi. La crescita degli scambi economici provocata dalla rivoluzione industriale rese necessario l'uso di monete la cui offerta non fosse vincolata dalla limitata disponibilità di metalli preziosi. Inoltre l'affermarsi di talune monete, sempre più diffuse e accettate negli scambi internazionali, rese obsoleto il ricorso ai metalli preziosi per regolare tali scambi. Infine l'affermazione del biglietto di banca e di altre forme di pagamento svincolate dall'uso di metalli preziosi si spiega con la praticità dei sistemi di pagamento che non obbligano a trasferire ingenti quantità di pesante metallo prezioso.
XX e XXI secolo. Negli anni ottanta-novanta, l'eccessiva dipendenza dal signoraggio di alcuni governi europei - tra cui il Portogallo, l'Irlanda, l'Italia, la Grecia e la Spagna (i PIIGS) - rappresentò una delle maggiori difficoltà per la realizzazione dell'Unione economica e monetaria dell'Unione europea. Nei paesi dell'area euro, il reddito da signoraggio viene incassato dai governi dei paesi membri per il conio delle monete metalliche, e dalla Banca centrale europea(BCE) per la stampa delle banconote, che emette in condizioni di monopolio. Tali redditi sono poi ridistribuiti dalla BCE alle varie banche centrali nazionali in ragione della rispettiva quota partecipazione (per la Banca d'Italia ad esempio il 12,5%). I singoli governi nazionali provvedono in seguito a prelevare gran parte di tali redditi dalle banche centrali tramite il prelievo fiscale. Tuttavia, anche nei casi di banche centrali non completamente di proprietà statale (come la Banca d'Italia), la gran parte degli utili prodotti viene versata allo Stato. I singoli governi incassano direttamente il reddito derivante dal diritto di emettere monete metalliche, dal quale devono sottrarre i costi per produrle. Si tratta di un reddito quasi sempre modesto, eccezion fatta nel caso di stati di piccole dimensioni come la Repubblica di San Marino e la Città del Vaticano le cui monete diventano oggetto di collezione. Mentre la creazione e l'emissione monetaria è gestita dalla banca centrale e avviene in contropartita ad obbligazioni statali reperite con operazioni sul mercato aperto, la semplice creazione della moneta scritturale è facoltà di tutto il sistema economico, nazionale e internazionale. La differenza è tratteggiata dalla Banca centrale del Canada nel proprio sito. Mentre nel caso delle monete metalliche il reddito consiste nella differenza tra il valore nominale delle monete metalliche emesse e il costo per produrle, nel caso dell'emissione di monete non metalliche il reddito consiste negli interessi maturati sui titoli acquistati a fronte dell'emissione di moneta. Tali redditi, incamerati dalla banca centrale, servono a pagarne i costi e le imposte sull'emissione di moneta. Il reddito da signoraggio viene in gran parte incamerato dal governo che ha concesso alla banca centrale il diritto di emettere base monetaria in condizioni di monopolio.
Le teorie economiche. In macroeconomia per signoraggio si intendono i redditi che un governo ottiene grazie alla possibilità di creare base monetaria in condizioni di monopolio. Negli stati moderni, solitamente, la banca centrale stampa le banconote mentre il governo (ad esempio tramite una zecca) conia le monete metalliche, ed entrambi hanno un reddito da signoraggio. In economia il signoraggio è innanzitutto una delle fonti con cui un governo finanzia il proprio disavanzo di bilancio (cioè la quantità di spesa pubblica non coperta dalla raccolta di tributi). Lo stesso termine signoraggio nella letteratura economica è quasi sempre riferito ai vantaggi del governo. Nei paesi a bassa inflazione conta per circa lo 0,5% del prodotto nazionale lordo mentre nei paesi ad alta inflazione tale valore è molto maggiore. Nei casi estremi di iperinflazione il signoraggio è virtualmente l'unica fonte di finanziamento del governo. Il ricorso al signoraggio da parte del governo è generalmente associato ad un'elevata instabilità politica, dovuta sovente ad un sistema politico altamente polarizzato. Spesso avviene in concomitanza con la necessità di finanziare i costi di guerre, oppure in casi di shock esogeni che siano causa di un crollo dei prezzi di esportazione o anche solo nei casi in cui il governo non riesca a fronteggiare adeguatamente l'evasione fiscale. In tutti questi casi, i risparmiatori tenderanno a diffidare delle capacità del governo di onorare i propri debiti e si rifiuteranno di sottoscriverne le obbligazioni. Nel caso in cui il potere di stampare moneta sia assegnato dal governo e questo lo usi per finanziare la spesa, il signoraggio corrisponde al rapporto tra il valore nominale della nuova base monetaria emessa in un certo intervallo temporale e l'indice generale dei prezzi (al netto dei trascurabili costi di produzione). I tentativi da parte del governo di finanziare il deficit pubblico aumentando le entrate da signoraggio possono essere causa di iperinflazione e gran parte dei casi storici di elevata inflazione e di iperinflazione sono effettivamente dovuti alla necessità da parte del governo di finanziarsi attraverso il signoraggio. Il caso storico più eclatante e più studiato dalla teoria economica in cui l'abuso nel ricorso al signoraggio da parte del governo ha causato una drammatica spirale iperinflattiva è la Repubblica di Weimar nella Germania del 1922-1923: il conseguente collasso economico fu il preludio dell'ascesa al potere del Nazismo e di Adolf Hitler. Nella prefazione al classico testo di Costantino Bresciani-Turroni sulle vicende del marco tedesco, Lionel Robbins osserva che «il deprezzamento del marco avvenuto tra il 1914 e il 1923 […] ha distrutto la ricchezza degli elementi più solidi della società tedesca: e si è lasciato dietro uno squilibrio morale ed economico, atto a preparare il terreno per i disastri che sono seguiti. Hitler è il figlioccio dell'inflazione». Krugman osserva che l'elevato ricorso al signoraggio è una caratteristica particolarmente frequente nei paesi in via di sviluppo. Nonostante i tentativi da parte di questi paesi di riformare le proprie istituzioni nella direzione dei paesi maggiormente industrializzati, tale processo rimane spesso incompiuto: alla maggiore statalizzazione di queste economie non corrisponde un'adeguata capacità di riscuotere le imposte per finanziare la spesa. Anche in questi casi il ricorso al signoraggio è associato ad elevata inflazione o iperinflazione. Secondo Rudi Dornbusch (1987), le iperinflazioni sono gli esperimenti di laboratorio dell'economia monetaria: in presenza di questi tassi di inflazione, il collegamento tra moneta e prezzi è assolutamente fuori discussione e al di là di qualsiasi controversia. In virtù della stretta associazione tra signoraggio ed inflazione - per cui a maggior signoraggio corrisponde, più che proporzionalmente, maggiore inflazione - il signoraggio è detto anche "tassa da inflazione" (in inglese "inflation tax"): è infatti a tutti gli effetti una tassa che gli operatori economici pagano al governo nella forma di un forzato minor potere d'acquisto della moneta detenuta nei propri portafogli. La creazione di una banca centrale indipendente dal governo - cioè tale per cui il governo non abbia il potere di imporre alcuna misura di politica monetaria - è stata spesso una decisione fondamentale per stabilizzare un'economia colpita da iperinflazione. Nel caso in cui il potere di stampare moneta sia assegnato alla banca centrale, il signoraggio riscosso da questa si definisce come il prodotto tra tasso d'interesse nominale e valore nominale della base monetaria in circolazione, diviso per l'indice generale dei prezzi (al netto dei trascurabili costi di produzione). Tale somma viene normalmente percepita dal governo sotto forma di imposte.
Il calcolo. Il signoraggio ottenuto dal governo può essere misurato dal potere d'acquisto della nuova base monetaria messa in circolazione dal governo. C'è la formula matematica.
Relazione tra signoraggio reale ed inflazione. Se è vero che il ricorso al signoraggio fa aumentare l'inflazione a ritmo virtualmente illimitato, ciò non si traduce tuttavia necessariamente in un aumento del signoraggio reale riscosso dal governo. Come mostrato in precedenza, questo è pari a (...) e, se il governo è in grado di controllare il numeratore (cioè la creazione di nuova base monetaria), non è però certo in grado di controllare il denominatore (l'indice generale dei prezzi) che, come si è detto, cresce al tasso di inflazione. Per valori bassi dell'inflazione, il finanziamento di una piccola quota del deficit tramite emissione di moneta, fa aumentare il valore reale del signoraggio; ma per livelli crescenti del tasso di inflazione il valore reale del signoraggio aumenterà sempre meno finché inizierà a diminuire, invertendo la tendenza. Questo livello massimo di signoraggio reale corrisponde ad una soglia massima di tolleranza che il sistema economico è disposto a subire senza avvitarsi in una spirale iperinflazionista: se il governo tenterà di oltrepassare questa soglia l'inflazione andrà fuori controllo. Se il governo ritiene necessario massimizzare il signoraggio reale, mettendo in second'ordine ogni altro obiettivo di politica economica (stabilità dei prezzi, crescita economica, piena occupazione, distribuzione equa del reddito, ecc.), non dovrà oltrepassare quella soglia.
Dibattito e critiche. Se dunque il reddito da signoraggio può essere efficientemente massimizzato dal governo, perché l'esperienza storica mostra che, al contrario, molti governi tendono a porsi sul lato sbagliato della curva di Laffer, a destra del valore che massimizza il signoraggio ovvero in punti in cui il signoraggio realmente riscosso è minore? Cagan suggerisce che i governi scelgono di abusare del signoraggio quando sono alla disperata ricerca di fondi per coprire vasti deficit di bilancio. In questi casi i governi tendono a fidarsi eccessivamente dei redditi da signoraggio ed attivano così spirali iperinflazionistiche. Un'ulteriore ipotesi che Cagan avanza è che le aspettative sul futuro da parte del settore privato siano imperfette, nella fattispecie di natura adattiva, cioè "backward-looking": in questo caso il governo potrebbe avere benefici di breve periodo da un ricorso al signoraggio maggiore del massimo consigliabile in quanto gli operatori sarebbero sempre in ritardo nell'aggiustare le proprie aspettative. Gli economisti contemporanei non sono soddisfatti da quest'ultima spiegazione perché ritengono che, almeno sul piano dei modelli teorici, l'ipotesi che il governo sia in grado di ingannare sistematicamente il mercato non sia accettabile. Ciò tuttavia non toglie che il governo, spinto da esigenze contingenti, possa ugualmente tentarvi. Nonostante la generale diffidenza degli economisti, Stanley Fischer ha osservato che «forse la semplice ipotesi di aspettative razionali qui non funziona, perché è difficile credere che gli agenti economici durante le iperinflazioni capiscano i processi dinamici ai quali stiano partecipando senza passare per qualche processo di apprendimento che sarebbe l'equivalente delle aspettative adattive». Ma anche sotto l'ipotesi di perfette aspettative razionali "forward-looking" - ipotesi a cui, innanzitutto per motivi metodologici, gli economisti non sono disposti a rinunciare - il modello di Cagan riesce a spiegare un problema sottile associato all'analisi del signoraggio. Il governo ha infatti l'interesse ad annunciare una politica monetaria coerente con l'analisi svolta sopra, comunicando al mercato la propria intenzione di attenersi ad un'offerta di moneta pari a (...), ma poi, una volta incassata la fiducia del pubblico, ha piuttosto interesse a tradirlo fissando (...). Questo fenomeno è noto come "incoerenza intertemporale della politica economica" (per approfondimenti vedi l'analisi dei premi Nobel Finn Kydland e Edward Prescott e la letteratura che ne è originata). Se il pubblico è credulone e continua a credere agli annunci del governo, lo stesso trucco può essere ripetuto con successo indefinitamente, ed in questo caso il governo riuscirà effettivamente ad ottenere benefici dall'abuso di signoraggio, senza subire la punizione del mercato. Ma quest'ipotesi, almeno su un piano modellistico-formale, è inaccettabile. Molto più probabilmente gli operatori, dopo essere stati ingannati dal governo una prima volta, non gli concederanno altra fiducia e ne anticiperanno la tentazione di barare ulteriormente tramite la formazione di aspettative pessimiste sul futuro. Pertanto il governo, se si troverà nella necessità di massimizzare i redditi da signoraggio, prima dovrà necessariamente riconquistarsi una credibilità presso il pubblico. Per ottenere questo risultato, il governo potrebbe decidere di "legarsi le mani" legislativamente, ma questa scelta è spesso considerata troppo rigida. L'alternativa è allora quella di riguadagnarsi una buona reputazione presso il mercato con scelte di politica economica continuativamente coerenti e credibili: ciò tuttavia richiede molto tempo ed occorre considerare che, se è lungo e difficile il percorso di riconquista della reputazione, una sola scelta incoerente o non credibile può farla perdere nuovamente. Esistono quindi dei costi di cui il governo deve tenere conto, se vuole servirsi utilmente dello strumento del signoraggio, e senza causare danni economici. Per approfondimenti circa gli "equilibri di reputazione" si veda il modello di Robert J. Barro e David B. Gordon e la letteratura che ne è originata. Tahir Andrabi ha studiato la correlazione tra il ricorso al signoraggio ed il tasso di crescita economica di lungo periodo per 74 paesi nel periodo compreso tra il 1971 ed il 1988, rilevando una correlazione significativamente negativa.
Signoraggio e dollarizzazione. Quando un paese adotta una moneta estera come valuta con corso legale, rinuncia al diritto di signoraggio. La dollarizzazione, ovvero la sostituzione della moneta locale con il dollaro statunitense (o con la moneta di un altro stato estero), comporta due tipi di perdite relative al signoraggio: da un lato a mano a mano che si ritira dalla circolazione la moneta nazionale cambiandola con la divisa straniera, le autorità monetarie devono ricomprare la massa di moneta di proprietà del pubblico e delle banche, restituendo i diritti di signoraggio che si erano accumulati con il tempo. Inoltre le autorità monetarie perdono i guadagni relativi al signoraggio nel futuro. Nel contempo, lo stato di cui si è adottata la moneta (gli Stati Uniti nel caso della dollarizzazione) aumenta le proprie entrate relative al signoraggio ed è sorto un dibattito in merito all'opportunità che parte di tali guadagni sia retrocessa alle nazioni che hanno adottato la valuta. A questo riguardo, esiste un precedente negli accordi sottoscritti tra il Sudafrica e altri tre stati africani che utilizzano il rand come valuta avente corso legale (Lesotho, Namibia e Swaziland). Gli Stati Uniti, invece, non hanno sottoscritto fino a oggi alcun accordo simile con Panama o con altri paesi in cui il dollaro ha corso legale. Ciononostante, al Senato degli Stati Uniti sono state presentate proposte legislative relative al rimborso dei diritti di signoraggio.
Teorie del complotto sul signoraggio. Il signoraggio è oggetto dell'elaborazione di varie teorie del complotto; secondo queste tesi, il signoraggio sarebbe riscosso dalle banche centrali e non dal governo, mentre l'emissione di moneta da parte delle banche centrali sarebbe svolta per favorire "banchieri" e presunti "poteri occulti", che opererebbero contro gli interessi dei cittadini. Esse sosterrebbero che dovrebbero essere i governi gli unici soggetti legittimati ad emetter moneta così da stamparne in quantità tale da abbattere il debito pubblico, evitando eccessive spinte inflazionistiche. Tali tesi tuttavia - spesso diffuse e sostenute da persone senza formazione economica - non troverebbero conferma in nessun manuale divulgativo o specialistico di economia, per tale motivo sono state oggetto di debunking da parte di economisti ed esperti al fine di mostrarne la fallacia logica e l'inconsistenza scientifica. Al riguardo esistono sulla rete internet diversi siti web nei quali vengono riportate spiegazioni circa il concetto di signoraggio e smentire dette teorie, affermando che si tratta di bufale.
Nel mondo. Il ricorso al signoraggio da parte dei governi, per finanziare quote del deficit pubblico, come si è visto, è un fenomeno noto e oggetto di studio da parte della teoria economica. Si è visto anche che non tutti i governi ricorrono al signoraggio nella stessa misura: i paesi politicamente più stabili tendono a ricorrervi il meno possibile; i paesi più instabili sono invece tentati di ricorrervi oltre ogni limite di ragionevolezza.
Vicenda Banca d'Italia, una storia "italiana", scrive il 31 Gennaio 2014 "L’Inkiesta". L’Italia ogni tanto si dà da fare per ricordare al mondo di essere il paese di Pulcinella, o il paese delle “tre carte”, con riferimento a quel gioco di abili truffatori che ti fanno credere di aver indovinato la posizione di una carta e invece essa è in un altro posto. La vicenda Banca d’Italia è esemplare in questo senso. Tutto è stato fatto al solo scopo di dare un miliardino alle casse dello stato, cercare di far fesse le autorità europee che dovranno verificare la patrimonialità delle banche italiane, e dare qualche dividendo in più in futuro alle banche azioniste. La partecipazione al capitale della Banca d’Italia da parte delle banche, risale al momento della costituzione della stessa banca, quando non era ancora ente di diritto pubblico, come lo è oggi, e quando non aveva ancora il monopolio della monetazione. Ma diciamo subito che il loro permanere come azionisti ancora oggi ha una sua giustificazione. Infatti la Banca d’Italia è una di quelle istituzioni per le quali deve essere salvaguardata l’autonomia, in cui insomma si deve realizzare un equilibrio di poteri tale che hanno in tanti voce in capitolo ma nessuno deve comandare dall’esterno. Per esempio nello statuto della Bit (art. 6, c. 2) è scritto: “L’assemblea [degli azionisti] non ha alcuna ingerenza nelle materie relative all’esercizio delle funzioni pubbliche attribuite …”, quindi la proprietà in capo alle banche non conferisce alcun potere sulla politica monetaria (che oltre tutto ora compete alla Bce) e sulla vigilanza bancaria. Uno potrebbe dire “ma l’assemblea nomina il Consiglio Superiore”, ma anche per questo organo lo statuto prescrive (art. 19) che non abbia ingerenza nell’attività pubblica della Bit, può occuparsi solo della gestione interna alla banca. Gli organi che hanno il potere effettivo sulle materie di interesse pubblico sono il Governatore e il Direttorio (governatore + DG + 3VDG). Il Governatore, a sua volta, viene nominato dal Presidente della Repubblica, massima carica istituzionale (non politica) e massima magistratura dello stato, sia pure su proposta del Governo, sentito il parere del Consiglio Superiore. L’ingerenza delle banche azioniste, tramite il Consiglio Superiore, nell’attività pubblica della Bit si limita al parere (non vincolante) sulla nomina del Governatore e alla nomina del DG e dei VDG. Queste ultime nomine però avvengono su “proposta del Governatore”. Insomma si è cercato di realizzare un equilibrio di poteri dove tutti si esprimono ma nessuno comanda, salvo forse il Presidente della Repubblica con la nomina del Governatore. Il Governatore e il Direttorio hanno carta bianca sulle attività di tipo pubblicistico. Potremmo chiederci: è giusto che la banca centrale goda di una simile autonomia dal governo? A parere di chi scrive sì, perché la gestione della moneta e la vigilanza bancaria devono essere lasciate fuori dalla lotta politica: ci pensate se l’allegra coppia Berlusconi – Tremonti avesse avuto la possibilità di stampare moneta? Mi viene un brivido alla schiena solo a pensarci. Tra l’altro oggi la questione di fondo sul ruolo è diventata, in Italia, in buona parte oziosa, almeno per quanto riguarda la politica monetaria, dato che compete alla Bce, quindi se mai la discussione va portata in Europa, anche se comunque il governatore siede nel consiglio della Bce. Essendo questo il quadro complessivo, la presenza delle banche nel capitale della Bit direi che ha solo una funzione simbolica, di equilibrio dei poteri e quindi, a parere di chi scrive, dovrebbe avere un valore economico altrettanto simbolico, per esempio di un euro, altro che miliardi. Invece non solo detta partecipazione è stata rivaluta per legge, ma finora sono stati anche corrisposti, e se ne prevedono di maggiori in futuro, dividendi. Dividendi che derivano in ultima analisi dall’attività di “signoraggio” (presente e passata) della banca centrale, cioè dal suo essere monopolista nella stampa di moneta, e che non hanno alcuna giustificazione realmente economica: la loro distribuzione è pura e semplice stampa di moneta. Cosa c’entrino in tutto questo le banche lo sanno solo i nostri governanti. C’è poi la questione dell’oro. Veramente Letta e C. credono che l’oro posseduto dalla Bit sia di proprietà dei suoi azionisti? Che i banchieri possono disporne? Devono essersi bevuti il cervello per pensarlo. Mi viene in mente quanto ebbe a dire Trichet, allora presidente Bce, al fantasioso Tremonti, il quale aveva chiesto alla Bit di rivalutare l’oro in modo da poter tassare la plusvalenza: “siete sicuri che l’oro appartenga alla Banca d’Italia, e non al popolo italiano?”. Che vergogna! Ce lo doveva ricordare uno straniero!!! Quell’oro è il frutto dell’intraprendenza dell’imprenditoria italiana e del sudore dei lavoratori italiani che negli anni ’50 e ’60 hanno lavorato con bassi salari per incrementare le nostre esportazioni, e consolidare l’indipendenza della giovane Repubblica Italiana, nessun privato può mettere le mani sopra. Nel bilancio della Bit l'oro incide per circa 20 mld sul patrimonio netto (99 mld di valore, meno la posta rettificativa di propria pertinenza dei "conti di rivalutazione" posti al passivo pari a 79 mld), pertanto senza di esso il patrimonio netto contabile sarebbe di poco superiore a 5 mld, cioè i due terzi di quanto attribuito alle banche azioniste (dati tratti dal bil. 2012, ultimo approvato). E allora? Si sono ripartiti anche una parte dell'oro? Ma siamo matti? Tutto questo vergognoso giochetto è stato fatto: a) per consentire alle banche di rivalutare in bilancio la loro partecipazione e migliorare così il ratio mezzi propri/attivo; 2) tassare la plusvalenza in capo alle banche per rimediare un miliardino di imposte; 3) autorizzare in futuro un versamento più corposo di dividendi dalla Bit alle banche azioniste. Dov’è Draghi, il quale andò negli Usa a dire che “il modello sociale europeo è morto" mentre ora ritiene vivo e vegeto il sistema italiano del “gioco delle tre carte”? Perché non impara dal suo predecessore Trichet? Dov’è Monti che faceva il “rigoroso” solo quando c’era da menar le mani ai lavoratori e pensionati? Dove sono Visco (Ignazio) e Saccomanni che hanno sempre dato lezioni sull’autonomia della Bit e ora consentono che se ne faccia mercimonio? Dov’è Renzi, il quale se cercava un “coup de theatre” questo era quello giusto, anche per togliere un argomento forte a Grillo? E dov’è, ci permettiamo di chiedere, il Presidente della Repubblica, il quale deve essere sempre il garante ultimo dell’autonomia e del prestigio di tutte le autorità politicamente neutre? Possibile che al Quirinale non abbia un economista che lo abbia messo in guardia, visto che finora non ho letto di nessun economista serio che abbia benedetto l’operazione? E invece sembra che si siano messi tutti d’accordo a lasciare la questione solo in mano a Grillo. Vedete, cari amici, sono queste le cose che all’estero non capiscono dell’Italia. Questi giochetti che divertono tanto gli stranieri quando li vedono nei film di Alberto Sordi, ma che li lasciano interdetti quando vedono che essi fanno parte del costume addirittura istituzionale del nostro paese … Tanto poi diamo la colpa alla Germania.
BANDA D’ITALIA / TUTTI GLI ERRORI, ORRORI & OMISSIONI. E ORA ANCHE LO SCANDALO DELLA “SUA” CASSA, scrive il 3 aprile 2017 autore: Andrea Cinquegrani su "La Voce delle Voci". Mentre cominciano a venire finalmente a galla – con anni di ritardo – errori, orrori & omissioni degli organismi di vigilanza, in prima fila Bankitalia e Consob, spettatori e a volte complici di crac e disastri bancari, ecco che lorsignori si danno alla pazza gioia, come se nulla fosse. E’ del giorno di San Valentino, il 14 febbraio, l’inaugurazione di un nuovo portale che consentirà a tutti i cittadini di entrare tra le bellezze di Bankitalia, di conoscere finalmente tutto quel ben di Dio custodito a palazzo Koch. Per la serie: il popolo bue che abbiamo fregato centomila volte, quei risparmiatori frodati e beffeggiati altrettante centomila volte ora potranno farci visita, e osservare quei luoghi dove i loro carnefici continuano a razzolare. Dopo i colossali danni, anche le beffe più atroci.
CORNUTI E MAZZIATI IN VISITA A PALAZZO KOCH. Procediamo con ordine e partiamo proprio dall’ultima chicca, dalla novità contenuta nell’Uovo di Pasqua confezionato da Ignazio Visco & C., caso mai su ricetta dei predecessori, tra cui in pole position il super capo della Bce e per anni inquilino dorato della Vigilanza, Mario Draghi. Ecco il succo del comunicato: “Palazzo Koch apre ai cittadini una volta al mese. Da oggi è online il nuovo portale per la prenotazione delle visite gratuite. Da febbraio, di norma l’ultimo sabato di ogni mese, Palazzo Kocha Roma apre le porte ai cittadini che avranno così l’opportunità di visitare la sede della Banca d’Italia, un luogo che è stato partecipe di importanti momenti della storia economica del nostro Paese”. Avviso ai naviganti: non siamo su Scherzi a parte. Commenta un dirigente che ne ha viste di tutti i colori, soprattutto in questi ultimi anni, e che si sta avviando alla pensione: “non avendo più nulla da fare e quel poco fatto è stato fatto male, adesso facciamo educazione finanziaria. Apriamo il palazzo e facciamo concorrenza al FAI con le visite guidate. Direttori che guadagnano 25 mila euro al mese vengono pagati per fare le guide turistiche o promuovere l’educazione finanziaria”. E continua: “questi vivono in un altro mondo. Mentre i braccianti muoiono di fatica in Puglia a 30 euro al giorno per 14 ore di lavoro, questi signori di Bankitalia pensano all’antistress. Facendo concorrenza alle guide turistiche per le visite a Palazzo, o agli insegnanti che guadagnano 1.400 euro al mese, come ‘maestri di vita’ per l’educazione finanziaria. I movimenti di personale sono continui, vacanze tutto l’anno, missioni, trasferimenti, assegnazioni, incarichi, ispezioni, ovviamente solo ai furbetti dell’omertà. Occorre valutare lo stress correlato al lavoro, se è vero che l’unico lavoro svolto con stress è stato quello delle ispezioni di vigilanza. Poveri ispettori, con tutte quelle banche da ispezionare… sono stati sottoposti ad uno stress non indifferente, per fortuna è stato un servizio utile alla collettività e a quei bifolchi dei risparmiatori. Per gli altri sarebbe stato utile effettuare una valutazione dello stress correlato all’utilizzo di internet tutto il giorno. Per questo motivo si aprono i portoni che sono stati sempre chiusi per fare le visite al museo, perchè il personale è stufo di guardare internet tutto il giorno…”. E proprio a proposito di stress da ispezioni, di overdose da vigilanza, è fresco come una sfogliatella un reportage firmato da Massimo Giannini per “Affari & Finanza”, dal titolo che lascia poco spazio agli equivoci, “Banche, processo alla Vigilanza”. Così lancia il servizio Reppubblica: “Non è colpa solo della Grande Recessione se l’Italia con il suo 18 per cento di crediti deteriorati lordi rispetto agli impieghi del sistema bancario resta la maglia nera d’Europa. Giannini ripercorre errori, omissioni, lentezze e scontri che mettono Banca d’Italia e Consob, ma anche il governo e le forze politiche tra gli imputati del disastro bancario. Il processo alla vigilanza parte dallo scarso controllo dei manager degli istituti, fino alle informazioni fuorvianti fornite a soci e obbligazionisti. ‘Se dopo 30 miliardi di ricapitalizzazioni dilapidati solo per quella sporca dozzina (di banche salvat’, ndr) – spiega Giannini – e uno scudo da 20 miliardi creato a fine 2016, gli analisti stimano un ulteriore fabbisogno di capitali tra 40 e 55 miliardi, vuol dire che nella politica qualcosa non ha funzionato”. Riflettori puntati, of course, sulla patata più cara e più bollente, Monte dei Paschi di Siena. “Ad esempio su Mps, caso principale del disastro del credito, la Banca d’Italia e i vari governatori che si sono succeduti da Antonio Fazio a Mario Draghi hanno permesso prima le acquisizioni di Banca 121 eAntonveneta, poi la Consob non si è accorta che il bilancio della banca veniva progressivamente ‘intossicato’ da contratti derivati insostenibili”. Meglio tardi che mai.
DENUNCE NEL DESERTO. Una voce nel deserto, con esposti e denunce al calor bianco, quella di Elio Lannutti, lo storico presidente e animatore di Adusbef, la sigla messa in campo per tutelare i risparmaitori non solo da chi ha cercato di rapinarli con più o meno destrezza, ma anche da chi ha fatto finta di controllare e invece s’è rivelato complice o colluso. E’ Lannutti, per citare un solo caso, a puntare in tempi non sospetti l’indice sull’operazione Antonveneta, l’inizio dell’inarrestabile crollo di Monte Paschi: operazione voluta, avallata e controfirmata del dio dei banchieri di tutta Europa, super Mario Draghi, al quale la Voce anni fa dedicò una cover story, “La Stirpe dei Draghi”, che potete leggere cliccando sul link in basso. Possibile mai – sorge spontanea la domanda – che chi ha pilotato i crac non solo non sia stato preso a calci e messo sotto inchiesta, ma promosso direttore d’orchestra a livello europeo? Una vita a denunciare con largo, larghissimo anticipo, quella di Lannutti. Due anni fa autore di un attualissimo “La Banda d’Italia” e sette anni fa, primavera 2010, di un ancor più profetico “Bankster – Molto peggio di Al Capone i vampiri di Wall street e piazza Affari”, in cui un corposo capitolo dal titolo anche stavolta non poco esplicito, “Le Grandi Cupole: Bankitalia”, veniva dedicato proprio ai capolavori di palazzo Koch. Si partiva dagli scenari internazionali, dove l’istituto di vigilanza aveva taroccato le carte per gettare acqua sul fuoco: “le parole degli irresponsabili oligarchi delle banche centrali, compresa Bankitalia, che da almeno tre anni (dal 2007, ndr) mentono ai mercati per salvaguardare gli esclusivi interessi dei banchieri, hanno provocato una crisi irreversibile che costerà sudore e sangue a milioni di europei”. Poi il paragrafo “Banda d’Italia”, una sfilza di numeri, carte, documenti, incroci, complicità da brividi, come potete leggere cliccando in basso sul link del capitolo di “Bankster”. Ma tra le ovattate stanze – e d’ora in poi visitabili dal popolo bue – a quanto pare rischia di esplodere un altro caso. Fino ad oggi tenuto ben nascosto, avvolto nella più totale privacy finanziaria. E’ il giallo targato CSR, niente a vedere con Cristiano Ronaldo, bensì l’acronimo di Cassa di Sovvenzioni e Risparmio, la cassaforte che racchiude un bel po’ di privilegi fra il personale di Bankitalia. Ecco cosa dettaglia un report titolato “CSR: Riserva di caccia dei notabili di Banca d’Italia”. CSR – è l’incipit – “negli ultimi anni si trova a fronteggiare carenze di reddidività che – pur nel perdurare della crisi globale – non trovano giustificazione, se si considera che dei suoi costi operativi si fa carico la Banca d’Italia. La causa di tale squilibrio è da ricondurre all’ostinazione con la quale i vertici perseguono una politica mirata ad accrescere le rendite dei soci più facoltosi, nonostante il ristagno generalizzato dei tassi d’interesse. Obiettivo portato avanti introducendo strumenti di raccolta inappropriati al contesto aziendale ed espandendo ingiustificatamente l’emissione di azioni sociali”.
DENTRO LO SCRIGNO DELLA SUPER CASSA. Così continua l’analisi che potrà di sicuro suscitare l’interesse di qualche magistrato avvezzo a districarsi tra i labirinti dei reati finanziari: “Al fine di ridurre l’impatto sui conti di tale agire, il consiglio ha segmentato la clientela in base a censo e status, delineando due canali: uno ordinario alla portata della generalità dei correntisti e dei soci, con tassi contenuti e in continuo calo; l’altro elitario, le cui opportunità si rivelano davvero tali solo per i soci affluenti. Nel primo i rendimenti sono ormai al lumicino, nel secondo invece – grazie al nuovo sistema escogitato per la negoziazione interna delle azioni sociali – le prospettive di espandere i profitti non sono mai state tanto promettenti; a scapito, però, della stabilità della Cassa e dei principi mutualistici sanciti nello statuto. Il tutto nell’incuria del direttorio, silente di fronte ad un uso disinvolto di risorse fornite della Banca d’Italia”. Uno scandalo fino ad oggi passato sotto coltri di silenzio, solo il Fatto on line ne ha scritto a fine febbraio. Il report prosegue dettagliando in modo minuzioso i meccanismi dell’operazione, che crea – attraverso complessi marchingegni – una sorta di “tasso di classe”, gerarchizzando le sue truppe, tra una massa che vivacchia comunque bene, poi generali e non solo strabordanti d’ori zecchini. A proposito di questi ultimi, ecco un passaggio: “prospettive da nababbi dunque per i soci affluenti. Ma – grazie all’azzeramento dell’interesse di conguaglio – i benefici vanno ben oltre: per incamerare i proventi sopra esemplificati, infatti, sono sufficienti solo pochi giorni di possesso l’anno a cavallo del fine esercizio, dopo di che le azioni vengono sbolognate alla Cassa e il controvalore fatto ulteriormente fruttificare per tutto il resto dell’anno. Con tali scenari di crescita esponenziale dei profitti, lo spirito mutualistico dell’articolo 3 dello statuto è fragorosamente rinnegato e rimpiazzato da quello dell’arricchimento a qualunque costo. (…) Il fine dell’iniziativa è semplicemente quello di gonfiare di profitti i consistenti patrimoni gravitanti in ambito CSR. Un paradosso che testimonia della fuga da qualsiasi criterio di buon senso e decenza”. In modo ancora più esplicito, al pari di quanto è successo per tante finanziare di casa nostra esplose dopo acrobatiche operazioni come questa: “Ciò che viene messo in piedi, in realtà, non è altro che una sorta di ‘Catena di Sant’Antonio': all’inizio forse potrà passare inosservato lo squilibrio tra gli elevati esborsi per dividendi e i modesti ritorni dall’investimento degli introiti azionari. Ma, come le richieste di rimborso eccederanno quelle di nuove azioni, la crisi finanziaria diverrà sempre più evidente e alla fine più di qualcuno vedrà svanire i propri risparmi, e nel frattempo le condizioni dei più deboli e della Cassa saranno notevolmente peggiorate”. Lo stesso copione andato in scena con le banche venete e toscane… Vip e big a contare i dobloni, risparmiatori con le pacche nell’acqua. Ma stavolta succede proprio a palazzo Kock ! Così conclude il report: “Sarà improbo sostenere che in Banca d’Italia non si sapeva cosa era in corso, che si ignorava l’utilizzo che viene fatto di risorse pubbliche elargite dalla banca centrale. E questo perchè ciò che è noto in CSR è noto in Banca d’Italia, condividendo esse personale e ambiti operativi. Fino a poco tempo fa era convinzione diffusa che la Cassa fosse stabile. Ma alla luce del nuovo scenario, una tale convinzione non trova più fondamento: l’ingiustificato ricorso a pronti contro-termine ed espansione azionaria è suscettibile, infatti, di produrre seri scompensi. La deriva speculativa, poi, ha cancellato l’originaria vocazione mutualistica della CSR, rendendo ingiustificabile qualunque sostegno pubblico. Poichè la fiducia data non è risultata ben riposta, forse non sarebbe male che i soci si riappropriassero di ciò che è loro, la CSR, reindirizzandone l’operato nel genuino rispetto di quei principi mutualistici”. E non sarebbe male una sbirciatina della procura romana, competente per territorio, su quei conti.
Visto, tra l’altro, che la Vigilanza difficilmente può Vigilare su se stessa…
Lo scandalo della Banca Romana. Si comincia a parlare dello scandalo, scrive "Terza classe". Il primo scandalo politico-finanziario che coinvolse le principali Istituzioni del Regno d’Italia (Parlamento e istituti bancari) investì la società italiana sul finire dell’800 coinvolgendo eminenti politici, banchieri e il mondo economico legato al settore del credito edilizio. Le premesse di questa grave crisi finanziaria affondano le radici nella tumultuosa fase di urbanizzazione che ebbe luogo a Firenze, e soprattutto Roma, dopo il trasferimento da Torino della capitale del nuovo Stato. Le due città furono investite da una travolgente febbre edilizia che alterò in maniera significativa il panorama urbano e incrementare le truffe finanziarie senza che vi fosse un adeguato controllo da parte delle Istituzioni e delle banche che si trovarono coinvolte esse stesse in operazioni assai poco trasparenti. Lo scandalo della Banca Romana si alimentò in questo contesto fino ad arrivare ad un punto di rottura nel momento in cui una crisi del settore delle costruzioni trovò l’Istituto capitolino, e altri istituti di minor rilievo, esposti finanziariamente sul fronte dei mutui edilizi che non riuscirono più ad onorare per mancanza di liquidità. Si venne a sapere, così, che la Banca, che faceva parte del quel ristretto numero di istituti che godevano del privilegio di emettere carta moneta per conto dello Stato (gli istituti di emissione erano sei: la Banca Nazionale nel Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito per le Industrie e il Commercio, il Banco di Napoli, la Banca di Sicilia e, infine, la Banca Romana), aveva commesso gravi irregolarità contabili tanto che il suo governatore Bernardo Tanlongo fu accusato di aver fatto stampare un gran numero di banconote contraffatte (con numeri di serie doppi) per un controvalore di molto eccedente il limite fissato dallo Stato. Si comprese, inoltre, che il livello di irregolarità era molto diffuso in quanto gli istituti di credito più esposti godevano di appoggi e protezioni politiche grazie alla accondiscendenza di molti deputati che avevano usufruito di parecchi “prestiti” agevolati e mai rimborsati. Alla fine del 1889 l’affaire raggiunse una tale risonanza che non poté essere più sottaciuto. In un primo momento, fu lo stesso governo che tentò di insabbiare lo scandalo in quanto molti suoi componenti (a partire dallo stesso Presidente del consiglio Francesco Crispi) erano stati i beneficiari delle irregolarità contabili ma, infine, sopraffatto dagli eventi, il ministro dell’industria Miceli istituì una commissione di inchiesta presieduta dall’ispettore ministeriale Alvisi. L’indagine parlamentare riuscì a dimostrare che molti istituti di credito avevano una gestione finanziaria poco accorta a cui si accompagnava un diffuso malcostume politico che vedeva molti parlamentari debitori di ingenti somme nei confronti delle banche. La commissione Alvisi, tuttavia, non riuscì mai a pubblicare i suoi risultati proprio per l’ostruzionismo operato da vasti settori parlamentari coinvolti nello scandalo. La questione fu ripresa nel 1892 dal senatore Napoleone Colajanni che, venuto in possesso del testo dell’Alvisi, lo rese finalmente pubblico. Giolitti, che nel frattempo era diventato il nuovo Presidente del consiglio, cercò di insabbiare nuovamente lo scandalo (con il convinto appoggio del suo predecessore Francesco Crispi) ma, alla fine, anch’egli fu costretto a cedere e a nominare una nuova commissione d’inchiesta (la commissione Finali) a cui fece seguito, nel marzo del 1893, una terza commissione d’inchiesta (presieduta dall’onorevole Mordini) che fece finalmente luce sulle gravi irregolarità commesse dalle banche. Si venne così a sapere del coinvolgimento di parecchi deputati (anche di primo piano) che figuravano nei libri paga degli istituti bancari e si comprese anche il livello di coinvolgimento che aveva avuto Francesco Crispi nella questione. Il deputato siciliano, infatti, era pesantemente esposto nei confronti delle banche da cui aveva ricevuto ingenti “finanziamenti” tanto che si era adoperato più volte per mettere a tacere lo scandalo. Crispi cercò di coinvolgere anche Giolitti che fu, a sua volta, accusato di aver ricevuto denaro dalla Banca Romana ma questa accusa non fu mai provata in modo inequivocabile. Il deputato piemontese, preoccupato per le accuse che gli venivano mosse dall’entourage di Francesco Crispi, dopo che aveva messo a disposizione del Parlamento le carte che accusavano lo statista preferì dimettersi da Presidente del consiglio e riparare all’estero (in Germania) per breve tempo. Il 10 agosto 1893 venne approvata la legge 449. Con questo Testo il Parlamento mise ordine nelle nel settore bancario mettendo, tra l’altro, in liquidazione la Banca Romana e sancì la nascita della Banca d’Italia che avvenne grazie alla fusione della Banca Nazionale del Regno, della Banca Toscana e della Banca Toscana di Credito. Il nuovo istituto, anch’esso privato, ebbe dallo Stato la possibilità di emettere carta moneta insieme al Banco di Napoli e la Banca di Sicilia che mantennero questo privilegio fino al 1926 quando con la legge 812 del 6 maggio la Banca d’Italia divenne l’unico istituto autorizzato alla stampa delle banconote.
TARTASSATI. TUTTO QUELLO CHE NON CI DICONO SUI SOLDI PUBBLICI.
Con l’arrivo del nuovo anno 2013, i contribuenti italiani assisteranno all’introduzione in vigore di tre nuove tasse: Ivie, Tobin Tax e Tares. Dopo un 2012 all’insegna dell’Imu è ora la volta di nuove imposte. Tre nuove tasse al debutto. Se il 2012 è stato l'anno dell'Imu, il 2013 vedrà l'arrivo di tre nuove imposte e certo non sarà meno impegnativo per gli italiani. La pressione fiscale, in base alle ultime previsioni del governo, salirà dal 44,7% dell'anno appena concluso al livello record del 45,3%. Le nuove tasse guardano soprattutto alla casa e agli investimenti finanziari. Scatta da subito l'Ivie, l'imposta che si paga sul valore degli immobili all'estero, mentre bisognerà attendere marzo per la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie. A caratterizzare l'anno sarà però la Tares, la nuova tariffa sui rifiuti che si preannuncia come un balzello di rilievo: si pagherà da aprile sulla grandezza degli immobili, ma manderà in pensione la vecchia Tarsu e assorbirà la Tassa di igiene ambientale. Ma a pesare sui portafogli dei contribuenti sarà l'Iva che a luglio 2013 vedrà l'aliquota salire dal 21 al 22%. Non ci saranno comunque solo note dolenti.
Pressione fiscale record: nel 2012 al 45%. Ogni famiglia 1.450 euro in più di tasse.
In dodici anni gli aumenti a carico dei contribuenti sono stati quantificati dalla Confesercenti in 103 miliardi, scrive “Libero Quotidiano”. Il futuro non è più roseo: secondo le stime del Governo, infatti, nel 2013 la pressione fiscale aumenterà ancora, portandosi al 45,3%. Altri 9 miliardi in più; ulteriori 380 euro a carico di ciascuna famiglia italiana. Oltre 103 miliardi di aumenti netti d’imposta fra il 2001 e il 2012. In media, quasi 9 miliardi in più per ciascuno dei dodici anni trascorsi dall’inizio del terzo millennio. E’ questo il più significativo risultato che emerge da un’analisi di Confesercenti delle manovre di finanza pubblica succedutesi nel nostro paese dalla fine del 2000, basata su dati ufficiali. Un risultato che spiega altri due fenomeni. Il primo: un aumento di 204 miliardi del gettito complessivo registrato nello stesso periodo (dai 495 del 2000 ai 699 attesi per il 2012). Le maggiori entrate dovute alle manovre, dunque, rappresentano oltre la metà dell’aumento complessivo. Il secondo: un aumento della pressione fiscale di 3,4 punti (dal 41,3% del 2000 al 44,7% del 2012), che porta a quasi 5 punti il divario rispetto al resto d’Europa. Secondo le stime ufficiali, prosegue Confesercenti, nel 2012 la pressione fiscale toccherà il 44,7%, con un balzo di 2,2 punti rispetto al 2011. Da un anno all’altro, insomma, gli italiani avranno pagato 35 miliardi in più, per effetto delle tre manovre che si sono succedute da metà 2011. Si tratta di 1.450 euro di aggravio per ciascuna famiglia. Il confronto internazionale ci colloca al terzo posto (dopo Danimarca e Svezia) fra i 27 paesi dell’Unione Europea, con un distacco di ben 5 punti rispetto alla pressione fiscale media. Questo significa che se il nostro livello di prelievo fosse uguale a quello medio europeo, ogni famiglia italiana disporrebbe di un reddito aggiuntivo di 3.400 euro, ossia quasi 10 euro al giorno. Il futuro non sembra lasciare spazio a valutazioni ottimistiche, soprattutto in assenza di una ripresa dell’economia. Sempre secondo le stime del Governo, infatti, nel 2013 la pressione fiscale aumenterà ancora, portandosi al 45,3%. Altri 9 miliardi in più; ulteriori 380 euro a carico di ciascuna famiglia italiana. Inoltre, altre sorprese possono venire dal versante delle imposte locali (regioni, province e comuni), che nel decennio passato hanno registrato un aumento di prelievo del 41% rispetto al 34% del resto della pubblica amministrazione (Stato ed Enti di previdenza). Una "devianza", questa, che potrebbe trovare conferma in futuro, considerato che la facoltà di aumentare le "imposte proprie" accordata dai decreti attuativi del federalismo fiscale si accompagna alla necessità degli stessi Enti di sopperire ai tagli dei trasferimenti statali. La pressione fiscale "è insostenibile ed è diventata il maggior ostacolo alla ripresa della crescita economica. Distrugge imprese e posti di lavoro, senza peraltro essere in grado di fermare l’avanzata del mostro rappresentato dal debito pubblico". Lo afferma Confesercenti che chiede "un’urgente svolta". "Nell’immediato - spiega - va corretto l'errore degli aumenti dell’Iva, sia pure ridimensionati, e va scongiurata una nuova mazzata come l’Imu ,che si scaricherebbe su imprese e famiglie. Confesercenti, presentando la nota studio sul fisco, sottolinea che "dieci anni di manovre dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’accanimento fiscale insistere sul fisco ha prodotto sì un aumento gigantesco di gettito che ha impoverito pesantemente famiglie ed imprese". "Non è accettabile che nelle manovre il fisco abbia pesato per il 70%, mentre i tagli alla spesa pubblica solo per il 30%. Questo ci spinge a chiedere di sbarrare al più presto la strada che porta a nuove tasse, mentre va spalancata quella che conduce alla riduzione della spesa pubblica".E' invece necessaria secondo l’associazione "la detassazione delle tredicesime per evitare il preannunciato tracollo dei consumi, e in questa direzione andrebbero impegnate tutte le risorse disponibili. Al tempo stesso ci aspettiamo che i partiti, che parlano ormai il linguaggio delle campagne elettorali, si impegnino seriamente e non in modo propagandistico su scelte in grado di far calare la pressione fiscale già nel 2013, intervenendo coraggiosamente sui i tanti sprechi e privilegi che si annidano nelle Istituzioni e nella politica. Ma anche l'attuale Governo non può stare a guardare: convochi quanto prima le parti sociali per un confronto concreto sulla riforma fiscale che ridia fiato alle imprese e famiglie e con esse agli investimenti ed al lavoro, oggi in forte sofferenza".
Avete presente il bilancio dello Stato italiano? Chiede Danilo Taino su “Il Corriere della Sera”. No? Più che giustificato: è complicato e tenuto oscuro dallo Stato stesso, che nulla fa per renderlo trasparente ai cittadini. Il guaio che si aggiunge al guaio è che anche gran parte dei candidati che si proporranno alle elezioni del 24 e 25 febbraio non ne sanno molto. E piuttosto confusi — comunque decisi a mantenerlo nel regno del misterioso — appaiono i partiti quando ne parlano. Quando cioè avanzano programmi e proposte che riguardano la voce entrate (le tasse) e la voce uscite (la spesa pubblica): il cuore del governare, l’essenza della sovranità, quello per cui chiedono voti. Rendere leggibile il bilancio pubblico e magari metterlo a confronto con quello di altri Paesi è dunque un primo passo per stabilire di cosa si parla e per togliere i veli dietro ai quali, il giorno dopo essere eletti, governanti e legislatori smettono di rispondere ai cittadini. Per esempio, ci è chiaro cosa significa il nostro debito pubblico? Significa che nel 2010 ogni italiano ha pagato 1.143 euro di interessi su di esso: tanto quanto per l'Istruzione. Vuole cioè dire che debito è uguale a tasse: immediate (gli interessi) e differite (qualcuno lo dovrà ripagare, cioè i cittadini di domani). Ed è sottrazione di risorse a investimenti e servizi. In aggregato, nel 2010 l’Italia ha speso per interessi sul debito il 4,4% della ricchezza prodotta (Pil): la Germania solo il 2,6%, la Gran Bretagna il 2,9%. Vista l’opacità dei numeri dello Stato, Civicum - un’associazione non politica che si batte per migliorare la trasparenza dell’Amministrazione pubblica - e il Politecnico di Milano hanno lavorato per disboscare e rendere leggibili i conti dello Stato. E per confrontarli con quelli di Germania, Spagna, Francia e Gran Bretagna. E per questa ragione il Corriere della Sera propone una parte del loro studio: all’interno di una serie di iniziative (La prova dei fatti) che sta prendendo - e prenderà sempre più intensamente con l’avvicinarsi delle elezioni - per stabilire non solo la credibilità dei programmi dei partiti ma anche per misurarne il loro effetto su economia reale e conti dello Stato. I numeri su cui hanno lavorato Civicum e Politecnico, in parte riportati nelle tabelle, sono riferiti all’anno 2010: da allora alcune voci hanno subito variazioni; ciò nonostante, la distribuzione della spesa tra i servizi prodotti dallo Stato e tra le funzioni da esso svolte non ha subito cambiamenti significativi. «Immaginiamo una famiglia di quattro persone che guadagna centomila euro lordi l’anno, cioè 8.300 euro al mese — calcola il presidente di Civicum, Federico Sassoli de Bianchi — All’ Amministrazione pubblica ne versa circa 44 mila, ai quali ne vanno aggiunti quattromila di nuovo debito pubblico (la differenza tra uscite e entrate) che prima o poi dovrà pagare. Alla famiglia restano 52 mila euro all’anno, 4.300 al mese. Gli italiani percepiscono correttamente che a fronte di 4.300 euro netti al mese ne hanno dati quattromila allo Stato? L’Imu è stata percepita perché la si è dovuta calcolare e pagare. Ma le imposte indirette, i contributi, le imposte dirette dei dipendenti e spesso quelle versate come sostituti d’imposta non si vedono». È opportuno metterle in chiaro. Perché, sostiene Sassoli, «siamo tutti azionisti dello Stato, ma lo Stato è l’unica società che non dà rendiconti interpretabili: il nostro obiettivo è promuovere la trasparenza in un Paese che tende all’opacità». Dalla tabella si vede che nel 2010 lo Stato ha prelevato da ogni cittadino 11.860 euro, tra tasse e contributi sociali. E per ogni cittadino ne ha spesi 12.965, oltre che per servire il debito per servizi pubblici, Difesa, Ordine pubblico, Sanità, Istruzione e via dicendo, soprattutto Welfare. (La differenza, 1.105 euro, è in sostanza stata nuovo debito). I confronti con i bilanci degli altri Stati possono stimolare molte riflessioni. Il rettore del Politecnico di Milano, Giovanni Azzone, ne sottolinea due. «Innanzitutto, l’importanza della crescita economica. Come si vede dalla tabella, la Germania ha una spesa pubblica procapite di quasi 14.500 euro, contro i meno di 13 mila dell'Italia. Ma avendo un Pil procapite di cinquemila euro più alto del nostro, la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil è più bassa, 47,5% contro il nostro 50,4%». Anche per questo è decisivo fare ripartire la crescita. La seconda riflessione di Azzone riguarda la composizione della spesa dello Stato. «Sotto la voce Protezione sociale — dice — l’Italia è il Paese che spende di più per malattia, disabilità, anzianità, in sostanza per pensioni, il 18,3% del Pil: addirittura più della Francia (17,7%) e molto più di Gran Bretagna (11,5), Germania (14,8), Spagna (12,3). Dall’altra parte, spende molto meno in aiuti ai disoccupati e in sostegno alle famiglia, in contrasto con le dichiarazioni che i politici fanno in campagna elettorale. C’è qualche riequilibrio da fare, qui: anzi, direi che serve un ripensamento del Welfare. E qualcosa da fare ci sarebbe anche per l’Istruzione universitaria, dove l’Italia spende (lo 0,4% del Pil) meno della metà degli altri Paesi». Mettere in termini chiari il bilancio pubblico - cioè mostrare in modo trasparente come vengono utilizzati i nostri denari - dovrebbe essere compito dello Stato. In effetti, sia Sassoli sia Azzone si augurano che in un futuro non lontano lo faccia attraverso un istituto, un’agenzia, un centro studi, come avviene in altri Paesi.
CAPITOLO 1: MERCATOPOLI
OSSIA, MERCATO A CONDUZIONE FAMILIARE
"L’Italia dove il potere è nelle mani di caste, lobbies, mafie e massonerie. L'Italia delle truffe e dell'evasione fiscale, ma anche delle tante tasse, tributi e contributi e se non basta, inoltre delle cartelle pazze.
Di Antonio Giangrande
Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi.
Lo Stato chieda ai cittadini il pagamento di un unico tributo, secondo il suo fabbisogno, sulla base della contabilità centralizzata desunta dai dati incrociati forniti telematicamente dai contribuenti, con deduzioni proporzionali e detrazioni totali. Agli evasori siano confiscati tutti i beni. Lo Stato assicuri a Regioni e Comuni il sostentamento e lo sviluppo.
Sia garantita a tutti ogni garanzia di accesso al credito per meritevoli finalità economiche o bisogni familiari necessari.".
di Antonio Giangrande
PARLIAMO DELL’ITALIA DI M……..UNO STATO DI LADRI INGORDI. DOVE VANNO A FINIRE I SOLDI ESTORTI AI CITTADINI CONTRIBUENTI??
Uno Stato che ruba ai poveri per dare ai ricchi. Cittadini tartassati, pur nella collusione e codardia, sempre pronti a porgere l’altra guancia, nonostante essi, nel momento del bisogno non trovano nessuno che l'aiuti. Uno Stato che spenna vivi i suoi cittadini per mantenere in vita un sistema parassitario ed inefficiente. Uno Stato che negli spot televisivi, nell’indicare l’evasore fiscale come un parassita, ha il coraggio di affermare che quell’evasore danneggia il cittadino, privandolo di beni e servizi pubblici. Sanità: non ci sono posti per il ricovero e le visite urgenti sono a pagamento. Giustizia: carceri pieni di innocenti o impunità diffusa. Sicurezza:«La condotta della Polizia ha gettato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero» (V Cass. pen. n. 38085/2012). Politica ed istituzioni: incapaci e ladri. Si muore di fame, di inquinamento e di dissesto idrogeologico. Per tutto questo c'è un assioma.
Tutte Tasse rubate. Non solo i cittadini sono tartassati dalla Stato attraverso il servizio di riscossione per investirli in interessi e ruberie privati. Ma addirittura siamo arrivati al punto che i riscossori rubano sia allo Stato e sia ai cittadini. Queste squallide vicende si inseriscono in un filone di ruberie che hanno già coinvolto l'ex tesoriere della Margherita Lusi (che, dopo alcuni mesi di carcere ha ottenuto di andare in un convento che è sempre meglio del carcere), l'ex tesoriere della Lega Nord Belsito (che ha dovuto restituire soldi e diamanti trafugati al suo partito), l'ex Vice Presidente del Consiglio regionale lombardo Penati che rimane tenacemente incollato alla sua poltrona di consigliere nonostante le tante richieste di dimissioni.
E' finita la Pork Repubblic, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. I Fiorito, le Minetti, i Lusi, i Belsito. Ma anche i Formigoni, i Lombardo, i Penati. E ovviamente i Berlusconi. Tutto il sistema nato nel 1994 sta crollando travolto dalla sua stessa voracia. E adesso? La politica è questo: fare le cene. E io per quelle quattro che ho offerto ho pure dovuto anticipare i soldi», si lamenta a "Ballarò" Veronica Cappellaro, consigliera regionale Pdl del Lazio. «Ma quali cene? Duemila euro di porchetta la chiama cena? Ne prendi una, la metti in mezzo, quelli se la magnano e so' tutti contenti», corregge su "Pubblico" il nuovo maître à penser, Franco "Francone" Fiorito. Finisce così la Seconda Repubblica, come immaginato negli anni Settanta da Leonardo Sciascia in una pagina di "Todo Modo":«Nell'insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiar tanto, c'è un limite al mangiare; e così via. Mi resi conto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione». Muore la politica nella Grande Mensa della Pisana, dove il cibo, i fondi pubblici, si arraffavano con le mani. La Prima Repubblica morì quando i magistrati di Mani Pulite svelarono che i partiti discendenti dei padri della Costituzione si spartivano le tangenti come un consiglio di amministrazione. «Non entreremo nella porcilaia fascista», tuonò Umberto Bossi dopo quella stagione, all'alba della Seconda Repubblica, nel 1994, alludendo al Msi di Gianfranco Fini. Dopo, però, nella porcilaia ci hanno sguazzato tutti. Hanno chiamato la loro legge elettorale Porcellum. Hanno trasformato i consigli regionali in «un porcile» (copyright Carlo Taormina, l'avvocato di Fiorito). E alle feste si sono travestiti da maiali. Al Partito Unico degli Affari si è sostituito il Partito Unico della Porchetta. Ai tesorieri di Tangentopoli, i Citaristi, gli Stefanini, i Balzamo, gentiluomini che per sé non tenevano una briciola, sono subentrati i Lusi, i Belsito, i Fiorito, che amministrano le risorse nell'impunità assoluta. «Una classe politica che vuole il potere domenicale», si indigna Giuseppe Pisanu, antica saggezza dc, perché per i nuovi arrivati la politica è gozzoviglia e nessuna fatica. Silvio Berlusconi riassume in sé questa privatizzazione della politica, la Pork Republic con le sue Minetti ha trovato in lui il degno fondatore. E ora il Cavaliere prova l'ultimo travestimento, azzera il Pdl ormai putrido, si maschera da moralizzatore, invece del predellino sale sul treno e Daniela Santanchè esulta:«Evviva! E' cominciato il cambiamento! Berlusconi in viaggio in treno verso Roma tra la gente». Una mossa disperata per rientrare nel prossimo Parlamento con un manipolo di fedelissimi e provare a ridare le carte. Ma è scosso anche il Pd che puntava sulla ricostruzione del sistema dei partiti, che con i Penati e i Montino si è seduto a tavola sperando di non imbrattarsi troppo e che ora rischia di farsi sommergere dall'indignazione. I sondaggi raccontano di una rivolta popolare contro la politica, il contagio coinvolge tutti, senza distinzioni tra buoni e cattivi, neppure Grillo si salva più. La festa è finita, tutti a casa.
Francesco Belsito, Luigi Lusi, Franco Fiorito: vedi delle differenze? Questo chiede Marianna De Palma. Belsito, Lusi, Fiorito, "tesorieri" d'Italia, connotati da non poche somiglianze, un po' fisiche un po' attitudinali: da "certa" pinguedine all'amore per i conti correnti all'estero... Ecco l'identikit del "tesoriere" e le sorti dei nostri soldi! Abbondantemente stempiati, viso paffuto - anche molto paffuto -, corporatura robusta - anche molto robusta -, nutrita da amore per la buona cucina in ristoranti di un certo livello, pizzo (due su tre), giacca e cravatta, saccocce vuote per non destare sospetti e conti correnti nascosti preferibilmente all'estero - e pieni dei nostri soldi -, sguardo e atteggiamento da "non sono stato io e se sono stato io... fan tutti così!", amore per investimenti fuori dall'Italia. Francesco Belsito, Luigi Lusi, Franco Fiorito: ecco in breve l'identikit degli ex tesorieri, rispettivamente di Lega Nord, Margherita, Pdl. Io non vedo differenze, se non nella sigla dei partiti grazie ai quali han sottratto soldi pubblici; partiti che però ritrovano unione proprio per merito di questo denominatore comune: il tesoriere indagato per appropriamento indebito/peculato, a causa della scomparsa di milioni di euro dalle casse dei rispettivi schieramenti politici. Altre differenze? Alcuni dettagli... ad esempio l'uso in parte diversificato dei malloppi "capitati" nelle loro mani: Franco Fiorito da Anagni (classe 1971), detto dai più Er Turco (per le fattezze fisiche) e Er Batman da alcuni (pare per via di un "volo" da una motocicletta ferma), già esponente di An, è stato sindaco della sua cittadina (che lo ricorda per le targhe in onore di Mussolini e della Marcia su Roma) dal 2001 al 2004, quando passò alla provincia di Frosinone e l'anno dopo alla Regione. E' il protagonista principale - per il momento - dello scandalo riguardante i fondi regionali del Lazio utilizzati, anzichè per scopi politici -amministrativi (magari civili), per feste, abbuffate, investimenti immobiliari e per rimpinguare le tasche dei Consiglieri regionali. E' infatti lo stesso Fiorito ad aver parlato di una "stecca para", ossia 100mila euro all'anno a ogni Consigliere, che si aggiungevano ai già 13mila euro mensili e benefit di mille tipi. Dalle indagini che vedono l'ex tesoriere accusato di peculato, sta emergendo un intero "Sistema Lazio", che, secondo i dati resi noti da Repubblica, ha dilapidato 21 milioni di euro di finanziamenti destinati al "rapporto tra elettore ed eletto, al corretto funzionamento dei gruppi" e spesi in ostriche, puttane, viaggetti, Satyricon di cartapesta...Francesco Belsito, genovese, classe 1971 (dev'essere un'annata particolarmente buona!), fino ad alcuni mesi fa si occupava delle casse della Lega Nord. I maneggi suoi e della sua cerchia di amici, in confronto al "Sistema Lazio" potrebbero sfigurare. Il nome di Belsito - ripassiamo! - si lega irrimediabilmente a quello della famiglia Bossi, visto che era lui a smistare le paghette di ...mila euro al mese per i figli del Senatur e a "favorirne" l'acquisto di macchine, ma anche a garantirne una buona istruzione in Albania. Ma il grosso dell'opera di maneggio pare sia avvenuto grazie allo spostamento dei fondi della Lega Nord (leggasi finanziamenti pubblici) su conti in Tanzania e Cipro, grazie all'azione concertata di Belsito e della Cupola Veneta. Ed arriviamo a lui, Luigi Lusi, romano, classe 1961. Ex tesoriere della Margherita, forse per questioni anagrafiche, ha avuto più tempo per organizzarsi - insieme alla moglie - nel sottrarre capitali "al partito"; infatti, al momento, risulta il ladrone numero 1, artefice di un vuoto di circa 70 milioni di euro nelle casse della Margherita. Oltre a qualche immobile italiano, Paese suo prediletto di investimento era il Canada, dove i capitali venivano trasferiti, ad ogni 300mila euro "accumulati". Incarcerato, ora è agli arresti domiciliari presso un Convento in Abruzzo. Al di là della domanda più che lecita... chi sarà il prossimo?, un'osservazione è semplice e scontata - certamente scontate anche le parolacce, ma le lascio all'immaginazione dei lettori -. Se nessuno all'interno dei partiti si accorge di ammanchi di milioni di euro, significa che questi milioni non servono ai partiti, sono in esubero. In esubero finchè qualcuno non pensa bene di usarli per "investimenti" e arricchimenti personali. Ergo... se ancora non lo avessimo inteso: i finanziamenti pubblici ai partiti sono soldi nostri che vengono buttati! A ingrassare politici faccendieri e, chi più chi meno, goderecci. Certo, i politici non sono tutti uguali, ma a quanto pare... ne bastano alcuni di quelli "giusti" in ogni partito.
IL PECULATO CAMBIA. NELL’OSTENTAZIONE, PIÙ CHE NELLA METODOLOGIA. LUSI, BELSITO, FIORITO: I TRE STADI DELLA RUBERIA - DAGLI SPAGHI AL CAVIALE DI LUSI AL CAFONALISSIMO PARTY DI FINE IMPERO - DONNE, LOCALITA’ ESOTICHE E CENE DI LUSSO: L’ETERNA NOTTE DEGLI ANNI ’80 DOVE TUTTO E’ OSTENTATO, PERCHE’ SI SAPPIA CHE “IO SO IO E VOI NON SIETE UN CAZZO…”- Cosi scrive Andrea Scanzi per Il Fatto, ripreso da “Dago Spia”. Il peculato cambia. Nell'ostentazione, più che nella metodologia. Lusi, Belsito, Fiorito: i tre stadi della ruberia. Luigi Lusi espia ora le sue colpe nel Monastero della Madonna dei Bisognosi. Come tesoriere della Margherita, nel 2011 spendeva 218.250 euro del partito. Settantamila per una vacanza tra Toronto e Bahamas. Ventimila come cresta sul rimborso spese. Centottanta per un piatto di spaghetti al caviale. Dietro i modi eleganti, e il portamento fiero, emergevano già le coordinate dello status da esibire: luoghi esotici, cene di lusso. Da una parte Lusi vagheggiava - non senza una certa astrattezza "colta" - una nuova politica, dall'altra dimostrava di poter barattare tutto in nome del caviale. Più ancora: dell'espressione che fa il cameriere quando dimostri che tu, e solo tu, puoi ordinare quel piatto lì. Il sottotesto, quasi sempre, è lo stesso: "Io posso e voi no". Applicato, possibilmente, a scenari ultraterreni: il cibo, il viaggio. E il sesso, pure quello da mostrare. Tra una cena elegante e una festa sobria (ieri statue di Priapo da baciare, oggi nuovi Ulisse da omaggiare). Con Francesco Belsito l'orizzonte muta. Si alza l'asticella, quantomeno intendendo come volta stellata il tragicomico. Compaiono fondi in Tanzania, lauree in Albania, cerchi magici. Streghe. Autisti spioni. Trote con bancomat. Le fattezze del protagonista aggiungono alla sceneggiatura un che di squisitamente lombrosiano. Un tratto, unito ai cognomi in qualche modo floreali e paesaggistici, recuperato e rilanciato da Franco Fiorito. Con lui si raggiunge il grado ultimo, per simboli e per estetica, della ruberia. Il caricaturale esonda, anche nelle interviste alla madre, che ne descrive i 170 chili come quintessenza candida di intelligenza e onestà. Aggiungendo che - addirittura - a 3 anni leggeva Topolino (e non si capisce se lo riveli come attenuante o aggravante). In Fiorito è surreale anche il soprannome, "Er Batman", un po' come chiamare Renzo Bossi "Er Kierkegaard". Lui, del resto, preferisce definirsi "er federale de Anagni", inconsapevole - o forse no - di ricordare in ogni gesto e parola un personaggio minore, e male interpretato, di una commedia di Carlo Verdone. Un Mario Brega che non ha mai potuto permettersi di essere Mario Brega. Un laziale impigliato in una vecchia canzone di Alberto Fortis. Un Dandi, inteso come versione telefilmica di Renato De Pedis, il boss parafighetto della Magliana, che al ristorante - prima di andare in bagno a "sgrullarselo" - trangugia rumorosamente le ostriche, perché ormai le ha pagate, di fronte a una fidanzata (prostituta) più schifata che attonita. E le ostriche contano, nel regno dell'ostentazione coattissima, perché sottolineano l'idea di potere. La ricchezza bulimica. Il dominio vorace. L'ostentazione, qui, è l'immaginario. E l'immaginario è tamarro. Tamarrissimo. Il mondo di Fiorito è fatto di ostriche e aragoste. Champagne, ma anche pajata: l'anelito allo chic, unito però alla rimarcatura delle origini. Il nuovo ricco resta povero, per modelli e per miraggi. Non esce dalla barzelletta burina. Rimane la Bmw. Permane l'auto blu. E non manca la biondona, chiaramente appariscente, da sfoggiare contro chi ritiene impensabile che uno così possa circondarsi di belle donne (o "fighe", per meglio dire). E' la suburra, l'eldorado del Cafonal. L'unico regno in cui Carlo De Romanis, non per nulla vice di Fiorito, può definire "feste sobrie" dei ritrovi in cui ci si reinventa antichi greci: "Io faccio Ulisse, tu il Minotauro". La storia come credenziale posticcia, come Carnevale permanente: come copertaccia di Linus per mascherare il vuoto. Ancelle, giare, centurioni. Arcieri, mojito, calzari. E un fucile mitragliatore: messo così, a tradimento, in mezzo alla parodia del passato. Come un bizzarro flashforward, se solo gli officianti ne conoscessero il significato.
Lazio, Italia. Anzi, Palude Italia. Regione per regione, ecco il magna magna, scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è solo il Lazio: ai gruppi consiliari da Nord a Sud arrivano quasi 100 milioni. E un altro miliardo se ne va in vitalizi e indennità. Quasi 100 milioni, 96 per la precisione. È questa la cifra che nel 2011 i contribuenti italiani hanno speso per consentire l’attività politica dei gruppi consiliari delle Regioni. Somma che si va ad aggiungere alle altre centinaia di milioni che le amministrazioni autonome sborsano ogni anno per pagare le indennità, i vitalizi, gli acquisti di beni e servizi e via dicendo. Il malloppo, secondo uno studio della Uil realizzato sulla base dei bilanci preventivi delle Regioni, ammonta complessivamente, senza contare i vitalizi, a qualcosa come 1,15 miliardi di euro, che diviso per ogni contribuente fa 38 euro a testa.
Come sono stati utilizzati i quattrini destinati ai partiti nel Lazio lo abbiamo appreso in questi giorni: cene, festini, aperitivi, regalie e, in molti casi, semplice arricchimento personale. Ma i 14 milioni che, stando alle delibere, perché la voce è ben nascosta in altri macrocapitoli di bilancio, sono stati stanziati nel corso dell’anno sotto la giunta Polverini non si discostano molto dalle risorse destinate dalle altre Regioni allo stesso scopo. E anche ammettendo, cosa assai difficile da presumere, che in tutte le altre Regioni italiane nessun gruppo abbia dirottato un euro verso utilizzi non istituzionali, le erogazioni appaiono un tantino generose. In testa alla classifica, secondo i calcoli effettuati dal Sole 24 Ore c’è la solita e costosa Regione Sicilia, che ai gruppi consegna ben 13,7 milioni di euro l’anno. Subito dopo c’è la Lombardia di Roberto Formigoni, anche lui travolto dalle polemiche e dai sospetti, che eroga ben 12,2 milioni di euro ai partiti che siedono in consiglio. Poco sotto c’ è il Veneto, che è a quota 9,1 milioni. Anche l’austero Piemonte, con 7,3 milioni non scherza. Poi, andando in ordine sparso sullo stivale, c’è l’Emilia (6 milioni), la Liguria (5,7), la Sardegna (5,1), la Calabria (4,6), la Campania (4,5 milioni). E via proseguendo, fino alla Basilicata e alle Marche, che hanno speso rispettivamente 575 e 531mila euro.
Fermiamo il saccheggio. Regionopoli, viaggio negli sprechi Dall'Emilia alla Campania: così divorano i nostri soldi. Così continua “Libero Quotidiano”. Non solo Lazio. Nella regione rossa bonus a tutti, a Napoli bruciano miliardi per i rifiuti. Poi la Calabria, la Puglia e la Sicilia dei record (negativi). "Poi è ovvio, non è che si possono mettere tutte le Regioni sullo stesso piano. Prendiamo l’Emilia-Romagna: in quanto a servizi resi ai cittadini i parametri restano alti, peraltro è l’unica assemblea regionale - insieme con la provincia autonoma di Bolzano - a pubblicare in rete i conti dei gruppi consiliari. Non che i gruppi stessi costino poco nemmeno in zona Bologna: nel 2011 sono stati stanziati 4.976.000 euro - 2.326.000 per il «funzionamento» e altri 2.640.000 per il «personale». Era proprio da questi fondi che gli esponenti dei partiti - Movimento 5 Stelle incluso - attingevano per pagarsi interviste o comparsate sulle tivù locali: la Procura indaga per peculato. D’altro canto, le maggiori critiche rivolte all’amministrazione di Vasco Errani riguardano un sistema di potere andato cristallizzandosi nei decenni intorno al partitone progressista e alle aziende “amiche” - ogni riferimento alle cosiddette coop rosse non è casuale", spiega Andrea Scaglia su Libero in edicola oggi. Già, perché, ovvio, in questi giorni tutti gli occhi sono puntati sul Lazio dello scandalo. Ma non si possono dimenticare altri casi, come quello dell'Emilia dei bonus e dei rimborsi. Anche nel feudo rosso, infatti, tra "premi di risultato" e spese di viaggio i dirigenti e i consiglieri riescono ad arrotondare i lauti stipendi. I finanziamenti vengono concessi a pioggia, mentre gli ospedali vengono progettati sulle paludi. Il tutto mentre il governatore Vasco Errani attende di sapere se sarà processato. Passiamo poi al capitolo Campania: "Inutile dire che non è stata la prima volta - racconta Peppe Rinaldi su Libero in edicola oggi -. Il blitz dei finanzieri in consiglio regionale a caccia di fondi nella disponibilità dei gruppi politici utilizzati per fini personali, è l’ultimo di una serie che parte da lontano. A raccontarli tutti servirebbe un giornale ad hoc. Si consideri che le magagne giudiziarie che corrodono il consiglio campano si sono spesso intrecciate con quelle del comune, oltre ad essersi diffuse in una marea di enti collegati, società municipalizzate e Asl. La ragione è semplice: per circa 15 anni il potere si fermava dinanzi al moloch incarnato da Antonio Bassolino. Ed è proprio da qui che bisogna partire per sintetizzare le tempeste abbattutesi sulla Campania". Anche se la sintesi di tutti questi sprechi è un esercizio difficile. Si passa dai disastri del "Rinascimento" bassoliniano alla tragedia della munnezza: per i rifiuti è stato buttato via un miliardo di euro. Insomma, la recentissima inchiesta delle Fiamme Gialle sulla Regione è soltanto l'ultima di una serie infinta, che ovviamente non ha frenato gli sprechi. Poi c'è il caso della Calabria, che spende, per esempio, la bellezza di 300mila euro per l'affitto di un ufficio che non usa più. E sempre in Calabria, le spese per il solo funzionamento dell'ente (stipendi locali e burocrazia) sono pari al 6,7% di quel che la Regione spende complessivamente in un anno. Vale a dire il triplo della Lombardia e più del doppio della Puglia. E parliamo proprio della Puglia, governata da quel Nichi Vendola che sogna di diventare leader della sinistra, magri premier: nella Regione si sprecano gli scandali legati alla sanità. Ma non è tutto.
Una delle ultime determinazioni dirigenziali prevede, tra le altre, per i consiglieri l'utilizzo di Telepass e tessere Viacard, oltre ad altri benefit: iPad, computer portatile, telefoni, parcheggi gratis. La Puglia: terra di donne, tangenti e spese folli. Ultimo ma non ultimo il caso emblematico della Sicilia, dove la torta da spartirsi è enorme: ogni anno ammonta a 13 milioni di euro, una cifra mostruosa. Nella Regione - recentemente lasciata da Raffaele Lombardo che l'ha portata sull'orlo del default, della bancarotta - la vera casta siede sui banchi dell'assemblea regionale. Un esempio: il già citato Lombardo prendeva uno stipendio da 15.683 euro netti al mese.
Era il presidente più ricco di tutti. Anche gli onorevoli non se la passavano male, con un doppio rimborso e trattamenti "super-lusso" per gli spostamenti e i trasporti (anch'essi rimborsati a cifre assurde). Per concludere, soltanto un'altra cifra (le altre le troverete sul quotidiano in edicola): in quattro anni i partiti rappresentati all'Ars (Assemblea regionale siciliana) ci sono costati 52,9 milioni di euro.
Doppiopesismo, scrive ancora “Libero Quotidiano”. La Polverini si dimette, la sinistra applaude. E gli indagati Errani e Vendola restano al loro posto. La governatrice del Lazio, non indagata, lascia e attacca: "Adesso gli smaschero io gli ipocriti". Chi sono? I democratici, che non dicono una parola sui loro imbarazzi. Penati e i governatori di Emilia Romagna e Puglia non si toccano. "Adesso li smaschero io". La governatrice del Lazio Renata Polverini dà le dimissioni, travolta dallo scandalo dei rimborsi spese dei consiglieri regionali. "La giunta è pulita, è il Consiglio ad essere indegno", sottolinea combattiva l'esponente del Pdl, che annuncia battaglia. Quelli da "smascherare" non sono solo Fiorito & Co., i "personaggi da operetta" del Pdl che le hanno fatto saltare la poltrona, ma pure i consiglieri di Pd e Idv e "le loro ipocrisie". "Volevano scaricare tutte le colpe - attacca l'ex governatrice - su una giunta che ha lavorato bene, allora li mando a casa io". Li rimprovera di non aver rassegnato le dimissioni annunciate: "Potevano farlo oggi, ma non l'hanno fatto. Perché?". Già, perche? Forse perché Pd, Idv e sinistra in genere è molto lesta ad additare il reprobo, il responsabile, l'immorale, ma assai meno a invocare atti di moralità quando servirebbero nel prorio campo. In fondo le dimissioni della Polverini per uno scandalo che per ora non vede nessun indagato nella sua giunta e nemmeno in Consiglio (Franco Fiorito è semplicemente sospettato di peculato dai pm di Viterbo) è caso esemplare. Migliore anche di quello del governatore della Lombardia Robert Formigoni, indagato a Milano per corruzione. "Polverini, dimettiti!" gridavano i democratici come in tutti questi mesi hanno continuato a gridare "Formigoni, dimettiti!". Guarda caso, sono entrambi del Pdl. Non una parola sul democratico Filippo Penati, indagato per corruzione e concussione: mollata la poltrona di vicepresidente del Consiglio regionale, l'ex presidente della Provincia di Milano si è però ben guardato dal lasciare il Pirellone (e il conseguente stipendio da consigliere) e quando qualcuno come l'assessore all'Expo di Milano Boeri ha provato a incalzarlo è rimasta voce assai isolata. Penati, in fondo, è nulla rispetto a Vasco Errani e Nichi Vendola. Il governatore dell'Emilia Romagna rossa è nei guai per un'inchiesta sulle Coop: è accusato di aver "concesso" un milione di euro alla cooperativa Terremerse del fratello Giovanni: a fine luglio la Procura di Bologna ha chiesto il rinvio a giudizio per il potentissimo governatore per falso ideologico. Mica noccioline, in ballo c'è tutta la questione delicatissima legata ai rapporti tra politica e coop. Eppure nessuno, nel Pd, si scandalizza.
Stessa sorte per Nichi Vendola, indagato in Puglia per lo scandalo sulla sanità locale. Il leader di Sel e lady Asl Lea Cosentino sono stati accusati di "concorso in abuso di ufficio" per il concorso da primario di chirurgia toracica vinto dal professor Paolo Sardelli all’ospedale San Paolo di Bari. Vendola indagato eppure né Bersani né l'amico Tonino Di Pietro si sono sognati di chiedere la testa del compagno di lotta. Forse perché gli atti di moralità sono obbligatori ma solo dall'altra parte della barricata.
Foto, giornali e tv, milioni, bruciati per l’immagine, scrive Grazia Longo su “La Stampa”. L’ossessione di molti politici, Polverini compresa: per lei stanziati nel 2012 un milione e 287 mila euro. Che i consiglieri regionali Pdl fossero ossessionati dall’immagine lo abbiamo scoperto dalla lettura del conto corrente gestito - si fa per dire - dall’ex tesoriere Franco Fiorito. Fiumi di denaro per interviste a pagamento. Un’abitudine gradita però anche agli altri consiglieri regionali, presidente in testa. È stato proprio lui, Mario Abbruzzese sempre in quota Pdl, ad autorizzare la bellezza di 1 milione e 212 mila euro alla voce informazione su giornali, radio e tv. Già nota è del resto, la sua sensibilità ai privilegi. Il presidente del consiglio regionale del Lazio (oramai ex con le dimissioni della Polverini) ha uno stipendio d’oro: quasi 21 mila euro lordi al mese, ovvero 251 mila euro all’anno. Insomma, Abbruzzese guadagna poco meno del presidente americano Barack Obama (275mila euro). Altrettanto conosciuta è la disinvoltura con cui usufruisce di due auto blu, una a Roma e l’altra a Cassino sua città d’origine, «perché sono mi diritto». Ma torniamo alle spese per la comunicazione. Nell’allegato alla Delibera del 13 giugno 2010, Abbruzzese firma di suo pugno l’elenco di tutte le emittenti radiotelevisive e dei giornali che devono ricevere soldi dalla Regione. Attività legittima per promuovere l’immagine del Consiglio regionale. Innegabile però l’effetto che produce questa pioggia di soldi pubblici in epoche di crisi come quella che stiamo attraversando negli ultimi anni. L’importo milionario è destinato a sostenere tutto l’arco consigliare, ma non si può tuttavia non notare che su 32 tv locali ce ne sono 9 dell’area che coincide con il bacino elettorale di Abbruzzese e anche di Fiorito: la Ciociaria. Terra che è talmente nel cuore del presidente da richiedere una considerevole attenzione. Una passione, per carità condivisa anche con gli altri consiglieri (e non solo del Pdl), ma che non si può comunque non evidenziare. Ecco allora 120 mila euro a Telesia, 90 mila a Media work e 20 mila alla Gazzetta di Cassino. Poi ovviamente ci sono anche le arre del Viterbese (terra di Battistoni, succeduto alla guida del gruppo Pdl dopo l’avviso di garanzia a Fiorito) (10 mila euro a Tuscia web), Latina e via discorrendo. Si registrano anche 10 mila euro a una tv di Rieti (Telecentro Lazio), tanto cara a Lidia Nobili. La consigliera Pdl con la passione di Scientology e la mania di protagonismo in interviste a pagamento tanto da aver fatto confluire a due tv rietine 111 mila euro dai fondi per le spese elettorali. L’unica nota positiva dell’allegato sulle spese per l’informazione è il risparmio di quasi 600 mila euro - 595 mila per l’esattezza - dovuto al fatto che a fronte di una richiesta di 1 milione e 807 mila euro di spesa, ne siano stati poi concessi 1 milione e 212 mila euro. E comunque non va tanto meglio neppure alla giunta regionale guidata fino a ieri da Renata Polverini. Partita con un occhio al risparmio, anche la Polverini poi ha ingranato la marcia sul fronte comunicazione. Ecco allora che per il 2011 ai «Contratti con i mezzi di informazione» sono stati stanziati 396 mila e 400 euro. Che subiscono però un’impennata l’anno successivo. Basta dare un’occhiata al resoconto della «Vigilanza sulla comunicazione istituzionale della giunta regionale», redatto il 28 giugno scorso: nel 2012 la spesa stanziata è salita a 1 milione e 287 mila euro. Anche in questo caso, come per il consiglio regionale, tutto rendicontato. La domanda tuttavia si impone: è tutto a norma? Si è forse verificato qualche spreco? Già l’altro ieri il presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino e il procuratore regionale della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, sono intervenuti per ribadire che verificheranno ogni spesa esagerata. «Lavoreremo con intensità sulle questioni illecite che discendono dai recenti fatti di cronaca» hanno dichiarato. Ed è probabile che le dimissioni della governatrice Renata Polverini contribuiranno ad accelerare le verifiche.
Sprechi, tagli sui servizi, disservizi e solita partigianeria.
Regione Puglia, Lazio, Sicilia e tutte le altre. Per favore non chiamatele Mafia. «Un certo tipo di giornalismo, che va per la maggiore, produce un certo tipo di politica imperante. Questi promuovono un certo tipo di antimafia monopolista: di parte e di facciata. - spiega il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , scrittore dissidente che proprio sul tema della mafia e della mala politica e della mala amministrazione ha scritto dei libri, tra i tanti libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. - I soliti giornalisti promuovono ed i soliti politici finanziano iniziative della solita antimafia monopolista. Iniziative volte a dare un’immagine della mafia come la manovalanza del crimine organizzato. Per loro la mafia deve essere il cafone analfabeta con la lupara in mano che chiede soldi a strozzo o denaro in cambio di sicurezza. Come dire: affidati allo Stato che con i soldi estorti con le tasse esso sì ti presta i soldi e ti assicura benessere, istruzione, cultura, salute, giustizia e sicurezza (sic).
Invece per me la mafia siamo tutti noi: omertosi, emulatori, collusi e codardi. Questo tipo di giornalismo e questo tipo di antimafia, che addita gli avversari politici o la manovalanza criminale come mafiosi, è foraggiato da questo tipo di politica, spesso regionale. Ed è foraggiato con i nostri soldi estorti con le tasse. Invece di denunciare lo sperpero di denaro pubblico per amicarsi un certo sistema d’informazione ed un discutibile sistema antimafia, ai consiglieri ed agli assessori regionali si dà la colpa di dilapidare i nostri soldi. Ed i cittadini lì ad imprecare. Però si fa finta di non sapere che quei soldi, di cui a volte facciamo finta di chieder conto, non sono altro che quelli usati (per voto di scambio) per attirare favori e benevolenza da parte di quell’elettorato, che oggi è indignato. Quei soldi servono per comprare il consenso per la rielezione di quei politici che oggi si manda all’inferno. Fa niente se per mantenere lor signori si chiudono ospedali e tribunali. Ma tanto per il sistema tutto ciò non è racket, anche perché è omertosamente taciuto. Sulle emittenti tv vi sono sempre servizi di parte, se non servizi che raccontano altre realtà (su Studio Aperto alle 12.47 circa di tutti i giorni vi è un servizio sulla famiglia reale inglese). Certo che a fare vera informazione si rischia l’oscuramento del portale web o la galera (ma solo per il direttore de “Il Giornale”, Alessandro Sallusti, vi è stato il polverone). Anche di questo una certa politica si deve fare carico. Sul nostro canale Youtube MALAGIUSTIZIA abbiamo dovuto montare e produrre un video sugli scandali alle Regioni. Un video tratto da servizi caricati sul web dal TG3, dal 884c25tv e dal TRnews di Tele Rama. Un video che è bene far vedere a tutti perché si dimostra che tutte le regioni sono uguali. Spezzoni video di tv anche locali. Vi è anche una parte riferita alla Regione Puglia di Nicola Vendola (dispensatore di sogni e di speranze), affinchè ci si renda conto con che tipo di informazione e di antimafia e di politica il cittadino si deve confrontare e che con questo sistema informativo è dura debellare.»
E non è tutto. Altro che il milione contestato a Fiorito per lo scandalo dei fondi della Regione Lazio. Qui si parla di circa 100 milioni sottratti a 400 comuni italiani. Non si tratta di un politico, in questo caso. Mercoledì 2 ottobre 2012 il nucleo tributario della Guardia di Finanza di Genova ha arrestato per peculato Giuseppe Saggese (e altre quattro persone), ex amministratore della società Tributi Italia, per diversi anni concessionaria autorizzata alla riscossione dei tributi locali. La società è stata commissariata nel 2010. Circa 1000 dipendenti si sono trovati senza lavoro. E molti dei comuni in questione sono arrivati all'orlo del dissesto finanziario. Infatti gran parte delle cifre riscosse non sono mai state versate ai comuni. La Finanza ha sequestrato, per ordine del Tribunale di Chiavari, 9 milioni. Ne mancano 91. Prelievi bancari anche di 10mila euro al giorno, yacht, feste e tanto altro. Si imputa al solo Saggese una cifra di 20 milioni.
L'aspetto politico della vicenda è molteplice. Intanto un discutibile decreto del governo Berlusconi, nel 2010, che facilitava molto la società, come spiega nei dettagli la rivista "Il Salvagente". In secondo luogo, quanto hanno atteso dirigenti ed amministratori comunali ad accorgersi che mancavano consistenti entrate, fra cui l'Ici, che è stata sempre la maggiore fonte di entrata per i comuni?
Nei comuni maggiori i dirigenti prendono fior di stipendi, per non parlare di sindaci e assessori; dovevano aspettare di arrivare alla soglia della bancarotta per intervenire? Infine, non sarebbe ora di smetterla con procedure che sembrano studiate per consentire truffe? E' impensabile tornare totalmente alla riscossione diretta, costosissima soprattutto per gli enti più piccoli. Ma allora stabiliamo un solo soggetto nazionale, sottoposto a rigidi controlli e a procedure trasparenti. Al diavolo l'autonomia locale, se porta a queste conseguenze. Dimenticavo, ci sono cento inquisiti in Parlamento, per tacere di regioni, province e comuni. Lasciamo perdere, scherzavo.
Così il governo Berlusconi salvò Tributi Italia nel 2010. L'inchiesta del Salvagente, pubblicata il 17 giugno di quell'anno e scritta da Barbara Liverzani. Tasse comunali evaporate, dipendenti senza stipendio, fideiussioni false o scoperte, manager arrestati. Il tutto rimasto per anni nel silenzio e nell’indifferenza di politici e controllori. È la vicenda incredibile e scandalosa che ha coinvolto Tributi Italia Spa, ossia la prima società privata di riscossione dei tributi locali che a un certo punto ha smesso di riversare nelle casse comunali imposte e tasse, Ici, Tarsu (tassa sui rifiuti), Tosap (tassa sull’occupazione suolo pubblico), che i cittadini regolarmente pagavano ai suoi sportelli. Una mancata remissione che, per alcuni Comuni, è iniziata addirittura nel 2006 e che via via si è allargata a macchia d’olio. A novembre 2009 i debiti accumulati dalla società della famiglia Saggese erano arrivati a 90 milioni di euro e i Comuni creditori a quota 137. È allora che la politica, grazie anche alle numerose interrogazioni di alcuni deputati (soprattutto della radicale Rita Bernardini e di Ludovico Vico, del Pd), ha cominciato a interessarsi seriamente alla questione fino a che la commissione Finanze della Camera è riuscita a fare ciò che il comitato (insediato presso il ministero dell’Economia) preposto alla sorveglianza e al controllo dell’Albo dei riscossori non era, in tanti anni, riuscito a fare: cancellare Tributi Italia dall’albo, per inadempienza. Quando a gennaio scorso il Salvagente ha raccontato per la prima volta la vicenda, sembrava di essere arrivati all’ultimo capitolo della storia: il Tar doveva pronunciarsi sul ricorso contro la cancellazione, presentato dalla società, e presso l’Anci era stato istituito un tavolo tecnico con tutti i rappresentanti dei Comuni coinvolti per parlare con una voce sola al governo nel tentativo di ottenere quanto dovuto. Da allora però la vicenda si è ulteriormente intricata. Innanzitutto la cancellazione dall’albo è ancora in stand by dopo che Tributi Italia ha impugnato la decisione del Tar davanti al Consiglio di Stato, che dovrebbe decidere nel merito il prossimo 3 luglio. Poi Patrizia Saggese, amministratore unico della società, ha depositato al Tribunale di Roma una proposta di concordato preventivo con un piano di rientro verso i creditori che avrebbe dovuto salvare la società dal fallimento. Da ultimo, la storia si è arricchita di un altro “discutibile” capitolo: una vera e propria ancora di salvataggio lanciata dal governo alla superholding della riscossione. Un articolo ad hoc (articolo 3, comma 3) inserito nel decreto incentivi consente, di fatto, a Tributi Italia di accedere alle procedure di ristrutturazione economica e finanziaria previste dalla legge Marzano per le imprese industriali. In questo modo la famiglia Saggese sarà definitivamente fuori dalla gestione. Ma eviterà la bancarotta e Tributi Italia potrà continuare a svolgere attività di accertamento e riscossione dei tributi locali. La parte più scottante dell’articolo è infatti quella in cui si dispone “la persistenza delle convenzioni vigenti con gli enti locali immediatamente prima della data di cancellazione dall’albo”. In buona sostanza, grazie al decreto Tributi Italia potrà continuare ad agire indisturbata.
Viceversa, nel provvedimento non si fa nessun riferimento ai Comuni creditori sull’orlo della bancarotta, se e come potranno essere risarciti, e alle sorti dei dipendenti. Su questo aspetto Ludovico Vico ha insistito molto in sede parlamentare: “A parte l’anomalia di estendere una legge nata per l’industria a una società di servizi, avevamo presentato almeno due emendamenti al decreto incentivi volti a salvaguardare Comuni e lavoratori. Uno prevedeva, in caso di mancata remissione delle imposte, che gli enti locali interessati potessero accedere al fondo di garanzia istituito presso la Cassa depositi e prestiti per un importo pari ai mancati versamenti. L’altro, che, a seguito della cancellazione dall’albo di una società, il servizio di riscossione dovesse essere assicurato per non più di 3 anni dall’ente che lo gestisce a livello nazionale (Equitalia) che avrebbe dovuto assorbire il personale della società a cui subentrava”. Ma entrambi gli emendamenti sono decaduti, bloccati dal voto di fiducia che ha blindato il testo in Aula. Cosa succederà adesso è difficile prevederlo. Al ministero dello Sviluppo economico, ci hanno detto, è ancora in corso l’istruttoria per decidere se ammettere all’amministrazione straordinaria Tributi Italia. Dopodiché toccherà al commissario nominato sciogliere i nodi aperti. Potrebbe cedere l’azienda (inclusi i dipendenti tutti o parte) a un terzo imprenditore oppure procedere alla ristrutturazione. Per quanto riguarda i diritti dei Comuni “derubati”, invece, dal ministero dello Sviluppo economico ammettono: “Non è possibile fare previsioni in merito al soddisfacimento dei creditori”. “Resta la vergogna di quest’ennesimo favore alla famiglia Saggese, prova della connivenza politica di cui ha sempre goduto”, commenta la deputata radicale Rita Bernardini. Il riferimento, neppure tanto velato, è alla storia di questa piccola concessionaria di pubblicità di Taranto, nata come Publiconsult e poi diventata leader del settore esattoriale privato, con collegamenti importanti. Come quello con Nicolò Ghedini, legale di Tributi Italia nella prima denuncia di frode, datata 1999.
Contatti ovunque, consulenze d'oro, uomini giusti da piazzare al posto giusto, racconta Giusi Fasano su “Il Corriere della Sera”. E, per dirla con le parole del giudice Fabrizio Garofalo, «entrature nel mondo dell'imprenditoria, della politica e degli istituti di credito, in mancanza dei quali non sarebbe stato sicuramente possibile arrivare a gestire la riscossione dei tributi per ben 400 Comuni italiani». Beppe Saggese, l'esattore di Tributi Italia in carcere con l'accusa di aver intascato venti milioni di euro delle tasse dei contribuenti, poteva contare su una fitta rete di aiuti che la Guardia di Finanza di Genova sta cercando ora di ricostruire. L'inchiesta si allarga, quindi. I finanzieri stanno eseguendo controlli nelle 39 banche con le quali Saggese ha avuto a che fare in questi ultimi anni e stanno cercando di scavare nell'elenco infinito delle consulenze che l'esattore pare abbia voluto a raffica. Per esempio l'avvocato Publio Fiori, democristiano gambizzato dalle Brigate Rosse negli anni Settanta, ex vicepresidente della Camera, ex ministro dei Trasporti e più volte sottosegretario. Saggese ha chiesto a Fiori una consulenza pagata un milione e duecentomila euro e quando la Procura lo ha interpellato per capire di che tipo di consulenza si trattasse lui si è avvalso del segreto professionale: nessuna spiegazione. Ha voglia di spiegare, invece, l'ex manager della telefonia pubblica (Stet) Paolo Torresani, andreottiano da sempre, amico del faccendiere Luigi Bisignani e nel 2011 diventato presidente della Società Centostazioni di Fs. Torresani è un altro destinatario di una consulenza voluta da Saggese: circa centomila euro per la messa a punto di una rivista giuridica che potesse essere utile alle amministrazioni comunali per districarsi nelle attività legislative del Parlamento e che però alla fine non è mai stata realizzata. Nell'elenco dei contatti romani dell'esattore, per una consulenza della quale non si conosce la cifra, c'è anche il nome di Filippo Paradiso, ex membro della segreteria tecnica di Paolo Bonaiuti (quando era sottosegretario alla presidenza del Consiglio) e consigliere di vari sottosegretari nei governi Berlusconi e Prodi. E poi c'è Stefano Maria Toma, giornalista che è stato segretario particolare dell'ex ministro della Giustizia Nitto Palma.
Anche per una sua società una consulenza chiesta da Saggese e adesso sotto la lente dei finanzieri: centomila euro per valutare come presentare al meglio l'immagine di Tributi Italia alle amministrazioni dei Comuni italiani. La procura di Chiavari punta i riflettori sulle consulenze non tanto per la convinzione che fossero in sé irregolari (nessuna per adesso risulta esserlo) quanto per capire se possono aver aiutato Saggese a estendere sempre più la rete dei Comuni di cui recuperare le tasse. Per ricostruire, insomma, quelle «entrature» alle quali fa riferimento il giudice Garofalo che oggi lo interrogherà in carcere. Sul fronte delle indagini la novità viene dalla scoperta che le cartelle esattoriali sarebbero state falsificate. Gonfiate, per la precisione. Saggese chiedeva al contribuente più del dovuto per avere a sua volta una cifra più alta per sé. Dovevi 100 euro? Lui ne chiedeva 120: così intascava dal Comune la provvigione (30%) sui 100 euro e dall'ignaro di turno quei 20 euro che lui chiedeva in più. Un tesoro cresciuto assieme al numero delle operazioni spregiudicate dell'esattore e forse in gran parte finito in Lussemburgo e Montenegro, due Paesi nei quali faceva affari attraverso alcune società. I suoi controllori dovevano essere in teoria l'associazione dei riscossori e i Comuni, riuniti nella Commissione Albo del ministero (organo di vigilanza). Ma dell'associazione di categoria dei riscossori era presidente proprio l'avvocato di Tributi Italia, Pietro Di Benedetto. E i sindaci, hanno scoperto i finanzieri, il più delle volte nemmeno sono stati convocati per le riunioni della Commissione Albo.
La storia di Giuseppe Saggese, 52 anni, al centro dell'inchiesta del tribunale di Chiavari con l'accusa di peculato, comincia ben lontano dalla Riviera Ligure: a Taranto, città in cui il padre era pretore. Proprio il mestiere del genitore, trasferito nel Tigullio a svolgere il suo incarico di di magistrato, ha condotto Saggese bambino a Recco, dove tuttora risiede. In seguito, il cinquantaduenne di origini pugliesi si è occupato di fiscalità. E proprio la dimestichezza con le materie fiscali ha consentito a Saggese, secondo i pm, di mettere insieme un complicato sistema di scatole di cinesi che gli ha consentito di occultare, senza mai un controllo, i denari provenienti da circa 400 Comuni italiani, in tutta Italia. Le inchieste relative alla società gestita, di fatto, da Saggese, la Tributi Italia spa (fallita nel 2011), sono iniziate nel 2009, in diverse procure italiane, alle quali i Comuni si erano rivolti. I faldoni sono, poi, confluiti, per competenza territoriale, presso quella di Chiavari visto che la società aveva sede lì, e i magistrati chiavaresi hanno proceduto con i provvedimenti restrittivi.
Arresto Saggese. Le responsabilità politiche sono gravi almeno quanto quelle che dovrà accertare, fino in fondo, la magistratura, scrive Michele De Lucia e Rita Bernardini su “Notizie Radicali”. Il giusto clamore suscitato dall’arresto dell’amministratore delegato di Tributitalia, Giuseppe Saggese, e dalla enorme “privatizzazione” di denaro pubblico compiuta dalla stessa società, non può e non deve far passare in secondo piano altri diversi “scandali nello scandalo”.
Che i conti non tornassero era già chiaro da anni, noi Radicali abbiamo per tempo sollevato la questione, ma non è stato fatto nulla per impedire quanto andava accadendo. Perché per l’esclusione di Tributitalia dall'albo ufficiale delle società private di riscossione è stato necessario attendere più di un anno? Perché il Consiglio di Stato ne ha poi sospeso la cancellazione, poi confermata con sentenza successiva? Perché nel decreto fiscale del 2010 (governo Berlusconi) è stata inserita una vera e propria norma “ad aziendam”, detta non a caso "norma Tributitalia", che ha consentito alla società di Saggese di utilizzare la legge Marzano per il concordato delle grandi imprese in crisi (la stessa procedura utilizzata per Alitalia, giusto per capire le dimensioni)? Come è possibile che, anno dopo anno, siano scomparse senza colpo ferire decine e decine di milioni di euro prelevati dalle tasche dei contribuenti? Perché a queste società, così puntuali e inflessibili con i cittadini nel riscuotere, non viene applicato lo stesso rigore quando le stesse devono versare quanto dovuto agli enti locali? Per essere più espliciti: già tre anni fa avevamo chiesto un’ispezione con eventuale trasmissione dei relativi referti alla Corte dei Conti e l’assunzione di idonee iniziative legislative volte a fissare la misura massima dell’aggio che può essere concesso alle società miste.
Già tre anni fa avevamo chiesto controlli sulle somme riscosse, fino al momento del loro trasferimento al Comune. Già tre anni fa avevamo chiesto la fissazione della durata massima di affidamento dei servizi e, infine, un’indagine conoscitiva generale del fenomeno volta a valutare l’intero fenomeno dell’esazione delle imposte da parte dei comuni italiani. Non è fallita solo Tributitalia: è fallito un intero sistema. Il sistema della riscossione dei tributi va ora ripensato in modo da assicurare alle donne e agli uomini che pagano le tasse in questo Paese che i loro soldi vengano usati per il motivo per cui vengono prelevati: assicurare l’interesse generale, non la bella vita a qualche intoccabile pieno di santi nel “paradiso” della partitocrazia. «Tredici anni per far luce su una vicenda scandalosa che oggi ha finalmente prodotto i primi risultati e che due anni fa avevo denunciato con forza attraverso una interrogazione in Commissione Finanze e una serie di denuncie agli organi preposti. Una vicenda che scopre il sistema “Tributi Italia”, ma che non risarcisce i Comuni Italiani- che attendono il rientro delle tasse locali pagate dai cittadini - , non fornisce risposte ai circa 1000 dipendenti lasciati a casa dall’agenzia di riscossione e soprattutto non svela il quadro complessivo di complicità e coperture istituzionali e personali che hanno permesso a questa azienda, che di fatto doveva controllare, di agire indisturbata per molti anni».
E’ il commento rilasciato a “Manduria Oggi” dall’on. Ludovico Vico alle notizie di cronaca circa l’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza che oggi ha portato all’arresto per peculato e reati fiscali di cinque persone tra cui Giuseppe Saggese, nato a Taranto ma ligure di adozione e amministratore di fatto della “Tributi Italia Spa”, la società privata concessionarie per la riscossione dei tributi che per molti anni aveva servito ben 400 comuni italiani, senza mai riversare agli enti locali i tributi riscossi per circa 90 milioni di euro. Un lavoro quello di Vico fatto di carte e inchieste comune per comune e che dopo il caso simbolo di Aprilia in provincia di Roma e i suoi venti milioni di euro di buco, conduce sino al Comune di Ferrandina (Matera) con un credito nei confronti di Tributi Italia di oltre un milione di euro trentacinque fino a 35 comuni pugliesi (tra questi Bari, Brindisi, Fasano, Manduria, Nardò, Bitritto), lasciati a secco dopo il mancato introito di tasse come TARSU, Tosap, ICI o multe. «In Commissione Finanze, subito dopo la cancellazione dall’albo dei riscossori di questa società (frutto di un emendamento presentato dallo stesso Vico – ndr), avevamo anche iniziato un iter importante per aiutare i Comuni truffati – dice Vico – tema che rimane portante per il futuro di questa vicenda che non può limitarsi all’arresto dei responsabili». L’iniziativa parlamentare di Vico, dunque, produce i primi risultati, ma lascia ancora senza risposte su alcune domande chiave. «Le tasse pagate dai cittadini devono tornare ai Comuni vittime della truffa. Il Ministero delle Finanze, in questi anni, è rimasto inerte sulle misure relative all’albo e alle sue conseguenze in ordine alla formazione dei bilanci Comunali. La Guardia di Finanza ha però indagato su tutto, anche sui verbali di riunione in cui sia io che l’on. Rita Bernardini del Partito Radicale, rimanevamo inascoltati. Ora la vicenda è venuta finalmente a galla. Resta però da definire il quadro complessivo di risposte da fornire ai Comuni così come rimangono senza responso i dubbi inquietanti su chi doveva controllare i controllori».
Tributi Italia: vi immaginate un Mr Saggese a Berlino? Si chiede “Panorama”. L'Ad della concessionaria per la riscossione dei tributi in oltre 400 comuni, già arrestato due volte per reati simili, si sarebbe intascato in pochi anni una cifra attorno ai cento milioni di euro. Un scandalo che poteva succedere solo nel nostro Paese. A causa della strutturale inefficienza della burocrazia. Assurdo, incomprensibile, tragicomico. Giuseppe Saggese, amministratore delegato della società Tributi Italia, incaricata da 400 Comuni di riscuotere una serie di imposte locali (Ici, Tosap, Tarsu…), è finito agli arresti con l’accusa d’aver sottratto illecitamente un centinaio di milioni di euro (la somma finora accertata sarebbe di 20). Per 4 persone la magistratura di Chiavari ha disposto l’obbligo di dimora, e altre quattro sono state denunciate dalla Guardia di Finanza di Genova. Tra le accuse: peculato e reati fiscali. Sequestrati beni per 9 milioni di euro. La sottrazione dei fondi avveniva attraverso una rete di imprese collegate alla Tributi Italia col pretesto di servizi vari: consulenze, piani di riorganizzazione aziendale, operazioni societarie di natura straordinaria come aumenti di capitale e costituzione di nuove società. In pratica, l’importo delle tasse restava nelle casse della Tributi Italia, per poi confluire su società tutte riconducibili a Saggese & Company. Nove le perquisizioni tra Genova, la zona del Tigullio, Roma e la provincia di Piacenza. Elementare la descrizione del meccanismo nelle carte dei finanzieri: “L’azienda, una volta introitate le somme provenienti dalla riscossione tributaria, anziché riversarle agli enti a cui spettavano, al netto dell’aggio di sua competenza, le tratteneva sui propri conti correnti, appropriandosene”. Quel tesoretto è servito quindi non per gli stipendi dei dipendenti comunali, gli asili nido o i servizi sociali, ma per far acquistare a Saggese & Company automobili di lusso, yacht e aerei privati, vacanze da nababbi, organizzare feste e prelevare contanti fino a 10mila euro al giorno. Quando i Comuni hanno cominciato a batter cassa richiedendo gli importi versati, e la Tributi Italia si è lanciata in investimenti azzardati, i conti sono andati a picco e l’insolvenza ha portato alla dichiarazione di fallimento al Tribunale di Roma. Ma per quanto tempo l’amministrazione pubblica ha tenuto gli occhi chiusi? E qui veniamo all’aspetto assolutamente paradossale e più inquietante di tutta la storia. Sembra che il meccanismo abbia funzionato alla perfezione tra il 2006 e il 2009, quindi il tutto è cominciato 6 anni fa. Anzi no, prima! Stando al Fatto Quotidiano, Saggese sarebbe stato già arrestato due volte, nel 2001 (undici anni fa!) e nel 2009, per reati analoghi a quelli per i quali è ora in manette: il 14 luglio 2001 i carabinieri gli hanno infatti notificato a Pomezia un mandato di custodia cautelare come responsabile di un’altra società impegnata nella riscossione di tributi, e con lui per quella vicenda sono andati sotto processo amministratori locali di Pomezia e Aprilia. Non fu un caso da niente. Ebbe l’onore o disonore delle cronache. Dopo l’arresto del 2001, soltanto nel novembre 2009 il Pm ha chiesto le condanne (per Saggese a 3 anni e 8 mesi). Con 8 anni di scarto. Intanto, lo stesso Saggese, oggi 52enne, tarantino trapiantato a Rapallo, ligure di adozione, il 29 aprile di quell’anno era tornato ai domiciliari per un paio di settimane nell’ambito di un’inchiesta della magistratura di Velletri. Ici e tassa sui rifiuti riscossi dalla sua concessionaria nel Lazio con un aggio del 30 per cento non sarebbero mai stati riversati ai Comuni di spettanza. Com’è possibile? Come si può accettare che la stessa persona, a partire dal 2001, abbia guai con la giustizia in diverse inchieste che hanno tutte per oggetto lo stesso tipo di reato connesso alla riscossione di tributi per conto delle amministrazioni pubbliche, e nessuno se ne accorga? È possibile solo grazie al “combinato disposto” dell’attività criminale con l’inefficienza di una burocrazia, amministrativa e giudiziaria, che non si accorge per tempo degli ammanchi, dell’affidabilità delle persone (già più volte arrestate) a cui affida un incarico delicato come la riscossione delle imposte, e che in 11 anni è “recidiva” nel consegnarsi a malfattori o impiega anni e anni per concludere un’inchiesta o un processo. Anche qui bisogna individuare le responsabilità. Sarebbe ipotizzabile un “Mr. Saggese” a Oslo, New York o Berlino?
Tributi Italia, la storia si ripete, scrive ancora “Panorama”. Lo scandalo che ha coinvolto l'ex numero uno dell'ente preposto alla riscossione delle imposte locali ha un precedente. Che risale al 1954. La storiaccia di Giuseppe Saggese e di Tributi Italia Spa ricorda il primo grande scandalo della storia repubblicana: lo Scandalo del Miliardo, che occupò le pagine dei giornali nei primi anni Cinquanta. Come per Tributi Italia, anche in quel caso tutto ebbe inizio con un arresto, quello del direttore di un ente di eredità fascista incaricato della riscossione dei tributi locali (I.N.G.C.I). L'accusa era la medesima di Saggese: peculato, sottrazione di soldi pubblici. L’inchiesta della magistratura era partita subito dopo la pubblicazione di un articolo scritto nell’estate del 1954 da un ex dirigente dell’istituto sulla rivista “Pace e Libertà”. L’alto funzionario aveva fatto nomi, cognomi e, soprattutto, somme di denaro che giravano in maniera quanto meno dubbia. Come primo effetto la lettera causò le dimissioni dell’onorevole DC Vincenzo Bavaro, presidente nazionale dell’istituto. Un paio di settimane dopo lo Scandalo del Miliardo, deflagra in tutta la sua potenza coinvolgendo amministratori e funzionari locali, ma anche i partiti nazionali. Dopo l'arresto del sindaco comunista di Arezzo, Palmiro Togliatti in un comizio a Firenze, adombrò l'ipotesi del complotto anticomunista. L’inchiesta, però, non riguardava solo il PCI ma tutto l’arco parlamentare, ad eccezione dei piccoli partiti laici. Secondo il magistrato responsabile dell’inchiesta, Edoardo Baroni, il problema che ne conseguiva era il finanziamento illecito dei partiti politici che si traduceva in “un immediato aggravio dei costi di esazione" per tutti i cittadini. Secondo i giudici dell’accusa, insomma, i dirigenti dell’I.N.G.I.C., per ottenere l’appalto, avevano foraggiato personalità di diverse formazioni politiche . Per ben cinque volte la Giunta per le Autorizzazioni a procedere della Camera rifiutò la richiesta dei magistrati di processare gli onorevoli e i senatori implicati. Il 14 gennaio 1973 si aprì al tribunale di Arezzo il processo di primo grado per quello che era il più grande scandalo politico del dopoguerra. Il processo durò un anno. Per i 103 imputati rimasti, la condanna fu di circa 400 anni di reclusione complessivo. Nel 1980 la corte d’appello di Firenze mise, una volta per tutte, la parola fine con altre tre assoluzioni con formula piena e cinque conferme di prescrizione del reato di peculato con cui erano stati accusati gli ultimi superstiti della storia. I parlamentari, protetti dall'immunità, non furono toccati. L’unica differenza tra lo Scandalo I.N.G.I.C. e la vicenda di Tributi Italia è che ad essere interessato al momento è solo il suo ex numero uno, Giuseppe Saggese, anche se viene il dubbio di come una sola persona, per altro già arrestata due volte nel 2001 e nel 2009 per lo stesso reato, abbia potuto impunemente avere il controllo fino al 1009 dell’esazione dei tributi in oltre 400 comuni italiani. Questo, comunque, lo accerterà la magistratura. Ma la storia sembra quella di senssant'anni fa.
Ma non è tutto. Oneri di urbanizzazione non aggiornati, denunciati in 197, danni per 32 milioni, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica”. I funzionari pubblici segnalati dalla finanza alla Corte dei conti: hanno favorito per negligenza o infedeltà i cittadini e i costruttori che ai Comuni hanno versato meno del dovuto per ottenere le licenze edilizie. Sono 197 i funzionari pubblici salentini segnalati dalla Guardia di finanza alla Corte dei conti. Colpevoli, così credono le fiamme gialle, del mancato aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e costi di costruzione in tutti i 97 comuni della provincia di Lecce e, dunque, responsabili di un danno erariale pari a 32 milioni di euro. A tanto ammontano, infatti, i mancati introiti nelle casse comunali di cittadine e paesi del Tacco, variabili da un minimo di 2.000 euro a un massimo di 6 milioni e mezzo di euro, nel periodo compreso tra il 2007 e il 2011. In media, è stato calcolato, ogni Comune ha guadagnato circa 330.000 euro in meno rispetto a quanto avrebbe potuto. Un buco che, in tempi di ristrettezze economiche per gli enti locali, non è di poco conto. Il mistero degli introiti scomparsi è stato scoperto all'esito di un'attività d'indagine approfondita, condotta dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Lecce coordinati dal colonnello Vito Pulieri. I militari hanno passato al setaccio gli uffici tecnici di tutti i Comuni leccesi, a partire proprio dalla città capoluogo, scoprendo che funzionari pubblici, infedeli o distratti, avevano dimenticato spesso di riscuotere gli oneri di urbanizzazione e i costi di costruzione, agevolando in tal modo cittadini e costruttori. Sia gli uni che gli altri sono infatti il ristoro economico che la legge concede agli enti locali in cambio del rilascio delle licenze edilizie, lasciando alle Regioni la possibilità di stabilirne l'incidenza e ai Comuni l'obbligo di aggiornarla ogni 5 anni in conformità a quanto stabilito dalle Regioni, adeguando il costo anche annualmente in relazione alle variazioni dei costi di costruzione accertati dall'Istat. A spulciare tra la documentazione degli enti salentini, invece, di tali aggiornamenti imposti dalla legge sono risultate pochissime tracce: alcuni erano fermi con l'adeguamento delle tariffe agli anni Novanta, altri addirittura agli anni Ottanta. Nelle campagne leccesi, in cima alle scogliere e tra le masserie, insomma, costruire costava ai proprietari molto meno che altrove. Tirare su case era conveniente per i cittadini e dannoso per i Comuni, che, a fronte di un territorio sempre più urbanizzato, non vedevano entrare nelle proprie casse il necessario ristoro economico. E se qualche amministrazione, è stato rilevato, aveva provveduto negli anni ad adeguare il costo degli oneri di urbanizzazione, tutti avevano invece omesso di aggiornare il costo di costruzione oppure lo avevano fatto in modo errato. Mancanze, casuali o volontarie, che hanno prodotto un consistente danno all'erario, di cui la finanza ha chiamato a rispondere ben 197 funzionari pubblici che si sono succeduti negli uffici tecnici comunali. Sarò la Procura regionale della Corte dei conti, adesso, a valutare la loro posizione, decidendo se citarli in giudizio per il danno causato ai Comuni per cui hanno lavorato.
E con Equitalia ci si trova di fronte all’Usura di Stato.
Si è sentito vessato da Equitalia. Anzi usurato. Così scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Perché le somme chiestegli per il pagamento di un debito sarebbero esose ed ingiustificate. Una serie di esosi «orpelli» che avrebbero fatto schizzare alle stelle l’originaria obbligazione. Un imprenditore biscegliese, ma residente a Trani, non ne ha potuto più e lo scorso 22 dicembre 2011 ha denunciato la storia ai carabinieri. Il sostituto procuratore della Repubblica di Trani Michele Ruggiero ha aperto un’inchiesta che però non vede indagata né Equitalia, né alcun suo funzionario o dipendente. Il fascicolo è rubricato contro ignoti. Se il nome della concessionaria di riscossione, come persona giuridica, o di qualche sua figura lavorativa finirà nel registro degli indagati è prematuro dirlo. Molto dipenderà dall’esito degli atti d’indagine che ha in serbo lo stesso Ruggiero. Che però, per ora, ha compiuto un importante atto formale: ha espresso parere favorevole alla sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento; in pratica momentaneo stop alla procedura avviata da Equitalia contro il 46enne imprenditore biscegliese. Un parere in via cautelare che si basa sull’ipotesi che la vicenda denunciata possa esser connotata da fatti penalmente rilevanti, paventati nella denuncia. Il parere è stato chiesto alla magistratura tranese dal Prefetto della Provincia Barletta-Andria-Trani Carlo Sessa sulla base di quanto previsto dalle legge n.44/1999, ovvero «Disposizioni concernenti il fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura». La normativa contempla l’ipotesi di sospensione dei termini a seguito di parere favorevole da parte della Procura della Repubblica in merito agli atti, in questo caso di Equitalia, «per le indagini in ordine ai delitti che hanno causato l’evento lesivo».
Denuncia Equitalia per usura e il pm gli sospende le rate, scrive “La Repubblica”. «Condannato ad un ergastolo finanziario». E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola: una procura della Repubblica, quella di Trani, che dà parere favorevole all'istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia. Protagonista un imprenditore di Bisceglie ridotto sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che ha contratto nei confronti dell' Agenzia dell' Entrate e dell' Inps. Si definisce una vittima di usura, "condannato", dice, "ad un ergastolo finanziario". E il suo diventa il primo caso in Italia, destinato a fare scuola. Una procura della Repubblica che dà parere favorevole all' istanza di sospensiva dei pagamenti nei confronti di Equitalia, società pubblica incaricata della riscossione dei tributi. Protagonista un imprenditore nel campo della ricerca estetica di Bisceglie ridotto praticamente sul lastrico e che adesso, per il tempo necessario delle indagini, non dovrà pagare i debiti che pure ha contratto nei confronti dell' Agenzia dell'Entrate e dell'Inps. O meglio, sono al momento sospesi, in virtù della legge 44 del 1999, i ratei dei mutui ipotecari o bancari. E' stato il magistrato della procura di Trani Michele Ruggiero a firmare il provvedimento in questione dopo la denuncia dello stesso imprenditore presentata a dicembre dello scorso anno ai carabinieri. Pasquale Ricchiuti, questo il suo nome, ha chiesto la condanna di Equitalia spa e di Equitalia sud Bari per la violazione dell'articolo 644 del codice penale, il reato di usura. Questa la storia: nei mesi scorsi Ricchiuti aveva fatto periziare le cartelle di pagamento ricevute scoprendo, a suo dire, l'iniquità dei tassi applicati e quella che chiama "la maggiore pressione fiscale esercitata nei suoi confronti". Racconta di un dramma cominciato all'indomani della decisione della società pubblica di ipotecare la sua casa, sulla quale sta ancora pagando un mutuo, perché non era riuscito ad onorare dei debiti, 20mila euro cioè di contributi "dichiarati ma mai versati", dice. I problemi lo assalgono nel 2008 a causa della mancanza di liquidità, nel suo centro di estetica e di dimagrimento da quattro le assistenti assunte diventano due, poi una sola. E quei 20mila euro, tra interessi e sanzioni, raddoppiano e arrivano a quasi 40mila. «Ma se non potevo pagare quelli come posso pagarne tanti ora?», si è chiesto. Su Facebook ha formato un gruppo di "indignati" che non lanciano bombe alle sedi di Equitalia ma "si informano per resistere", spiega. Poi è diventato presidente di una lista civica nazionale "Italia libera" e ha messo insieme una serie di persone scontente, dal Friuli alla Sicilia. Negli ultimi mesi ha preso carta e penna e scritto proprio ad Equitalia, poi ha dispensato consigli a tutte le persone in difficoltà con le banche e la stessa società di riscossione: "Non stancatevi mai di lottare per i vostri diritti, fatelo per le vostre famiglie ma soprattutto per voi stessi, se le regole del gioco sono cambiate in corsa i falliti non siete voi, ma chi ha cambiato le regole senza pensare a chi si alza ogni mattina per poter mettere ancora un piatto sulla tavola per la propria famiglia». Non ce l' ha con le persone, conclude, "ma con il sistema, adesso altri imprenditori sanno che difendersi si può". E Trani, ancora una volta, diventa un caso nazionale.
QUESTO STATO: DURO CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI.
Uno "Stato", che non mi rappresenta e di cui sento non farne parte, pronto ad elevare multe in mancanza di uno scontrino e poi lo stesso “Stato” chiude gli occhi sulle magagne di professionisti e funzionari statali col doppio lavoro (a nero), oltre che agevolare le società dei “poteri forti”. Sei hai voglia, leggi con attenzione questa introduzione...scoprirai come sarebbe facile uscire dalla crisi se i malfattori fossero assicurati alla giustizia, pagando i loro debiti, ma siamo in Italia..i tg non ne parlano, i giornali fanno finta di niente. Gli interessi in ballo sono enormi e chi ha scoperto gli scheletri negli armadi, dopo anni di onorato servizio è costretto a dimettersi. Leggi il libro e se vuoi fallo sapere a tutti in che paese di merda, nostro malgrado viviamo, anche se purtroppo lo sanno già tutti. Quei tutti, ossia gli italiani che nulla fanno, che da perfetti collusi o codardi, rivotano ogni volta coloro i quali sono responsabili di questa situazione.
Umberto Rapetto non è più un colonnello della Guardia di Finanza. Ufficialmente e formalmente si è trattato di dimissioni. In verità, pare che desse parecchio fastidio ai “poteri forti”, alla politica e alla criminalità organizzata. Per questo è stato “gentilmente invitato” a farsi da parte. Chi è Umberto Rapetto? Per i più si tratta di un nome insignificante. Eppure siamo di fronte a un super esperto di informatica e lotta alle frodi. Autore di numerose pubblicazioni, è anche docente universitario. Gli Stati Uniti ce lo invidiano. Le sue competenze e la sua intensissima attività hanno consentito al nostro Stato di individuare migliaia di evasori fiscali. Peccato che poi le somme concretamente recuperate sono minime. Per cinque anni, Rapetto ha seguito tutti i componenti delle organizzazioni che gestivano il gioco d’azzardo in Italia senza pagare le imposte. Finchè un giorno, ha chiuso il dossier, facendolo arrivare ai carabinieri: ha fatto arrestare quindici persone. Rapetto si è presentato in giudizio con migliaia di pagine di prove e con conti precisi: le società dei videopoker sotto accusa devono allo Stato di 98 miliardi, 456 milioni, 756 mila euro. Cifra mostruosa, superiore persino alle ultime quattro manovre finanziarie messe assieme. Gli imputati che sono stati tutti condannati penalmente hanno patteggiato, anche se Rapetto era contrario: il colonnello sosteneva che dovevano restituire fino all’ultimo centesimo di euro. Alla fine i giudici si sono rivolti alla Corte dei Conti la quale ha preso atto della condanna penale della Cassazione e ha imposto agli imputati il pagamento di appena 2,5 miliardi di euro. Lo sconto è di quelli che nemmeno nel più pazzo dei supermercati: 96,5%! Qualcuno ne ha parlato in tv? Ovvio che no, la farfallina di Belen, i dettagli delle cenette simpatiche di Arcore, 24 ore al dì a parlare sulle partite del campionato italiano o della solita nazionale italiana, cotta al sole di inizio estate al cospetto di una Spagna degna vincitrice degli europei di calcio 2012. Questi sono gli argomenti del popolino, sono argomenti ben più importanti. In sintesi, l’attività del colonnello Rapetto consente di accertare 98 miliardi e mezzo di evasione fiscale ad opere delle società che operano nel gioco d’azzardo. E che fa lo Stato? Concede uno sconto del 96,5%! Già, perché se a non pagare le imposte è un piccolo imprenditore o un normale cittadino, si interviene con i carri armati. Se ad evadere sono le grandi società, si va coi guanti, c’è il super premio. Quel premio che non c’è stato per Rapetto. Costretto a dimettersi perché faceva fin troppo bene il proprio mestiere. Siamo proprio sicuri che una Repubblica in cui l’immoralità è la norma debba essere festeggiata per il sui 150° anniversario? Fate voi.
Umberto Rapetto, cacciato senza un perché dalla Guardia di finanza, diventa consulente Telecom. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che ha convinto l'ufficiale a sbattere la porta, è stata la decisione dei vertici di spedirlo come studente a un corso dove per sedici anni è stato docente.
Rapetto ha tre lauree (giurisprudenza, scienza della sicurezza e scienze internazionali diplomatiche), è docente universitario, e ha pubblicato molti libri su terrorismo, guerre digitali e organizzazione aziendale. Lo rimuovono dal comando del Gat e gli ordinano di frequentare dei corsi alla scuola dove insegna. Perciò il Colonnello Umberto Rapetto si dimette. Ma molti parlamentari si mobilitano al suo fianco. Era il maggior esperto nella lotta alle cyber-truffe. Con le sue indagini, ha fatto infliggere una mega multa da 98 miliardi a dieci società concessionarie del gioco d’azzardo di Stato. Umberto Rapetto, 53 anni, colonnello della Guardia di finanza ha annunciato le sue dimissioni su Twitter: “Qualche modulo e una dozzina di firme sono bastati per cancellare 37 anni di sacrifici e di soddisfazioni e i tanti sogni al Gat GdF”, scrive amareggiato. Rapetto era stato il fondatore di quello che sarebbe poi diventato il Nucleo speciale frodi telematiche. Tra i suoi successi l’operazione “Macchianera” sulle frodi nei confronti dell’Inps, e le indagini che avevano portato all’arresto di hacker penetrati nel sistema di sicurezza di Nasa e Pentagono. Rientra tutto nell’ambito di un normale avvicendamento assicurano i vertici delle Fiamme Gialle. “Il Colonnello Rapetto ha ‘sua sponte’ lasciato ormai il Corpo della Guardia di Finanza,” e in funzione di ciò “non è possibile anche solo ipotizzare ripensamenti organizzativi”, ha dichiarato il viceministro Vittorio Grilli, rispondendo a un'interrogazione parlamentare durante il question time. A costare il posto all’esperto, secondo alcune voci potrebbe essere stata proprio l’inchiesta sulle slot machine che avrebbe toccato e scardinato alcuni potentati occulti. Umberto Rapetto, popolare “Sceriffo del web” che collabora anche con Oggi, di cui si cita l’articolo, ha lasciato la divisa di colonnello della Guardia di finanza. Anzi, gliel’hanno fatta lasciare. E ora, secondo quanto scrive il Corriere della Sera, diventa consulente strategico dell’amministratore delegato Franco Bernabè. Sarebbe questo il nuovo incarico del colonnello Umberto Rapetto, 52 anni, ex comandante del Gat, Gruppo anticrimine tecnologico della Finanza. Da che mondo è mondo, ci sono due modi per perdere il lavoro: o farlo troppo male; o farlo troppo bene. Quale sia il caso del colonnello Umberto Rapetto (il popolarissimo “sceriffo del web”, la cui rubrica assai spesso avete letto sulle pagine di Oggi), creatore e comandante da più di dieci anni del Gat, il Nucleo speciale contro le frodi telematiche della Guardia di Finanza, lo testimonia il suo palmarès straricco di straordinari successi investigativi, pubblici encomi e importanti riconoscimenti in Italia e all’estero. Un uomo di questo valore ce lo dovremmo tenere stretto. E invece il comando generale delle Fiamme Gialle ha deciso di rimuoverlo dalla guida della sua creatura ordinandogli di frequentare alcuni corsi di formazione presso il Centro alti studi difesa, dove, paradossalmente, Umberto Rapetto, titolare di tre lauree, già insegna da oltre quindici anni. La vicenda è così clamorosa (e misteriosa) da finire diritta in Parlamento dove senatori e deputati di tutti i gruppi politici, di destra, centro e sinistra, si sono apertamente schierati dalla parte dello sceriffo del web. Per saperne di più ci siamo rivolti al comando generale della Guardia di finanza. «Abbiamo dato le dovute risposte a chi di dovere e non intendiamo alimentare polemiche a mezzo stampa», ci dice il capo ufficio stampa, generale Giuseppe Bottillo. «In qualità di senatore della Repubblica, io sono certamente un “chi di dovere”», tuona il combattivo senatore dell’Italia dei Valori, Elio Lannutti, «eppure di risposte chiare ed esaustive non ne ho ancora ricevute. Non so se il colonnello Rapetto ha scatenato qualche gelosia oppure ha dato fastidio a qualche cricca; di certo, questa vicenda danneggia la credibilità della Guardia di Finanza e del Paese, perciò va chiarita al più presto». «In questa storia c’è qualcosa di molto preoccupante», ci dice l’onorevole Mario Tassone, primo firmatario dell’interpellanza urgente co-firmata da tutti i componenti del gruppo Udc alla Camera. «Si vede la manina di qualche potere occulto. Evidentemente si sono voluti levare di mezzo una persona scomoda». «Il colonnello Rapetto ha ottenuto recentemente quello che costituisce il più importante risultato mai conseguito dalla Guardia di Finanza», scrive nella sua mozione il senatore Domenico Gramazio del Pdl. «Grazie alle sue indagini, i Monopoli di Stato e le società concessionarie delle slot machine sono state condannate dalla Corte dei conti a pagare oltre 2 miliardi e 500 milioni di euro di penali contrattuali per il mancato collegamento degli apparati alla rete dell’anagrafe tributaria con disastrose conseguenze per l’erario. Il Procuratore generale della Corte dei conti del Lazio pro tempore, dottor Ribaudo, ha proposto l’ufficiale e i suoi collaboratori per un avanzamento motivato da straordinari meriti di servizio, ma il Comando generale non ha ritenuto di prendere in considerazione la lettera formale e non ha nemmeno istituito la pratica per l’esame della questione. «Si chiede di sapere», continua il senatore Gramazio, «se il trasferimento del colonnello Rapetto sia semplicemente una ritorsione per il suo brillante risultato e per la sua mancata elasticità di fronte alle pressioni a evitare scandali che potessero coinvolgere altre amministrazioni sempre dipendenti dal dicastero dell’Economia e delle finanze come invece avvenuto». «Quello del colonnello Rapetto è un caso di grave penalizzazione di un ottimo funzionario dello Stato», dice l’onorevole Elisabetta Zamparutti, radicale eletta nel Pd. «È un sintomo grave del livello di degrado in cui versa il Paese. Questa vicenda, però, può essere un banco di prova per il governo che dovrà dimostrare se vuole fare la lotta alla corruzione e all’evasione fiscale solo con i blitz tipo Cortina d’Ampezzo, che hanno il valore di spot di dubbia efficacia, oppure valorizzando quelle persone che hanno dimostrato sul campo quello che sanno fare». Saltando da sinistra a destra, ci chiediamo anche noi col senatore Gramazio «se il governo non ritenga che risorse come il colonnello Rapetto debbano essere salvaguardate da simili ingiustizie».
UMBERTO RAPETTO SCRIVE AL DIRETTORE DI OGGI UMBERTO BRINDANI
Carissimo direttore, con grande dolore il 29 maggio sono costretto a rassegnare le dimissioni e lascio la divisa dopo quasi 37 anni… Ho fatto del mio meglio, ma non è bastato. Credi che uno sceriffo senza stellette possa continuare a dare consigli dalle pagine di Oggi? Spero di sì. La vocazione a servire gli altri non me l’hanno strappata.
Colonnello dott.
Umberto Rapetto, Comandante del GAT – Nucleo Speciale Frodi Telematiche
Comando Unità Speciali della Guardia di Finanza
LA RIPOSTA DEL DIRETTORE
Caro Colonnello, credo che i tuoi meriti e quelli del team che hai creato in questi anni siano assolutamente indiscutibili. Spero in un tuo ripensamento e auspico una riammissione da parte di coloro che ti possono aver messo nella condizione di doverti dimettere. In ogni caso, qui a Oggi ci sarà sempre spazio per lo Sceriffo del Web! Con immutata stima
Umberto Brindani
CONCORSO TRUCCATO ALL’AGENZIA DELLE ENTRATE.
Di cosa si meravigliano. Succede perennemente in tutta Italia: al concorso per diventare magistrato, notaio, avvocato. Nell’assoluta omertà, però. Di questo concorso, invece, ne parla la stampa nazionale, "Il Corriere della Sera" e "La Repubblica". Forse perchè siamo a Catania e passa la parvenza che sia la solita furbata meridionale. Infatti il concorso è nazionale e la credibilità è minata nel sistema generale di cooptazione dei funzionari pubblici.
Credibilità minata anche dalle cronache che ci parlano di corruzione dei funzionari delle Agenzie delle Entrate in tutta Italia, sì, ma anche dei giudici Tributari.
La mattinata dell’8 giugno 2012 è iniziata presto, in fila dalle 9.30 per un posto da funzionario nella pubblica amministrazione. Dopo le registrazioni e la classica attesa da concorso pubblico, gli oltre 1500 candidati si sono tutti seduti per ricevere dalla commissione i questionari. Ma qualcuno a quanto pare, prima ancora della distribuzione del materiale, aveva già le domande e le risposte a portata di cellulare. Ed è scattato il caos a Catania, nel centro fieristico «Le Ciminiere», sede del concorso per 25 funzionari all'Agenzia delle Entrate (855 posti a livello nazionale, 25 nella Regione Sicilia). «Erano più o meno le 13 - racconta al telefono uno dei candidati - ed eravamo in ritardissimo rispetto alla tabella di marcia. Eppure aspettavamo con ansia di ricevere i questionari.
Eravamo tutti seduti quando a un tratto abbiamo visto una calca e un gruppo di ragazzi che urlavano: da quello che abbiamo potuto capire, accusavano un ragazzo di avere già tutte le domande del quiz. Forse perchè in altre città d'Italia dove si teneva lo stesso concorso, le prove erano finite già da un pezzo ed erano state messe pure online». Fatto sta che a un certo punto arrivano le forze dell'ordine, carabinieri, polizia e i gli oltre mille candidati vengono bloccati nel centro fieristico. Dopo ore di attesa, arriva poco prima delle 16.30 l'annuncio dalla voce di un altoparlante: «Il concorso è stato sospeso». Tra gli applausi, i ragazzi, sfiniti, lasciano il centro fieristico. Da stabilire quando e dove dovranno ripresentarsi.
Diversa la versione dell'Agenzia delle entrate: «Si è trattato di un gruppo di facinorosi - fanno sapere - che non ha consentito il proseguimento della prova: in nessuna delle altre 10 sedi c'è stato alcun problema, compresa quella di Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. A Catania questi candidati asserivano che le domande erano già su Internet, ma è assolutamente impossibile visto che gli unici che avevano accesso ai quiz erano i membri della Commissione centrale di Roma e le prove a quell'ora, anche nelle altre città, non si erano ancora concluse. Queste persone invece hanno bloccato senza alcuna giustificazione il concorso di Catania e non hanno consentito a nessuno di farlo».
Alle 16 il presidente della vigilanza Alfio Angelo Caruso ha annunciato che il concorso è stato sospeso. Le procedure di identificazione sono iniziate regolarmente alle 10 come nel resto d'Italia, ma l'esame, un questionario con 80 domande da completare in 50 minuti, non si è mai svolto. Nel frattempo, però, il concorso veniva espletato regolarmente nelle altre città. "È uno scandalo, intorno alle 13 sono cominciate a circolare le risposte provenienti da Palermo", denuncia Valentina, una delle partecipanti.
Erano circa 3 mila i candidati che si sono presentati nella sede di Catania per provare ad aggiudicarsi uno dei 250 posti da funzionario amministrativo tributario banditi a livello nazionale dall'agenzia delle entrate. Due le sedi di esame per la Sicilia: oltre a Catania, Palermo dove tutto si è svolto regolarmente. Tuttavia non si sa ancora se il concorso sarà invalidato in tutta l'Isola, a cui sono destinati 25 posti, o solo per la parte relativa a Catania, dove hanno svolto l'esame i concorrenti con cognome dalla lettera A alla G.
"Credo che a Palermo non dovrà essere ripetuto - anticipa il presidente Caruso - ma non sta a me dirlo, la comunicazione ufficiale arriverà dall'Agenzia delle entrate". Il caos al complesso fieristico Le Ciminiere è iniziato intorno alle 13. "Ci dicevano continuamente di rimanere seduti - denuncia Valentina - ma quando si è sparsa la voce che qualcuno aveva già le risposte è successo il finimondo". La commissione si è giustificata parlando di problemi nella fase di identificazione dei partecipanti. In particolare, secondo alcuni concorrenti, ci sarebbero state difficoltà con l'assegnazione dei codici a barre. "Alle 14,30 - racconta Ilaria - quando ancora non era stata ufficializzata la sospensione dell'esame hanno aperto le porte e sono entrati amici e parenti. Per ore ci hanno comunicato che il concorso sarebbe iniziato a breve, ma ormai non ci credeva più nessuno". La commissione si è riunita nel bar al primo piano dell'edificio e solo alle 16, quando è arrivata la conferma da Roma, uno speaker dall'altoparlante ha dato l'ufficialità della sospensione, senza specificarne i motivi. Sul posto è intervenuta la Digos ed erano presenti anche carabinieri e guardia di finanza.
Il segretario provinciale della Cgil Funzione Pubblica, Armando Garufi, difende l'operato degli addetti alla vigilanza: "Probabilmente - denuncia - c'è stato qualche intoppo nella macchina organizzativa, ma la direzione centrale ha sbagliato la scelta delle sede. È impossibile controllare tutti i partecipanti in una struttura così grande". "In riferimento alla bagarre occorsa durante la prova per il concorso all'Agenzia delle Entrate, a Catania, l'associazione dei consumatori conferma la necessità di annullare il concorso e prevedere la sua ripetizione".
Un concorso dove i candidati sono seduti da ore, nonostante i test non siano mai iniziati. Accade anche questo a Catania dove circa duemila persone arrabbiate hanno inscenato una rivolta alla sede delle Ciminiere perchè avrebbero dovuto svolgere un concorso nazionale dell'Agenzia delle Entrate con posti di funzionario amministrativo contabile, ma mentre in tutte le altre parti d'Italia tutto è già terminato, qui la selezione deve ancora cominciare. Gli studenti hanno quindi lasciato le penne sul tavolo e hanno inveito contro la commissione che non riesce a risolvere il problema. «Anche qui - spiega uno dei candidati, Gianpiero D'Arrigo - eravamo seduti per espletare il concorso dalle 9, 30 del mattino, ma in altre città entro le 14 hanno concluso, qui ancora niente. La motivazione ufficiale è che ci sarebbero stati problemi con l'anagrafica, ma da quanto siamo riusciti a sapere c'erano due pacchi contenenti le domande che dovevano essere chiusi ed invece erano aperti. Abbiamo chiesto più volte spiegazioni, ma i membri della commissione non ci hanno dato delle risposte convincenti, dicendoci solo di aspettare. Ora addirittura asseriscono che o facciamo il concorso e aspettiamo che si inizi o andiamo via e abbiamo perso anche questa possibilità. Qualcun altro ci dice che dobbiamo restare qui finché non inizia, anche se si dovesse fare mezzanotte. Ma come hanno fatto notare altri candidati già su internet ci sono domande e risposte da ore, come pensano sia regolare ora il concorso?». Intanto, agenti della Digos sono andati sul posto per risolvere la situazione.
Il concorso è stato infine sospeso. Il presidente della commissione ha invitato i candidati a guardare il sito internet per sapere quando potrà tenersi nuovamente. Dopo 8 ore di attesa vana, tutti sono tornati a casa.
«Il caos di oggi alle Ciminiere di Catania, che ha portato alla sospensione del concorso per 250 posti alle Agenzie delle entrate, deve essere letto in tutta la sua drammatica realtà - spiegano in una nota Mariella Maggio segretario generale Cgil Sicilia ed Angelo Villari, segretario generale Cgil Catania - L'ansia che accompagna ogni prova concorsuale, soprattutto nell'ambito del sistema pubblico, è frutto di una sfiducia nelle possibilità di una democrazia in grado di assicurare lavoro dignitoso per tutti. Il timore di prove truccate dimostra una grande e preoccupante sfiducia nelle istituzioni. La Cgil è preoccupata per questo clima duro e al limite della pericolosa tensione sociale. Bisogna che le istituzioni intervengano subito e che si rendano consapevoli di quanto stia accadendo a Catania come nel resto d'Italia.»
DAL CONCORSO TRUCCATO AL RAPPORTO TEMPESTOSO TRA CITTADINI E FISCO
Il 7 giugno 2012 alle ore 10.30 si è tenuta la Conferenza Provinciale Permanente presso la Prefettura di Taranto. E’ stato invitato il Presidente della Provincia ed i sindaci delle maggiori città, tra cui Taranto. Sono state invitate le massime autorità cittadine, (polizia, carabinieri e Guardia di Finanza). Sono stati invitati i rappresentanti delle associazioni di categoria economica e sociale e di difesa del consumatore. E’ stato invitato il dr Antonio Giangrande, quale presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, iscritta presso alla Prefettura all’elenco antiracket ed antiusura. Il Prefetto ha aperto ed inoltrato i lavori con una sua relazione sui problemi della Comunità: crisi economica, instabilità e disagio sociale, rischio di usura. Il dr. Antonio Giangrande riguardo agli aspetti trattati ha comunicato ai presenti che, data la sua esperienza nazionale, con Tele Web Italia, la sua web tv nazionale, che ospita tutte le web tv locali, dà visibilità gratuita al territorio ed alle aziende che ivi producono per superare la crisi di mercato; considerando che le vittime del racket e dell’usura non hanno bisogno di visibilità, ha reso noto che ha predisposto uno sportello telematico affinchè le vittime, senza ausilio di intermediari, possano accedere agli strumenti di autotutela più adeguati previa informazione senza filtri sui benefici di legge, questo perché gli sportelli antiracket aperti a Lecce, Taranto e Brindisi sono solo strumenti di propaganda politica e di speculazione economica per attingere ai progetti POR; ha invitato ad una collaborazione reale la Camera di Commercio e le associazioni di categoria attraverso l’accesso ai Cofidi o gli Interfidi per superare l’ostacolo della mancata fruizione di finanziamenti dalle banche, per evitare il fallimento delle aziende o l’accesso al mondo usuraio dei cittadini. Il Prefetto ha replicato che l’intervento non era in tema. Meno male che Giangrande, esperto anche di economia, non ha fatto cenno all’usura bancaria ed all’usura di Stato con i tassi ed emolumenti riconosciuti ad Equitalia; non ha fatto cenno alle cartelle pazze, non ha fatto cenno alle esecuzioni giudiziarie con mancato diritto di reciprocità: cioè le esecuzioni di Equitalia sono reali, quelle contro Equitalia sono bloccate. Certo non per colpa di Equitalia, ma dei parlamentari che approvano norme che dovrebbero rappresentare i cittadini e non i poteri forti.
Dalle prime battute, però, è stato chiaro che la conferenza era solo incentrata, secondo l’intento di stabilire la pace sociale e garantire allo Stato ed agli statali i sovvenzionamenti, sul gettare acqua sul fuoco riguardo i rapporti burrascosi tra il sistema sociale ed economico con Equitalia, che, purtroppo sfocia in vessazioni e disservizi da una parte e suicidi dall’altra. L’esordio del Prefetto è stato: niente polemiche, se no tolgo la parola; per cui il susseguirsi degli interventi è stato sulla falsariga intimata. Gioco facile per i rappresentanti di Equitalia replicare alle inconsistenti contestazioni dicendo che si impegneranno ad aprire centri di ascolto ed ad ampliare e dilazionare le riscossioni. Troppo poco per le aspettative di alcune associazioni presenti, che magari avrebbero voluto parlare delle sofferenze dei loro iscritti. Bene per i soliti personaggi genuflessi che fanno del lisciare il pelo al potere la loro missione quotidiana, anziché tutelare i loro associati. Molto bene per Equitalia che si è sentita a casa sua, ospite tutelato, al di là dei suoi meriti. La conferenza è stata chiusa dal Prefetto, istituzione a difesa di altra istituzione Equitalia con capitale Inps ed Agenzia delle Entrate, con un invito a vittime e carnefici di morandiana memoria: stiamo uniti e niente polemica. Subisci e taci, direbbe qualcuno.
LA MAFIA NEL SENTIRE COMUNE
A dispetto di cosa ci inculca la cultura imperante, spesso di sinistra e sovente in modo interessato al fine di raccogliere consenso politico ed usufruire dell'assegnazione dei beni mafiosi confiscati, il parlare di mafia non può discernere da come sentono il fenomeno i cittadini che la subiscono. Ed a chi chiedere? A chi ha il giudizio inquinato da pregiudizi, ideologie o interessi economici, oppure a chi disinvoltamente può dire tutto quello che gli passa per la testa, in virtù del fatto che i suoi occhi innocenti vedono una realtà trasparente e non viziata da preconcetti?
E' giusto chiedere a chi nelle risposte non si nasconde dietro l'ipocrisia e non adotta "il politicamente corretto" (politically correct). I bambini sono la bocca della verità. La parola ai giovani. La camorra vista dai giovani: "Equitalia è peggio dei boss". Sondaggio shock a Napoli: per il 16% la malavita risolve problemi.
Equitalia è peggio della camorra. E' una delle risposte più inaspettate arrivata dai ragazzi delle scuole medie e superiori napoletani che hanno partecipato al questionario dell'Associazione Studenti napoletani contro la camorra, in collaborazione con l'associazione "Oblò". “Ti senti più minacciato dalla Camorra o da Equitalia?” La risposta degli studenti delle scuole medie di Napoli e provincia è stata sconvolgente: il 57% ha risposto Equitalia. Forse sarà per l’ondata emotiva suscitata dai suicidi degli imprenditori strozzati dalle cartelle esattoriali. Certo è che Equitalia balza, primissima, in cima alla classifica dell’odio anche degli studenti napoletani, che pure avrebbero motivo di detestare un cancro maggiore e non estemporaneo: la criminalità organizzata. Interessanti i dati diffusi dal nuovo questionario anticamorra diffuso in 14 istituti medi inferiori di Napoli e provincia per un totale di oltre 2000 alunni. Alla domanda “ Ti senti più minacciato dalla camorra o da Equitalia?” il 57% degli intervistati, quindi ben più della metà, ha risposto “la seconda che hai detto”, cioè Equitalia. L’agenzia di riscossione è considerata come una vera e propria minaccia sociale che supera di gran lunga la mafia. La domanda faceva parte del nuovo questionario anticamorra diffuso in 14 scuole e somministrato a oltre 2000 ragazzi di un ‘età compresa tra 12 e 14 anni. Il 57% ha detto di sentirsi minacciato più dall'agenzia di riscossione crediti che dai boss.
Il responsabile della associazione “Oblò” Massimo Pelliccia commenta: “C’ è una percezione estremamente negativa dello Stato da parte delle nuove generazioni; le istituzioni vengono considerate in molti casi peggio della criminalità. Lo Stato viene subìto come qualcosa di ingiusto, secondo le risposte dei ragazzini interpellati, mentre la camorra è ineluttabile o addirittura più giusta.
Da brivido – conclude – la risposta di uno studente di prima media che ha definito Equitalia “quella cosa che fa suicidare i grandi”. La camorra per il 16% dei ragazzi dà potere e risolve i problemi e potrebbe addirittura risolvere la crisi economica. La criminalità dunque più che come un pericolo viene vista come un'occasione per soldi facili: il 54% dei ragazzi ha dichiarato che se incontrasse un camorrista si farebbe raccomandare. Tutti temi su cui le associazioni chiedono anche alle istituzioni di intervenire per modificare la visione distorta che i ragazzi hanno di loro e che rischia di essere un volano per l'antistato.
Cosa succede quando un uomo con la pistola incontra uno con una cartella esattoriale? Quello con la pistola ha la peggio o almeno è questo che emerge dai dati del nuovo questionario anticamorra, diffuso in 14 scuole medie di Napoli e provincia e a cui hanno risposto oltre 2000 ragazzi tra i 12 ed i 14 anni. Grande stupore nel vedere le risposte alla domanda «Ti senti più minacciato dalla camorra o da Equitalia? E perché?». Il 57% ha risposto Equitalia, forse la spiegazione sta nell’idea che anche i bambini si stanno facendo all’interno delle proprie famiglie dello Stato e delle sue ramificazioni come le agenzie di riscossione. Lo Stato viene subito come qualcosa di ingiusto, che ti priva di qualcosa di tuo all'improvviso. «Il 18% degli studenti - spiega Simone Scarpati, neo presidente dell'associazione studenti napoletani contro la camorra - ha dichiarato di essere stato aggredito o derubato. Poco meno della metà degli studenti ha cercato di reagire alla violenza e ha denunciato tutto alle forze dell’ordine. Forze dell'ordine che nell'80% dei casi denunciati purtroppo non sono riuscite a garantire giustizia alle piccole vittime. La Polizia non gode di gran credito presso i giovanissimi napoletani, al pari delle istituzioni. Questo spiega la bassa fiducia che i giovanissimi napoletani hanno nei confronti delle istituzioni e delle forze dell'ordine come emerge dalle risposte. Infine, un filo di speranza: il 44% degli studenti ha dichiarato che la camorra può essere sconfitta e prevale sul 41% di quanti ritengono che invece ‘O sistema sia immortale. Il 15% del campione ha dichiarato che la camorra è identificabile addirittura come fenomeno positivo. L’8% degli studenti associa la figura dell’uomo d’onore e dell’eroe a quella del malavitoso». Il 24% dei giovani coinvolti ha riferito che si rivolgerebbe a un malavitoso, qualora ne conoscesse uno, per ottenere un favore e il 55% non esiterebbe a farsi raccomandare. Il 10% degli studenti intervistati ha dichiarato di aver apprezzato la canzone «'O Capoclan» che inneggia allo stile di vita camorrista, esplicitamente a favore dell’organizzazione mafiosa. Dai dati pubblicati emerge una percezione estremamente negativa da parte degli adolescenti napoletani nei confronti dello Stato che viene considerato in molti casi in modo molto peggio della criminalità. La maggioranza degli studenti interpellati, infatti, se potesse dare un suggerimento alle Istituzioni per combattere la malavita, direbbe che è opportuno intervenire sull’istruzione, sul lavoro, sulla sicurezza, sulla lotta alla corruzione e sull’amministrazione della giustizia. Inoltre una percentuale molto elevata degli studenti crede che a spingere un ragazzo ad assumere comportamenti illegali sia il bisogno economico, la disoccupazione, la sete di potere il guadagno facile e l’ignoranza.
«Per la prima volta il sondaggio anticamorra, proposto ed ideato dall’Associazione Studenti Napoletani contro la Camorra, è stato proposto agli studenti frequentanti le scuole medie - spiega Francesco Emilio Borrelli, ex presidente dell’ associazione studenti napoletani contro la camorra - il motivo di tale scelta è dovuto alla nostra ferma volontà di comprendere come i nostri adolescenti percepiscono oggi, in piena crisi economica ed in una società mediatica, il fenomeno sociale denominato camorra. E le risposte sono davvero incredibili». Il 16% ha risposto che la camorra potrebbe garantire ricchezza e potere e potrebbe risolvere la crisi economica, dare lavoro e creare sviluppo. «Praticamente - racconta il responsabile di Oblò Massimo Pelliccia - tutti gli alunni delle scuole medie intervistati hanno dichiarato di conoscere la camorra. Conoscono più la camorra di ogni altro fenomeno sociale campano o nazionale. Non partecipano alle iniziative anticamorra, anche se conoscono i nomi di molte vittime, primo fra tutti quello del giornalista Giancarlo Siani.»
LA MAFIA DI STATO. PARLIAMO DELL’USURA E DELL'ESTORSIONE DI STATO.
Quando vi arriva una cartella esattoriale sospetta da Equitalia il primo passo da fare é quello di farla PERIZIARE. Se il tasso di usura, come spesso succede, viene accertato, il secondo passo é quello di andare dalla Guardia di Finanza a sporgere denuncia.
Potete valutare anche la denuncia per stalking, oltre che per l’usura, se le cartelle esattoriali e gli avvisi di pagamento continuano a giungervi. Una volta accertata l’usura avrete 3 anni di blocco dei pagamenti verso il Fisco ( Equitalia, Inps, Inail…) e 300 giorni di blocco sui pagamenti verso banche e privati (prestiti, mutui…).
Può capitare, però, che il PM non voglia riconoscere l’usura, appellandosi al fatto che lo Stato non presta soldi, ovvero la denuncia è considerata stravagante ed inusuale. Ciò non ha fondamento giuridico, ci sono già dei precedenti. Lo Stato quando concede rateizzazioni sulle imposte, presta effettivamente del denaro. Applica dei tassi d’interesse e se questi sono troppo alti, é semplicemente usura.
L’articolo 644 del codice penale punisce “chiunque chieda prestazioni di denaro con vantaggi usurai”. Anche lo Stato rientra nella categoria “chiunque”. Lo Stato non può essere escluso.
I tempi giudiziari possono essere biblici, un’eventuale processo può essere molto dispendioso, sia psicologicamente che economicamente. Equitalia lo sa e se ne approfitta. Non molla la presa sui cittadini spaventati dalle spese giudiziarie. Non é giusto che noi si debba pagare ciò che non si deve. Il tutto non a uno strozzino qualunque, ma allo Stato.
Sul portale di Beppe Grillo vi è stato pubblicato un post di Federico Saccani che rende bene l’idea su come lo Stato persegue il piccolo strozzino, ma rende impunita l’usura bancaria e, cosa più grave, è esso stesso usuraio impunito. Equitalia è la società per azioni, a totale capitale pubblico (51% in mano all'Agenzia delle entrate e 49% all'Inps), incaricata dell'esercizio dell'attività di riscossione nazionale dei tributi e contributi. Vediamo come la cosa è un costo ed un pericolo per il contribuente:- la creazione di questo ente porta in sé un aumento della pressione fiscale, infatti essendo a capitale pubblico ha un costo di gestione (più enti più costi). Se avrà un attivo di bilancio saranno i cittadini con le loro tasse ad averlo realizzato, se avrà un passivo saranno i cittadini con le loro tasse a doverlo risanare. La proprietà è di due "agenzie" pubbliche che, per quanto attiene alle loro riscossioni, sono in esemplare conflitto d'interessi. Esempio pratico dell'aumento della pressione fiscale e del conflitto d'interessi: negli anni passati l'INPS comunicava ad un commerciante che dimenticava il pagamento di una rata, un avviso bonario con la richiesta del saldo e l'aggiunta degli interessi, il tutto prima di provvedere ad azioni onerose per entrambi. Oggi, il contribuente che dimentica il pagamento di una rata si vedrà recapitata dall'Equitalia una cartella di pagamento con l'importo dovuto e l'aggiunta degli interessi (come avveniva prima), ma con l'aggravio dell'aggio di riscossione per l'esattore (circa il 5% dell'importo totale in più, il 9% in caso di ulteriore ritardo). In questo caso il creditore è anche esattore. Vediamo come un ente in conflitto d'interessi (INPS) così facendo aumenta la pressione fiscale su quel cittadino del 5% o più, fino al 100% e oltre.
"Usura di Stato". Cosa accade se il contribuente paga la cartella esattamente un anno dopo:
4% annuo all'ente impositore;
6,8358% annuo interessi di mora;
0,615% annuo all'agente della riscossione (cioè, il 9% sugli interessi di mora, come detto pari al 6,8358% annuo);
totale interessi pari all'11,4508% annuo. Dobbiamo aggiungere la sanzione amministrava del 30% e l'aggio nella misura del 9% per un totale del 50,4508%.
Probabilmente alcuni usurai sono meno onerosi... Se nel frangente Equitalia avrà iscritto un'ipoteca o un fermo amministrativo i costi di accensione e chiusura saranno a carico del debitore e si aggiungeranno al montante, facendo lievitare la spesa totale oltre il 100%. (I costi per le trascrizioni nei registri sono altre tasse da pagare allo Stato). Questo caso evidenzia come nella migliore delle ipotesi, quella della buona fede dell'ente, il cittadino sia comunque taglieggiato; non parliamo di evasori fiscali, ma di contribuenti che hanno dichiarato i propri redditi ed hanno semplicemente saltato un pagamento per errore o per necessità dovuta alla contingenza economica, malattia ecc. I signori del fisco infatti mettono nelle statistiche ed intendono evasori anche quelli che hanno dimenticato una rata o che l'hanno pagata in ritardo, al solo fine di giustificare azioni di recupero immorali e sproporzionate. Sappiamo che molte tasse ed imposte devono essere pagate in anticipo dai contribuenti, significa che lo Stato obbliga alcune categorie ad un prestito forzoso in suo favore. Se non riesco a pagare l'acconto iva (perché non ho denaro da prestare allo stato), al momento in cui avrò incassato la tassa verserò il 50% in più di quanto dovuto. Potrebbe succedere anche che ci sia un errore per dolo o per inerzia, che porti all'iscrizione a ruolo importi non dovuti. Visti i dati sul contenzioso possiamo dire con certezza che nei tre gradi di giudizio il cittadino ha ragione nella maggioranza dei casi. La politica da sempre ha dimostrato pessima capacità di gestione del bene pubblico spendendo molto e male il denaro dei contribuenti, ma anche il denaro che i contribuenti dovranno versare in futuro (debito pubblico). Sappiamo tutti che l'aumento dichiarato della fiscalità generale genera una riduzione dei consensi nei confronti di chi la applica, non appare quindi anomalo che alcune leggi in materia tributaria siano state apportate, dalla classe dirigente, non per ridurre l'evasione come falsamente dichiarato, ma con lo scopo di aumentare le imposte in maniera occulta, vizio peraltro in uso in l'Italia da diverso tempo, (l'iva incorporata nei prezzi, sostituto d'imposta, accise ecc.). La classe politica negli anni ha emanato norme e leggi che diminuiscono fortemente le facoltà di difesa del cittadino contro le richieste economiche sempre maggiori dello Stato nella sua interezza (Regioni, comuni, enti ecc.), costringendo i cittadini a pagare somme non dovute per evitare danni irreparabili al proprio patrimonio.
"Estorsione di Stato". Con la legge di riferimento per la riscossione (art. 17 comma 1 del d.lgs 112/1999) si autorizza l'ente esattore a richiedere maggiori somme comprese tra il 4,65% ed il 9% della somma dovuta. E' da evidenziare che anche l'aggio è considerato una parte integrante della tassa da pagare. L'iscrizione a ruolo consegnata agli agenti esattori Equitalia costituisce titolo esecutivo per procedere alla riscossione, questo è un "privilegio" ed una disparità di trattamento dai normali cittadini, che per vedere un proprio credito diventare esecutivo devono passare dal magistrato per la verifica (terzietà ed imparzialità nel giudizio). Il titolo esecutivo è sufficiente per procedere ad esecuzione forzata sui beni del debitore (ipoteca, fermo amministrativo, pignoramento ecc.), ma nel caso in cui sia Equitalia a procedere contro un contribuente, il credito è solo presunto. Con il D.L. n. 78/2010 convertito con la Legge n. 122/2010 il legislatore ha rafforzato ulteriormente le procedure di riscossione. In sostanza per gli accertamenti che saranno notificati dopo il 1 luglio 2011 non sarà necessaria nemmeno l'iscrizione a ruolo e l'emissione della cartella di pagamento, sarà sufficiente la comunicazione dell'ente impositore. "l'agente della riscossione...omissis... procede ad espropriazione forzata con i poteri, le facoltà e le modalità previste dalle disposizioni che disciplinano la riscossione a mezzo ruolo".
Prevede inoltre, la preclusione alla autocompensazione in presenza di debito su ruoli. Ovvero chi ha dei crediti d'imposta non potrà più compensarli, perderà la possibilità di fruire di un credito in presenza di un debito, aggravando ulteriormente la propria condizione economica. Non viene considerato il fatto che spesso il credito vantato dallo Stato è diventato insostenibile da parte del debitore grazie al meccanismo "usuraio" evidenziato in precedenza. Come avviene nell'usura si rischia di perdere tutto in presenza di un modesto debito lasciato pendente. Ma l'usuraio in questo caso non può essere denunciato. Possiamo dire che è meno rischioso pagare un debito fiscale ricorrendo ad un "usuraio privato" che essere debitori dello "Stato". E' inasprita inoltre la condanna penale e la soglia per la quale si considera "la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte di chi aliena i propri beni con l'intento di sottrarli al fisco". Se il contribuente debitore di tributi (comprese spese, aggio ecc.) ha venduto una casa per pagare i fornitori e non ha più sostanze e beni per il fisco, può essere accusato, lo stesso se ha versato del denaro in un fondo pensione ecc. Chi andrà a comprare un bene del valore superiore ad Euro 3.000 euro + iva, si vedrà chiedere dal negoziante un documento ed il codice fiscale. Il commerciante infatti sarà obbligato a registrare il CF dell'acquirente e a comunicare i dati dell'acquisto all'Agenzia delle Entrate. Un aggravio ingiustificabile di costi per gli esercenti ed una inaccettabile invasione della privacy dei cittadini. Viene inoltre abbassata da 12.500 a 5.000 euro la soglia per l'utilizzo del denaro contante e dei titoli al portatore (assegni bancari e circolari, libretti bancari e postali), con inasprimento delle relative sanzioni. Soglia in palese contraddizione con la norma citata in precedenza; se sono comunque segnalato perché non posso pagare come preferisco?
E' introdotto un nuovo "redditometro" , quando spendi denaro in un determinato periodo è considerato finanziato con redditi "contemporanei", per cui è sufficiente un anno di scostamento per far scattare la verifica. Si dovrà andare in contenzioso se ad esempio: si spenderà molto denaro dopo aver ereditato, se si è venduto un immobile, persino se si guadagna molto in borsa perché i "capital gain" sono tassati alla fonte e non presenti in dichiarazione dei redditi. Il cittadino dovrà rispondere, non dei comportamenti illeciti, ma anche per quelli leciti che all'agenzia delle entrate non risultano. Attraverso il meccanismo innescato col il D.L. n. 78/2010 visto in precedenza, sarà possibile perdere tutto, solo per non aver fatto in tempo a presentare un ricorso, anche nel caso le richieste fiscali siamo completamente inventate. Viene prevista ed incentivata la partecipazione dei Comuni alle attività di accertamento tributario, mediante segnalazioni o tramite la trasmissione di informazioni che possano consentire di individuare fenomeni di evasione fiscale e contributiva, con il riconoscimento agli stessi di una quota pari al 33% delle maggiori somme accertate ed effettivamente riscosse. Dopo quello che abbiamo visto con la truffa degli autovelox ...possiamo aspettarci di tutto.
"Estorsione di Stato". Grazie ai dispositivi di legge in vigore, "l'ente" può iscrivere a ruolo qualsiasi tipo di credito: reale o inventato (ad esempio un credito già pagato o prescritto addirittura inesistente). Un ente che iscrive a ruolo dei crediti falsi li porterà nell'attivo di bilancio, rimandando alle gestioni successive le rettifiche ed i costi, in politica questo è certamente molto comodo.
Consente di spendere più soldi di quelli che sia hanno a disposizione non aumentando la fiscalità dichiarata. Molti cittadini pagano anche quando le richieste sono "pazze". Sono soggetti ad una "estorsione di Stato" in genere lo fanno perché calcolano finanziariamente ciò che più conviene: costo del ricorso, avvocato, tempo necessario a vincere (dai 2 ai 10 anni) rischio di ulteriori sanzioni accessorie ecc. Il ruolo essendo esecutivo è immediatamente esigibile, anche in presenza del ricorso giudiziario.
Non sempre i giudici concedono la sospensiva e quasi mai viene concessa in tempo per evitare l'esecuzione forzata sui beni del debitore (pignoramenti, ipoteche, fermi amministrativi). Quando viene concessa spesso Equitalia non ne tiene conto e procede. Un professionista ha una ditta con fido bancario ed autocarro, prima di vedere vinte le sue ragioni nei tribunali, vedrà il proprio mezzo fermato "con le ganasce fiscali" dovendo noleggiare (non comprare per evitare la stessa sorte) un mezzo uguale e si vedrà richiedere indietro il fido dalla banca dopo l'accensione di un' ipoteca da parte di Equitalia. (E' successo per Euro 3000 non dovuti, ma richiesti da vari enti ). La vittoria giudiziaria non arriverà prima dei 5 anni, le spese che saranno liquidate in sentenza non copriranno nemmeno il costo del legale. Il ricorso porta ad una spesa pari a oltre 5 volte l'importo non dovuto richiesto. Le spese che Equitalia sostiene per le liti: avvocato, sentenza di condanna, cancellazioni, sono a carico della fiscalità generale, quindi in quota allo stesso contribuente cornuto e mazziato. Non parliamo di paradossi, ma di migliaia di casi documentati. Vediamo ora, come nelle circolari interne dell'agenzia delle entrate, si tenda a quantificare la riscossione sul piano quantitativo al solo fine del raggiungimento dei budget economici imposti dalla politica, incentivando comportamenti atti al taglieggiamento del contribuente in favore delle maggiori entrate fiscali. Non recupero dell'evasione, ma mero tentativo di estorsione.
Circolare interna agenzia delle entrate intitolata "PIANIFICAZIONE E CONSUNTIVAZIONE" ...Omissis...Detti budget, assegnati a ciascun Direttore regionale, tengono conto delle risultanze di tale processo e delle compatibilità con l'Atto di indirizzo per il conseguimento degli obiettivi di politica fiscale per gli anni 2011-2013 del Ministro dell'Economia e delle Finanze..." "...Si evidenzia inoltre che per il conseguimento dell'obiettivo monetario complessivo sono determinanti altresì le attività poste in essere per il contrasto dell'evasione da riscossione coattiva (ruoli)."
Vediamo in un'altra circolare come l'agenzia si renda conto che la pretesa tributaria basata sul raggiungimento di budget, porti gli uffici a formulare pretese contributive destituite di fondamento. "Preliminarmente si evidenzia che la riduzione del contenzioso costituisce obiettivo prioritario dell'Agenzia. Tale obiettivo si persegue prima di tutto attraverso il miglioramento della qualità degli atti notificati".
La legge non è uguale per tutti... E' importante soffermare la nostra attenzione su due reati inseriti nel codice penale: Si configura il reato di usura (art. 644 c.p.) quando taluno si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. Il reato di usura è punito con la reclusione. Per la determinazione del tasso di interesse usurario si tiene conto delle commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese, escluse quelle per imposte e tasse, collegate alla erogazione del credito. L'aver inserito "imposte e tasse" nell'art. 644, consente allo Stato di non incorrere nel reato pur se i tassi applicati superano di gran lunga quelli stabiliti dalla legge. Il delitto di estorsione è stato inserito dal legislatore del 1930 nel libro II , titolo XIII, capo I del codice penale che disciplina i delitti contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose o alle persone. Pertanto, in relazione all'articolo 629 c.p. si punisce la condotta di "chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno". L'ente richiede una somma...se non paghi subito... ti ferma la macchina, ti ipoteca la casa, ti fa perdere le garanzie per un fido, ti toglie il denaro dal conto corrente... Il "potere" per mantenere grassi stipendi per sè e per i suoi dirigenti nell'indirizzo della spesa pubblica rastrella le ultime risorse di un paese in crisi, con i sistemi biechi di un malvivente. Modifiche legislative necessarie: correggere le leggi sui ruoli attraverso la preventiva autorizzazione del giudice, prima di procedere con le iscrizioni. Inserire la responsabilità civile dei dirigenti degli uffici che emanano provvedimenti falsi o nulli, che causano costi all'erario e danni ai cittadini. (come avviene per tutti i professionisti: avvocati, commercialisti). Quando il dolo è evidente scatta il reato di estorsione. Interessi e sanzioni non devono superare i tassi di usura, come per tutti i cittadini. In difetto scatta il reato di usura.
ITALIA: RACKET DI STATO
In Italia paghiamo duecento tasse: viaggio tra le più inutili. In trent’anni i tributi tricolori sono raddoppiati. E crescono gli adempimenti: a gennaio quelli relativi a dipendenti e pensionati sono dieci in più del 2017. Vita dura per le piccole e medie imprese: 871 scadenze in un anno. È lo stesso governo a certificare che le imposte statali sono 215. Poi ci sono quelle regionali, provinciali e comunali. Eppure l’85% del gettito è garantito da appena dieci voci. E il resto? Scrive Enrico Marro il 29 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". I partiti si rincorrono nel promettere il taglio delle tasse, ma forse più che fare promesse difficili da mantenere come insegna il passato (ricordate le due aliquote Irpef, 23 e 33%, garantite da Silvio Berlusconi nel Contratto con gli italiani del 2001?) potrebbero concentrarsi in un’azione di semplificazione del sistema fiscale, tanto necessaria quanto possibile. Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti pubblicarono nel 1986 un libro che ebbe successo fin dal titolo: «Le cento tasse degli italiani» (il Mulino editore). Ma 32 anni dopo, nonostante alcune semplificazioni introdotte, il numero di tasse è addirittura aumentato anziché diminuire. Quelle che fanno capo allo Stato attraverso l’Agenzia delle Entrate e l’Agenzia delle Dogane e dei monopoli sono circa 170. Poi ci sono quelle locali, di competenza di Regioni, Province e Comuni, almeno una ventina. Siete impressionati da questo primo numero? Purtroppo il brutto deve ancora venire.
Se 471 tasse in dodici mesi vi sembrano poche ... Fate questo esperimento. Cercate su Internet «Agenzia delle entrate scadenzario fiscale». Si aprirà un motore di ricerca dove mettendo la categoria alla quale appartenete usciranno fuori tutte le date, mese per mese, entro le quali potreste dover adempiere un dovere fiscale o contributivo. Tanto per avere un’idea, per la categoria «lavoratori dipendenti, pensionati e collaboratori», gli adempimenti previsti nei dodici mesi del 2017 sono stati 471. Che diventano ben 871 per gli «imprenditori, artigiani e commercianti», 890 per i «lavoratori autonomi, professionisti titolari di partita Iva», 651 per le «società di persone, società semplici Snc, Sas, studi associati», 885 per le «società di capitali ed enti commerciali, Spa, Srl, Soc. cooperative» e 903 per gli «Istituti di credito, Sim, altri intermediari finanziari». E le cose non sembrano migliorare quest’anno.
Semplificare: mission impossible. Gli adempimenti previsti a gennaio 2018 sono infatti superiori per tutte le categorie di contribuenti rispetto a quelli dello stesso mese del 2017: 37 per dipendenti e pensionati contro i 27 di un anno fa, 68 contro 50 per artigiani e commercianti, 73 contro 55 per i professionisti e così via. In una giungla così, è difficile non commettere qualche passo falso. Basta aprire una semplice partita Iva e il commercialista diventa imprescindibile, altrimenti, alle prese con tutte queste scadenze, quando si ha il tempo di lavorare? Una recente indagine ha calcolato, ad esempio, che per pagare tutti questi numerosi balzelli sono previsti 350 codici tributo! È chiaro che questo numero spropositato di appuntamenti fiscali è figlio proprio del moltiplicarsi negli anni di imposte, tasse e tributi vari. L’elenco completo di quelli centrali è contenuto in documento presentato dallo stesso governo come allegato a un emendamento depositato in Senato al disegno di legge di conversione del decreto fiscale 148 del 16 ottobre scorso. Alla proposta di modifica 7.0.14 volta a riformare le Agenzie fiscali, proposta successivamente ritirata, sono infatti allegati due elenchi (A e B) con la lista di tutte le voci di entrata che fanno capo rispettivamente all’Agenzia delle Entrate e a quella delle Dogane e Monopoli. Si tratta di 146 nel primo caso e di 69 nel secondo. Totale: 215. Ma togliendo le voci relative a condoni, sanatorie, concordati e rottamazioni varie e ad accise e imposte soppresse in passato (come quella sul consumo di caffè o di margarina) si arriva appunto intorno a 170.
Dieci imposte posson bastare...Dentro c’è di tutto. Se una volta c’era la tassa sui frigoriferi negli alberghi oggi, solo per fare qualche esempio, ci sono la «sovraimposta di confine sui fiammiferi», le «tasse di pubblico insegnamento», il «diritto di verifica dei cronotachigrafi Cee». Poi ci sono i balzelli locali: dalle addizionali Irpef regionali e comunali all’imposta di soggiorno, dall’Imu e Tasi all’imposta regionale sulle emissioni sonore degli aerei, dall’Irap alle imposte comunali sulle affissioni, dalla Tari (rifiuti) alla tassa di occupazione dello spazio pubblico (Tosap). In tutto, tra tributi centrali e locali, se non si arriva a 200 poco ci manca. E pensare che, secondo i calcoli della Cgia di Mestre, le imposte che assicurano l’85% di tutto il gettito tributario sono appena dieci. In testa Irpef (33,7%), seguita da Iva (20,5%, Ires (6,5%) e Irap (5,7%). Insomma, semplificare si potrebbe. Forse diminuirebbe un po’ il lavoro per i commercialisti, ma il sistema ci guadagnerebbe. La compliance, in fondo, dipende anche da quanto il Fisco è easy.
Se questa è democrazia…
Riportiamo l’opinione del sociologo storico Antonio Giangrande, autore del saggio “Governopoli” e di tanti saggi dedicati per ogni fazione politica presente in Parlamento.
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori. Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità e la loro riconoscente parte amicale ed estremamente minoritaria.
Se questa è democrazia…
LE TASSE E LA SINISTRA, scrive Nadia Urbinati il 23 luglio 2015 su "La Repubblica". Si diceva anni fa, "non lasciamo la patria alla destra". La competizione tra destra e sinistra riguardava allora la visione di comunità politica. In quel caso, la sinistra democratica sviluppò, grazie anche alla lungimiranza di intellettuali visionari come Jürgen Habarmas, l'idea di "patriottismo costituzionale". La patria non era una comunità identitaria che escludeva e discriminava, ma una comunità politica di condivisione di diritti eguali e di dignità. Si trattò di una grande competizione, che liberò la sinistra dalle maglie strette della classe e la legittimò a governare la società liberale. Oggi lo stesso discorso sembra doversi fare sulla questione delle tasse. Si dice, "non lasciamo la battaglia per meno tasse alla destra". Ovviamente la destra della lotta alle tasse non è quella comunitaria che voleva monopolizzare la patria. È invece quella che mette al centro l'individuo in funzione anti-sociale. Competere con una destra iper-liberale non è lo stesso che competere con una destra comunitaria e nazionalista. Dalla fine degli anni '70 la rinascita neoliberale o liberista è avvenuta sul terreno della contestazione della spesa sociale e quindi nel nome di "meno stato più mercato" — la premessa per giustificare il taglio delle tasse. La filosofia di Margaret Thatcher fu in questo rivoluzionaria e occupò il Palazzo d'Inverno per mettere in pratica il suo programma organico di smantellamento del welfare state: deregolamentando e privatizzando. La ridefinizione del pubblico fu tutt'uno con la politica di taglio delle tasse. Alla base di quella riscossa vi era una ridefinizione generale degli obblighi che gli individui riconoscono gli uni agli altri; vi era una filosofia dell'individuo che considerava gli altri o come ostacoli o come agenti competitivi e la società come un'astrazione, se identificata con qualcosa di più di un'aggregazione di egoisti competitori votati al massimo profitto con il minimo sforzo. Dicendo che non esiste la società ma esistono solo gli individui, la Iron Lady intendeva dire che nessuno ha obblighi verso gli altri mentre tutti hanno solo diritti e, in relazioni a questi, obblighi legali. Al centro vi era il diritto al perseguimento della felicità individuale e quindi alla conquista dei mezzi materiali per la realizzazione dei propri piani di vita. Il liberalismo economico aveva una radicale connotazione individualistica, e questo lo rendeva forte nell'affermazione dei diritti civili, nella convinzione che questi avrebbero sgretolato la cultura autoritaria e paternalista ed espanso l'orizzonte di possibilità per il singolo. Non tutto quel che il liberalismo economico proponeva era dunque negativo. Nella mezza verità liberista c'era un granello di verità, quello del valore propulsivo dei diritti individuali. Fu del resto questa sua interna complessità a rendere il discorso liberista egemonico, capace di conquistare consensi anche a sinistra. La quale, nell'era liberista, ha dovuto rivedere parte del suo armamentario ideologico per riuscire a contestare la destra sul terreno della redistribuzione e della giustizia sociale, accogliendo invece il messaggio liberatorio e liberante dei diritti, soprattutto nella sfera della morale soggettiva e dei comportamenti individuali. Si trattava quindi non di rifiutare l'individualismo, ma di interpretarlo in modo da separare la questione morale e giuridica dei diritti da quella sociale delle opportunità o di giustizia redistributiva. Non lasciare la questione della diminuzione della pressione fiscale alla destra deve essere inscritto in questa prospettiva — senza sposare l'individualismo egoistico ma interpretando l'individualismo in chiave democratica, come ricettivo rispetto agli altri, cooperatore e disposto a condividere costi e benefici in cambio di solidarietà sociale e contenimento del conflitto. A questa visione emancipatrice dell'individualismo corrisponde una visione di eguaglianza che è proporzionale, e quindi progressiva: a questa visione la politica fiscale dovrebbe essere connessa, come del resto propone la nostra Costituzione. Una visione che respinge la logica liberista della flat tax la quale tratta tutti indistintamente come identici, e che è attenta alle condizioni delle singole persone, per cui chi più ha più contribuisce, non tanto o soltanto perché questo è quanto l'etica della solidarietà chiede, ma anche perché chi più ha da perdere chiede anche più in termini di protezione dei diritti alla società e allo Stato. Progressività e proporzionalità sono le coordinate di una politica redistributiva che riesce a tagliare le tasse proprio perché vuole fare giustizia della pressione sproporzionata e ingiusta. Non tutte le prime case sono eguali nel valore e negli oneri che impongono alla società — trattarle come identiche è una semplificazione molto ingiusta. La politica fiscale è quindi una straordinaria opportunità per marcare il territorio ideologico tra destra e sinistra, tra un individualismo radicale che racconta la favola del trickle down (detassiamo chi più ha affinché investa e porti giovamento a chi meno ha) e un individualismo che ha invece un profondo rispetto per la specificità delle persone, di quel che hanno e producono, che sa essere proporzionale nel valutare obblighi e oneri, che insomma pensa alla società come a un coordinamento di diversi, una grande impresa cooperativa nella quale gli individui non sono identici benché eguali nei diritti.
A COSA SERVONO DAVVERO LE TASSE, scrive Vincenzo Visco il 21 settembre 2015 su "La Repubblica". CARO direttore, un dibattito alquanto confuso, e in cui sembra assente ogni consapevolezza storica e culturale, si sta svolgendo sul problema delle "tasse". Si è detto e scritto che la sinistra italiana rappresenta il "partito delle tasse", orientato al "tax and spend", e cioè allo spreco e alla persecuzione dei contribuenti. Ma si tratta ovviamente di una deformazione caricaturale e polemica di questioni piuttosto serie. Infatti la questione fiscale è stata una discriminante fondamentale della contrapposizione tra destra e sinistra, liberali e socialisti (e liberal-democratici), tra liberisti e keynesiani, capitalisti e sindacati, nell'intero corso del ‘900, e lo è ancora. Del resto, se si guarda agli Stati Uniti, Obama è attaccato dai repubblicani del tea-party proprio sulle tasse; ai suoi tempi il labour di Tony Blair era contestato dai conservatori per lo stesso motivo, ed in effetti quei governi aumentarono la pressione fiscale in Inghilterra di un paio di punti di Pil. La contrapposizione riguarda la funzione pubblica nell'economia, e quindi soprattutto il sistema di welfare: la sinistra ha promosso il welfare, lo sostiene e lo vuole finanziare, e ritiene che debba essere gestito direttamente dallo Stato, e per questo servono le tasse. La destra è molto più tiepida: preferisce un welfare affidato al mercato col sostegno indiretto dello Stato, (istruzione privata, sanità privata, fondi pensione) e talvolta è semplicemente contraria.
La sinistra ritiene che una società coesa grazie al welfare sia più efficiente e produttiva per effetto della riduzione dei rischi individuali. La destra ritiene che se si riducono le tasse e la spesa si responsabilizzano gli individui che sono spinti ad accrescere gli sforzi produttivi. Per la sinistra l'eguaglianza è un obiettivo importante, ed essa è consapevole che le tasse in quanto tali non sono tecnicamente in grado di produrre un effetto perequativo rilevante, mentre un welfare ben costruito è fondamentale per la riduzione delle diseguaglianze: sono infatti le spese per la istruzione, la sanità, la previdenza, il sostegno nei periodi di disoccupazione e per l'assistenza ad assicurare l'effetto redistributivo della finanza pubblica.
Per la destra, invece, le diseguaglianze che si creano sul mercato riflettono in buona misura le differenze di produttività che esistono nel mercato stesso, per cui esse sono giustificabili, anzi funzionali allo sviluppo (salvo la tutela della povertà estrema, per cui è comunque preferibile per la destra il ricorso a meccanismi di elargizione volontaria (di natura caritatevole) fiscalmente incentivati.
Per la sinistra è opportuno che il sistema tributario sia "informato a criteri di progressività", e quindi occorre tassare più i ricchi che i poveri, più i patrimoni che i redditi, più i capitali che il lavoro, più il reddito che il consumo. In tale contesto la sinistra è storicamente favorevole all'imposta progressiva. Per la destra valgono principi opposti: la tassazione non deve "distorcere" il funzionamento dei mercati, e anzi il sistema fiscale deve agevolare l'attività economica, anche se così facendo si aumentano le diseguaglianze; infatti se i ricchi stanno bene, alla fine anche i poveri ne trarranno benefici. La progressività delle imposte va eliminata a favore di imposte "piatte" (proporzionali). In ogni caso la sinistra si batte per un sistema fiscale orientato a chiedere un contributo maggiore ai più ricchi. Per la destra, invece, poichè sono i poveri i principali beneficiari del welfare, è bene che anche essi si facciano carico in misura rilevante del suo finanziamento, e quindi cercano sistematicamente di ridurre il carico fiscale su alcuni cespiti (redditi di capitale, patrimoni, profitti) e di trasferirlo su altri (consumi, redditi da lavoro).
La sinistra è contro l'evasione fiscale. La destra, almeno in Italia, spesso la tollera, o addirittura la giustifica e la incentiva. E in verità nel dibattito italiano l'evasione fiscale è il vero convitato di pietra, dal momento che la polemica contro le tasse spesso nasconde la difesa di uno status quo ormai anacronistico, in cui esiste una sproporzione molto rilevante tra il prelievo dei lavoratori dipendenti e degli altri contribuenti.
Per la destra la riduzione delle tasse aumenta comunque il grado di libertà di un Paese. Per la sinistra la libertà (dal bisogno) e la dignità delle persone dipendono dal lavoro e dal welfare e quindi dalla spesa pubblica (e dalle tasse).
La sinistra sa che l'evasione fiscale e la corruzione vanno di pari passo e che non ci può essere corruzione senza che prima (e dopo) ci sia evasione fiscale. E quindi desidererebbe il massimo rigore su ambedue gli argomenti. La destra è invece molto più tollerante nei confronti dei reati dei colletti bianchi.
La sinistra sa che l'evasione dei ricchi e delle grandi imprese viene chiamata elusione o abuso del diritto, e vorrebbe equiparare le conseguenze dei due comportamenti. Per la destra l'elusione è un comportamento legittimo, anzi doveroso… Ecco nel dibattito in corso queste semplici considerazioni andrebbero tenute presenti e valutate molto attentamente, in quanto questo è un terreno sul quale le posizioni della destra e della sinistra sono da sempre difficilmente conciliabili. Certo la destra ha accettato l'esistenza del welfare (anche se aspira a ridimensionarlo), e la sinistra non pone obiezioni al principio che gli eventuali sprechi nella spesa pubblica vadano eliminati, e sa che è bene non esagerare con le tasse perché di tasse si può anche morire; la sinistra peraltro è anche consapevole della esigenza di mantenere in equilibrio i conti pubblici e di ridurre il debito (cosa che almeno in Italia la destra non sembra in grado di fare). Tuttavia la convergenza al centro dei partiti politici alla ricerca di voti non potrà mai superare i limiti posti dalla cultura, dagli interessi, dalla ideologia, e dalla storia in cui gli elettori di destra e di sinistra si riconoscono. Se su questo terreno si esagera o si commettono errori si possono perdere molti consensi da una parte e dall'altra. L'autore è stato ministro del Finanze del Tesoro e del Bilancio, nei governi di Sinistra.
Quando si parla di proporzionalità, che io condivido, come sistema fiscale, si deve tener conto di un fattore: i ricchi in comune con i poveri hanno l’aliquota di calcolo dell’imposta, ma non la somma pagata. I ricchi pagano sempre di più, perché guadagnano di più.
Quando si parla di progressività si intende l’espropriazione proletaria della ricchezza da parte dei socialisti a danno dei ricchi per mantenere la mastodontica struttura burocratica parassitaria. In questo modo i ricchi non solo pagano in più la loro parte proporzionale di reddito, ma a loro danno aumenta progressivamente l’imposta a loro applicata.
Imposte: proporzionali, progressive, regressive, scrive "portaldiritto.com". La tipologia di imposta che ogni Stato decide di immettere in relazione alla ricchezza dei propri cittadini, può essere distinta in imposta fissa, imposta proporzionale, imposta progressiva e regressiva. Questa distinzione viene effettuata a seconda del tipo di applicazione di aliquota e della suddivisione del bene imponibile rispetto ad una quota di applicazione della stessa.
Imposta Proporzionale. Si parla di imposta proporzionale nel caso in cui l'ammontare dell'imposta cresce in relazione direttamente proporzionale all'aumentare dell'imponibile. In questo caso l'aliquota risulta essere costante. Ad esempio, un’aliquota del 20% su un imponibile di 100 mila euro significa che il soggetto deve pagare 20 mila euro di imposta. Questo tipo di imposta si applica all’imposta di registro che caratterizza gli atti di acquisto di beni immobili tra privati, dove l’aliquota è costante.
Imposta progressiva. Si parla di imposta progressiva quando l'aliquota media aumenta in relazione più che proporzionale rispetto all'aumentare dell'imponibile, come accade per l'IRPEF. L'imposta progressiva si suddivide in ulteriori quattro tipi:
per detrazione: quando o si va a colpire l'imponibile con un'aliquota fissa, dopo aver però sottratto dall'aliquota un ammontare stabilito; oppure si va a detrarre dall'imposta una cifra determinata, ottenuta dall'applicazione dell'aliquota nominale al reddito imponibile;
per classi: in questo caso l'aliquota costante cresce a seconda della classe di reddito cui è applicata;
continua: l'aliquota aumenta in maniera costante rispetto all'aumentare della base imponibile; in Italia questo tipo di progressività è durato fino al 1973, dopodichè è stato abbandonato per le difficoltà di calcolo e applicazione;
per scaglioni: in questo caso, che è quello dell'IRPEF, per ogni classe l'imponibile viene suddiviso in diversi scaglioni, ognuno dei quali viene fatto corrispondere ad una aliquota crescente al crescere degli scaglioni.
Il principio di progressività. Tale principio è contemplato dall’art. 53 della Costituzione italiana e si applica al sistema tributario nel suo complesso, e non ai singoli tributi; ciò significa che ogni tributo può rifarsi ad un criterio diverso. Il principio di progressività viene applicato affinché lo Stato riceva i mezzi finanziari per la sua gestione e, soprattutto, per redistribuire la ricchezza tra la popolazione in termini di servizi per la collettività. Infatti, questa affermazione si collega al principio dell’utilità decrescente della ricchezza: il soggetto che possiede un reddito minimo sufficiente per soddisfare i bisogni primari, contribuirà con una piccola percentuale; al contrario, chi possiede un reddito alto può partecipare alla spesa pubblica con un’imposta di maggior rilievo, senza che questa vada ad incidere sul suo tenore di vita. Con questa regola, si cerca di ridurre la distanza tra i ricchi e i poveri e la concentrazione della ricchezza nelle mani dei primi.
Imposta regressiva. Si parla di imposta regressiva quando l'aliquota media non cresce in maniera proporzionale all'imponibile, ma decresce. Ad esempio, su un imponibile di 100 mila euro l’imposta ha un’aliquota del 10%, mentre superati i 100 mila euro l’aliquota è del 9%, e così via. Questo esempio ci fa capire che più ricchezza si possiede, minore sarà il valore dell’imposta.
Il principio della regressività. Il principio che caratterizza l’imposta regressiva viene utilizzato per giustificare i casi in cui i contribuenti più ricchi non utilizzano alcuni beni o servizi pubblici. In realtà, questo principio contrasta con il principio di redistribuzione e quello di equità: tutti i cittadini hanno l’obbligo di contribuire al benessere della collettività in base alle proprie disponibilità economiche.
Aspetti generali dell’imposta. L’art. 53 della Costituzione afferma che “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Questa può essere valutata in base al reddito e al patrimonio, sui quali il soggetto dovrà pagare l’imposta. Gli elementi che la compongono sono:
il presupposto: ad esempio, il possesso di un bene o di un reddito;
la base imponibile: la ricchezza su cui si applica l’imposta;
l’aliquota: rapporto tra l’ammontare dell’imposta e l’imponibile, espresso in percentuale.
FISCO E DISUGUAGLIANZE. Il caso della Repubblica di Venezia: i poveri pagavano più tasse dei ricchi. Il confronto in percentuale: intorno al 1550 nella città veneta l’aliquota effettiva sul 5% più ricco era pari a circa il 3,9%, mentre quella subita dal 10% più povero era del 6%, scrive Guido Alfani il 23 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Le proposte di riforma fiscale sono al centro della campagna elettorale. In particolare, si discute molto di «flat tax». Con un simile sistema e in assenza di correttivi (che pure potrebbero essere introdotti), chi guadagna di più continua a pagare più tasse, ma in proporzione tutti contribuiscono egualmente. La differenza fondamentale con il sistema attuale non risiede nella pressione fiscale, che dipende dal livello a cui viene posta l’aliquota unica della flat tax. Invece, il sistema a cui siamo abituati, con scaglioni di reddito e aliquote crescenti, è «progressivo» e non proporzionale: i redditi più elevati contribuiscono maggiormente sia in valore assoluto, sia in proporzione. È possibile collegare il dibattito sulla riforma fiscale a quello sulla crescita della disuguaglianza, certificata dal rapporto Oxfam del 22 gennaio. Oggi in Italia il 5% più ricco della popolazione detiene il 43% della ricchezza complessiva. Perché questo è rilevante per i progetti di riforma fiscale? Perché, come argomentato da molti studiosi, le riforme fiscali degli anni ’80, a partire da quelle volute dal presidente americano Reagan, favorirono la crescita della disuguaglianza, specialmente nei Paesi anglosassoni. Una caratteristica di tali riforme, che pure non si spinsero fino all’introduzione della flat tax, fu la semplificazione del sistema delle aliquote e la collegata riduzione della progressività fiscale. Proviamo a guardare alla questione in modo nuovo, con dati relativi alla storia di uno dei principali Stati italiani preunitari, la Repubblica di Venezia. I sistemi fiscali dell’età preindustriale avevano una caratteristica oggi inconsueta: erano «regressivi», ovvero in proporzione i ricchi pagavano meno dei poveri. La società lo tollerava perché in valore assoluto, i ricchi contribuivano comunque molto di più. Secondo le stime elaborate nell’ambito del progetto SMITE – Social Mobility and Inequality across Italy and Europe, 1300-1800, finanziato dallo European Research Council, attorno al 1550, a fronte di una pressione fiscale complessiva del 5% - bassissima se confrontata ai livelli attuali, ma piuttosto elevata per l’epoca – , per effetto della struttura del sistema fiscale e delle esenzioni di cui godeva una parte dei maggiori patrimoni l’aliquota effettiva gravante sul 5% più ricco era pari a circa il 3,9%, mentre quella subita dal 10% più povero era del 6%. Visto che il 5% più ricco deteneva il 50% della ricchezza, pagava anche quasi il 47% delle tasse complessive, godendo però di uno «sconto» significativo. Nei due secoli successivi, la pressione fiscale nella Repubblica di Venezia aumentò notevolmente, come ovunque in Europa. Attorno al 1750 era pari all’8,5%. Nel medesimo anno, la quota di ricchezza del 5% più ricco era cresciuta al 60%. Il sistema fiscale, rimasto nettamente regressivo a vantaggio dei più ricchi, aveva trasformato la maggiore pressione fiscale in un aumento della disuguaglianza. Circostanza interessante è che a farne le spese non furono principalmente i più poveri – i quali già in partenza non possedevano beni e guadagnavano salari prossimi alla mera sussistenza – bensì quello che, nel linguaggio attuale, potremmo definire il «ceto medio», su cui finì per gravare la parte di tassazione «risparmiata» alle elite economiche. Per quanto la situazione attuale sia molto diversa da quella dell’Italia preindustriale (anche se la concentrazione della ricchezza è solo poco inferiore a quella del 1550!), l’evidenza storica suggerisce che sarebbe utile, per un dibattito proficuo sulle opzioni di riforma fiscale, chiarire fin da subito quale idea di società le sottende. L’introduzione di una flat tax al posto di un sistema ad aliquote crescenti, oltre a suscitare parecchi interrogativi riguardo alla sua sostenibilità finanziaria, riduce la progressività dell’imposizione. Quindi, favorisce la crescita della disuguaglianza. Si tratta di un effetto indesiderato, e sono previsti dei correttivi per evitarlo? Oppure si ritiene che la disuguaglianza non costituisca, oggi, un problema reale?
Il fisco è amico solo dei ricchi. Dal 2008 i governi italiani hanno ridotto le tasse sui profitti delle imprese e sui redditi finanziari. Mentre sono aumentate quelle sul lavoro. E ora la destra vuole rispolverare la flat tax, nuovo regalo ai benestanti, scrivono Alfredo Faieta e Luca Piana il 22 gennaio 2018 su "L'Espresso". Chiunque voglia seguire la campagna per le elezioni politiche di marzo, dovrebbe investire un po’ di tempo per comprendere che cosa sta realmente accadendo in Italia su uno dei campi più battagliati nello scontro fra i partiti: le tasse. Avete presente lo spritz? Sapete che per prepararlo si può usare l’Aperol, o magari il Campari. Entrambi questi aperitivi sono prodotti da una grande azienda milanese, la Davide Campari, un colosso che negli ultimi anni ha saputo affermarsi in tutto il mondo, triplicare i dipendenti, aumentare di dieci volte il valore dei titoli in Borsa. Un’azienda, insomma, che è riuscita a cavalcare alla grande gli effetti della globalizzazione. Se guardate il bilancio dei primi sei mesi del 2017, scoprirete un dettaglio interessante. Nel periodo in questione, i profitti lordi e quelli al netto delle imposte coincidono: 108 milioni di euro. Nelle aziende il calcolo delle tasse non è roba semplice, e i numeri dei bilanci vanno maneggiati con cautela. Non si va troppo lontano dal vero, però, se si dice che la Campari, nel primo semestre del 2017 non ha dovuto contabilizzare nemmeno un euro di tasse sui profitti. Non c’è niente di illegale, naturalmente. Una delle cause della novità sta in un accordo stretto con l’Agenzia delle Entrate su come contabilizzare i benefici fiscali (passati e presenti) del “patent box”, una delle agevolazioni previste dalle normative che, in questi anni, stanno riducendo in modo sostanziale le imposte sui profitti delle aziende. Tenendo a mente questo fatto, provate ora a considerare gli slogan della campagna elettorale. Uno dei bersagli preferiti dai politici è l’elevato livello delle tasse, sia per le persone che per le imprese. Ci sono motivazioni solide in questi attacchi: l’Italia è il settimo Paese d’Europa per la pressione fiscale più alta. Il fisco assorbe il 42,9 per cento del Pil, meno di Francia, Belgio e delle nazioni scandinave, più della Germania, che si ferma al 40,4 per cento ma, soprattutto, spende meglio le risorse dei contribuenti. Ecco perché i leader politici battono sul fisco: sanno che il nervo degli italiani è scoperto da sempre, e che la crisi lo ha reso ancor più sensibile. Così, sull’onda della riforma avviata negli Stati Uniti da Donald Trump, che ha deciso di abbassare le imposte sui profitti delle imprese e sui guadagni delle persone più ricche, spopola anche da noi l’idea di introdurre la cosiddetta flat-tax, un’aliquota piatta, molto bassa e uguale per tutti, per tassare entrambi i tipi di reddito, personali e aziendali. Così, se dopo le elezioni il presidente Sergio Mattarella decidesse di credere agli slogan della campagna elettorale, gli basterebbe puntare tutto su una “flat coalition” per individuare la maggioranza. Silvio Berlusconi parla di flat-tax un giorno sì e l’altro pure, Matteo Salvini la cita con la ripetitività di un martello pneumatico, il Movimento animalista di Michela Vittoria Brambilla l’ha messa in programma. Il più esplicito nel dichiarare la ratio pro-ricchi della rivoluzione fiscale è stato però Stefano Parisi, fondatore di Energie per l’Italia: «L’Italia ha bisogno di meno progressività nelle tasse e di un sistema fiscale nuovo, che promuova ricchezza e benessere». E se Forza Italia, Lega, animalisti e energici parisiani non bastassero per raggiungere la maggioranza? Chissà che alla “flat coalition” non si aggiunga il Movimento 5 Stelle. Il candidato premier Luigi Di Maio ha fatto promesse a 360 gradi, annunciando «una drastica riduzione fiscale a favore delle imprese», «l’abolizione dell’Irap» e «la semplificazione del regime Irpef». Da lì alla flat-tax, in effetti, la differenza non sembra molta. E nel movimento l’aliquota unica piace certamente, come testimonia Massimo Colomban, imprenditore molto ascoltato da Davide Casaleggio, che l’ha inserita tra le idee «centrali e vitali» con cui superare quella che lui stesso ha definito «la sterile opposizione» dei Cinque Stelle. Nel quadro dipinto dai politici di un fisco che strangola l’Italia intera, tuttavia, il caso della Campari - uno fra i tanti, come vedremo - è un elemento dissonante, che svela come la realtà sia in parte diversa da quella che si vorrebbe rappresentare. In questi anni, infatti, la distribuzione del peso delle tasse è cambiata in misura considerevole. Lo mostra il confronto tra il gettito di alcune grandi imposte nel 2016 e nel 2008, l’anno in cui è scoppiata la crisi. Nel 2008, tra Ires e Irap le imprese avevano pagato imposte sui profitti per 79,9 miliardi. Nel 2016 il gettito di quelle due stesse imposte è sceso invece a 51,1 miliardi, ovvero 28 miliardi in meno di otto anni prima. Tra le voci dello stesso periodo di tempo sono al contrario aumentate di più, ci sono numerose tasse che pesano sulle famiglie e c’è soprattutto l’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche. Se si mette insieme il gettito di quella principale, che va allo Stato, con le addizionali versate a Regioni e Comuni, negli otto anni in questione l’aumento è stato di 11,7 miliardi, per un totale di 183,3 miliardi. In sintesi: le imprese hanno ridotto il loro contributo al sostentamento delle spese dello Stato; i cittadini l’hanno aumentato. In linea di principio non c’è nulla di sbagliato in uno spostamento degli equilibri come quello fotografato da queste cifre. Il prelievo fiscale sui profitti è una voce che incide sugli investimenti che gli imprenditori sono disposti a fare, e gli investimenti portano lavoro. Allo stesso tempo, però, addossare ai redditi da lavoro gran parte del compito di alimentare il gettito fiscale necessario per tenere in piedi lo Stato ha ripercussioni che non possono essere ignorate. La prima è che il costo del lavoro aumenta in maniera considerevole, danneggiando sia gli imprenditori che i lavoratori. In Italia, stando ai calcoli dell’Ocse, tasse e contributi si mangiano il 47,8 per cento del costo aziendale di un lavoratore. C’è chi sta peggio di noi (la Germania è al 49,4, la Francia al 48,1) ma tra i 35 Paesi dell’Ocse la media è più bassa, il 36 per cento. Molto meglio dell’Italia fanno la Spagna (39,5), il Giappone, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, tutti poco sopra il 30 per cento.
La seconda conseguenza è ancora più subdola, e riguarda l’ingiustizia sociale. Anche se il fenomeno è poco misurato, numerosi esperti concordano nel dire che tante scelte politiche recenti hanno contribuito a ridurre la progressività dell’Irpef. Che cos’è? La Costituzione, articolo 53, la definisce così: «Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Tradotto: i più ricchi devono contribuire con una quota più elevata del loro reddito, i più poveri con una parte inferiore, in modo da attenuare e rendere sopportabili le differenze sociali. Ebbene: negli ultimi anni la progressività dell’Irpef - che i fautori della flat-tax vorrebbero ridurre - ha già cominciato a sfaldarsi. Vedremo più avanti le misure che hanno assegnato vantaggi ai contribuenti a più alto reddito, a scapito dei più poveri. Questo in un Paese come il nostro dove l’evasione di massa di alcune categorie fa sì che gran parte del peso dell’imposta sui redditi ricada sui dipendenti e sui pensionati. Prima, però, è importante chiarire un fatto: il crollo di 28 miliardi di euro del gettito subito dalle imposte sui profitti delle società negli ultimi otto anni è solo in parte dovuto alla crisi. In parole semplici: non è stata la diminuzione dei guadagni a produrre un minor gettito; a scendere è stata la percentuale dei profitti catturata dalle imposte. Lo certificano i dati elaborati dall’Area Studi di Mediobanca, riportati nella figure di queste pagine. Nel 2016 la quota dei profitti delle grandi imprese italiane finita al fisco è scesa al 22,7 per cento, dal 28,6 per cento di media nel periodo 2009-2013. Pure nelle industrie di medie dimensioni il calo è stato rilevante, anche se si partiva da livelli più alti: nel 2016 il cosiddetto “tax rate” è diminuito al 31,7 per cento, rispetto a una media del 38,4 nel quadriennio 2009-2013. Per andare incontro alle richieste degli imprenditori, infatti, i vari governi che si sono susseguiti - da Enrico Letta a Matteo Renzi a Paolo Gentiloni - sono intervenuti in diversi modi. Hanno ridotto le aliquote di Irap e Ires, hanno ristretto la base imponibile, hanno introdotto una serie di misure per favorire determinati fattori, come gli investimenti. Le imprese hanno subito sfruttato le opportunità. Carpe diem, dicevano i latini: cogli l’attimo, che potrebbe finire presto. Così hanno fatto, ad esempio, coloro che si sono avvalsi della facoltà di sottoscrivere con l’Agenzia delle Entrate un accordo di “patent box”, come la Campari dell’esempio iniziale. Permette di dedurre dall’Ires il 50 per cento dei redditi prodotti con l’uso di software, brevetti, know-how, disegni originali. L’ha fatto la Moncler, arcinota per i suoi piumini, che ha siglato un patto grazie al quale risparmierà circa 34 milioni solo sulle imposte relative al triennio 2015-2017. Ma si sono mossi in tanti sullo stesso sentiero, la Pirelli, il re del cachemire Brunello Cucinelli, la griffe fiorentina Salvatore Ferragamo, il gigante mondiale degli occhiali Luxottica, che prima di spostare la sede a Parigi (si fonderà con la francese Essilor) ha sfruttato i benefici di questa agevolazione, siglando un patto con l’Agenzia che consentirà di risparmiare 100 milioni delle imposte dovute nel triennio 2015-17. Un’altra agevolazione che ha avuto un grande successo è il cosiddetto “iper ammortamento”, cui possono accedere le aziende che investono in macchinari con un alto livello di tecnologia, necessari per andare verso i sistemi produttivi dell’Industria 4.0. Poi c’è l’Ace, che agevola le società che rafforzano il patrimonio, non distribuendo i guadagni ai soci. Ha consentito, ad esempio, alla Lavazza, uno dei marchi di caffè made in Italy più noti, di abbattere di 11,9 milioni l’Ires contabilizzata nel 2016.
Qui si può intuire motivo di una delle argomentazioni più utilizzate dai propugnatori della flat-tax. Le norme fiscali sono ormai talmente frastagliate da aver generato «un sistema di imposte speciali plurime, frutto di stratificazioni normative caotiche che attuano una discriminazione qualitativa a rovescio», ha scritto il tributarista Dario Stevanato, autore del libro “Dalla crisi dell’Irpef alla flat tax” (il Mulino), che della tassa piatta è uno dei sostenitori nel mondo accademico. La sua idea, ripresa dai partiti di centrodestra con la vaghezza tipica delle campagne elettorali, è fissare anche per l’Irpef - l’imposta sui redditi delle persone - un’unica aliquota, molto bassa, e di strutturare un sistema di deduzioni per i poveri e le famiglie numerose. Un modo per rendere presentabile una semplificazione del sistema attuale che, è indubbio, regalerebbe benefici più consistenti soprattutto ai ricchi. Va detto, in effetti, che anche l’Irpef è considerata dagli addetti ai lavori uno dei grandi malati del sistema fiscale. Sulla carta, oggi, è l’imposta più progressiva di tutte. Esistono cinque scaglioni di reddito, all’interno dei quali si pagano aliquote crescenti. Sotto i 15 mila euro l’anno - lo scaglione più basso - il prelievo è del 23 per cento; sopra i 75 mila euro - quello più alto - il prelievo è del 43. In origine, il tetto era molto più elevato, fino al 72 per cento, poi è stato via via ridotto, e già questo taglio dai sostenitori della progressività è considerato una ferita, perché c’è grande differenza tra guadagnare 80 mila euro l’anno o un milione. Ma il problema è più ampio. La progressività per esempio è molto limitata, se non nulla, già per le addizionali applicate all’Irpef da Regioni e Comuni, che dal 2008 al 2016 hanno visto aumentare in misura notevole il loro gettito, da 11,1 a ben 16,5 miliardi. Ma non basta. Se da sempre i proventi delle attività finanziarie sono tassati a parte, con aliquote più basse, negli ultimi anni molte altre fonti di reddito sono state escluse dall’Irpef, e assoggettate a trattenute più lievi, non progressive. Ci sono i profitti reinvestiti dagli imprenditori individuali; i redditi degli appartamenti dati in affitto, ai quali viene applicata una “cedolare secca” del 21 per cento; i redditi agricoli; e infine, per i dipendenti, i benefit legati al “welfare aziendale”, detassati dal 2017, nonché i premi di produttività.
Uno studio realizzato da Stefano Boscolo e pubblicato dal Centro di analisi delle politiche pubbliche (Capp) ha analizzato gli effetti di questi provvedimenti sul gettito fiscale, arrivando a conclusioni interessanti. Se tutti questi redditi fossero tassati con la normale Irpef, i beneficiari pagherebbero imposte per 9,5 miliardi di euro in più l’anno. A chi va questo “regalo”? Soprattutto alle categorie benestanti, imprenditori e liberi professionisti, famiglie in cui la persona con il reddito principale ha tra i 40 e i 54 anni, i laureati, i residenti al nord, i single. Il risparmio garantito in termini di minori imposte pagate è inesistente o vale pochi euro l’anno per il 50 per cento delle famiglie più povere, suddivise in termini di reddito. Diventa consistente, tra i mille e i 2.000 euro l’anno, solo per il 10 per cento delle famiglie più ricche. Conclude Boscolo: «Il grado di progressività del sistema complessivo di prelievo sui redditi sta sicuramente riducendosi e la tendenza non sembra arrestarsi». Già oggi, dunque, il fisco in Italia è sempre più ingiusto. I sostenitori della flat-tax ne traggono la conseguenza che solo una riforma radicale potrebbe aggiustarlo e renderlo meno penalizzante per i lavoratori. Mentre tanti redditi finanziari sono tassati nei modi più diversi e frastagliati, ha scritto Dario Stevanato nel suo blog, i redditi da lavoro sono i soli a subire «un’imposta speciale progressiva» come l’Irpef attuale, «che tassa pesantemente e in modo progressivo quelli medio-bassi, e in modo proporzionale quelli elevati». Stevanato, che insegna diritto tributario a Trieste, sostiene che ormai il sistema è così compromesso che soltanto un’unica aliquota, ovviamente piatta, ripristinerebbe l’equità, tassando in modo uniforme tutti i redditi, quelli finanziari e quelli da lavoro.
Dove sta il problema? Ce ne sono diversi, come vari studiosi hanno fatto emergere in questi mesi. Vincenzo Visco, ministro delle Finanze nei governi Prodi, ha scritto che l’idea di tassare poco i redditi elevati riflette un pregiudizio, e cioè che siano sempre meritati da chi li percepisce, frutto di capacità e merito: «La realtà ci mostra ogni giorno che gli alti guadagni di una minoranza sono spesso il frutto di posizioni di monopolio, di rendite, o di estrazione artificiale di valore». La progressività serve anche ad attenuare queste ingiustizie, in un mondo in cui la crescita della disuguaglianza è un problema riconosciuto, ha sostenuto Visco, secondo il quale la strada da percorrere per ritagliarsi spazi di bilancio passa per la lotta all’evasione. Il secondo problema è quello delle risorse. Anche ammesso che la politica riesca a riformare da zero il sistema fiscale, dando tutte quelle tutele che i teorici alla Stevanato ritengono necessario per non trasformare la flat-tax in un regalo ai ricchi - l’esenzione universale per i redditi minimi; un sistema di sussidi per quelli più bassi e addirittura un trasferimento di risorse per chi non ha alcuna forma di entrata; una feroce lotta all’evasione - ci sarebbe comunque una forte perdita di gettito. Qui le cifre ballano paurosamente. Berlusconi sostiene che la flat-tax farebbe emergere il nero, e si sosterrebbe da sola, Stevanato ammette una perdita di gettito che quantifica in 25-30 miliardi, per altri l’effetto sarebbe ben più consistente.
Ecco il punto: anche se i partiti della “flat coalition” presentano la proposta come rivoluzionaria, in realtà molti di loro - Forza Italia, la Lega - erano già al governo nel 2003, quando l’allora ministro Giulio Tremonti la fece addirittura approvare per legge. Prevedeva due sole aliquote, il 23 per cento fino a 100 mila euro di reddito e il 33 per cento sopra. Nessuno riuscì ad attuarla, perché prevedeva una perdita di gettito calcolata a quei tempi in 20-22 miliardi, anche meno delle previsioni più ottimistiche di oggi (Berlusconi escluso). Un fatto da ricordare, mentre la campagna elettorale riempie le orecchie di slogan che sembrano nuovi, ma forse non lo sono.
Philip Morris, Michelin, Microsoft: gli accordi segreti con l'Italia per pagare meno tasse. L’Espresso ha indagato sui beneficiari dei tax ruling italiani. Ed è in grado di rivelare i nomi di tre multinazionali che hanno firmato accordi riservati con l’Agenzia delle Entrate, scrive Stefano Vergine l'8 gennaio 2018 su "L'Espresso". L’Italia continua a fare accordi fiscali segreti con le multinazionali. Gli ultimi dati ufficiali, pubblicati dalla Commissione europea e relativi al 2015, dicono che i cosiddetti tax ruling concessi dal nostro Paese alle grandi imprese hanno raggiunto quota 68. Il doppio rispetto a tre anni prima. Il balzo ci ha proiettato in cima alla classifica delle nazioni europee che strizzano l’occhio alle grandi corporation. Oggi siamo quarti, preceduti da Lussemburgo, Belgio e Ungheria. E andando avanti così potremmo presto salire sul podio. Al di là dei confronti internazionali, c’è un problema: i beneficiari di questi accordi continuano a restare segreti, così come i loro contenuti. E questa mancanza di trasparenza non può che alimentare sospetti. Proprio i tax ruling sono stati infatti al centro dello scandalo LuxLeaks, l’inchiesta giornalistica che tre anni fa ha permesso di conoscere i privilegi fiscali concessi dal Lussemburgo a centinaia di società private. Colossi globali che hanno ottenuto dal Granducato il lasciapassare per spostare lì buona parte dei profitti. Pagando in cambio tasse ridicole, l’1 per cento o addirittura meno. Questo mentre tutte le altre imprese sono tenute a versare imposte venti o trenta volte più alte. LuxLeaks ha avuto il merito di innescare un dibattito sui tax ruling. Spingendo la Commissione europea ad avviare indagini, la più clamorosa delle quali ha costretto Apple a pagare 13 miliardi di euro di tasse non versate. Certo, ruling non significa per forza elusione. Questi contratti servono in teoria alle multinazionali per sapere come le autorità del Paese ospitante calcoleranno i profitti tassabili. D’altronde la struttura di una multinazionale è molto più complessa di quella di una piccola impresa. Così, diversi paesi offrono ai grandi gruppi l’opportunità di spiegare in anticipo come intendono organizzarsi. Con un vantaggio duplice: lo Stato sa più o meno quanto incasserà a fine anno, la multinazionale evita il rischio di controlli a sorpresa. Questa almeno è la teoria. La pratica indica che i ruling possono però essere usati anche per eludere il fisco, quasi sempre spostando i profitti nei Paesi dove le imposte sono più basse. Per questo l’Europa è corsa ai ripari con una riforma che il commissario all’Economia, Pierre Moscovici, ha definito «un importante passo in avanti». Dall’anno scorso gli Stati Ue sono tenuti a scambiarsi le informazioni sui ruling emessi. In più, a partire da quest’anno tutte le multinazionali con un fatturato complessivo superiore ai 750 milioni di euro dovranno fornire alle autorità fiscali degli Stati in cui operano i dati economici divisi per nazione: fatturato, profitti, tasse, numero di dipendenti. Cifre che permettono di capire se la multinazionale sta giocando sporco. Peccato che tutte queste informazioni non sono a disposizione dei cittadini. I promotori delle nuove norme dicono che lo scambio di dati fra Stati sarà sufficiente a evitare nuovi casi di concorrenza fiscale illecita. Ma chi può garantire che i governi, sotto la spinta delle lobby, non continuino a concedere condizioni favorevoli alle multinazionali?
L’Espresso ha indagato sui beneficiari dei tax ruling italiani, scoprendo i nomi di tre multinazionali che hanno firmato accordi riservati con l’Agenzia delle Entrate. Ne mancano tanti, visto che in totale sono 68, ma queste storie permettono già di comprendere la posta in gioco. Nel suo bilancio 2015 Philip Morris dichiara di aver concluso con l’Italia, negli anni precedenti, degli «accordi di ruling di standard internazionale». Il linguaggio è tecnico, i dettagli sono ridotti all’osso, ma la sostanza è chiara: la multinazionale americana del tabacco ha ottenuto un tax ruling che riguarda i prezzi a cui la sua filiale tricolore compra le sigarette da altre società del gruppo. Questione cruciale per l’azienda delle Marlboro. Dai costi d’acquisto delle bionde dipendono infatti i profitti dichiarati in Italia. E di conseguenza le imposte. Prendiamo per esempio un pacchetto di Marlboro rosse. Oggi al fumatore costa 5,20 euro. Se Philip Morris Italia acquista il pacchetto dalla sua filiale estera a 5 euro, pagherà a Roma imposte solo sui 20 centesimi di guadagno lordo (al netto di altri costi sostenuti in Italia). Se invece lo stesso pacchetto viene comprato dalla filiale nostrana a 4 euro, le imposte verranno calcolate su un guadagno lordo di 1,20 euro, dunque molto più alto per Philip Morris e altrettanto redditizio per il Fisco. Su tutto questo, purtroppo, né l’impresa né lo Stato italiano pubblicano dettagli. Non resta perciò che continuare ad analizzare il bilancio. È proprio leggendolo che si capisce l’importanza dei costi di acquisto della materia prima. Nel 2015 Philip Morris Italia ha fatturato 1,3 miliardi di euro. I soli costi d’acquisto di materie prime ammontavano a 1,1 miliardi. Insomma, profitti bassissimi. E così, nonostante un giro d’affari miliardario, le imposte versate a Roma non sono state molte: 21,5 milioni. Ma dove finisce il margine di guadagno ottenuto vendendo sigarette in Italia? Principalmente a due consociate del gruppo: la Philip Morris International Management e la Philip Morris Product. Entrambe domiciliate in Svizzera, dove le tasse societarie possono scendere al 9 per cento, o addirittura a zero se il gruppo ha firmato un ruling vantaggioso anche con il governo di Berna. Resta quindi da capire che cosa ha guadagnato Roma dall’accordo con Philip Morris. Perché, andando indietro negli anni, ci si accorge che i numeri dichiarati sono più o meno sempre gli stessi: il fisco non ha incassato più soldi da quando ha firmato il ruling con il gigante del tabacco. La controprova dello svantaggio si ottiene confrontando il margine di guadagno realizzato da Philip Morris in Italia con quello registrato mediamente nel mondo. Su scala globale, per ogni milione di euro incassato circa 110 mila euro sono profitti. Da noi si arriva a 32 mila euro. Quasi quattro volte in meno. Un indizio utile a spiegare i motivi della discrepanza lo fornisce la stessa società, che dichiara di aver parcheggiato in alcune sue filiali straniere la bellezza di 23 miliardi di dollari di profitti tassati a regime preferenziale.
La struttura fiscale di Philip Morris è simile a quella adottata da Michelin. Non sembra dunque casuale che anche la multinazionale francese degli pneumatici abbia firmato un tax ruling con l’Italia. Porta la data del 18 dicembre 2015. Valido per quattro anni, il contratto è in realtà un rinnovo - si legge nel bilancio - e riguarda «la determinazione dei prezzi di trasferimento» tra la filiale italiana e «le principali società dell’Europa dell’Ovest appartenenti al Gruppo». Anche qui il ruling è stato dunque fatto per decidere a quale prezzo la filiale italiana deve acquistare prodotti dalle succursali straniere. Particolare fondamentale per determinare quante imposte dovranno poi essere versate a Roma. Nel 2015 Michelin ha pagato al fisco 24,8 milioni di euro. Tanti o pochi? Di sicuro negli ultimi anni la cifra è stata più o meno la stessa, quindi l’accordo non ha fatto aumentare nettamente le entrate per Roma. Un’altra costante sono i soldi che dalla sede italiana vengono trasferiti all’estero per l’acquisto di materiale: circa un miliardo di euro all’anno. Che finiscono, in maggioranza, alle consociate basate in Inghilterra, Francia, Polonia e Singapore. Insomma, nonostante gli oltre quattromila dipendenti e i quattro stabilimenti, la filiale nostrana della Michelin assomiglia più a una società di distribuzione che a un’industria produttiva.
Un altro colosso globale che ha stretto accordi fiscali riservati è Microsoft. Ma il caso sembra molto diverso dai precedenti. La multinazionale controllata da Bill Gates ha firmato il ruling il 30 giugno del 2015. Un accordo valido per quattro anni, di cui però non si sa altro. I numeri dicono che in Italia l’azienda ha margini di guadagno quasi doppi rispetto alla sua media mondiale. Una buona notizia anche per l’Agenzia delle Entrate, in teoria. Ma la pratica è più complicata. Una buona fetta del fatturato realizzato vendendo software in Italia non viene infatti registrato dalla filiale nostrana. Lo scrive la stessa multinazionale nel suo bilancio: «È importante rilevare che Microsoft Srl non vende ai clienti i prodotti di Microsoft, in quanto le vendite sono effettuate da Miol». Miol sta per Microsoft Ireland Operation Limited, società del gruppo registrata a Dublino, che conta meno dipendenti della succursale italiana ma guadagni ben più consistenti. La filiale d’Oltremanica ha infatti dichiarato un utile pre tasse di quasi 1 miliardo di euro (anno fiscale 2015/2016). Oltre trenta volte più di quanto registrato in Italia, sebbene il nostro sia un mercato molto più grande di quello irlandese.
Il fatto che i soldi incassati vendendo software finiscano a Dublino è facilmente spiegabile. Lì le tasse societarie sono del 12,5 per cento, quasi la metà dell’imposta di Roma. E molto spesso l’Irlanda permette alla multinazionale di trasferire i denari in altri paradisi fiscali, con il risultato che alla fine di tutto questo giro le imposte reali sul guadagno realizzato dalla vendita di un software siano prossime allo zero. Viene da chiedersi allora perché l’Italia ha concesso un ruling a Microsoft, cioè quanto ha guadagnato il nostro Paese da questo accordo. Quattro o cinque milioni di euro all’anno. Lo si capisce confrontando i bilanci. Da quando Microsoft ha sottoscritto l’accordo con il governo italiano, il fatturato e i guadagni lordi sono leggermente aumentati, e in proporzione sono cresciute le imposte versate. Che cosa ha ottenuto invece Microsoft? Innanzitutto la garanzia di poter continuare a registrare buona parte del fatturato in Irlanda. E poi la sicurezza di non vedersi più piombare la guardia di finanza in azienda. Come avvenuto quattro anni fa, con un accertamento fiscale costato al colosso di Redmond 6,3 milioni di euro. Più o meno equivalente al surplus di tasse versato al fisco da quando è stato sottoscritto il ruling. Un’inezia, rispetto ai 21 miliardi di dollari di guadagni netti incassati al livello mondiale nell’ultimo anno. Ma le multinazionali come Microsoft, si sa, sono macchine da soldi. E dalla concorrenza fiscale tra i Paesi europei hanno solo da guadagnare.
Concussione, Corruzione, Usura Bancaria, Finanziamento illecito ai partiti, Nepotismo e clientelismo, Tassazione eccezionale……Il tutto per mantenere lor signori: il “potere” infedele ed inefficiente. Non paghi le tasse? Loro ti tolgono la vita!
Il bilancio lo danno le imprese che falliscono e gli imprenditori che si tolgono la vita (già 26 da gennaio a marzo dell’anno 2012 secondo la Cgia di Mestre).
Italia: una Repubblica fondata sulle tasse.
«Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi» e «Chi vive a spese degli altri, danneggia tutti» (spot tv del fisco: tasse e servizi pubblici ed il parassita)». Questa è la campagna organizzata dalla Agenzia delle Entrate e dal Ministero dell’Economia contro l’evasione fiscale.
Il primo spot è “Stop a chi vive a spese d’altri”. Il primo spot dal titolo «Se», è un’animazione in motion graphic e spiega (a qualche cittadino distratto) l’utilizzo del denaro ricavato dalle tasse: a produrre servizi pubblici, dagli ospedali alle scuole, dalle strade ai parchi, ai trasporti. Ma tutto ciò può avvenire se a pagare le tasse sono tutti. La headline è: «Se tutti pagano le tasse, le tasse ripagano tutti. Con i servizi».
Il secondo spot è “Chi evade le tasse è un parassita sociale”. Il secondo spot, ancora più asciutto e didascalico del primo, mostra una serie di slide con immagini di parassiti in natura, mostrando alla fine un volto di un uomo: l’evasore fiscale come parassita della società, che succhia energie, soldi, risorse e accesso ai servizi pubblici a tutta la collettività, senza contribuire al suo sostentamento.
Alla luce degli ultimi eventi, accaduti in questi ultimi mesi, il dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie si chiede se sia proprio il caso di presentare anche questi spot da parte dell’Agenzia delle Entrate. Sembra una presa in giro. Se qualcuno non paga le imposte sui redditi, comunque dall’iva, dalle accise, dalle tasse specifiche, dai contributi previdenziali non si scappa. E comunque gli accertamenti, di cui più della metà all’esame dei ricorsi alle commissioni tributarie risultano infondati, non bastano? Gli italiani oltre al luogo comune di essere mafiosi, devono subire l’onta ed il sospetto di essere anche evasori fiscali? Gli “scienziati” al parlamento perché non prevedono l’assoluta deduzione delle spese dai redditi da parte dei cittadini. In questo modo la fattura è un interesse personale chiederla e si incentivano i consumi e quindi la produzione.
Già. Però c'è tanto da ridire. Da “Fai Notizia” di Radio Radicale una scottante verità. Più di 800 dei dirigenti dell’ente pubblico che vigila contro l’evasione fiscale di cittadini, imprese, partiti ed enti in tutta Italia, è stata scelta in maniera discrezionale, senza criteri di trasparenza. Inoltre la sanguisuga Statale, che con il suo vampirismo ha prosciugato il sangue degli italiani, nulla fa per giustificare l’eccezionale prelievo. Perché l’Italia oltre ad essere una repubblica fondata sulle tasse è anche fondata sui disservizi, oltre che sull’ingiustizia.
La domanda è: che fine fa l’oceano di soldi che gli italiani versano in quel pozzo che sembra essere senza fondo?
La giustizia allo sfascio, ma questo è risaputo. La sanità allo sfascio, ma questo è risaputo. Ecc., ecc., ecc.. Insomma non funziona niente, ma tutti sono sovvenzionati. Qualche esempio.
La Provincia di Taranto, Adiconsum e Federconsumatori hanno deciso di avviare una 'class action' contro Trenitalia per l'eliminazione di numerosi collegamenti a lunga percorrenza e notturni da e per Taranto.
Ancora in provincia di Taranto, a Manduria. L’associazione “Pro Specchiarica” promuove una “Class Action” contro il Comune di Manduria per l’abbandono della sua marina orientale. Un’azione civile di risarcimento per danno di immagine e svalutazione della proprietà, oltre che per danno esistenziale dovuto al degrado ed all’abbandono cinquantennale, in aggiunta alle privazioni subite per omesso investimento di opere primarie e secondarie in zona densamente edificata. Abbandono, degrado e disservizi nonostante milioni di euro incassati da Manduria in un territorio dove ci sono pochi manduriani. Milioni di euro incassati tra oneri concessori, ici, addizionale irpef, tarsu, quota enel, ecc. Il tutto con destinazione vincolata, ma impiegati altrove e per altri scopi.
Ed ancora. Uffici postali in tilt, code e rabbia in tutta Italia. Lunedì 16 aprile 2012 ancora una volta negli uffici postali di tutta Italia si sono create lunghe code, tra rabbia e sconforto dei cittadini arrivati per pagare bollette e fare operazioni sul conto. Il blocco informatico deriva da un problema di connessione al server centrale. "I computer sono in tilt, non riusciamo a fare operazioni", spiegano i dipendenti dietro allo sportello. Qualche sede locale ha messo cartelli per informare i clienti del problema, ma qualcuno prova comunque ad aspettare, e magari si fa pure il giro di più uffici. Da Roma hanno spiegato agli addetti che il blocco potrebbe essere risolto nel giro di poco tempo. E lì gli utenti speranzosi sin dal mattino ad aspettare, con i dipendenti che consigliavano ai clienti di tornare più tardi Alle 13.30 negli uffici postali italiani era ancora tutto bloccato. Connessioni ripristinate pian piano dalle 15. «Per l'ennesima volta tutti gli uffici postali d'Italia sono in tilt per il blocco del sistema operativo informatico.- Lo afferma in una nota alla stampa Mario Petitto, Segretario Generale Cisl-Poste. -Oggi - continua Petitto- gli uffici postali sono pieni di pensionati Inpdap che non riescono a riscuotere la pensione e di cittadini che non riescono ad effettuare alcuna operazione finanziaria agli sportelli. Come sempre in queste occasioni la tensione negli uffici postali è alta ed a farne le spese sono gli incolpevoli lavoratori che non riescono a far fronte alle proteste dei cittadini -, osserva il sindacalista, che aggiunge - ormai le nostre denunce si sprecano ed il silenzio perdurante del management di Poste diventa sospetto. Ci appelliamo pubblicamente al ministro vigilante se non ritiene di fare luce sui perenni disservizi di una Azienda pubblica che eroga servizi pubblici, e ci chiediamo come mai la magistratura non sia ancora intervenuta a cercare di capire dove siano le eventuali responsabilità della continua interruzione di pubblico servizio. Chiediamo inoltre ai rappresentanti dei consumatori - conclude - di tutelare i diritti degli utenti postali così come noi ci sforziamo di tutelare i diritti dei lavoratori che in queste circostanze sono il parafulmine di responsabilità altrui.» Naturalmente il disservizio riguarda anche l’invio della posta e dei pacchi. Non è la prima volta e, è facile immaginarlo, non sarà l'ultima. Per l'ennesima volta, come denuncia la Cisl, tutti gli uffici postali d'Italia sono in tilt per il blocco del sistema operativo informatico, e per l'ennesima volta, quindi, questi disservizi finiscono per creare disagi che si allargano a macchia d'olio su tutto il territorio italiano. Il management di Poste italiane, come sempre in questi casi, rimane in silenzio, al contrario degli utenti, costretti a lunghe (e spesso inutili) code e ai pensionati che non riescono a ritirare la propria pensione o ai cittadini che devono inviare lettere e pacchi o fare operazioni finanziarie. Utenti che si ritrovano a protestare contro i lavoratori degli uffici postali. Utenti che hanno perso un’intera giornata per nulla. Rimane, di questa grottesca storia dal sapore troppo antico, il succo, che purtroppo è un succo serissimo, invece, e terribilmente amaro, la triste vicenda di un'azienda pubblica che troppo spesso non sa o non riesce ad erogare un servizio pubblico. Essa come tante altre. “Ed io pago….” è la celebre frase di Totò, spesso ripresa da Striscia la Notizia.
PARLIAMO DI CASTE.
L’OLIGARCHIA DEGLI ALTI BUROCRATI. Secondo Galli della Loggia: Una invisibile supercasta.
Non è vero che il contrario della democrazia sia necessariamente la dittatura. C’è almeno un altro regime: l’oligarchia. E tra i due regimi possono esserci poi varie forme intermedie. Una di queste è quella esistente da qualche tempo in Italia. Dove ci sono da un lato un Parlamento e un governo democratici, i quali formalmente legiferano e dirigono, ma dall’altro un ceto di oligarchi i quali, dietro le quinte delle istituzioni democratiche e sottratti di fatto a qualunque controllo reale, compiono scelte decisive, governano più o meno a loro piacere settori cruciali, gestiscono quote enormi di risorse e di potere: essendo tentati spesso e volentieri di abusarne a fini personali. I frequenti casi scoperti negli ultimi anni e nelle ultime settimane hanno aperto squarci inquietanti su tale realtà.
Non si tratta solo dell’alta burocrazia dei ministeri, cioè dei direttori generali. A questi si è andata aggiungendo negli anni una pletora formata da consiglieri di Stato, alti funzionari della presidenza del Consiglio, giudici delle varie magistrature (comprese quelle contabili), dirigenti e membri delle sempre più numerose Authority, e altri consimili, i quali, insieme ai suddetti direttori generali e annidati perlopiù nei gabinetti dei ministri, costituiscono ormai una sorta di vero e proprio governo ombra. Sempre pronti peraltro, come dimostra proprio il caso del governo attuale, a cercare di fare il salto in quello vero.
È un’oligarchia che non è passata attraverso nessuna selezione specifica né alcuna speciale scuola di formazione (giacché noi non abbiamo un’istituzione analoga all’Ena francese). Designati dalla politica con un grado altissimo di arbitrarietà, devono in misura decisiva il proprio incarico a qualche forma di contiguità con il loro designatore, alla disponibilità dimostrata verso le sue esigenze, e infine, o soprattutto, alla condiscendenza, all’intrinsichezza — chiamatela come volete — verso gli ambienti e/o gli interessi implicati nel settore che sono chiamati a gestire. Ma una volta in carriera, l’oligarchia — come si è visto dalle biografie rese note dai giornali — si svincola dalla diretta protezione politica, si autonomizza e tende a costruire rapidamente un potere personale. Grazie al quale ottiene prima di tutto la propria sostanziale inamovibilità.
Sempre gli stessi nomi passano vorticosamente da un posto all’altro, da un gabinetto a un ente, da un tribunale a un ministero, da un incarico extragiudiziale a quello successivo, costruendo così reti di relazioni che possono diventare autentiche reti di complicità, sommando spessissimo incarichi che incarnano casi clamorosi di conflitto d’interessi. E che attraverso doppi e tripli stipendi e prebende varie servono a realizzare redditi più che cospicui, a fruire di benefit e di occasioni, ad avere case, privilegi, vacanze, stili di vita da piccoli nababbi.
Se i politici sono la casta, insomma, l’oligarchia burocratico- funzionariale italiana è molto spesso la super casta. La quale prospera obbedendo scrupolosamente alla prima (tranne il caso eccezionale della Banca d’Italia non si ricorda un alto funzionario che si sia mai opposto ai voleri di un ministro), ma facendo soprattutto gli affari propri.
LE CASTE. LA MAFIA DEGLI ORDINI PROFESSIONALI: "I VERI INTOCCABILI".
Facilissimo, ordinario, capestro. L’accesso agli ordini non brilla per omogeneità. In base ai dati forniti a fine 2009 dal ministero dell’Università, nel corso degli anni Duemila la probabilità di ottenere l’abilitazione a un ordine o a un collegio si è ridotta in media del 10 per cento: solo il 55 per cento dell’intero popolo dei candidati raggiunge il traguardo dell’albo. A fronte di un afflusso di aspiranti professionisti che cresce di anno in anno, calano le probabilità di farcela, nonostante l’incremento generale degli iscritti: tra il 1997 e il 2010 il loro numero complessivo da 1,5 a oltre 2 milioni. Ma l’accesso all’albo segue criteri differenti e all’interno delle varie categorie si trova di tutto. Per veterinari e farmacisti l’esame di Stato per immatricolarsi all’ordine è una pura formalità: a livello nazionale passa il 98 per cento dei candidati. Non è molto diverso per odontoiatri (96 per cento), biologi e medici (95 per cento). Per altre categorie, invece, le prove scritte e orali possono diventare una batosta. Tra i consulenti del lavoro le supera appena il 31 per cento, tra gli avvocati il 24 per cento, tra i notai addirittura un misero 7 per cento. Esclusi i casi in cui gli esami si svolgono a Roma a livello nazionale, come per giornalisti, biologi o notai, in generale le prove si tengono a livello locale, con accorpamento delle sedi nei luoghi in cui il numero di candidati è ridotto. Per categorie come consulenti del lavoro, psicologi, geologi, assistenti sociali, chimici e tecnologi alimentari gli esami sono gestiti dai consigli regionali in sinergia con le università. In tutti gli altri casi ci pensano invece gli ordini provinciali. Sono i consigli dislocati sul territorio che contribuiscono a preparare e organizzare le sessioni scritte e orali, e che indicano la composizione delle commissioni d’esame, in genere condivise con membri scelti dai ministeri competenti: Università, Lavoro, Giustizia. All’interno delle commissioni sono designati professionisti, accademici, magistrati, esperti della materia, che periodicamente sono chiamati a valutare la preparazione di futuri ingegneri, avvocati o architetti. Nei casi in cui è richiesto, i candidati devono certificare lo svolgimento di un periodo di tirocinio da uno a due anni in uno studio professionale o in una struttura autorizzata. Il più delle volte il tirocinio è remunerato al minimo o per nulla, con ricadute professionali e familiari notevoli per chi rimane troppo a lungo in attesa di ottenere l’accesso. Talvolta, come accade per notai e avvocati, l’aiuto per preparare gli esami è fornito da apposite organizzazioni che fanno capo agli ordini stessi e alle università. Gli avvocati, per esempio, possono scegliere tra 77 scuole, con qualità di insegnamento e tariffe molto differenti tra loro.
Non sono le uniche spese. Se a livello locale il candidato non deve sopportare costi di vitto e alloggio, non è così quando deve spostarsi a Roma per sostenere gli esami. Secondo l’Antitrust la scarsa uniformità della selezione fa sorgere il sospetto che alcuni ordini stabiliscano a tavolino un’implicita barriera all’entrata. L’accusa è che i consigli, oltre a esaminare i candidati sotto il profilo tecnico, agiscano sotto la spinta di logiche corporative. Ma riforme parlamentari ad hoc su singole categorie e moniti del garante sono serviti a poco. D’altronde, il potere di un consiglio locale si esprime anche nella capacità di aprire o chiudere il rubinetto ai nuovi colleghi. A ciò contribuiscono fattori strutturali: per gli aspiranti medici esiste già il numero chiuso al momento dell’iscrizione all’università. Oppure, come avviene per i notai, c’è un numero fisso di posti stabilito in base a parametri economici e territoriali. Altrimenti la prassi può essere influenzata da logiche localistiche: in una zona dove il numero di iscritti all’albo è ritenuto eccessivo e il lavoro non basta per tutti può scattare la stretta, che poi potrà essere premiata in termini di voto al rinnovo degli organi dell’ordine. Viceversa, in zone dove predominano le logiche clientelari e di scambio elettorale può essere più conveniente abbassare la guardia sull’accesso all’albo e imbarcare iscritti, che troveranno il modo di sdebitarsi al momento del voto. Le differenze di valutazione tra una città e l’altra balzano all’occhio.
Per esempio, a fine anni Duemila gli aspiranti architetti sono promossi per il 94 per cento a Napoli e l’86 per cento a Palermo, ma solo per il 34 per cento a Torino e il 25 per cento a Trieste. A Palermo supera l’esame appena il 14 per cento dei candidati dottori commercialisti, a Udine il 7 per cento, mentre a Torino passa il 90 per cento. Sono tuttavia gli avvocati a vantare il primato della minore omogeneità. A fine anni Duemila gli idonei risultano il 16 per cento a Salerno, il 21 per cento a Milano, il 22 per cento a Firenze e Trento, il 27 per cento a Torino. In altre sedi d’esame la situazione si ribalta: 50 per cento a Bologna, 53 per cento a Catanzaro, 65 per cento a Palermo e Lecce. Tale disomogeneità sussiste malgrado una riforma del 2003 varata dal leghista Roberto Castelli, ministro alla Giustizia, che ha ridotto la variabilità dell’esito delle prove forensi. Fino ad allora, infatti, gli scarti tra una sede e l’altra erano ancora più marcati. Con le nuove regole cambia la formula: nelle commissioni non sono più presenti membri dei consigli locali ma liberi avvocati del foro, e a chi svolge l’incarico di commissario è vietato di candidarsi alle elezioni dell’ordine immediatamente successive agli esami. Questo per annullare il pericolo di scambi di interessi e voti tra consiglieri e candidati. La riforma Castelli ha introdotto un’altra novità: gli elaborati di ogni sede sono corretti dai consigli di un’altra sede distrettuale abbinata con sorteggio. Vagonate di scritti sono spediti a ordini lontani centinaia di chilometri. Motivo? Contenere il fenomeno del cosiddetto turismo forense: aspiranti avvocati che si spostano da una città all’altra, con la compiacenza di colleghi che attestano tirocini di facciata, nella speranza di affrontare un esame più facile. Così, dal 2003, si spariglia: gli scritti di Milano sono corretti a Roma e viceversa. Siccome le prove orali restano di competenza della sede originaria, non è infrequente che si cerchi di compensare il tasso di ammessi e respinti: se dagli elaborati di Milano, corretti a Roma, risultano troppi promossi, agli orali Milano ne boccerà di più. I candidati che non ce la fanno possono tentare di diventare avvocati all’estero e poi farsi riconoscere in Italia: la via preferita è quella spagnola, ma i corsi formativi sono costosi e pochi la percorrono, anche perché c’è il rischio di restare marchiati dallo stigma del «furbo». Ancora nel 2009 è Catanzaro una delle città più generose nel garantire l’accesso all’albo. Un primato che in passato, quando ogni ordine locale correggeva da sé i propri esami con commissioni composte anche da esponenti del consiglio forense del luogo, è stato ancora più netto e ha dato origine a un clamoroso scandalo.
Lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia.
Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Lo verifica la Guardia di finanza, dopo la soffiata di alcuni esclusi, su mandato della Procura della Repubblica di Catanzaro. Si apre un’indagine resa pubblica nell’estate 2000 da Gian Antonio Stella sul «Corriere della Sera», in cui si denunciano compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». Giuseppe Iannello, presidente dell’ordine forense di Catanzaro, smentisce tutto. Iannello non è uno qualunque ma un notabile dell’ente di categoria. È una vita che siede nel consiglio forense di Catanzaro, del quale per decenni rimane incontrastato presidente (lo sarà fino al 2012), spesso partecipando direttamente alle commissioni d’esame. Molto conosciuto in tribunale, consulente della Regione Calabria e storico socio del Lions club di Catanzaro, Iannello, che ha uno studio anche a Roma, leva la voce a difesa della procedura di accesso alla professione. Ma la candidata continua: «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio». L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Il clima è pesante e il consiglio dell’ordine calabrese protesta contro la «ferocia demolitrice della stampa» e la volontà di «aggredire tutta la città di Catanzaro». Lo scandalo dei 2295 compiti-fotocopia alza il velo su una prassi che molti conoscono. La sede d’esame della città calabrese è nota per l’altissimo numero di partecipanti e promossi: oltre il 90 per cento. Una marea che sbilancia l’intero numero di accessi nazionali. Non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e I veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito.
La metà dei componenti del Parlamento italiano è iscritta a un ordine professionale. Un gruppo trasversale: il partito dei professionisti. Stiamo parlando di più di due milioni di persone in Italia, divise in 28 categorie: avvocati, medici, notai, ingegneri, giornalisti, farmacisti... Hanno enti previdenziali propri, un patrimonio di circa 50 miliardi di euro investiti in beni immobili e titoli finanziari. Quello degli ordini professionali è un mondo chiuso e ancora tutto da raccontare. Una macchina del privilegio, con meccanismi e regole scritte e non scritte. Questo libro lo racconta, attraversando inchieste e scandali, modalità di accesso non sempre trasparenti e sanzioni disciplinari che arrivano con incredibile ritardo. Nati con l’alibi di difendere il cittadino-consumatore, gli ordini professionali proteggono solo se stessi, tramandandosi il potere in maniera quasi ereditaria (il 44 per cento degli architetti è figlio di architetti, il 41 per cento dei farmacisti è erede di farmacisti, il 37 per cento dei medici è figlio di un medico). Ogni tentativo di riforma è bloccato (così Fabrizio Cicchitto, Pdl, definisce la tentata riforma Bersani del 2006: “Un esempio estremista di vendetta sociale”). All’interno delle stesse professioni c’è chi prova a opporsi (l’Anarchit – Associazione nazionale architetti italiani, Altrapsicologia, il Movimento nazionale liberi farmacisti...): invocano l’eliminazione degli albi e un radicale cambiamento che metta in prima fila libertà e merito, abbattendo ogni privilegio. La loro battaglia è la battaglia di tutti i cittadini italiani. Nell’ingorgo di pubblicazioni su caste e “libri neri” (comunismo, prima repubblica, psicoanalisi, vaticano, serial killer, capitalismo, e chi più ne ha più ne metta) questa di Franco Stefanoni sulle lobby degli ordini professionali (“I veri intoccabili”, Chiarelettere, 2011) è l’inchiesta che mancava alla bibliografia sui mali del Paese, quella che - forse - disgusta di più. Un’analisi del tutto inedita (dunque inattesa), che sa di scandali, coperture, arroganza, massoneria, connivenze, tutele trasversali. La metà degli onorevoli del parlamento italiano è iscritto a un ordine professionale: un partito nei partiti, quello dei così detti professionisti. Due milioni di persone in tutta Italia, divisi in 28 categorie (medici, avvocati, giornalisti, ingegneri, farmacisti), che costituiscono l’ordine dei privilegiati, all’interno del quale vigono regole non scritte ma ben consolidate, prima fra tutte quella del nepotismo. Giusto per fare qualche numero, tra i tanti, sciorinati ne “I veri intoccabili”: il 37% dei medici è figlio di medico, il 44% dei farmacisti di farmacista, se si guarda agli architetti la percentuale sale al 47%. Costituiti con l’obiettivo della tutela del cittadino, gli ordini professionali in realtà proteggono solo se stessi, perpetuando il loro potere, col beneplacito della politica. Una vera e propria industria del privilegio: investimenti in beni immobili e titoli finanziari, modalità di accesso quasi mai trasparenti, e per gli appartenenti (in odor di reato) alla categoria, sanzioni che arrivano con un ritardo sospetto. Ogni tentativo di sparigliare le carte (compreso quello referendario promosso dai radicali) è, ad oggi, naufragato miseramente. L’ala tutelare di Senato e Parlamento funziona, ha radici ben solide e oblique alle correnti politiche. Le dichiarazioni che seguono fanno parte del robusto apparato documentaristico del libro: “Attenzione, rischiamo di perdere voti…inimicarsi le professioni può costare caro” (Massimo Brutti, esponente dei Ds, nel 1999); “Gli ordini non sono corporazioni, ma una risorsa per il paese. I professionisti sono capitani coraggiosi, colonne portanti e non permetteremo colpi di mano contro di loro” (Silvio Berlusconi, il 12 dicembre 2001); “Siamo pronti a scendere in piazza in decine di migliaia, per difenderci da un vero attacco antidemocratico” (Maurizio de Tilla, ex presidente della Cassa Nazionale di Assistenza e Previdenza Forense, nel luglio 2006, in occasione della riforma Bersani sugli ordini professionali). Evidente, no? Il cittadino rosica e le caste, come sempre, se ne infischiano. E’ dura soffermarsi sulle pagine di questo volume (c’è davvero di che indignarsi e sentirsi impotenti), eppure è necessario. Sono pagine di sdegno civile, che fanno riflettere: limpide, certificate, da mandare a memoria (più che da leggere). Una lettura di denuncia non sterile, e dunque “formativa”, con potenzialità disalienanti. Da consigliare, in special modo, alle nuove generazioni, perché provino - almeno loro, col tempo e nel tempo - a sovvertire il cattivo stato delle cose italiane.
STORIA RECENTE DEGLI ORDINI:
- estate 2011, sia nella prima manovra di luglio sia nella seconda di agosto, Tremonti ha cercato più volte di liberalizzare le professioni: prima con bozze drastiche (di fatto l'eliminazione di gran parte degli ordini) poi con testi più soft. Non sono passati, anzi, alla fine, grazie al pressing delle lobby degli albi, il testo finale contiene una parziale riforma che introduce pochi elementi di novità, molte cose già esistenti, e comunque che necessitano di future e improbabili altre leggi. Insomma, l'attacco di Tremonti è fallito mentre gli ordini si sono detti soddisfatti.
- perché Tremonti in estate avesse preso di mira gli ordini si è capito dopo, con la venuta alla luce della lettera della Bce al governo (datata 5 agosto, firmata da Draghi e Trichet): in uno dei punti d'intervento sulle riforme da fare con urgenza si segnalava la necessità di liberalizzare le professioni regolamentate.
- il 26 ottobre, nella lettera d'intenti di Berlusconi consegnata a Bruxelles al Consiglio europeo, uno dei sei punti è stato un nuovo intervento sulle liberalizzazione di professioni e gli ordini.
- a inizio novembre, nella proposta di maxiemendamento anticrisi alla legge di stabilità, si è tornati di nuovo sulla liberalizzazione delle professioni (via barriere, via tariffe e sì alle società di capitali per i professionisti, da realizzare entro un anno).
- alcune considerazioni sul futuro, anche se è difficile dire: l'obiettivo è aumentare la concorrenza (più soggetti possono fare più cose sui vari servizi professionali) e dunque movimentare lavoro e crescita economica. Secondo Catricalà, Presidente dell'Antitrust (istituto che da decenni chiede la liberalizzazione degli ordini), liberalizzare le professioni potrebbe portare a un aumento dell'1,5% del pil, ovvero 18 miliardi di euro nei prossimi anni (l'ha detto il 13 ottobre)
- attenzione: Mario Monti, Presidente del Consiglio, è stato negli anni novanta (quando era Commissario alla Commissione europea) il più convinto sostenitore della liberalizzazione degli ordini e l'argomento entrerebbe ancor più nel mirino; ieri nel discorso programmatico in senato ha parlato letteralmente di "revisione della disciplina degli ordini professionali".
AUTORE: Franco Stefanoni è giornalista de “il Mondo”. Da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti. È autore di FINANZA IN CRAC (Editori Riuniti, 2004), IL CODICE DEL POTERE (2007), IL FINANZIERE DI DIO. IL CASO ROVERARO (2008), MAFIA A MILANO (con Mario Portanova, Giampiero Rossi, nuova edizione 2011) tutti pubblicati da Melampo.
In Italia c’è un partito invisibile che accomuna milioni di persone, al di là delle appartenenze politiche. È quello dei professionisti, tutelati da una sfilza di ordini. Sono loro i veri intoccabili. Nessuno è mai riuscito a scalfire i privilegi di cui godono, neppure nei periodi di recessione, quando intere categorie di cittadini sono chiamate a sopportare nuovi sacrifici. Il caso più recente esplode nell’estate del 2011, nel pieno della crisi economica. Nell’ambito della manovra finanziaria, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti tenta più volte di introdurre una norma sulla liberalizzazione degli ordini professionali. Subito gli avvocati-onorevoli alzano le barricate, minacciando di non votare la fiducia in Parlamento. Dissentono anche gli stessi membri del Pdl, il partito di governo. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa e gli avvocati Maurizio Paniz e Niccolò Ghedini prendono le difese degli ordini. Il provvedimento sparisce e un altro, molto più morbido, lo sostituisce. È l’ennesimo tentativo andato a vuoto, che si aggiunge alle riforme avviate dai vari governi negli ultimi trent’anni, tutte clamorosamente fallite per l’opposizione delle lobby professionali, ben rappresentate in Parlamento: nel 2011 circa il 45 per cento di deputati e senatori ha in tasca la tessera di un albo.
Gli ordini o collegi di categoria si presentano come paladini del consumatore: sono enti pubblici il cui scopo dichiarato è proteggere i cittadini dalle cosiddette asimmetrie informative, mettendoli in contatto con professionisti certificati che non abuseranno delle proprie competenze. Nella realtà si tratta di élite che proteggono soprattutto i propri iscritti. Chi li tocca muore. Nessuno può interferire nei loro interessi, nessuno può scalfire il loro potere. Avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, notai, giornalisti, farmacisti, ma anche ostetriche, psicologi, spedizionieri doganali, periti agrari, chimici. In tutto 28 categorie, per un totale di oltre 2,1 milioni di professionisti. Anche se gli ordini sono ufficialmente enti senza scopo di lucro, il potere economico che movimentano è enorme.
Il volume d’affari generato dai professionisti iscritti agli albi è stimato in circa 196 miliardi, pari al 15 per cento del Pil (compresa la componente sommersa). Il valore aggiunto, cioè detratti i costi sostenuti per le attività, si aggira intorno a 80 miliardi, ovvero il 6 per cento del Pil. Ogni anno, attraverso le quote di iscrizione, gli ordini raccolgono una cifra che si aggira sui 500-600 milioni di euro. È il denaro che serve a coprire le spese di funzionamento, illustrate in bilanci non sempre trasparenti e approvati senza adeguati controlli. Ma il vero forziere è custodito nelle casse previdenziali. Chi esercita la professione è obbligato a versare contributi con l’auspicio un giorno di ottenere una pensione. Il flusso finanziario rimpingua un patrimonio che nel 2011 ammonta a circa 50 miliardi. I presidenti degli enti pensionistici, espressione degli ordini di riferimento, sono plenipotenziari nelle cui mani passano autentiche fortune investite in valori mobiliari e immobiliari, con scelte che nel tempo hanno sollevato polemiche, arresti, processi e scandali. Con la crisi finanziaria del 2008 vengono a galla operazioni rischiose e poco lungimiranti che mettono a rischio la possibilità per i giovani di avere in futuro una pensione.
Da anni in Italia si parla di snellire o abolire gli ordini, da molti ritenuti inutili, inefficienti, autoreferenziali, miopi, fautori di privilegi antistorici, conniventi con chi viola le regole, poco cristallini nella gestione degli affari, incapaci di annullare o limitare le sbandierate asimmetrie informative, conservatori, costosi, protettori di monopoli, interpreti di impropri ruoli sindacali, duri con i deboli e deboli con i duri. Ma la legge è dalla loro parte. L’impalcatura ordinistica, anche se risalente a epoche lontane, appare indistruttibile. Questo libro ne racconta per la prima volta vizi e virtù, strategie, interessi politici e finanziari, abusi, malcostumi, lotte intestine e politiche, attraverso un viaggio nella miriade di enti che rappresentano le varie categorie professionali. Un viaggio da cui emerge una rete di piccoli sistemi di potere caratterizzati da scarsa trasparenza verso gli iscritti ed elevata litigiosità, spesso accusati di ostacolare l’ingresso delle nuove leve nel mondo del lavoro.
Le piccole e grandi storie raccolte in questo libro compongono un mosaico da cui emerge la peculiarità della situazione italiana, erede delle corporazioni medievali, di leggi del ventennio fascista e di una cultura di lacci e lacciuoli. Un’ingessatura che ha pochi pari a livello internazionale e che tante volte è stata contestata dall’Unione europea e dall’Antitrust. E tuttavia resiste e sembra godere di piena salute, a dispetto di mille proclami antiordini. Chi ha osato sfidarli, finora, è rimasto scottato...
Viviamo nel Paese degli ordini professionali e delle caste.
Quando si parla di “poteri forti” in Italia non si può non parlare degli ordini professionali, retaggio delle antiche corporazioni medievali (che tuttavia erano cosa diversa e non si configuravano come strutture rigide e chiuse). Cliccando su Wikipedia si trova un elenco di ben 27 albi professionali presenti in Italia, divisi tra 19 ordini propriamente detti (i primi creati in età fascista) per il cui accesso occorre una laurea, tranne nel caso dell’ordine dei giornalisti, e 8 collegi professionali, per il cui accesso occorre un semplice diploma superiore. Gli ordini professionali oggi rappresentano un duro ostacolo verso la creazione di un regime economico compiutamente liberale, basato sulla libera concorrenza. Per far parte di un ordine e poter esercitare la professione bisogna seguire un iter burocratico pieno di ostacoli. Innanzitutto un giovane laureato che volesse diventare ingegnere, avvocato o una qualsiasi professione il cui esercizio è sottoposto all’iscrizione in un albo deve praticare due o tre anni di tirocinio presso un professionista già abilitato senza la garanzia di un compenso minimo, visto il vuoto legislativo in materia di contratto per i tirocinanti; in seguito deve sostenere un esame di Stato per l’ammissione all’albo. Tali esami sono stati oggetto di critiche e accusati di essere subordinati agli interessi degli ordini e non della collettività, penalizzando il merito dei candidati. Inoltre gli ordini rappresentano un limite alla libera concorrenza per via di alcune regole dei vari codici deontologici professionali come l’obbligo di applicazione di tariffe minime, pena la radiazione dall’albo, oppure il divieto di pubblicità, regole difese dagli ordini come antidoto alla concorrenza sleale ma che di fatto aprono la strada alla creazione di cartelli, che danneggiano gli interessi dei cittadini e degli utenti. Nel tempo queste strutture hanno acquisito una fortissima capacità di pressione sulla politica e sui governi che ha soffocato sul nascere qualsiasi tentativo di “liberalizzazione” del sistema degli ordini. Un primo, importante provvedimento legislativo fu il famoso “decreto Bersani” emanato nel Luglio 2006 e convertito definitivamente in legge nel mese successivo; tra le varie misure contenute nel testo vi sono l’abolizione delle tariffe minime di ingegneri, architetti e avvocati, la possibilità di vendere farmaci da banco anche nei supermercati (seppur con un laureato in farmacia), l’aumento delle licenze dei tassisti e l’abolizione del divieto di pubblicità. Tale decreto però suscitò la protesta selvaggia delle categorie interessate, specie dei tassisti, e gran parte delle misure è rimasta di fatto inapplicata. Il 30 giugno 2011, nel corso di un consiglio dei ministri, il ministro Giulio Tremonti propose nella manovra correttiva, in particolare nell’articolo 3, di vietare la fissazione obbligatoria delle tariffe minime, di rendere meno rigido il divieto di pubblicità e di eliminare il numero chiuso previsto dai vari ordini per liberalizzare il mercato; inoltre proponeva di abolire l’esame di Stato per l’ammissione all’albo dei commercialisti e degli avvocati. Ma proprio su quest’articolo 22 parlamentari del Pdl, in gran parte avvocati, sostenuti anche dal ministro La Russa, si sono opposti fermamente minacciando di far mancare il loro voto alla manovra e costringendo il governo a rallentare i tempi e trattare.
Ma,nonostante si parli spesso del bisogno di liberalizzazioni, non sono mancate proposte e disegni di legge volti a creare altri ordini e albi ,come ad esempio quello dei coreografi o dei traduttori, e fino a pochi anni fa non erano pochi i politici a proporre l’istituzione di un albo degli imam.
L’ultima proposta in tal senso riguarda un Ddl bipartisan presentato in Senato il 13 settembre 2011 firmato da parlamentari della Lega, Idv e Pdl per istituire 5 nuovi ordini e 20 albi professionali dell’ambito sanitario.
In questo quadro sociale, è difficile trovare una soluzione: c’è chi propone una soluzione drastica, come l’abolizione di tutti gli ordini o solo di alcuni (ad esempio quello dei giornalisti), altri di mantenere gli ordini con le sole funzioni di carattere associazionistico, altri, come il liberale Carlo Lottieri, propongono invece di creare una pluralità all’interno del sistema degli ordini attraverso la creazione di più ordini di una stessa professione, cercando di “liberalizzare” il sistema degli ordini. Di sicuro una riforma seria e drastica degli ordini servirebbe, anche perché non costerebbe nulla e andrebbe a vantaggio dei cittadini e delle nuove generazioni. Ma sarà possibile questo in un paese di caste?
Architetti, avvocati, consulenti del lavoro, farmacisti, geologi, geometri, giornalisti, ingegneri, medici e odontoiatri, notai, periti industriali, psicologi, dottori commercialisti ed esperti contabili. Ordini professionali che, secondo l’Antitrust (garante per la concorrenza ed il mercato), agiscono come delle “caste”. Con privilegi ingiustificati e un’elevata resistenza al cambiamento.
L’organismo che vigila sulla concorrenza ha terminato un’indagine in corso sugli Ordini professionali. E per il garante il risultato è preoccupante: “Dall’indagine conoscitiva su 13 Ordini professionali emerge una scarsa propensione delle categorie ad accogliere nei codici deontologici quelle innovazioni necessarie per aumentare la spinta competitiva all’interno dei singoli comparti”. Anzi, ‘’la liberalizzazione della pattuizione del compenso del professionista, la possibilità di fare pubblicità informativa e di costituire società multidisciplinari - si legge nelle conclusioni - non sono state colte come importanti opportunità di crescita ma come un ostacolo allo svolgimento della professione'’. Gli ordini, secondo l’Antitrust, non possono più tardare nell’adeguarsi alle normative europee. Così il garante invita ad agire con gli strumenti legislativi contro l’immobilismo degli ordini. E propone alcune modifiche “necessarie”, come “prevedere percorsi più agevoli di accesso alle professioni” attraverso corsi universitari e “tirocinii proporzionati alle effettive esigenze di apprendimento”, non stage infiniti. Sarebbe poi giusto, secondo l’organismo, che la nozione di “decoro professionale” sia “elemento che incentivi la concorrenza tra professionisti e rafforzi i doveri di correttezza professionale nei confronti della clientela e non per guidare i comportamenti economici dei professionisti”.
Secondo l’associazione dei consumatori Aduc, le parole dell’Antitrust “rendono giustizia di una situazione sotto gli occhi di tutti: i tentativi di riforma degli ordini sono inutili. Quand’anche qualcosa dovesse apparire, si tratterebbe comunque di fumo negli occhi. Solo la loro abolizione potrebbe democratizzare offerte e domande”.
In Italia, per poter manifestare il proprio pensiero, o svolgere un’attività professionale, devi essere inquadrato e controllato in qualche albo castale. Per questo motivo il direttore antimafia di «Telejato» è stato rinviato a giudizio per abusivo esercizio della professione. Per i suoi tg contro Cosa Nostra era stato minacciato. Il direttore dell'emittente televisiva «Telejato» di Partinico (Palermo), Pino Maniaci, è stato rinviato a giudizio per esercizio abusivo della professione di giornalista. Secondo l'accusa, Maniaci, «con più condotte, poste in essere in tempi diversi ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso», avrebbe esercitato abusivamente l'attività di giornalista in assenza della speciale abilitazione dello Stato, conducendo ogni giorno il tg di Telejato, la tv più volte minacciata, querelata e contestata da boss e notabili della zona di Partinico.
Difatti Maniaci può «vantare» oltre 200 querele e non ha mai voluto prendere il tesserino di giornalista pubblicista. «Tutto nasce da una denuncia anonima fatta in realtà da un collega invidioso della mia popolarità. Non è la prima volta che mi trovo sotto processo per esercizio abusivo della professione. Sono stato assolto dalla stessa accusa. Chiarirò tutto anche questa volta». Così Pino Maniaci ha commentato la notizia del suo rinvio a giudizio per esercizio abusivo della professione. «Produrrò la sentenza che mi ha già scagionato», ha aggiunto Maniaci, che ha precisato che il direttore della tv locale è Riccardo Orioles. «In occasione dell'ultima intimidazione - ha proseguito - il presidente nazionale dell'Unci mi ha dato la tessera onoraria dell'associazione. Questo vorrà pur dire qualcosa».
O via le caste o si muore dice Luigi Zingales su “L’Espresso”.
Tutti ce l'hanno con i partiti, che in effetti hanno molte colpe. Ma il Paese è pieno di gruppi chiusi, che mirano solo a perpetuare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione. Danneggiando tutti gli altri, specie i giovani. Negli Stati Uniti la protesta ha scelto come obiettivo Wall Street, simbolo della finanza, il luogo dove lavora l'1 per cento più ricco della popolazione. Coloro che - secondo i manifestanti -avrebbero derubato il rimanente 99 per cento di un futuro migliore. L'Italia è messa molto peggio degli Stati Uniti. Quale dovrebbe essere l'obiettivo della protesta? Dove si annida l'1 per cento di privilegiati che impedisce il successo al rimanente 99 per cento? La risposta più naturale sarebbe Montecitorio, simbolo del potere politico. Non sono forse i politici che ci hanno ridotto in questa situazione? Ma è una risposta che oscura la vera fonte del problema. I politici li eleggiamo noi.
Riflettono gli interessi (le lobby) del nostro Paese. Negli Stati Uniti la lobby più potente è sicuramente quella finanziaria, da cui il luogo della protesta. Seguendo la stessa logica in Italia il luogo adeguato per la protesta dovrebbe essere la piazza centrale di ogni paese. Lì si annida la lobby più potente d'Italia: i notabili locali. A differenza dei ragazzini maleducati di Wall Street, si tratta di signori di buone maniere. Ma dietro la loro aria bonaria, non sono meno pericolosi. Molti di loro criticano i sindacati per la difesa corporativa del posto di lavoro, ma la loro difesa dei privilegi è più strenua di quella dei camalli del porto di Genova. Non lo fanno in piazza, ma nei corridoi dei palazzi, e proprio per questo hanno maggiore successo.
Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. Le farmacie godono di restrizioni imposte dallo Stato alla vendita dei medicinali. Queste restrizioni mantengono i prezzi elevati a danno dei consumatori. Anche le timide riforme di Bersani sono state affossate dal governo Monti. Il commissario europeo che ha osato sfidare Microsoft ha dovuto chinarsi di fronte alla lobby dei farmacisti. Sopra la farmacia in molti paesi c'è' l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. Non è solo una tassa su tutte le attività produttive, ma anche uno spreco di cervelli. I guadagni gonfiati dai limiti alla concorrenza attirano nella professione molti giovani brillanti, che avrebbero potuto dedicarsi proficuamente ad attività più produttive. A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. Anche se perde, poco importa, tanto i principali azionisti non hanno messo i soldi loro, ma i soldi altrui. Anzi i soldi nostri, i soldi che appartenevano ai comuni e che oggi sono controllati da fondazioni gestite dai residui della prima Repubblica. Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca. Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. Se Monti non è capace di farlo chi mai lo potrà fare?
Riformiamo quegli Ordini, intima Alessandro De Nicola su “L’Espresso”.
Le categorie professionali si oppongono a qualsiasi cambiamento. Una difesa delle proprie prerogative che dimentica la rivoluzione in atto nei servizi intellettuali. E rinuncia a guidare la modernizzazione. Nel Belpaese si ha l'impressione che le professioni intellettuali tradizionali siano da tempo arroccate nella difesa delle loro prerogative e che anzi, complice la crisi, chiedano che vengano estese anche a loro nuove protezioni.
La "modernizzazione" del settore è vista dai rappresentanti degli ordini professionali tutt'al più come implicante maggiori obblighi di formazione professionale ma niente più, tant'è che, appena prima della legge di stabilità (che impone entro 12 mesi una radicale ristrutturazione degli Ordini professionali), stavano procedendo di buona lena in Parlamento vari provvedimenti restrittivi: la riforma dell'Ordine dei giornalisti che restringeva le possibilità di accesso, l'istituzione di nuovi Albi (tra cui quello degli igienisti dentali, professione che schiude le porte a luminose carriere in altri campi) e la modifica dell'ordinamento forense che mirava a reintrodurre le tariffe professionali inderogabili e una serie di limitazioni, guarentigie, divieti che andavano in senso contrario alla liberalizzazione del settore.
I professionisti sono una lobby ben organizzata (basti pensare che circa il 40 per cento dei parlamentari appartiene a una categoria professionale) e vocale. Nonostante il problema della concorrenza e dell'efficienza del mercato dei servizi professionali (che rappresentano un fatturato di 200 miliardi di euro) si ponga ormai dal 1997, quando l'Autorità antitrust pubblicò la prima indagine conoscitiva sul tema (e nel 2003 l'allora commissario europeo alla concorrenza, Mario Monti, ricordasse: "Non credo che gli ordini dovrebbero essere coinvolti nella sfera economica dei professionisti, dettando regole sul comportamento nel mercato dei loro iscritti, come per esempio fissando le tariffe o vietando la pubblicità"), l'unico vero scossone si ebbe con il decreto Bersani che abolì i minimi tariffari, introdusse il patto di quota lite e diede via libera alle parafarmacie. Poi più niente, se non un gioco di interdizione degli Ordini che hanno cercato di limitare la portata della riforma.
Orbene, ormai gli studi sul settore sono numerosi: quelli della Banca di Italia hanno evidenziato che i servizi professionali nei Paesi meno regolamentati contribuiscono a una maggior crescita del Pil (una media dello 0,8 per cento in più) e la concorrenza migliora la qualità del servizio (al contrario di quello che si sente dai rappresentanti di categoria, sempre attenti alla "qualità" del servizio da non "svendere"); l'Antitrust o, da ultimo, la Fondazione Debenedetti, mostrano un certo nepotismo e una completa casualità nell'accesso (in alcuni capoluoghi i promossi all'esame di Stato sono il 90 per cento, in altri meno del 10), nonché una scarsa propensione degli Ordini a disciplinare gli iscritti (propensione che non è aumentata dopo la Bersani, segno che l'abolizione delle tariffe non ha inciso sulla qualità...).
Inoltre, le professioni si stanno rivoluzionando: sempre di più nel mondo agiranno società di capitali (ammesse anche dalla legge di stabilità) per fornire a basso costo e su base globale servizi ora pagati con parcelle "dignitose". L'asimmetria informativa caratteristica delle prestazione professionale (il cliente non è in grado di giudicare la bontà di ciò che si riceve), grazie a Internet, al rafforzamento delle strutture interne delle aziende e all'attivismo delle associazioni dei consumatori si sta riducendo. Sempre più l'outsourcing verso giurisdizioni (o regioni all'interno dello stesso Paese) più convenienti, tecnologia ed innovazione sia nei servizi che nel metodo di parcellazione (i clienti pretendono ora di associare il professionista al proprio rischio imprenditoriale) saranno per il mondo professionale la formula per creare valore aggiunto e crescere o quantomeno non essere spazzati via. Se questo è vero, invece che organizzare anacronistiche astensioni dalle udienze ed emettere indignati comunicati contro la mercificazione delle arti liberali, i professionisti dovrebbero cogliere al volo le opportunità della liberalizzazione e, per una volta, guidare il processo di cambiamento invece che esserci trascinati dentro, impreparati e subalterni.
L'ORDINE NON SI TOCCA.
Espressione frutto di uno studio redatto da Gaetano Basso e Michele Pellizzari.
Il testo originale della manovra finanziaria 2011 prevedeva alcuni interventi di liberalizzazione delle professioni. Ma ventidue senatori-avvocati della maggioranza hanno minacciato di non votare l'intero provvedimento se quelle norme non fossero state cancellate. E sono stati subito accontentati. Insomma, anche in un momento drammatico sembrano aver prevalso gli interessi di lobby. Eppure, questa era l'occasione giusta per avviare una riforma che, insieme ad altre, potrebbe incoraggiare la crescita economica dell'Italia. È opinione diffusa che i tanti tentativi di riforma delle professioni siano stati bloccati dalle folte e ben rappresentate lobby di avvocati, notai, commercialisti, preoccupati più di difendere i propri interessi che di tutelare l'interesse comune. Eppure, gli ordini professionali sostengono che non è così e in molti, compreso chi scrive, sarebbero disposti a credere loro e avviare insieme un dibattito serio su quali interventi di riforma siano necessari. È difficile, però, non dare l'impressione di una casta chiusa e refrattaria a ogni cambiamento se i fatti sono quelli che ci consegna la cronaca relativa al dibattito sulla manovra 2011. Nella sua formulazione iniziale essa prevedeva alcuni interventi di liberalizzazione delle professioni, alcuni dei quali molto radicali. Si andava dall’abolizione del divieto di incompatibilità tra attività commerciale e professionale, all’impossibilità di vietare da parte degli ordini la pubblicità per ragioni di decoro, fino all’abolizione dell’esame di stato per avvocati e commercialisti. Ma 22 senatori-avvocati del Pdl hanno inviato al presidente del Senato una sconcertante lettera nella quale si dicevano pronti a non votare il provvedimento, rischiando di far cadere il ministro Tremonti e di gettare il paese in una catastrofica crisi finanziaria, se quelle norme non fossero state cancellate. I senatori erano supportati da un nutrito gruppo di deputati liberi professionisti (58 in totale: 44 avvocati, 13 medici e 1 notaio) che si sarebbero opposti all’iter della manovra alla Camera. Detto fatto, grazie anche offerto alle parole di sostegno del ministro-avvocato Ignazio La Russa. Ed è significativo che i ventidue avvocati rivoltosi non abbiano tanto espresso perplessità sul come si interveniva per liberalizzare il settore, ma abbiano semplicemente chiesto di derubricare l'argomento. Il gruppo dei 22 alla fine ha avuto ragione grazie alla mediazione del Presidente del Senato-avvocato Renato Schifani. Il governo si è però impegnato entro 8 mesi dall’entrata in vigore della manovra a legiferare in materia di ordini professionali. Altrimenti “ciò che non sarà espressamente vietato sarà libero”.
UNO STUDIO SUI PROBLEMI DEGLI ORDINI
In un rapporto preparato per la Fondazione Rodolfo Debenedetti sul tema delle professioni regolamentate, abbiamo evidenziato che gli ordini servono a garantire la qualità dei servizi offerti in mercati nei quali è difficile per il consumatore valutare la capacità degli operatori e la qualità dei servizi prodotti. Quelle stesse norme, tuttavia, generano limitazioni della concorrenza con potenziali effetti negativi sul benessere collettivo. Alla politica spetta la decisione di dove collocare il paese in questo trade-off tra qualità e concorrenza. Difficile procedere con un dibattito costruttivo se non si riconosce questo duplice aspetto della regolamentazione e si continua a sostenere che non vi è alcun problema di concorrenza nelle professioni. Nel rapporto presentiamo una serie di analisi empiriche che suggeriscono che qualcosa non funziona nelle procedure di selezione all'ingresso in molte professioni e non sempre entrano necessariamente gli operatori più qualificati. Questo è il caso delle professioni (commercialisti e consulenti del lavoro) in cui osserviamo un peggioramento della qualità dei servizi offerti al crescere di una misura di familismo della professione che si osserva nel rapporto stesso. Da qui alcune proposte di riforma: andrebbero eliminati, ad esempio, potenziali conflitti d’interesse nell’esame di abilitazione, evitando che sia preparato o corretto dagli stessi professionisti che saranno concorrenti diretti di chi l'esame lo supera. In un precedente contributo su questo sito abbiamo dimostrato come questo tipo di riforma abbia avuto effetti significativi nella selezione degli avvocati, in particolare annullando il ruolo giocato dai cognomi nell’esame di stato. Inoltre, sarebbe auspicabile separare il ruolo di auto-regolamentazione degli ordini da quello di rappresentanza degli interessi di categoria.
UNA QUESTIONE DI CREDIBILITÀ
In seguito alla presentazione del nostro studio siamo stati investiti da una miriade di attacchi (si veda la rassegna stampa sul sito della Fondazione Debenedetti) spesso molto duri, ma mai nel merito dell'analisi, e in alcuni casi esplicitamente offensivi. Gli attacchi, così come l'episodio dei ventidue avvocati del Pdl, evidenziano quanto sia diffuso l'atteggiamento di difesa a priori dello status quo. Si tratta, invece, di migliorare il contesto istituzionale di un settore che, se liberalizzato, potrebbe contribuire fino all’ 11 per cento del PIL nel lungo periodo, come sostenuto in uno studio della Banca d’Italia. Si tratta, invece, di migliorare il contesto istituzionale di un settore che, come sostiene l'Antitrust, costa al paese quanto il conto energetico. Nella manovra si sarebbe potuto affrontare la questione con una riforma a costo zero che, insieme ad altre, avrebbe il potenziale di incoraggiare la crescita economica dell'Italia, condizione indispensabile per non ritrovarci a breve a dover di nuovo fronteggiare situazioni finanziarie critiche come quelle di questi ultimi giorni. L'episodio dei ventidue avvocati è preoccupante anche perché rischia di mandare un messaggio negativo sulla credibilità dell'intera manovra, i cui contenuti, anche in un frangente così delicato, sono soggetti alle intemperanze di alcuni parlamentari. Per sostenere la credibilità delle misure in discussione, la maggioranza, di cui questi parlamentari fanno parte, avrebbe dovuto mettere i “dissidenti” di fronte all'aut-aut votare o dimettersi, invece di dare loro seguito per voce di autorevoli esponenti del governo. Come è possibile convincere i mercati che l'Italia manterrà gli imponenti impegni assunti con questa manovra, se la nostra politica si mostra così debole?
QUELLE BARRIERE PER GLI ASPIRANTI AVVOCATI
La riforma dell'avvocatura in discussione al Senato prevede tra l'altro un rafforzamento delle barriere all'ingresso nella professione. A tutela di un elevato standard qualitativo dei servizi legali a tutto vantaggio degli utenti, secondo quanto sostiene l'Ordine forense. Ma un'analisi statistica mostra che chi ha un cognome molto rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. E fa nascere il sospetto che la professione non sia esente da potenti pratiche corporative. La riforma dell'avvocatura attualmente in discussione al Senato propone, tra le altre cose, un rafforzamento delle barriere all'ingresso nella professione. Per esempio, oltre all'esame di abilitazione e al lungo praticantato di due anni, sarà necessario superare anche un pre-test per l’iscrizione all’albo dei praticanti e frequentare, durante il periodo di pratica, corsi di formazione organizzati dagli ordini.
I COGNOMI DI UNA PROFESSIONE
L'argomentazione principale a favore dell'introduzione di barriere all'ingresso in una professione, e in particolare in quella forense, riguarda la qualità dei servizi offerti. Soltanto i professionisti migliori e più motivati, che si aspettano un ritorno elevato dall'esercizio della professione, sarebbero disponibili a sopportare il lungo periodo di praticantato, la preparazione del difficile esame di abilitazione e la lenta e faticosa costruzione di un adeguato portafoglio clienti. In assenza di praticantato o con un esame meno selettivo entrerebbero nella professione avvocati meno qualificati e meno motivati, a svantaggio anche del cliente. Anche le tariffe minime e il divieto della pubblicità commerciale potrebbero essere letti in quest'ottica. Un avvocato poco capace potrebbe comunque riuscire a sopravvivere nella professione offrendo servizi a basso costo e pubblicizzando tale offerta. L'esame, le tariffe minime e il divieto di pubblicità sarebbero, in questo senso, barriere all'ingresso nella professione che servirebbero a tenere alla larga i “peggiori” e a mantenere un elevato standard qualitativo dei servizi legali a tutto vantaggio degli utenti. O almeno questo è ciò che sostiene l’Ordine forense. In quest'ottica, dunque, il superamento delle barriere non dovrebbe essere legato ad altro se non alle capacità professionali dei candidati.
Una prima analisi in questa direzione può essere condotta sulla base dei dati (pubblici) sugli iscritti agli albi, disponibili presso il sito del Consiglio nazionale forense. Da questi dati è possibile calcolare l'età in cui ogni avvocato si è iscritto al proprio albo, una variabile che è influenzata sia da quanto tempo si impiega a laurearsi sia da quante volte si sostiene l'esame di abilitazione. In media si diventa avvocati a 32 anni. È facile desumere che se l’età media di laurea in Italia è 26,5 anni (così come riportato dalle statistiche del Miur) un giovane avvocato viene impiegato in media 5,5 anni come praticante (di cui due obbligatori e gli altri, probabilmente, dovuti a bocciature all'esame di abilitazione). Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni (e che ha avuto anche spazio su queste pagine) abbiamo messo in relazione l'età di iscrizione all'albo con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell'albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. Quando l'indicatore è maggiore di 1 significa che il cognome è sovra-rappresentato nell'albo rispetto alla popolazione, il contrario se l'indice è minore di 1. In media, il cognome di un avvocato appare nell'albo 50 volte di più che nella popolazione. Nel grafico mostriamo la relazione tra l'età di iscrizione all'albo e l'indice. Si nota chiaramente che esiste tra queste due variabili una forte relazione negativa che è statisticamente significativa (al 1 per cento). Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell'albo della sua provincia diventa avvocato prima. Per esempio, chi non ha alcun omonimo nell'albo diventa avvocato con un trimestre di ritardo rispetto alla media.
Naturalmente, possono esserci molte spiegazioni per l'evidenza statistica del grafico. Quella più positiva riguarda la possibilità che, benché il cognome non fornisca informazioni dirette sulle capacità intellettuali di una persona, è plausibile che avere un parente avvocato aiuti a diventare un bravo avvocato, perché si impara da una persona vicina e più esperta. Quella più maliziosa suggerisce, invece, che la professione sia attraversata da pratiche corporative così potenti da generare il risultato del grafico.
CHI CORREGGE LE PROVE DI AMMISSIONE
È difficile riuscire a scoprire quale sia l'interpretazione corretta e tuttavia possiamo trarre qualche indicazione dalla riforma del 2003, che ha introdotto l’abbinamento casuale delle corti d’appello per la correzione delle prove scritte negli esami di ammissione (legge 167/2003). Prima della riforma, ovvero fino al 2003, ogni corte d'appello correggeva i propri esami. Dal 2004 in poi ogni corte d'appello è abbinata casualmente a un'altra e l'una corregge gli scritti dell'altra. L’obiettivo della riforma era quello di uniformare il numero di idonei tra sedi del Nord (storicamente un numero esiguo) e quelle del Sud (storicamente elevato) e per debellare eventuali pratiche scorrette nella correzione degli scritti).
Il secondo grafico mostra la stessa correlazione tra frequenza relativa del cognome e età di iscrizione all'albo per gli albi del Nord (a sinistra) e per quelli del Sud (a destra), separando avvocati iscritti prima e dopo il 2004. Come si vede, prima della riforma l'effetto “cognome” è molto più forte al Sud che al Nord (circa due terzi più elevato). Dopo la riforma l'effetto praticamente scompare in entrambe le aree. Ci sembra che questa evidenza sia più coerente con l'interpretazione maliziosa che con quella positiva, il che mette seriamente in dubbio l'argomentazione che le barriere all'entrata servano a mantenere alta la qualità dei servizi legali.
Conti pubblici e liberalizzazioni. L' inchiesta: La prevalenza del «familismo». Lo studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sulle «Dinastie professionali» presentato alla Bocconi.
Ordini e professioni, quando il merito dipende da famiglia ed area geografica, parola di Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”.
Peso politico. Il Cup, coordinamento unitario delle libere professioni, ha dichiarato il peso della propria rappresentanza: 3 milioni 590 mila persone.
Commissioni e competenza. Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Nepotismo. Nel confronto con i lavoratori autonomi, gli avvocati e i farmacisti, figli o nipoti di avvocati e farmacisti, sono oltre il triplo della media.
Esami di Stato, a Bari passa il 74% degli architetti, a Palermo il 18. I geologi hanno il 91% di chance a Napoli, solo il 36 in Puglia.
Aspiranti commercialisti veneziani, portate un cero alla Madonna della Salute: avete il 92% delle probabilità di essere bocciati all'esame. Aspiranti commercialisti catanesi, stappate lo spumante: sotto l'Etna non bocciano nessuno. Lo dice uno studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti sugli Ordini professionali. Che pare dimostrare quanto scriveva Indro Montanelli: così come sono servono solo a «difendere le mafie di interessi corporativi». Un'accusa che gli Ordini respingono sdegnosamente da anni. Ma contro la quale, come dimostra la riluttanza con cui molti hanno collaborato a questo studio sul familismo, che è durato tre anni e sarà presentato alla Bocconi col titolo «Dinastie professionali», non fanno poi molto. Basti dire che alla richiesta dei ricercatori della Fondazione (Gaetano Basso, Andrea Catania, Giovanna Labartino, Davide Malacrino e Paola Monti) coordinati da Michele Pellizzari, docente alla Bocconi, l'Ordine dei medici ha risposto di no, spiacenti ma «pur apprezzando le finalità della ricerca» l'elenco completo degli iscritti in suo possesso non lo dava: lo chiedessero uno a uno a tutti i centodieci ordini provinciali. Auguri. Che gli Ordini professionali italiani siano bloccati e debbano essere spalancati alla concorrenza l'Europa lo dice da anni. Ma la risposta è da sempre recalcitrante. Rileggiamo cosa disse, ad esempio, quando era ministro della Giustizia, l'ingegner Roberto Castelli: «La Commissione europea e l'Antitrust vorrebbero abolire gli ordini; noi invece siamo impegnati a difenderli perché pensiamo che gli ordini e tutto il ricco mondo delle professioni siano un patrimonio fondamentale della nostra società». Opinione condivisa, nonostante i proclami thatcheriani («Gli elettori devono scegliere tra liberismo e comunismo, liberismo e statalismo»), da Silvio Berlusconi: «Pensiamo che il sistema degli albi professionali regolato per legge sia molto meglio del sistema delle libere associazioni di professionisti presenti nei Paesi anglosassoni». Questione di voti: «Rappresentiamo una massa di 3 milioni e 590.000 persone», intimò anni fa ai partiti il Cup, Coordinamento unitario delle libere professioni. Traduzione: chi ci tocca perde le elezioni. Perfino le innovazioni della legge Bersani del 2006 (via le tariffe minime e largo alla pubblicità comparativa per fare spazio ai giovani...) sono state accanitamente combattute e svuotate nonostante uno studio di Michele Pellizzari e Giovanni Pica (Università di Salerno) presentato al convegno bocconiano dimostri che prima del 2006 tra gli avvocati «la probabilità di lasciare la professione diminuiva con la produttività, ovvero lasciavano i più bravi. Dopo il 2006, questa relazione si inverte e sono i meno produttivi a lasciare la professione». Un miglioramento qualitativo che evidentemente non interessa più di tanto i consoli e proconsoli della categoria, che siedono in massa alle Camere (134 avvocati su 952 parlamentari) e monopolizzano i consigli dell'Ordine al contrario di quanto accade ad esempio in Gran Bretagna dove ai vertici stanno dei rappresentanti anche degli studenti e più ancora dei consumatori, cioè dei clienti. Una situazione che il presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà ha più volte denunciato parlando di «ingiustificati privilegi ai professionisti» e accusando gli ordini di essere «chiusi in se stessi» e di non fare «gli interessi dei consumatori». Per capirci, è più facile staccare in salita Alberto Contador sulle rampe del Puy de Dome che aprire le professioni ai giovani se gli Ordini, come ha scritto Tito Boeri, «continuano ad inserire nelle commissioni d' esame (quelle che decidono chi si può iscrivere agli albi) persone che esercitano queste attività e che hanno tutto da perderci dall'entrata di professionisti più bravi e più competenti di loro». Questo è il quadro. Confermato dai dati dello studio presentato alla presenza di Angelino Alfano e Pier Luigi Bersani, dove si dimostra come «la probabilità di superare l'esame non dipenda esclusivamente dalle qualità del candidato» ma anche da altro. La decantata valorizzazione del «merito», parola abusatissima (Mariastella Gelmini la invocò 37 volte in una proposta di legge), dipende insomma dall'area geografica: se sei un giovane architetto e fai l'esame a Bari hai 74 probabilità su 100 di passare, se lo fai a Palermo 18. Se sei un giovane geologo hai il 91% di possibilità di farcela a Napoli, il 36 a Bari. E così via. Sbalzi così clamorosi da imporre una alternativa: o tutti i geni di una determinata professione nascono in una zona e tutti somari in un'altra o i voti non dipendono dalla bravura dei candidati ma dal capriccio e dalle chiusure delle commissioni. Succedeva lo stesso, una volta, anche con l'esame degli avvocati. Col record, un anno, del 94% di bocciati a Milano e del 94% di promossi a Catanzaro. Finché, dopo lo scandalo scoppiato nel capoluogo calabrese (2.295 temi copiati su 2.301) fu deciso di far esaminare i temi di ogni distretto giudiziario alla commissione di un altro. Ed è cambiato tutto. Bene, incrociando i nomi degli iscritti agli 11 Ordini (notai, avvocati, architetti, farmacisti, commercialisti, consulenti del lavoro, giornalisti, geologi, medici, ostetriche e psicologi) dei quali i ricercatori sono riusciti a raccogliere la quasi totalità degli iscritti, salta fuori una quota altissima di familismo. Messi a confronto con i lavoratori autonomi, gli avvocati e i farmacisti figli o nipoti di avvocati e farmacisti sono oltre il triplo della media. I medici addirittura il quadruplo. Non sempre questa ereditarietà, si capisce, è negativa: talora «un bravo professionista insegna il mestiere al figlio, che diventa a sua volta un bravo professionista». Dati alla mano, è il caso delle ostetriche. E, spesso, anche dei medici. Non così di altri: nel caso dei commercialisti e dei consulenti del lavoro, si legge nel dossier, «troviamo evidenza, statisticamente significativa e robusta, di peggior qualità dei servizi professionali (..) dove il livello di familismo è più alto». Cioè? «Nelle province dove le omonimie incidono maggiormente sulle iscrizioni all'albo dei commercialisti, l'evasione fiscale è più alta». Quanto alle aree dove il familismo è più diffuso, non mancano le sorprese. I numeri dicono infatti che certo, lo spazio ai figli e ai nipoti, ai cognati e ai cugini nel Sud è nettamente maggiore rispetto al Centro e più che doppio rispetto al Nord-ovest. Ma al Nord-est, no: anzi, la «parentopoli» nelle professioni, per difendere le posizioni di rendita, è perfino più estesa che nelle regioni meridionali della fascia adriatica. Ahi ahi, la «razza Piave»...
PARLIAMO DI LOBBIES.
ASSICURAZIONI.
PARLIAMO DI LIBERALIZZAZIONI: ASSICURAZIONI RCA E SICUREZZA STRADALE
In Italia ognuno fa ciò che vuole, impunemente e nell’ignavia generale. Si guardino gli aumenti ingiustificati delle polizze auto. Ci inculcano l’idea, attraverso le redazioni dei giornali nei media foraggiati dalle compagnie assicurative, che gli aumenti sono dovuti all’aumentare della sinistrosità. Invece l'attacco dei consumatori contro l'RcAuto: "In 11 anni tariffe +104%, sinistri -34%". Secondo l'Ania solo nell'ultimo anno la frequenza degli incidenti d'auto è diminuita del 12%. I costi per assicurare la vettura sono invece cresciuti del 30% negli ultimi due anni e sempre più sfuggono all'obbligo di legge. Le tariffe Rc Auto, di anno in anno, hanno raggiunto "livelli incredibili, con percentuali impressionanti se consideriamo i rincari". E' la dura accusa di Adusbef e Federconsumatori, secondo cui in 11 anni il costo delle polizze ha registrato un'impennata del 104%, nonostante l'incidentalità sia diminuita del 34%. Una crescita continua ed irrefrenabile, - sostengono le associazioni - confermata anche dai dati di quest'anno che registreranno una nuova crescita media di circa il 6% (+78 euro a polizza), portando l'aumento complessivo al 104%". Si tratta di una cifra "inaccettabile, che per di più non ha alcuna giustificazione, visti i dati sull'incidentalità", diminuita secondo i consumatori del 34% in undici anni. "E' ora di porre un freno a questo andamento, francamente scandaloso - concludono dopo i dati dell'Ania -. Ci aspettiamo risposte ed interventi immediati per incrementare la trasparenza e la competitività, attraverso il potenziamento del ruolo degli agenti plurimandatari, indispensabile per un abbattimento dei costi e con la modifica del meccanismo del bonus malus anche attraverso la tariffa unica per gli automobilisti virtuosi". Secondo i dati dell'Ania, infatti, gli aumenti dei prezzi dei carburanti hanno spinto gli italiani a lasciare sempre più spesso la macchina a casa, con un impatto niente affatto indifferente sulla frequenza degli incidenti d'auto che sono diminuiti del 12% rispetto all'anno precedente. Ma secondo l'Ania con la crescita delle tariffe assicurative calano anche le auto assicurate. Quindi l’aumento delle tariffe, non solo danneggia gli automobilisti, ma l’intera produzione industriale.
Assicurazioni, la lobby più forte secondo l’inchiesta di Corrado Giustiniani su “L’Espresso”. Il governo Monti non ha toccato i loro privilegi e noi continueremo a pagare le polizze più care d'Europa. Colpa di una piovra potentissima in Parlamento, che blocca ogni liberalizzazione e ogni possibilità di concorrenza.
Cari automobilisti, coraggio: continuerete a pagare l'assicurazione più salata d'Europa. Passaggio dopo passaggio, il decreto Monti s'è svuotato e la liberalizzazione promessa è svanita alla luce della Gazzetta Ufficiale. E' scomparso l'obbligo del plurimandato, grazie al quale si sperava che l'agente, avendo più compagnie in portafoglio, potesse cucirti addosso la polizza più adatta e più conveniente. Rischia di produrre una valanga di cause la prevista penalizzazione del 30 per cento sul rimborso del danno per chi preferisse il carrozziere di fiducia a quello offerto dalla compagnia. E' indefinito lo sconto che l'assicurazione ti deve praticare, se lasci ispezionare l'auto prima della stipula. Avvio quanto mai soft della scatola nera per scoprire se l'incidente era reale o fittizio: nessun obbligo per le compagnie di montarla, sconti imprecisati per chi accetta di farsela installare.
C'era da aspettarselo. Troppo forte, in Italia, è la lobby delle compagnie, che dalla Rc auto nel 2010 hanno ricavato 18 miliardi di euro, riducendo la concorrenza al minimo. La metà del mercato, nel ramo danni, è appannaggio di due colossi: il nascente Unipol-Fonsai, che ne controlla oltre il 30 per cento, e le Generali, che si avvicinano al 20. In tutto appena cinque gruppi si dividono il 70 per cento: un livello di concentrazione sconosciuto negli altri paesi d'Europa. Così, mentre nell'area dell'euro i prezzi medi per l'assicurazione dei mezzi di trasporto sono partiti nel 2000 dal livello 89,3 per attestarsi a quota 109,9 nel 2010, da noi, nell'arco di dieci anni, ci si è mossi da più in basso, 74,9, per schizzare nel 2010 al picco assoluto di 117,2, con un incremento del 4,6 per cento l'anno che fa gridare allo scandalo, rispetto al più 0,7 della Germania, al più 0,9 della Francia e persino al più 2,7 della Spagna. L'indagine conoscitiva presentata il 12 ottobre del 2011 in Senato da Antonio Catricalà, allora presidente dell'Autorità Antitrust prima di passare il mese successivo al governo, documentava queste cifre e denunciava un'inquietante "tendenza al rialzo continuo". In base a dati dell'Isvap, l'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni, un quarantenne che si trovi nella classe di bonus più favorevole, la prima, si è visto caricare nel biennio 2009-2011 un aumento medio del 26,9 per cento. E stiamo parlando di una categoria di guidatori non certo spericolati. Fino al 1994 le tariffe Rc auto erano imbrigliate dal prezzo amministrato. Lasciate libere, hanno recuperato immediatamente l'equilibrio per poi continuare a crescere, sfruttando l'obbligo degli automobilisti ad assicurarsi.
Ma questa corsa non era finita nel 2007, grazie alla legge Bersani? «In un primo tempo l'impatto delle nuove norme è stato molto positivo - spiega Claudio Demozzi, presidente del Sindacato nazionale agenti, il primo del settore con 8 mila iscritti su 15 mila agenzie attive -Bersani ha infatti messo fuorilegge il mandato di esclusiva, spiazzando così le compagnie, e ha ridotto l'onere per i neopatentati, iscrivendoli alla categoria bonus malus più favorevole in famiglia, anziché d'autorità alla 14 - Ma poi le compagnie hanno reagito, riallineando all'insù le tariffe, anche per le classi più basse. Alla legge Bersani, inoltre, mancava un tassello decisivo. Non bastava dire no al monomandato - Bisognava anche obbligare le compagnie ad accordare i nuovi contratti di agenzia -continua Demozzi - ma anche qui, dopo lo sbandamento iniziale, queste si sono riorganizzate facendo cartello.»
Hai già un rapporto d'esclusiva con le Generali e chiedi di lavorare anche per noi della Zurich? Niente da fare, disco rosso. E così il sogno della concorrenza veniva soffocato sul nascere. Non che gli agenti lavorino oggi tutti in esclusiva: uno su quattro opera già con più compagnie. Semplicemente è stato bloccato questo processo di espansione. L'obbligo del plurimandato sembrava un punto fermo del decreto Monti, e invece nel testo in vigore non ne è rimasta che una traccia beffarda, all'articolo 34, dove si dice che gli agenti, prima della stipula della sottoscrizione, devono "informare il cliente, in modo corretto, trasparente ed esaustivo, sulla tariffa e sulle altre condizioni contrattuali proposte da almeno tre diverse compagnie non appartenenti a medesimi gruppi". Questi dati l'agente può attingerli da Internet. "Ma che senso ha proporre al cliente polizze che poi non posso intermediare?", si domanda il presidente del Sna. Niente di più facile che gli agenti, per vendere la loro, mostrino al cliente le proposte peggiori delle compagnie più scamuffe. Tutte le inefficienze del sistema Rc auto forniscono lo spunto per produrre aumenti. L'Isvap nel 2010 ha comminato alle compagnie circa 4 mila sanzioni per 35 milioni di euro, e l'anno prima per 45 milioni di euro, soprattutto con riferimento a illeciti nella liquidazione dei sinistri. Che problema c'è? Versi la sanzione e poi rincari la polizza. Si dice poi che in Italia le tariffe siano così care a causa dei falsi incidenti e delle frodi che le compagnie subiscono. Strano però, che dai loro dati ufficiali tale piaga non traspaia affatto. Nel periodo 2007-2009 le frodi accertate sono infatti il 2-3 per cento del totale degli incidenti. Appena la metà di quelle scoperte in Francia, un quarto rispetto al Regno Unito. "Le compagnie - commenta l'Autorità Antitrust - non dedicano energie sufficienti a individuare le frodi, anche perché non hanno adeguati incentivi a controllare i propri costi". Fuor di metafora: meglio liquidare comunque un danno che spendere tempo e soldi in periti e avvocati per dimostrare che l'incidente non c'è mai stato, o che gli effetti sono gonfiati. Tanto poi ci rifacciamo sui prezzi. Come per l'evasione fiscale, gli onesti pagano il conto dei furbi.
Ma il decreto Monti risolve questi problemi? E' la stessa Ania, l'Associazione nazionale delle compagnie di assicurazione, a rispondere di no. «Per ridurre davvero i costi, e quindi i prezzi, occorrerebbe varare la tabella per la valutazione dei danni gravi alla persona - sostiene Vittorio Verdone, che dell'Ania è direttore del settore Auto - in più, estromettere dai risarcimenti le pseudo-lesioni lievissime, che non siano provate da accertamenti diagnostici strumentali. Così si taglierebbero le tariffe di un 20 per cento in un colpo solo». Per i consumatori, infine, il decreto è soltanto un proclama di buone intenzioni. «Senza alcun effetto pratico - commenta Pietro Giordano, segretario generale Adiconsum - Occorre rimodulare la "bonus malus", spostare l'assicurazione più sul conducente che sul veicolo, indurre le compagnie a un maggiore impegno contro le frodi. Speriamo che il Parlamento porti qualche modifica utile».
Dei cinque articoli del decreto che si occupano di Rc auto, il più concreto sembra quello che prescrive, di qui a due anni, l'abolizione di tutti i contrassegni cartacei sui vetri delle auto, per contrastare la piaga dei tagliandini falsi, e la loro sostituzione con sistemi elettronici o telematici in grado di rilevare anche le violazioni al codice della strada: sarà l'Isvap a dettare modalità e fasi di questa operazione. Ci sono poi le vaghe norme su ispezioni e scatola nera, la facoltà data alle compagnie di riparare l'auto, con l'improbabile penalizzazione del 30 per cento per chi fa da sé, e la presa in giro dei tre preventivi. Dopo la rivoluzione a metà di Bersani, i pannicelli caldi di Mario Monti. E dire che un sistema per aumentare la concorrenza e ridurre le tariffe già esiste ed è in funzione, ma pochi lo conoscono e lo praticano. Si chiama "Tuo preventivatore" e si trova sul sito del ministero dello Sviluppo economico e su quello dell'Isvap. Clicchi il bottone che ha il profilo di un'auto, ti iscrivi, fornisci alcune informazioni essenziali e, venti minuti dopo, ti arrivano per mail i migliori cinque o sei preventivi "su misura", validi per 60 giorni. Il congegno è in grado di determinare una significativa mobilità di utenti da una compagnia all'altra. Si tratta solo di integrare il ventaglio delle offerte contrattuali, di potenziare il servizio e di propagandarlo, sui giornali e in tv, con un po' di doverosa pubblicità progresso.
Peccato, però, che spesso le tariffe indicative e sono difformi da quelle reali che si potrebbero trovare presso le agenzie.
Si fa presto a dire liberalizzazioni. Questo dice Agostino Riitano in un’articolo pubblicato su “L’Indro”. Le si nomina come panacea a tutti i mali dell’economia italiana. Ma appena un governo tenta di attuarle, c’è la corsa a erigere barricate. Tassisti, farmacisti, notai, avvocati, persino giornalisti. Tutti a rivendicare che va bene liberalizzare, ma “non si inizi da noi, noi non siamo una casta” e via protestando. L’unico settore dove la fine del monopolio, in questo caso statale, è stato salutato da un’ola lunga quanto l’Italia è stato quello delle assicurazioni. In teoria, ci avrebbero dovuto guadagnare tutti. Lo Stato, che si sarebbe liberato di compagnie vecchie e in perdita. I privati, che avrebbero potuto entrare in un mercato ’vergine’ e dai profitti potenziali enormi. I cittadini, che avrebbero dovuto vedere prezzi più bassi in onore della più spietata concorrenza. In pratica, gli unici a perdere sono stati gli unici che avrebbero dovuto vincere, i cittadini. I problemi sono quelli che tutti conoscono. Prezzi troppo alti e una fatica immane a farsi abbassare il premio. Ma la domanda è: “Perché?”. Beh, innanzitutto perché la concorrenza è rimasta sulla carta della legge voluta da Pierluigi Bersani. L’ultima condanna dell’Antitrust italiana è di settembre 2011. La motivazione suona come una campana a morto delle liberalizzazioni e della concorrenza: “Esistono accordi tra imprese volti alla fissazione dei prezzi di vendita. Questi accordi danno luogo ad aumenti dei prezzi e a riduzioni della quantità offerta e determinano, pertanto, una diminuzione complessiva del benessere sociale”. Il Parlamento, bontà sua, ha voluto vederci chiaro e, così, la commissione Prezzi ha convocato il presidente dell’Ania, l’associazione che riunisce le compagnie di assicurazione. Il direttore generale Paolo Garonna ha detto, più o meno: “Non siamo noi i colpevoli se le tariffe sono alte”. E ha elencato quelli che ha definito ’problemi di fondo’. E cioè: “L’assenza fino a oggi di strumenti efficaci per combattere le frodi; l’abnorme numero dei danni alla persona di lievissima entità di origine speculativa; il ritardo nell’emanazione della disciplina per il risarcimento dei danni alla persona di più grave entità; le norme tecnicamente sbagliate come quella che ha alterato il sistema bonus/malus o come quella che ha aumentato i costi di distribuzione mediante l’introduzione del divieto di monomandato agenziale; le incertezze normative e giurisprudenziali che hanno minato il sistema di risarcimento diretto; le carenze ed i ritardi della giustizia civile”. Il mensile ’Quattroruote’, specializzato del settore automobili, ha denunciato altre falle del sistema. E nel suo ’libretto rosso’ delle assicurazioni ha rimarcato dettagli risaputi ma mai troppo ’pubblicizzati’. Il giornale denuncia risarcimenti gonfiati ad arte per farvi rientrare l’onorario di un avvocato, che per legge non sarebbe dovuto, e periti sottopagati e disincentivati a scoprire truffe, anche perché bypassati a favore delle carrozzerie convenzionate, cui verrebbe data sostanziale libertà di gonfiare gli importi dei piccoli incidenti fino al massimo consentito dalle procedure interne delle compagnie prima di far scattare i controlli. Antonio Giangrande è il presidente della onlus Associazione contro tutte le mafie. Da anni si batte contro quelle che definisce la lobby delle assicurazioni. “In effetti - ci dice - questo dei carrozzieri è un problema che viene messo in evidenza troppo poco”. Giangrande non crede che le spiegazioni dell’Ania siano sufficienti per spiegare il livello delle tariffe della Rca. “Non ci sono numero certi, per esempio, che ci dicono che il Sud truffa più del Nord. Una truffa è tale solo quando c’è una sentenza definitiva di un tribunale, non quando lo dicono le assicurazioni. E se anche ci fossero tutte queste truffe, dove sono gli organi di controllo, come la magistratura?”. Per Giangrande la realtà è che c’è una ’discriminazione’ fra varie parti del Paese: “Un morto o un ferito in incidente stradale nel Meridione vale meno che nel resto di Italia. E’ giusto che chi subisce danni seri e reali paghi per altri? E poi che ci sta a fare un ente pubblico come l’Isvap, mantenuto dalle tasse di tutti noi, che dovrebbe controllare ma che non controlla un bel niente?”. Isvap, ovvero Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private e di interesse collettivo. E’ un ente dotato di personalità giuridica istituito con legge 12 agosto 1982, n. 576, per “l’esercizio di funzioni di vigilanza nei confronti delle imprese di assicurazione e riassicurazione nonché di tutti gli altri soggetti sottoposti alla disciplina sulle assicurazioni private, compresi gli agenti e i mediatori di assicurazione. L’Isvap svolge le sue funzioni sulla base delle linee di politica assicurativa determinate dal Governo”. “Sa chi nomina i componenti dell’Istituto? - domanda Giangrande, dandosi una risposta -. Il governo. Quindi noi cittadini avremmo il diritto di conoscere perché l’ente non opera come dovrebbe. Gliene dico una per tutte: abbiamo verificato che i prezzi esposti sul sito istituzionale poi non hanno un riscontro nella realtà”. Giangrande aggiunge alle storture segnalate da ’Quattroruote’ altri casi pratici: “La legge diceva chiaramente che gli agenti sarebbero potuti essere plurimandatari, lavorare cioè per più compagnie. Di fatto, però, le compagnie obbligano gli agenti a lavorare solo per loro. E non è finita. Dopo l’entrata in vigore della norma, il successivo regolamento ha di fatto impedito ai subagenti di operare per più compagnie. Insomma, uno dei punti salienti delle liberalizzazioni è venuto a mancare”. Il Presidente dell’Associazione contro tutte le mafie chiude con un consiglio: “Le compagnie di assicurazione fanno cartello? Bene, gli automobilisti onesti rispondano con un altro cartello. Promettano di sottoscrivere contratti solo con chi garantisce prezzi e premi equi”.
Dello stesso tono è l’articolo pubblicato su “Prima da noi”. I dati Isvap parlano chiaro: secondo le fonti Isvap, l’Italia nel 2002/2009 ha registrato un + 17,9% rispetto alla media UE del + 7,1 %. Un problema sentito soprattutto al Sud. E’ difficile spiegare perché, ma c’è chi come Antonio Giangrande, presidente dell’associazione “Contro Tutte le Mafie”, ha le idee abbastanza chiare.
Il premio di assicurazione (indennizzo) dovrebbe funzionare così: più l’automobilista è virtuoso (non fa incidenti stradali) meno alta è la tariffa che deve versare alla sua assicurazione, più l’assicurazione stessa è contenta. In realtà, secondo Giangrande, non è così. «Molti automobilisti», dice, «anche se non hanno fatto incidenti si vedono lievitare il premio di assicurazione. Quello che interessa all’assicurazione è il guadagno. L’obiettivo non è più la riduzione del rischio ma la convenienza o meno del meccanismo: più sei virtuoso, più il premio è basso, meno convieni all’assicurazione che ci guadagna poco. Allora le assicurazioni mettono in campo la storia degli incidenti e dicono che l’aumento della polizza è conseguenza di un aumento di incidenti stradali».
Secondo Giangrande il problema è l’oligopolio: poche compagnie assicurative concentrano il potere nelle loro mani ed impongono tariffe liberamente. La soluzione è la liberalizzazione del settore assicurativo.
La teoria di Giangrande trova riscontro nell’interrogazione parlamentare dell’onorevole Felice Belisario, nel 2007, con cui si chiedeva di verificare se i dati statistici sugli incidenti fossero manomessi per far figurare che ci sono più incidenti così da poter aumentare premi e polizze. Anche la Sna, (Sindacato Nazionale Agenti di Assicurazione) ha avviato una petizione popolare sul mercato assicurativo proprio contro il caro assicurazioni e contro l’impunità per i falsi sinistri. Gli autori della petizione chiedono al presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini di contrastare l’aumento smisurato delle tariffe, costituendo un Comitato Nazionale contro le frodi assicurative, con la massima partecipazione della Magistratura, dell’Isvap (organo preposto al controllo), delle forze di polizia, della rappresentanza degli agenti di assicurazione e dei consumatori. Tra le richieste anche una piena liberalizzazione del mercato assicurativo italiano che favorisca l’ingresso di altre compagnie assicurative estere, con aumento della qualità e quantità della offerta.
Liberalizzare, secondo Giangrande, significa soprattutto abolire il regolamento Isvap n.5 del 16 ottobre 2006 che impedisce il plurimandato assicurativo (cioè obbliga l’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’Isvap così da impedirgli di essere sub agente di un’ altra compagnia). Tutto questo impedisce, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti. C’è poi la piaga del Sud dove l’assicurazione dell’auto costa molto di più e le compagnie decidono di chiudere i battenti perché non vi è interesse economico, provocando così disoccupazione e limitando la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.
Naturalmente molte altre testate hanno pubblicato pari pari il pensiero del dr Antonio Giangrande.
Che la lobby delle compagnie di assicurazione autorizzate alla RCA fossero ben presenti in Parlamento, si sa.
Che questa lobby parlamentare gestisca i finanziamenti a giornali e tv, o sovvenzioni stampa e televisione con campagne pubblicitarie per comprare il loro silenzio, o sostenga campagne di “guida sicura” contro l’alcool nell’interesse di associazioni interessate, è risaputo.
Che ci siano associazioni che si dicono a difesa del consumatore e che si contano su adesioni fittizie, tanto da renderli meritevoli di percepire il finanziamento dello Stato, per questo da renderli muti in riferimento alla truffa della RCA, è un dato di fatto.
Sicuro è che a guadagnarci dall’aumento dei premi assicurativi RCA sono il Fisco e le Compagnie.
Che si debba scrivere un resoconto di pubblico interesse per dimostrare che non c’è alcuna relazione tra l’aumento delle tariffe e la sinistrosità ed elemosinarne la pubblicazione è scandaloso, se si pensa che solo piccole redazioni ne danno il dovuto spazio.
Non capisco l’accanimento di certe “penne e tastiere saccenti”, che si ostinano ad ignorare il dr Antonio Giangrande. Questi giornalisti, le poche volte che lo fanno, parlano di un fenomeno, quale può essere la RCA, di cui nulla sanno, se non il sentito dire o il luogo comune.
Il Dr Antonio Giangrande, autore senza “peli sulla penna e sulla tastiera” della Collana editoriale “L’Italia del Trucco”, spiega il perché dell’aumento dei premi assicurativi. Ossia, essi sono solo frutto di orrida speculazione sostenuta dalla lobby in Parlamento.
Gli assicuratori dicono che l’aumento dei premi è colpa del numero dei sinistri ed il loro aumentato valore di dannosità.
Come dire che il carburante aumenta per colpa delle guerre e non dei petrolieri o del Fisco.
Come dire che l’accesso all’avvocatura è limitato perché vi sono molti avvocati e non per colpa degli avvocati che hanno abilitato parenti, amici ed amanti e vogliono limitarne l’esercizio esclusivamente a loro.
L’OLIGOPOLIO
L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso, rimasto lettera morta, al Ministro dello Sviluppo Economico contro l’ISVAP, per la violazione della Concorrenza, del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo.
La novella sulla carta prevede il plurimandato. Nel principio della legge ciò comporta che il plurimandatario offra al cliente la tariffa più conveniente. Ma di fatto non è così.
Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, che ha fatto propri i dubbi sollevati.
Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo e, di fatto, la ricerca della tariffa più conveniente.
Il Regolamento prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione dell’agente in una sola delle sezioni tenute dall’ISVAP. In questo modo l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia.
Il Regolamento inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro.
Il Regolamento impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti.
Il Regolamento impone l’iscrizione dei subagenti solo se indicati dagli agenti presso cui operano, imponendo di fatto il mono mandato.
Lo stesso agente, però, è anch’esso mono mandatario, così obbligato dalla compagnia.
Il Regolamento è a favore di tutte le compagnie di assicurazione, le quali obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.
Le agenzie di assicurazione fidelizzano i clienti in sottoclassi non riconosciute da altre compagnie, per poi, quando il premio non è più redditizio per mancanza di sinistri, esercitano il loro diritto di recesso, obbligando il cliente a contrarre con nuove tariffe maggiorate. Maggiorate, sì, ma sempre più convenienti per il gioco delle sottoclassi di merito, non riconosciute altrove.
Le agenzie di assicurazione nell’assicurare la seconda auto, pur intestata ad un familiare, attingono sì alla stessa classe della prima auto, ma con tariffe maggiorate.
Molte agenzie non rilasciano l’attestato di rischio, impedendo al cliente di cambiare compagnia.
Molte compagnie non esercitano al sud perché non vi è interesse economico a farlo, tanto da limitare l’esercizio ad alcune di esse e limitare la stessa concorrenza con lievitazione delle tariffe.
Le compagnie di assicurazione dichiarano che i premi aumentano, in quanto vi sono più sinistri e maggiori danni. FALSO!!!
In premessa bisogna denunciare che un soggetto morto o lesionato al Sud Italia è risarcito in modo minore rispetto ad un soggetto del Nord Italia. Inoltre la normativa ha estromesso l’avvocato nella fase degli accertamenti peritali da effettuarsi in determinati termini temporali, investendo le carrozzerie per questo compito, con l’intento di limitare le spese legali.
Nonostante ciò le compagnie non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti dalla legge, che prevede delle sanzioni alla violazione dei termini indicati. Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. I liquidatori introvabili, poi, sono capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche. Questi signori hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un giudice di pace di Sestri Ponente a toccare il tempo alle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti. «Le cause pendenti sono circa 1.500», rivela l’avvocato Massimo Bianchi, nella doppia veste di difensore nella causa pilota di Sestri e presidente dell’Associazione genovese dei legali specializzati in incidenti stradali.
Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.
Le compagnie assicurative ritengono che vi sia un rapporto tra aumento dei sinistri ed aumento dei premi. Responsabilità dei sinistri da addossare interamente agli utenti automobilisti.
Con tale inchiesta si dimostra il contrario.
RCA: LA TRUFFA DI STATO
Prima di rendicontare sulla questione si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è sotto processo a Taranto per calunnia, senza che vi sia un solo atto che lo dimostri, per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.
La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?
Lo spiega il Dr Antonio Giangrande
Nuove regole.
«Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.»
Ma perché?
«Rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato. Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.»
Ma la stessa rilevazione del numero dei sinistri e truffaldina.
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-04166 presentata da FELICE BELISARIO
Martedì 26 giugno 2007 nella seduta n. 177 BELISARIO e RAITI. - Al Ministro dello sviluppo economico - Per sapere - premesso che:
nel numero del 2 febbraio 2007 del settimanale a diffusione nazionale «DIARIO» è apparsa un'inchiesta a firma del giornalista, Mario Portanova con la quale venivano segnalate una serie di possibili alterazioni dei dati relativi ai sinistri all'interno dei centri di liquidazione danni delle maggiori compagnie assicurative italiane che, come è noto, negli ultimi anni si sono consorziate per la gestione in comune dei servizi di liquidazione (fra questi Fondiaria - Sai - Milano, Generali - Assitalia-Fata, Ras-Allianz-Bernese, Unipolaurora-Navale, eccetera), mantenendo sostanzialmente scorporate le singole imprese per la raccolta dei premi e la fornitura dei prodotti e servizi assicurativi;
in particolare, un'intervista ad un ex ispettore sinistri, che aveva già denunciato tali prassi alla Procura di Lecce, evidenziava come attraverso «semplici trucchetti» venivano alterati alcuni dati «grazie ai quali i premi delle polizze continuano ad aumentare, i bilanci delle compagnie vengono alterati...»: fra questi l'apertura fittizia di sinistri allo scopo di aumentarne la frequenza;
esige il dato più inquietante che emergeva è che se «queste stesse manipolazioni fossero state eseguite a livello di tutti gli ispettorati dei maggiori gruppi assicurativi... il risultato sarebbe stato un aumento vertiginoso dei sinistri. Vale a dire un danno agli assicurati, poiché il solo scopo del trucco era il mantenimento di elevati livelli tariffari. Tanto nessuno può controllare queste procedure, se non le stesse compagnie...»;
queste circostanze sarebbero confermate anche da altri addetti agli ispettorati sinistri di altre compagnie del territorio nazionale;
in virtù dei sistemi informatici utilizzati all'interno degli ispettorati di gruppo avverrebbe uno scambio dei dati sensibili di assicurati e danneggiati delle compagnie consorziate, senza alcun riguardo per il diritto alla privacy;
tale scambio di dati relativi al numero dei sinistri, e ai pagamenti, se gli stessi fossero conosciuti da tutte le compagnie all'interno dello stesso gruppo, potrebbe comportare una violazione della normativa antitrust o un aggiramento della normativa stessa;
l'eventuale alterazione dei dati statistici all'interno degli ispettorati sinistri e le eventuali anomalie indicate nella citata inchiesta possono comportare un'alterazione del leale svolgimento dei mercati assicurativi e quindi possono essere in grado di aumentare le tariffe relative ai premi di assicurazione;
allo stato, ai sensi del decreto legislativo n. 209 del 2005 (Codice delle Assicurazioni), il nostro ordinamento affiderebbe il controllo e la vigilanza sulle compagnie e sui gruppi di assicurazioni, all'organismo di vigilanza ISVAP -:
se non intenda chiarire, anche attraverso eventuali iniziative legislative, se la normativa sui poteri di vigilanza dell'ISVAP, permetta il controllo diretto e la vigilanza sui dati relativi alla gestione interna e tecnica dei servizi di liquidazione sinistri delle Compagnie assicurative e di quelli di gruppo, e quindi l'esercizio dei poteri prescrittivi e repressivi conseguenti, o relega l'ISVAP ad un ruolo di mero organo accertatore dei dati e delle statistiche fornite dalle compagnie e dai gruppi assicurativi, specie in tema di numero di sinistri, pagamenti e costi;
quali siano i dati di cui il ministero dispone, anche ai sensi dell'articolo 136 del citato codice delle assicurazioni, in merito alle vicende esposte.
INSICUREZZA STRADALE: QUELLO CHE NON SI DICE
Sul portale della “Associazione contro tutte le mafie”, www.controtuttelemafie.it , è stato pubblicato uno studio approfondito sulla sicurezza della circolazione stradale.
«Il tema dell’insicurezza stradale è sentito da tutti. Ognuno di noi, o un proprio caro, conosce l’esito di un sinistro: lesione o decesso - dice il suo presidente dr Antonio Giangrande - Nessuno conosce per certo i numeri e le cause del fenomeno, per porvi rimedio, salvo assistere alle strumentalizzazioni per interesse privato di enti ed associazioni tematiche.»
Quante sono le vittime?
«Secondo i dati ISTAT-ACI, ogni giorno in Italia si verificano in media 633 incidenti stradali, che provocano la morte di 14 persone e il ferimento di altre 893. Nel complesso, nell’anno 2007 (ultimi dati disponibili) sono stati rilevati 230.871 incidenti stradali, che hanno causato il decesso di 5.131 persone, mentre altre 325.850 hanno subito lesioni di diversa gravità. Si sono persi per strada ogni anno almeno 90 mila sinistri stradali con lesioni rilevati dalla polizia municipale. Manca infatti un sistema centrale informatico per la raccolta dell'attività della polizia locale che da sola rileva in Italia 3 incidenti su 4. Lo ha evidenziato l'Anvu con la pubblicazione del secondo stralcio della ricerca statistica sui dati dei sinistri stradali relativi al 2008, effettuata con il portale poliziamunicipale.it. Secondo l'osservatorio della polizia municipale i dati elaborati, analizzando un campione di comuni pari quasi al 30% della popolazione residente, evidenziano che i dati ufficiali diffusi ogni anno dall'Istat a fine anno sono gravemente carenti di informazioni. Nel 2007, secondo i dati ufficiali dell'Istat, infatti, il numero complessivo di incidenti con feriti o decessi ammontava a 230.871. Secondo la stima elaborata dall'osservatorio Anvu – poliziamunicipale.it - nel 2008, quelli effettivamente occorsi erano 320.000, quindi 90.000 in più rispetto ai dati ufficiali del 2007.»
Quale è la tipologia delle vittime secondo i dati Istat?
«Conducenti e passeggeri di autovetture, autocarri, autobus e Tir: 7 morti al giorno. Pedoni: 2 morti ogni giorno. Passeggiare tranquilli tra le vie della propria città, lasciando per una volta a casa la macchina, può purtroppo trasformarsi in un vero incubo. La conferma viene dagli ultimi dati statistici in tema di incidenti stradali: in Italia, ogni giorno, circa 60 persone vengono investite sulla strada. Di queste, oltre 2 al giorno perdono la vita, mentre circa 58 devono farsi medicare per lesioni più o meno gravi. Ci sono state 758 vittime. I feriti fra i pedoni si sono attestati a quota 21.062. Le cause di questa "strage" restano quelle di sempre: alta velocità, guida in stato di ebbrezza, distrazione, segnaletica verticale ed orizzontale insufficiente. Comportamento generalmente imprudente unito ad una sorta di vera e propria intolleranza degli automobilisti verso il pedone. A questi fattori bisogna aggiungere strisce pedonali che in diversi casi hanno perso il colore e sono praticamente invisibili; auto e scooter parcheggiati sui marciapiedi che costringono il pedone a slalom o passaggi obbligati sulla strada, magari con passeggini o sacchi della spesa al seguito; autobus che effettuano le fermate in mezzo alla strada. Sul versante delle responsabilità dell'incidente, le statistiche indicano che nel 51% dei casi di investimento nessuna responsabilità è da attribuirsi al pedone; nel rimanente 49% troviamo invece delle forme di corresponsabilità: non è vero, quindi, che, come si sente dire, "il pedone ha sempre ragione". Il pedone, infatti, oltre a diritti ha anche dei precisi doveri da rispettare elencati nell'art. 190 del CdS. I ciclisti: 1 morto ogni giorno. Ultimo dato Istat disponibile: morti 317 ciclisti. E non è tutto: in appena 3 anni, secondo un'inchiesta pubblicata sulla rivista il Centauro sono quasi 1.000 i ciclisti che hanno perso la vita sull'asfalto, con 12.476 feriti, (35.491 in tre anni). E sempre secondo le statistiche si sono contate 15 vittime fra i bambini che andavano in bici dagli 0 ai 14 anni. 13 maschi e 2 femmine. Sono state invece ben 161 le vittime fra i ciclisti over 65, pari al 50,8%. Fra gli anziani 122 erano maschi 75,8% e 39 le femmine 24,2%. I motociclisti: 4 morti ogni giorno. Il 90 per cento dei decessi avviene in ambito urbano, per colpa di un traffico caotico, di strade in pessimo stato, di trasporti pubblici inefficienti che spingono all'utilizzo delle due ruote come obbligo e non come scelta, dei mancati controlli sui comportamenti indisciplinati e pericolosi dei guidatori delle due e delle quattro ruote”. I dati emergono dall'indagine della Consulta nazionale per la sicurezza stradale del Cnel sull'analisi di rischio delle due ruote a motore.»
Quali sono le cause?
«Sono marginali i sinistri causati dagli autisti dei Tir, che secondo le inchieste svolte sono costretti dalle aziende a guidare per giorni senza dormire. Guidatori che si tengono su con la cocaina. E nessun rispetto delle leggi. Come non sono quantificabili le cause dovute al fenomeno dei collaudi falsi. Il fenomeno dei collaudi falsi è esteso, ma sottaciuto, se non con qualche servizio di Striscia la Notizia. Causa di incidenti stradali possono essere molteplici fattori. Si va dalle semplici disattenzioni a incidenti causati dalla cattiva condizione della carreggiata o condizioni meteorologiche. Ma stranamente si parla solo di ubriachi al volante. Incidenti dovuti alla condizione della strada: Fondo ghiacciato o innevato o presenza di fanghiglia o di pietrisco, fogliame o altro materiale scivoloso sulla carreggiata; macchie d'olio sull'asfalto; allagamento da forte pioggia. Incidenti dovuti alla struttura della strada: La ristrettezza della strada, presenza di strettoie non segnalate; la mancata segnalazione degli incroci; la mancanza di segnaletica orizzontale o verticale; la presenza di ostacoli occulti ed imprevedibili; presenza di animali; fondo stradale disconnesso, scarsa illuminazione. Incidenti dovuti alla condizione ambientale: Pioggia, neve o grandine; nebbia fitta; forte vento laterale. Incidenti dovuti alla condizione del mezzo: Manutenzione scarsa o assente; gomme lisce; rottura improvvisa di componenti meccaniche. Incidenti dovuti alla condizione soggettiva: Abbagliamento; curiosità quando sull'altra corsia dell'autostrada è successo un incidente o si è intervenuti in aiuto senza segnalare la propria persona né i veicoli coinvolti nel sinistro; guidare con il cellulare, magari fumando una sigaretta o armeggiare con l’autoradio; distrazione o disattenzione per fattori interni all’abitacolo o esterni; colpo di sonno; violazione delle norme del codice della strada quali il limite di velocità, sorpassi azzardati, non rispetto della segnaletica; stato psicologico alterato da alcool e droga.»
Dai dati ufficiali risulta che la distrazione è la causa principale per gli incidenti stradali.
«La ricerca sui fattori soggettivi degli incidenti stradali, condotta dall’Istituto Piepoli con il patrocinio del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e su incarico dell’Anas Spa, della Fipe e del Silb, ha stabilito che la causa principale degli incidenti stradali è costituita dall’alterazione cognitiva dei processi di attenzione del guidatore, che può essere determinata da fattori psicologi, da stili di vita “irregolari” ovvero da stress o da stanchezza.»
Per gli aderenti al CNOSS 1/3 dei decessi è colpa delle condizioni delle strade.
«Gran parte delle associazioni aderenti al CNOSS si sono costituite proprio a causa di incidenti determinati dalla pericolosità delle strutture viarie italiane, ma le coscienze profumano più di pulito se queste responsabilità vengono viste con ingiustificata "benevolenza". Ecco il loro comunicato stampa: “Lo stiamo dicendo da anni, attirandoci le antipatie di molti enti gestori delle strade. In Italia un incidente mortale su tre è imputabile alle condizioni delle strade. Oggi giornali e televisioni hanno dato la notizia "scoop" con grande enfasi ed apparente sorpresa. Dopo il polverone iniziale, temiamo che alle migliaia di morti ammazzati, che ogni anno perdono la vita a causa delle vergognose condizioni delle strade italiane (gli altri) si aggiungeranno altre migliaia di ignari utenti della strada che oggi hanno appreso la notizia con fatalismo e senso di impotenza (da sorteggiare tra noi tutti). Alcune domande sorgono spontanee: Se un incidente mortale su tre è dovuto alle condizioni delle strade, perchè le responsabilità di questi omicidi non vengono quasi mai imputate agli Enti gestori? Perchè le forze dell'ordine o gli altri organismi istituiti per garantire la sicurezza sulle strade non denunciano queste situazioni di pericolo senza attendere che ci scappi il morto?»
E le istituzioni cosa fanno?
«I sinistri stradali colpiscono anche coloro che dovrebbero vigilare sulla sicurezza della circolazione. Il 70% delle vittime in divisa sono deceduti su strada e non per conflitti a fuoco (10%) o altro, per mancanza dell'uso delle cinture e macchine in stato pietoso. L'incredibile dato arriva dall'inchiesta pubblicata sul Centauro di giugno 2009, la rivista dell'Asaps, “Associazione amici polizia stradale”. Ma quanti di questi agenti si sarebbero potuti salvare se solo avessero indossato le cinture di sicurezza? “Probabilmente molti - spiega Giordano Biserni, presidente dell'Asaps - perché spesso le "divise" non le indossano ritenendole d'impaccio per una possibile fase operativa. Inoltre l'elevata velocità, in emergenze per servizio, sarebbe meglio gestita in termini sicurezza dopo un'apposita formazione con corsi di guida sicura, che una volta si facevano, ma che nel tempo si sono persi. A noi preme - continua Biserni - la sicurezza di tutti, quindi anche degli agenti e la perdita di una vita non in un conflitto a fuoco, ma in un drammatico incidente stradale non ci consola di più. Anzi, ci fa ancora più rabbia”. In ogni caso una cosa è certa: il 70% dei casi un poliziotto perde la vita in un incidente stradale. E stupisce come nessuno si ponga il problema se una piccola associazione di volontari sia l'unica che solleva un problema tanto grave: anche queste sono morti bianche e non si può negare che un uomo o una donna in divisa siano lavoratrici e lavoratori come tutti gli altri. “Ma quando un difensore dello Stato ci lascia la vita - spiegano all'Aspas - non è sempre detto che l'evento che ha cagionato un esito letale non debba essere studiato a fondo per evitarne una dolorosa ripetizione. Prendiamo il caso di uno spericolato inseguimento: è sempre necessario correre a rotta di collo per fermare un sospetto?”»
«Certo è che nessuno parla delle morti evitabili – continua il Dr Antonio Giangrande - secondo gli studi effettuati, il 30 % delle morti è riconducibile al soccorso inadeguato. Fatto che ha precise responsabilità. La tempestività di un intervento qualificato sul luogo dell’incidente consente di ridurre al massimo l’intervallo privo di terapia, considerato maggiormente a rischio ai fini della sopravvivenza, e di esaltare, invece, le possibilità di recupero delle funzioni vitali (la “golden hour” nel trattamento immediato del politraumatizzato) determinando una riduzione degli esiti infausti nel secondo picco di mortalità. Un’analisi retrospettiva di oltre 700 decessi ha evidenziato che il 52 per cento delle morti avviene sul luogo dell’incidente o comunque prima dell’arrivo in ospedale, mentre del restante 48 per cento delle vittime, il 23 per cento muore entro un’ora dal trauma ed un’ulteriore 35 per cento entro le prime 24 ore. La percentuale di “morti evitabili”, intendendo con questo termine quelle dovute ad insufficienza o ritardo nel soccorso immediato pre-ospedaliero, è stata valutata retrospettivamente in misura del 70 per cento qualora non coesistano gravi lesioni del SNC ed in misura del 30 per cento nel caso in cui queste siano presenti. È da considerare, inoltre, l’esistenza di una elevata quota di decessi e di sequele funzionali post-traumatiche gravi dovute non già al trauma di per se stesso, bensì al verificarsi di eventi successivi, connessi con un primo soccorso non qualificato o con l’invio in strutture non idonee: ad esempio, lesioni neurologiche irreversibili causate da uno stato di shock emorragico non adeguatamente corretto, lesioni ischemiche di arti fratturati non sufficientemente immobilizzati durante il trasporto, danni midollari spinali da incauta estrazione del traumatizzato dal veicolo, ecc. In Italia, un’analisi autoptica retrospettiva di 110 soggetti deceduti per trauma ha evidenziato che la causa principale di morte era rappresentata da shock emorragico per lesioni che sarebbe stato possibile trattare chirurgicamente.»
Collaborare alla divulgazione di tali inchieste è un modo alternativo per battere censura ed omertà.
RCA: LA TRUFFA DI STATO
Prima di rendicontare sulla questione con con l’inchiesta di “La Repubblica” si premette che il dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie è stato processato a Taranto per calunnia per il sol fatto di aver difeso in tribunale un automobilista vittima di un sinistro truffa. Nel sistema giudiziario la magistratura e l’avvocatura è collusa nell’assumere testimonianze false nei processi in cui si dibattono i sinistri stradali. Guai a far emergere un sistema marcio, fonte di lauti guadagni per tutti, compresi gli assicuratori.
La regola è chiara e inequivocabile: più sei affidabile ovvero meno incidenti stradali commetti, più il premio assicurativo si abbassa, quindi meno ti costa la polizza secondo il famoso meccanismo bonus-malus. Risultato? Contento tu che paghi meno la tua assicurazione, contenta la tua compagnia che con un cliente virtuoso riduce il proprio rischio. Ma se questo sembrava essere il semplice principio alla base della RC Auto, ora non è più così. E infatti negli ultimi tempi su migliaia di automobilisti con pochi, a volte nessun incidente alla spalle, piovono disdette da parte delle compagnie assicurative o addirittura vengono proposti nuovi contratti più onerosi. Ma che motivo si nasconde dietro a questo comportamento apparentemente senza senso?
Nuove regole - Anzitutto c'è da dire che il comportamento descritto seppur scorretto è legale. Nel 2006 è entrato in vigore il nuovo Codice delle Assicurazioni private che mira a garantire l'assicurato e a favorire la concorrenza. In realtà però le nuove norme mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono "disdettare" polizze senza problemi e con un tempo di preavviso di soli 15 giorni.
Ma perché? - Ma rimangono ancora da chiarire però i motivi per cui ciò avviene. Dove sta la convenienza per la compagnia? E' presto detto. Da una parte la società assicuratrice preferisce ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese puntando sulla cacciata dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. E basta solo una piccolissima macchia nella propria condotta, a volte neanche quella. Ma la beffa non è finita. Se però il cliente è estremamente virtuoso, il motivo per disdire la polizza c'è comunque. Perché il criterio non è più l'eliminazione del rischio ma l'antieconomicità nel meccanismo bonus-malus di avere un assicurato troppo affidabile. Quindi in un caso o nell'altro puoi esser sempre fregato.
Quaranta milioni di veicoli in circolazione, 18 miliardi di euro di premi obbligatori, le tariffe più care d'Europa. Eppure in Italia spesso i bilanci delle assicurazioni finiscono in rosso: per inefficienza, per incapacità di frenare le frodi, perché operano in un sistema malato. L'unica certezza in questa guerra di tutti contro tutti è che, alla fine, a pagare sono sempre e solo i cittadini onesti. Per far fronte alla crisi e alle truffe, le compagnie hanno messo in campo una politica molto aggressiva nei confronti della clientela. La parola d'ordine è "liberarsi dell'assicurato che non dà sicurezza". Ma tra errori, esagerazioni e furberie, molte persone del tutto innocenti si trovano di fronte a vere e proprie "espulsioni". E per rientrare ricevono proposte a prezzi anche sei volte più alti.
La protesta dei consumatori e l'incapacità del sistema di trovare altre strade.
Mario, lo chiameremo così, non l’ha presa bene. La sua vecchia compagnia di assicurazione gli ha dato il benservito. Con una lettera che spazza via tutti quegli anni passati a pagare puntualmente la polizza. C’era stato un solo incidente con colpa, due anni prima di quella disdetta che lo mette alla porta. Mario però non ne vuole sapere, in fondo con quel "marchio" si trova bene. E allora, norme alla mano, pretende un altro contratto. L’assicuratore prima nicchia, poi risponde con una nuova proposta pronta per essere firmata. Manca solo un piccolo particolare: il prezzo. Che di colpo passa da 1.600 euro l’anno per la sola responsabilità civile, a 9mila euro, quasi sei volte di più. La storia di Mario è diventata un caso di scuola tanto che l’Isvap, ricevuta la denuncia del cittadino, ha aperto un fascicolo e tra qualche settimana appiopperà una multa salata all’impresa che ha tradito la fiducia del suo assicurato. Ma questa sanzione basterà a scoraggiare altri casi come questo?
Quel che sembra un caso limite, in realtà coinvolge ogni anno migliaia di automobilisti con pochi o a volte nessun incidente alle spalle. Improvvisamente arrivano disdette a pioggia, e l’obbligo ad assicurare viene aggirato con nonchalance. Ma perché le compagnie disdicono le polizze, invece di fare pulizia nell’azienda, tagliare i rami secchi e le inefficienze? Semplicemente perché preferiscono ridurre il rischio, ripulire il portafoglio da possibili sorprese. E puntano sulla scorciatoia della "cacciata" dei clienti che ritengono meno affidabili, anche se fedelissimi negli anni. Basta una piccola macchia (a volte nemmeno quella) per far suonare il campanello d’allarme negli uffici delle aziende del settore. Che, legge alla mano, procedono alla rescissione dei contratti. Sì perché le norme in vigore, nate per garantire l’assicurato e favorire la concorrenza, in realtà mettono le imprese in una posizione invidiabile: anche loro possono disdettare polizze senza problemi. A partire dal 2006, infatti, il nuovo Codice delle Assicurazioni private ha introdotto una disciplina con tempi di preavviso ridotti a 15 giorni. Quello delle disdette è un fenomeno che, sulla spinta della crisi economica, rischia di esplodere: automobilisti con alle spalle decenni di guida "pulita" senza nemmeno un sinistro, e incappati magari in uno o due incidenti nell’ arco degli ultimi tre anni, si vedono recapitare dal postino il benservito. A quel punto scatta la spasmodica ricerca di una soluzione: c’è chi chiede di restare con lo stesso "marchio" (è un diritto dell’ automobilista) e chi va in cerca dell’ alternativa (spesso costosa).
Ma c’è anche un altro sistema per tenere lontani automobilisti poco affidabili, troppo giovani e inesperti, o semplicemente residenti in aree giudicate a rischio truffa (il Sud, ma non solo): si propongono tariffe fuori mercato, anche cinque o sei volte più alte del normale per convincere il malcapitato guidatore a cercare altrove la propria polizza. In questo caso si verifica una "elusione dell’obbligo a contrarre" le polizze, un dovere per le assicurazioni, che è stato sancito anche dalla Corte di Giustizia europea e che nei prossimi giorni verrà sanzionato con multe milionarie dall’Isvap. Negli ultimi mesi, i due fenomeni stanno rapidamente contagiando le agenzie e molti automobilisti rischiano di pagare polizze più care anche del 30% per assicurare di nuovo il proprio veicolo. Soltanto l’anno scorso le imprese hanno ricevuto ai propri centralini 114mila reclami. Di questi, 70mila riguardano la RC auto. E se il 70% tocca il tema dei risarcimenti, gli altri casi sono stati causati proprio da disdette e classi bonus-malus incoerenti. Nei prossimi giorni arriveranno le prime pesanti sanzioni nei confronti di tre società entrate nel mirino dell’istituto di vigilanza per il fenomeno dell’elusione. Entro il 2011 toccherà ad altre undici compagnie. In totale ci sono 14 gruppi assicurativi sui quali si abbatterà la scure dell’Isvap per un totale di quasi 30 milioni di multe che vanno ad aggiungersi ai 31 già cumulati per altre motivazioni nel corso del 2011 per un totale da record di 60 milioni di ammende. Le 14 compagnie rappresentano quasi il 20% del mercato. Segno che in alcune aree del Paese almeno due compagnie su dieci applicano sistematicamente l’elusione. Francesco Avallone di Federconsumatori conferma: "Soprattutto al Centro Sud le compagnie stanno violando l’obbligo a contrarre muovendosi in due direzioni: da una parte disdicono polizze a clienti che non hanno mai causato dei sinistri, dall’altra rinnovano polizze a prezzi quadruplicati, in modo da spingere questi clienti a non riassicurarsi. Così da abbandonare il territorio economicamente meno vantaggioso". Secondo l’Isvap, inoltre, tra il 2004 e il 2009 c’è stato un calo del 30% degli uffici di liquidazione dei sinistri, per lo più al Sud dove spesso le organizzazioni criminali scambiano i liquidatori per dei bancomat al loro servizio. Ecco perché nel Meridione oggi c’è un cosiddetto "punto di contatto" ogni 17.329 veicoli circolanti, mentre nel 2009 erano 15.854. In Campania si sale addirittura a 32.617. Al Nord ce n’è uno ogni 10.527 veicoli.
Per l’Ania, l’associazione che rappresenta il settore assicurativo, le disdette sono legali e non vanno intese come una "punizione del consumatore". "È vero che il cliente si sente come tradito dalla compagnia", spiega Vittorio Verdone, direttore "Auto, distribuzione e consumatori" dell’associazione, "ma dobbiamo pensare alle polizze auto come ad un contratto di assicurazione e non ad un servizio soggetto a tariffazione. E quando crescono le difficoltà per le aziende - con costi più elevati magari dovuti alle truffe, alle microinvalidità fino al 2%, o ad alcune norme come la Bersani - allora si seleziona il rischio". Il cliente allontanato può comunque rientrare, anche se il "premio" risulterà generalmente più alto del precedente.
Proprio le truffe restano uno dei punti dolenti del nostro sistema assicurativo auto. Se è vero - come ha spiegato il presidente dell’Antitrust Catricalà al Senato - che le tariffe sono aumentate del 25% per le auto e del 35% per i motocicli negli ultimi due anni, è anche vero che l’incidenza delle truffe deprime i bilanci delle compagnie. Non siamo ancora ai livelli della Gran Bretagna e della Francia, dove questi reati incredibilmente accadono molto più spesso che in Italia. Ma in alcune aree del nostro Paese le truffe raggiungono picchi insostenibili. È un business in costante sviluppo. I soli incidenti fraudolenti (e solo quelli scoperti) valgono 340 milioni. Poi ci sono le microlesioni (quelle inferiori al 9% di invalidità, come il colpo di frusta), una specialità della giurisprudenza nazionale. In Francia la disciplina n’existe pas, non esiste, ed è poco sviluppata nel resto d’Europa. Fatto 100 il totale costi dei risarcimenti Rc auto, solo il 35% va alle riparazioni, mentre il 41% (5,7 miliardi) è destinato a morti o invalidità gravi (superiori al 9%) e il 24% (3,4 miliardi) finisce alle lesioni di lieve entità. Quelle molto lievi, da 1 o 2 punti di invalidità, costano più di 2 miliardi l’anno e rappresentano due terzi delle lesioni con danni fisici. È la "sindrome del colpo di frusta", che flagella il Meridione e mantiene attorno al 40% i sinistri con feriti nelle province di Crotone, Brindisi, Taranto, Foggia, Bari, Lecce. Ma perché allora, non si combatte davvero il fenomeno delle truffe? Secondo l’Isvap le imprese dovrebbero investire per combattere questi comportamenti. Le compagnie — che a dir la verità preferiscono non denunciare certi reati — replicano che di frodi dovrebbe occuparsi l’autorità giudiziaria, perché spesso costa di più raccogliere le prove indiziarie che non liquidare qualche migliaio di euro. Talvolta, infine, false imprese si scambiano i ruoli (fraudolenti) con i clienti: i fenomeni di abusivismo e commercio di polizze contraffatte nel 2011 sono più che raddoppiati: sono 25 i casi individuati rispetto al 2010. Sono compagnie pirata che raggirano ignari cittadini offrendo premi stracciati, dietro cui non ci sono strutture né riserve né risarcimenti. Solo un contrassegno finto. I grandi aumenti: +30% in due anni In soli due anni i costi di una polizza Auto sono schizzati verso l'alto del 25% mentre quelli delle moto hanno raggiunto picchi di incremento del 35%. Secondo i dati dell'Antitrust, c'è stato un aumento del 25% tra il 2009 e il 2010. E un incremento con punte del 35% se si considerano gli anni che vanno dal 2006 al 2010
QUANTO È AUMENTATA LA RC AUTO TRA IL 2006 E IL 2010 |
PROFILO ASSICURATO |
SESSO |
CENTRO |
ISOLE |
NORD |
SUD |
Ventenne,
assicurato per la prima volta. |
uomo |
+29,4% |
+14,2% |
+30,5% |
+26,2% |
donna |
+30,5% |
+8,8% |
+34,5% |
+33,4% |
|
Quarantenne |
uomo |
+19,3% |
+14,6% |
+15,3% |
+24,8% |
donna |
+12,4% |
+25,1% |
+20,5% |
+13,3% |
|
Cinquantenne |
uomo |
+6,3% |
+9,7% |
+8% |
+11% |
donna |
+10,1% |
+17,5% |
+7,5% |
+10,8% |
|
Quarantenne |
uomo |
+12,1% |
+15,3% |
+14,5% |
+17,1% |
donna |
+22,3% |
+24,2% |
+21,6% |
+16,9% |
I RINCARI DELLE POLIZZE RC MOTO TRA IL 2006 E IL 2010 |
PROFILO ASSICURATO |
SESSO |
CENTRO |
ISOLE |
NORD |
SUD |
Diciottenne |
uomo |
+20,8% |
+18,3% |
+15,6% |
+21,5% |
donna |
+27,4% |
+34,7% |
+12,6% |
+16,6% |
|
Quarantacinquenne |
uomo |
+52,5% |
+37,5% |
+42,3% |
+39,1% |
donna |
+37,5% |
+35,3% |
+24,6% |
+46,1% |
Disdetta senza motivo. Mai un incidente, eppure la compagnia assicuratrice di Luciana di Gaeta ha cancellato la polizza per poi proporle di rientrare a una tariffa molto più alta. Mai un incidente, eppure indesiderata. Luciana S. di Gaeta ha ricevuto, incredula, la disdetta della polizza dall'assicurazione pur non avendo mai creato problemi alla sua agenzia: regolari i pagamenti del premio, mai uno scontro fatto o subìto. "Ho chiamato la mia agenzia - racconta Luciana - e mi hanno detto imbarazzati che la disdetta era dovuta a "motivi commerciali". Subito dopo mi hanno detto che, se volevo rientrare, dovevo azzerare il vecchio contratto e assicurarmi come nuovo cliente, a una tariffa notevolmente più alta. A questo punto sono stata costretta a rivolgermi a un'altra compagnia. E neanche qui è stato facile: ho perso giorni e giorni per trovare un assicuratore che applicasse condizioni almeno decenti".
Come diventare indesiderato. Due piccoli incidenti negli ultimi due anni dopo dieci senza un graffio. Tanto basta a Mario di Roma per ricevere una lettera e una telefonata che chiudono il contratto. Dieci anni senza fare un graffio alla macchina. Poi due piccoli incidenti (con colpa) negli ultimi due anni. Abbastanza per diventare un "indesiderato". La compagnia fa recapitare una lettera a Mario di Roma, e poi telefona per sancire il divorzio. "Dopo proteste e reclami, mi sono rassegnato a cercare un'altra compagnia. Ne trovo una telematica e faccio il preventivo denunciando i due incidenti avvenuti per mia colpa. Prezzo vantaggioso, pago il dovuto e attivo la polizza. Troppo bello. Un operatore mi contatta e mi chiede se, oltre ai due incidenti per colpa, ne avessi avuto anche uno senza colpa. Era così, in effetti. Risultato? Il preventivo quasi raddoppia. Io, rassegnato, non posso che pagare".
L'attestato di rischio negato. Gianluca di Rieti voleva cambiare compagnia ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli fornisce l'attestato di rischio e lui deve affrontare costi maggiorati. Prova a cambiare compagnia assicurativa, ma quella vecchia gli fa lo sgambetto: non gli dà l'attestato di rischio e Gianluca di Rieti finisce in un vicolo cieco. "Sono andato in agenzia per farmi fare un preventivo e sottoscrivere la nuova polizza. Avevo con me molti documenti della vecchia assicurazione. Ma non l'attestato. La nuova agenzia mi ha spiegato che avrebbe attivato l'assicurazione, ma io sarei rientrato nell'inferno della classe 14. Io, che partivo da una classe 4. Il risultato concreto? Costi da mal di testa per la nuova polizza. Avere l'attestato di rischio non è forse un mio diritto?". Nessun avviso e 170 euro in più.
Una polizza a consumo chilometrico, un aumento consistente senza avvertire e senza spiegare. E alla fine per Raffaella di Roma il rinnovo forzato per non restare scoperta. Raffaella di Roma ha dal 2006 una polizza a consumo chilometrico. Quest'anno si è vista aumentare il premio di 170 euro senza essere stata avvertita e senza aver ricevuto l'attestato di rischio (l'agenzia sostiene di averlo spedito, ma non può provarlo). "Se volessi rescindere il contratto, avrei l'obbligo di portare l'auto in una specifica officina per far rimuovere l'apparecchio che conta i chilometri. Costo: 120 euro. Quando ho chiesto che motivassero questa spesa, mi hanno detto di non poterlo fare. Alla fine, con la polizza scaduta da undici giorni, ho dovuto rinnovare, forzatamente, con la vecchia compagnia. Un altro anno, pur di non restare senza copertura".
Ritardo ingiustificato. Quando hanno capito che Angela di Roma stava per mollarli, quelli della compagnia hanno prima allungato i tempi dell'attestato di rischio, poi fatto un'offerta più vantaggiosa. Angela C. di Roma ha chiesto l'attestato di rischio, inutilmente: "Quando la mia compagnia ha fiutato che stavo per mollarli, mi ha avvertito che avrei dovuto aspettare oltre un mese per via di problemi burocratici interni. Ho tenuto la posizione: a me - ho precisato - l'attestato serviva subito. Alle mie proteste l'agente ha inviato una proposta migliorativa della polizza che alla fine, per forza di cose, ho accettato. Vorrei chiedere: non potevano applicarmi queste condizioni più vantaggiose senza aspettare il mio pressing?".
Tempi troppo lunghi. Tre anni senza macchina, poi Anna la ricompra e tenta invano di assicurarla con una compagnia online, respinta da richieste di documentazione eccessive e lungaggini. Anna era una cliente di un'assicurazione online. Ma la polizza era ormai scaduta da tre anni, non avendo più l'auto. Decide di acquistare una nuova vettura. Dopo una ricerca online trova una nuova assicurazione, più vantaggiosa della precedente, sempre telematica. Ottenuto a fatica l'attestato di rischio, la nuova assicurazione "mi chiede tutta una serie di documenti, tra cui un'autocertificazione dove dichiaravo di non aver avuto incidenti negli ultimi tre anni. Avrei ricevuto una risposta entro massimo un mese, a meno di stipulare l'assicurazione entrando in 14esima classe. Alla fine, sono rimasta con la vecchia compagnia, che nel frattempo mi ha proposto, a fronte di un piccolo sconto sulla polizza, la sottoscrizione di un'assicurazione sulla casa".
Il diritto di recedere. Cinque anni senza un sinistro, così per Lucio è stata una sorpresa ricevere una lettera in cui si dice che, per mutate condizioni di mercato, la tariffa va modificata. Lucio era assicurato dal 2006 con una compagnia. Tutti i pagamenti regolari, mai un sinistro, né con colpa né senza colpa. "Il 22 settembre mi hanno mandato una lettera in cui dicevano che - per mutate condizioni di mercato - non potevano confermare il contratto a quelle tariffe. Li ho chiamati per avere spiegazioni e mi hanno detto che era loro diritto recedere come lo è per il cliente. In ogni caso, non potevo ricevere spiegazioni via telefono. Avrei dovuto inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno. A quel punto, ho finto di abboccare: ho detto che avrei accettato le loro nuove condizioni. Erano così felici di sbranare la loro preda che sono rimasti al telefono minuti e minuti, diventando prodighi di informazioni".
Domande pretestuose. Una compagnia trovata su internet, un preventivo conveniente. Ma al dunque, per Marco da Genzano, è arrivato un interrogatorio così invadente da spingerlo a rinunciare. Marco M. di Genzano aveva individuato su Internet una compagnia assicurativa che applicava condizioni vantaggiose. "Mi hanno fatto un preventivo conveniente, mi sono preso alcuni giorni per valutare alcune clausole prima di prendere una decisione. Quando finalmente mi sono deciso a sottoscrivere la polizza, l'impiegato ha allungato i tempi con domande pretestuose sulla mia condotta di guida, costringendomi a tornare alla fine alla compagnia di provenienza".
L’Associazione Contro Tutte le Mafie ha presentato un ricorso contro l’ISVAP al Ministero dell’Economia per la violazione della Concorrenza del Mercato e dello spirito riformatore della nuova normativa in campo assicurativo, in cui si prevede il plurimandato e la conoscenza delle tariffe più convenienti.
Il ricorso segue quello già presentato all’ANTITRUST, il quale ha rilevato che vi è fondato motivo di approfondire la tematica sottesa.
Il Regolamento ISVAP n.5 del 16 ottobre 2006, infatti, impedisce il plurimandato assicurativo ed ogni altra forma di divulgazione delle tariffe RCA, impedendone di fatto la conoscenza per valutarne la loro convenienza.
Il D.Lgs 209/2005 ha disposto l’iscrizione nel registro degli intermediari assicurativi di tutti coloro che svolgono la professione di agente o subagente assicurativo. Inoltre le ultime norme di riforma, per agevolare la concorrenza ed il mercato a tutela degli operatori e degli utenti, prevedono la possibilità del plurimandato per gli agenti assicurativi, e per effetto, estesa per i subagenti.
Invece di tutt’altro verso va il regolamento ISVAP n. 5 del 16/10/2006:
nella parte in cui prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione in una sola delle sezioni. In questo caso, l’agente di una compagnia non può essere sub agente di altra compagnia;
nella parte in cui prevede l’incompatibilità lavorativa, che inibisce l’iscrizione a coloro i quali svolgono l’attività professionale assicurativa come secondo lavoro;
nella parte in cui impone il divieto di remunerazione per i meri segnalatori o promoters e i meri fattorini, impedendo la collaborazione occasionale e l’incentivazione alla divulgazione delle tariffe più convenienti;
nella parte in cui impone l’iscrizione dei subagenti a mera facoltà degli agenti.
Tutte le compagnie di assicurazione, obbligano gli agenti ed, ancor più, i subagenti, sotto minaccia di mancata iscrizione, ad essere esclusivisti del loro marchio, impedendo così, di fatto, la facoltà del plurimandato e della promozione delle tariffe più convenienti.
Alla mancata concorrenza si riscontra l’indecenza del costo della RCA, che spesso è superiore al valore del veicolo assicurato!
Le Compagnie assicurative indicano le spese legali come causa di maggiori esborsi risarcitori.
Se ciò è vero, perché non definiscono le richieste di risarcimento nei tempi stabiliti, nonostante la legge preveda delle sanzioni alla violazione dei termini indicati? Basta pagare per tempo e l’Avvocato non ha necessità di intervenire, ingolfando di cause il sistema giudiziario. Le compagnie, proprio per il vizioso sistema giudiziario, speculano sui tempi. Intanto il cittadino non saprà mai se la compagnia inadempiente, già segnalata, è stata punita, perché l’ISVAP, su richiesta di riscontri da parte del danneggiato a tutela dei suoi interessi, tace, celandosi dietro il segreto d’ufficio o alla legge sulla privacy.
Inoltre, i Giudici, investiti dalle cause civili, difficilmente condannano le compagnie per lite temeraria, per aver resistito in giudizio con mala fede o colpa grave. Fatte salve le eccezioni riscontrate. Le assicurazioni che rispondono evasive alle richieste di risarcimento dei danni e i liquidatori introvabili, capaci di trasformare incidenti stradali in interminabili odissee burocratiche, hanno trovato pane giudiziario per i loro denti. È un Giudice di Pace di Sestri Ponente a toccare la tasca delle assicurazioni. Si chiama Roberto Garibbo e ha condannato una compagnia a pagare una somma anche per «l’inerzia e l’inadempienza» nel risarcimento dei danni. Un banale incidente, destinato a diventare un esempio per decine e decine di automobilisti.
Le Compagnie assicurative indicano i sinistri truffa come causa di maggiori esborsi risarcitori.
Se ciò è vero, perché non smascherano i truffatori? Basta verificare la veridicità delle dinamiche indicate, le testimonianze prodotte, la vetustà dei danni. Questo non succede, perché metterebbero in dubbio la credibilità di alcuni Avvocati, quale parte avversa, minando la reciproca indulgenza.
I dati raccolti dall'Isvap sono contenuti nella relazione annuale dell'Ania: ogni cento incidenti vengono riscontrati tre tentativi di frode ai danni delle assicurazioni. La media nazionale è stata del 2,8%, ma il fenomeno è molto più frequente soprattutto al sud dove la media italiana si triplica arrivando all'8,3%, con il caso limite di Napoli (16,8%).
Alle Compagnie è nota l’esistenza di polizze false e polizze truffa, emesse in base a dichiarazioni false e reticenti, e nulla fanno per attuare un concreto controllo presso le agenzie.
Le Compagnie assicurative ritengono antieconomiche le polizze RCA.
Se la RCA è antieconomica per le compagnie, perché solo alcune di loro prevedono alla scadenza, senza disdetta, la cessazione automatica del contratto, lasciando liberi i loro clienti?
In conclusione. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto ad aggravio di costi riconducibili a colpe delle Compagnie, ciò è civilmente illecito. Se il rincaro ingiustificato RCA è dovuto a dolo delle compagnie, ciò è reato da perseguire, senza impunità ed immunità. E’ una truffa contro l’utente, contraente coatto per obbligo di legge.
Intanto il cittadino nel disinteresse generale protesta inascoltato, emula e disimpara la legalità.
PARLIAMO DI BANCHE, USURA E FALLIMENTI TRUCCATI.
SI PARTE DALL’USURA E SI ARRIVA ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.
Chissà se c'è ancora qualcuno convinto che lo tsunami finanziario non lo riguardi. Roba per élite di ricconi. O per i cervelloni di Wall Street, ma per fortuna qui è tutta un'altra storia. Perché se ancora qualcuno lo pensa si sbaglia, e di grosso. Siamo noi che abbiamo subìto i danni del grande crac. E chissà per quanto andrà avanti. Banche, assicurazioni e finanza sono nell'occhio del ciclone. In Italia, le famiglie continuano a rimetterci un mucchio di quattrini. Ora si scava tra le macerie e si vuole correre ai ripari. Ma il rischio è che, scattata una trappola, se ne prepari una nuova. C'è tutto questo in queste pagine. Non solo la vecchietta che è andata in banca con tutti i risparmi e ne è uscita con le sue belle obbligazioni Parmalat o Lehman Brothers, carta straccia. Né la famigliola che ha chiesto il mutuo per comprare casa ed è rimasta strozzata dalle rate in continua crescita. Né il professionista che si domanda come sia possibile che i fondi vadano sempre più a fondo. O l'incredulità di chi scopre che le spese sul conto corrente superano gli interessi. Ci siamo tutti noi, proprio tutti, intrappolati in un valzer di scandali, risparmi andati in fumo e inganni. La "tempesta perfetta" di questi anni, sommata a risparmi che si assottigliano, economia in ginocchio, costo della vita in continua crescita e stipendi fermi, ha mostrato che il re è nudo e la pazienza dei sudditi al limite. Ma il fatto è che il sistema finanziario ha invaso la nostra vita. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. Tutti i giorni si scoprono costi invisibili e inganni. Uno slalom che genera disillusione, rabbia, sfiducia. Ci sono storie vere in questo libro, e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Esempi concreti, carnefici e vittime, persone e famiglie che illuminano la freddezza dei dati. Per smascherare le trappole e scoprirsi un po' meno vulnerabili.
Siamo tutti consumatori e siamo, chi più chi meno, dei potenziali debitori. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. I giornalisti Carmelo Abbate e Sandro Mangiaterra con il libro "La trappola - Come banche e finanza mettono le mani sui nostri soldi" ci svelano questa realtà tentando di far luce su finanziamenti e rateizzazioni. Ci sono storie vere in questo libro e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Ma c'è soprattutto un atto d'accusa ben preciso contro le banche, le assicurazioni e il mondo della finanza in generale, colpevoli di ingannare sistematicamente i propri clienti pur di far profitto.
Massimo Vallorani di Sky.tg24 chiede a Carmelo Abbate, qual è la trappola di cui parla nel suo libro?
La trappola è quella che ogni giorno le banche mettono in pratica contro i risparmi dei propri clienti, cercando di ingannarli, magari vendendo loro dei titoli non sicuri. Un esempio per tutti: Lehman Brothers. Già il 15 settembre di quest'anno si era a conoscenza della fragilità di questi titoli, della possibilità concreta di un fallimento. Eppure, le nostre banche (come quelle di tutto il mondo, del resto) vendevano tranquillamente questi titoli, li certificano come a basso rischio. Da noi, addirittura rientravano nei cosiddetti "Patti Chiari". Alla luce di quest'ennesimo episodio, dopo i crack Cirio e Parlamat, dei bond argentini, si capisce che c'è qualcosa che realmente non va nelle banche. Un sistema che deve essere radicalmente cambiato a favore dei cittadini e dei consumatori.
Il suo libro è pieno di esempi di persone che si sono trovati in difficoltà con gli Istituti di credito. Ma anche con finanziamenti stipulati e non rispettati. Emerge quasi sempre una costante: la mancanza di trasparenza. Può darci dei consigli per districarci in quella che lei descrive come una vera e propria giungla?
I consigli sono essenzialmente tre. Il primo è valutare con ponderazione qualsiasi proposta fatta dalla nostra banca. Leggere attentamente qualsiasi tipo contratto ci venga sottoposto. Magari facendosi aiutare da persone più esperte da noi. Il secondo è quello che qualsiasi sottoscrizione di fondi, gestioni patrimoniali, sia sempre e solo a capitale garantito. Il terzo consiglio è che quando si accende un finanziamento rateizzato bisogna sempre controllare il T.A.E.G. (Tasso Annuo Effettivo Globale). Si tratta di un tasso puramente virtuale. Non viene infatti utilizzato per calcolare le rate. Piuttosto è un indicatore, una cifra in grado di dichiarare il costo globale del prestito.
Lei solleva anche la questione delle carte di credito revolving? Possiamo usarle tranquillamente o dobbiamo diffidarne?
Diffidarne assolutamente. Le carte di credito revolving sono normali carte di credito che consentono di rimborsare a rate il saldo di fine mese. Peccato che sono pagate a caro prezzo, soprattutto in fatto d'interessi.
In Italia gli acquisti a rate online non sono ancora diffusi come nel resto d'Europa. Si tratta comunque di un fenomeno in forte espansione anche nel nostro Paese. Ci si può fidare?
Anche nel caso di acquisti a rate fatta su Internet vale la medesima cosa che per i finanziamenti tradizionali. Conviene scegliere sempre una finanziaria in qualche modo legate alle banche più conosciute o quanto meno sempre certificate. Anche nel mondo della rete vale sempre l'imperativo di informarsi prima di ogni acquisto.
Tutta la stampa ne parla. Il 28 maggio 2011 i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano hanno condannato l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, a 4 anni di reclusione e un milione e mezzo di multa per aggiotaggio nel processo sulla tentata scalata ad Antonveneta. La pena è maggiore rispetto ai tre anni che erano stati chiesti dalla Procura. E’ la prima volta che un governatore della Banca d’Italia viene condannato in un processo penale. Condanna anche per l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte a tre anni di reclusione, la stessa pena a cui è stato condannato il suo vice, Ivano Sacchetti, e il senatore del Pdl, Luigi Grillo (2 anni e 8 mesi). Per Giampiero Fiorani, l'ex numero uno della Banca Popolare italiana, condanna a un anno e otto mesi di reclusione in continuazione con i 3 anni e 3 mesi di carcere che aveva patteggiato nel marzo del 2008. Antonio Fazio, al telefono con i suoi legali, ha lapidariamente commentato la sentenza di condanna: "Ho operato sempre per il bene". Lo conforta sapere che, nella storia centenaria della Banca d'Italia, vi sono stati altri governatori che si sono ritrovati nei guai: alla fine però, sempre, ne sono usciti a testa alta. Nei giorni di massima tensione, per esempio, ricordava spesso le vicissitudini di Vincenzo Azzolini che, nell'Italia del fascismo e della guerra, viene "destituito e imprigionato ma senza dimettersi", con l'accusa di aver collaborato con i nazisti e consegnato loro parte dell'oro della Banca d'Italia. Sfugge per un soffio al plotone d'esecuzione, viene condannato, ma poi è assolto e completamente riabilitato. Non dimenticava di menzionare il caso di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, pure ingiustamente accusati. Fazio è stato chiamato in causa dopo una telefonata con Fiorani, intercettata dagli inquirenti milanesi nella notte tra l'11 e il 12 luglio 2005: in quell'occasione l'ex numero uno di Palazzo Koch aveva anticipato all'ad di Bpi il via libera di Bankitalia all'Opa lanciata su Antonveneta e da parte sua Fiorani aveva replicato con la celebre frase del «bacio in fronte». I mercati avrebbero saputo del via libera all'Opa di Bpl su Antonveneta, che metteva fuori dai giochi gli olandesi dell'Abn Amro, solo la mattina successiva alla telefonata. L'ex governatore è stato condannato anche a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, mentre per due anni non potrà contrattare con la pubblica amministrazione. Il processo avviato contro i cosiddetti "furbetti del quartierino" (molti di loro, come Stefano Ricucci e Emilio Gnutti, avevano patteggiato la pena in sede di udienza preliminare), arriva a sentenza con una sola assoluzione: quella di Francesco Frasca, ex capo della vigilanza di Bankitalia. Per lui la procura aveva chiesto una pena di 1 anno e 8 mesi, il tribunale ha deciso di assolverlo "per non aver commesso il fatto". "Mi aspettavo di essere assolto lo dico con franchezza", ha affermato al Tg1 l'ex presidente di Unipol, Giovanni Consorte. La fallita scalata della Bpl (poi diventata Bpi) ad Antonveneta nasce il 17 gennaio 2005 quando l'istituto lodigiano annuncia di aver superato la soglia del 2% del capitale della banca veneta, di cui gli olandesi di Abn Amro erano allora i maggiori azionisti. Successivamente, la Consob chiarirà che la Bpl aveva iniziato a rastrellare azioni sin dal novembre precedente. Nel febbraio del 2005 la Bpl riceve il permesso della Banca d'Italia per salire fino al 15% in Antonveneta e successivamente fino al 29,9%. Mentre gli olandesi restano fermi al 18%. Per questo Abn presenterà esposti alla Consob e un ricorso al Tar del Lazio contro il ritardo con cui Bankitalia ha autorizzato gli olandesi a salire al 20% e poi al 30% di Antonveneta, rispetto alle "celeri" autorizzazioni concesse alla Lodi. Ad aprile Abn lancia un'opa sulla banca veneta a 25 euro per azione, un mese dopo sarà il turno della Lodi con il lancio di un'offerta pubblica di scambio a 26 euro. Il 2 maggio la procura di Milano avvia le indagini e apre un fascicolo contro ignoti per aggiotaggio sulla scalata ad Antonveneta da parte di Bpl. Qualche giorno dopo la Consob delibera che Fiorani avrebbe stretto un patto occulto per superare la soglia del 30%, obbligandoli a lanciare un'opa sul 100% del capitale. Le indagini porteranno, nel luglio dello stesso anno, al sequestro dei titoli Antonveneta detenuti dalla Banca popolare italiana (che nel frattempo aveva cambiato nome da Bpl) e da Emilio Gnutti, Stefano Ricucci, Danilo Coppola. A luglio arriveranno lo stop alle offerte Bpi da parte di Consob e Bankitalia. Nel decreto di sequestro delle azioni si fa menzione ad alcune intercettazioni che coinvolgono Fiorani e Fazio. Quest'ultimo avrebbe fornito informazioni privilegiate a Fiorani. Il 2005 si chiude con l'arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio da governatore della Banca d'Italia.
Lazio, Calabria, Sardegna, Piemonte e Valle d’Aosta. E poi Marche, Umbria e Toscana. Quella degli imprenditori e delle famiglie alle prese con scoperti bancari, anticipazioni, sconti è un’onda lunga che arriva a Roma, dove il Forum Antiusura Bancaria, lancia l’ultima offensiva contro quegli istituti di credito che non rispettano le regole. Il messaggio che parte dalla sede del Forum ed è diretto a Palazzo Altieri, sede dell’Abi è chiaro. Secondo gli organizzatori, guidati dal deputato Idv, On. Domenico Scilipoti, le banche “avrebbero organizzato e posto in essere un accordo associativo per l’attuazione di programmi delittuosi, finalizzati ad eludere le norme bancarie che hanno reso nulle clausole contrattuali agli usi piazza per la determinazione dei tassi d’interesse”. Più chiaramente, il Forum denuncia la possibilità che la scelta delle banche di non restituire gli interessi calcolati sulla fluttuazione dei tassi, sia una decisione presa collettivamente. E dunque, il Forum si prepara a depositare presso tutte le Procure d’Italia una denuncia con la quale chiede alla magistratura di indagare e di verificare se esista un grande fratello bancario che abbia consigliato agli istituti di non uniformarsi alle disposizione del Testo Unico bancario che ha sancito la nullità degli interessi “uso piazza”. Già al fianco del Forum Antiusura, l’associazione difesa dei consumatori SoS Utenti, ha anche presentato una classifica delle Regioni in cui la rimodulazione dei tassi d’interesse ha superato la soglia di usura. Undici le regioni nella black list con la Toscana in testa con oltre 7 milioni di euro di finanziamenti erogati a tassi oltre la soglia, seguita da Puglia e Basilicata con quasi 6 milioni di euro e dal Lazio, dove gli imprenditori in difficoltà per la crisi hanno chiesto aiuto alle banche pagando l’8,46 per cento di interesse su un totale di 5 milioni e 358 mila euro erogati. Lo studio di SoS Utenti, elaborato sul Bollettino della Banca d’Italia evidenzia che a soffrire di queste criticità sono soprattutto le piccole e medie imprese, quelle aziende a conduzione familiare che più delle altre hanno fatto ricorso al sistema bancario per garantirsi la sopravvivenza.
“Un milione e mezzo di imprese sono al limite del fallimento – denuncia il presidente del Forum, Domenico Scilipoti – e un milione e 250 hanno problemi seri che li hanno portati alla chiusura. Il forum antiusura bancaria nasce dall’esigenza di molti cittadini che sono stati trattati male dalle banche, scorrette nell’applicare tassi di interesse fuori dalla norma”. “Noi denunciamo la violazione della legge sulla trasparenza bancaria – ha aggiunto Emidio Orsini, protagonista di una personale lotta decennale per difendere le sue proprietà dai decreti ingiuntivi delle banche – leggi che hanno sancito la nullità della clausole “uso piazza”, che le banche non hanno rispettato, perché hanno ritenuto più conveniente non rispettare i correntisti. Parliamo di cifre enormi, miliardi di euro per milioni di correntisti”. Ma c’è chi come il professor Francesco Petrino, presidente del Sindacato Nazionale Antiusura Riabilitazione Protestati (Snarp) è andato oltre le banche, sostenendo che “Paghiamo interessi alle banche per 76 miliardi di euro con un tasso pari al 5 per cento – contro un tasso ufficiale europeo dell’1 per cento. Come Stato subiamo un furto del 4 per cento sul prestito per il debito pubblico dalla Banca d’Italia che dovrebbe che dovrebbe essere la banca di Stato”. E ha concluso: “La nostra banca nazionale ruba agli italiani sul debito pubblico 73 miliardi di euro”.
«L'ufficio studi Cgia di Mestre, sulla base dei dati relativi alle denunce presentate alle procure dalle vittime delle organizzazioni criminali, trascurando completamente i dati riferiti all'usura bancaria rilevati presso i bollettini della Banca d'Italia, ha elaborato e comunicato la classifica dell'usura in Italia, ponendo al primo posto la Campania ed all'ultimo posto il Trentino».
Così l'On. Scilipoti (IDV), presidente del Forum Nazionale Antiusura Bancaria, che fa invece riferimento alla classifica dell'usura ufficializzata dal Bollettino Statistico della Banca D'Italia, parte II del 2010. «Dai dati trimestralmente rilevati e pubblicati dalla Banca D'Italia si evince che a fine marzo 2010 - continua il deputato di Italia dei Valori - le famiglie produttrici italiane nell'utilizzare il credito per operazioni autoliquidanti (sconto portafoglio, anticipo fatture ecc.), hanno subìto usura in ben 11 Regioni, con tassi superiori a quello soglia. L'importo complessivamente usurato ammonta a ben 37,8 miliardi di €, coinvolgenti non meno di 302.000 famiglie svolgenti attività produttiva. L'usura criminale a cui si riferisce il centro studi Cgia - continua l'On. Scilipoti - non rappresenta minimamente il fenomeno, e la dimensione è caratterizzata invece dall'usura bancaria che vede la stessa Campania al primo posto, con un tasso effettivo del 9,28% (ben superiore a quello soglia vigente nel primo trimestre 2010 pari al all'8,145%), ed il Trentino all'Ultimo posto con tasso effettivo al 5,07% e di molto inferiori a quello soglia. All'analisi del centro studi Cgia va aggiunto che è il fenomeno dell'Usura Bancaria che genera l'usura criminale. Quest'ultima non esisterebbe se non ci fosse la prima. I tassi usurari praticati dalle Banche per le operazioni autoliquidanti alle famiglie produttrici - precisa l'On. Scilipoti - superano di 7 volte l'inflazione che governa la dinamica dei prezzi praticabili nella produzione di beni e servizi. Inevitabilmente, prima o poi le famiglie che producono finiscono nella morsa della sospensione del credito bancario e buttate in pasto agli usurai criminali. In Campania, le famiglie che producono, pagano interessi quasi doppi, rispetto alle famiglie Trentine, per scontare portafoglio e anticipare crediti».
«Insomma - conclude l'On. Scilipoti (IDV), si vuole rendere meno efficace la "licenza di uccidere" le imprese che oggi l'Art.50 del Testo Unico Bancario mette a disposizione delle Banche».
Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie non è il solo a denunciare pubblicamente le anomalie impunite e sottaciute in campo forense-giudiziario.
“Il volto sporco della giustizia nel Salento” (libro – dossier). Testimonianza a cura dell’Avv. Fedele Rigliaco di Lecce.
Presentazione. Questo dossier vuole costituire un piccolo saggio dei numerosi casi di mala-giustizia nel Salento, che il sottoscritto difensore ha raccolto a seguito dell’incarico ricevuto di svolgere investigazioni ai sensi della legge 7-12-2000, n. 397. Egli è a disposizione delle autorità competenti a fornire ogni ragguaglio che dovesse occorrere sui casi esposti e su quelli non riportati in esso di cui, comunque, è a conoscenza. Questo opuscolo si prefigge, altresì, lo scopo d’invitare le autorità a prendere i provvedimenti di competenza. Nella mia veste di difensore incaricato di svolgere indagini ai sensi legge 7-12-2000, n. 397 sono venuto a conoscenza di casi di pessima amministrazione della Giustizia da parte di alcuni magistrati della Corte di Appello di Lecce, di Bari, di Potenza, di Catanzaro e di Bologna e di sperpero di preziose risorse di questa: archiviazione di procedimenti penali “de plano” finalizzati a favorire alcuni soggetti in danno di altri, insabbiamenti d’indagini importanti, fallimenti di aziende o di privati cittadini in assenza dei presupposti di legge, o condotti in modo scorretto, istanze di fallimento avanzate da usurai privati o da Istituti bancari che hanno praticato tassi d’interesse elevati, decreti ingiuntivi accordati ad usurai o ad Istituti bancari privi di titolo, disintegrazione di aziende ad opera di Istituti bancari che applicano interessi ultralegali anatocistici in assenza di contratti, trattamento di favore riservato da magistrati ad Istituti Bancari, dispendiose ed inutili consulente, diniego da parte di alcuni magistrati delle indagini difensive di cui agli artt. 391-bis e 391-nonies, utilizzo dei processi per calunnia come spauracchio per disincentivare i cittadini a denunciare amici di magistrati, corruzione di alcuni magistrati, terrorismo che promana da una parte della magistratura, condizionamenti da parte di magistrati su avvocati, archiviazione di procedimenti penali per comportamenti estorsivi da parte del Concessionario esattore delle tasse e da parte di Enti impositori, ecc..
E ancora a Lecce. Un coraggioso Salentino si ribella alle banche usuraie e ai giudici che archiviano. Luigi De Magistris ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno. De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio...". Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente ed impunemente e che gli erano state ordinate da un GIP. Tutto ciò sarebbe scaturito da Luigi Stifanelli di Nardò (Lecce, Puglia), commerciante, ex senza tetto a causa dell’usura bancaria subita. Stifanelli si potrebbe definire uno degli uomini più coraggiosi e determinati d’Italia, nonostante tutte le angherie subite ha continuato a cercare giustizia. Il nostro impavido commerciante, anni fa aveva denunciato i giudici di Lecce per una brutta storia legata alla sua vicenda sulle banche, le indagini arrivarono a Potenza ma anche lì non ebbe giustizia. Allora si rivolse a Catanzaro e denunciò anche i giudici di Potenza, ma anche in questo caso i diritti di Stifanelli non furono rispettati. L’indagine era di De Magistris, una delle tante sulle toghe lucane. Alla seconda richiesta di archiviazione però, Luigi Stifanelli che è ormai più esperto di un avvocato nel parlare di articoli dei codici e di procedure, prepara una querela e la manda a Salerno. Alla Procura di Salerno dopo aver ascoltato la parte offesa hanno acquisito la documentazione dalle Procure di Potenza e Catanzaro, dopo di che i magistrati hanno richiesto il rinvio a giudizio di De Magistris davanti al Tribunale di Salerno. La prima udienza il giorno 21 Febbraio 2011.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Ma questo non basta. Sulla lotta alla mafia ed in particolare all'usura sconvolgente è la notizia data da tutti i giornali: arrestato il prefetto Carlo Ferrigno, ex Commissario nazionale antiracket ed antiusura.
Dal “Corriere della Sera” uno dei tanti articoli. “È l'ex commissario antiracket, sfruttava la sua posizione per ottenere favori sessuali da giovani donne. Il suo nome era spuntato in un’intercettazione del caso Ruby. È stato prefetto di Napoli, poi commissario nazionale antiracket. Uno dei più alti funzionari di Stato, in prima fila nella lotta alla mafia. L'ex prefetto Carlo Ferrigno, 72 anni, è stato arrestato con l'accusa di millantato credito ed è adesso agli arresti domiciliari. È indagato anche per prostituzione minorile per due casi segnalati nell'inchiesta. Secondo la Procura di Milano, dal 2005 a pochi mesi fa avrebbe fatto avance e ottenuto favori sessuali, promettendo in cambio il suo autorevole intervento nella pubblica amministrazione. Nell'ambito dell'indagine, è finito in carcere anche l'imprenditore Massimo Abissino, titolare di un negozio di moda in via Farini a Milano, che avrebbe tra le altre cose favorito la prostituzione di una delle due minorenni che avrebbero avuto rapporti con Ferrigno. Ad Abissino vengono contestati anche fatti di droga. Una delle giovani lavorava proprio nel negozio di Abissino come commessa. In totale, le parti lese, che riguardano condotte sessuali di Ferrigno per i reati di millantato credito e prostituzione minorile, sono 4: le due minorenni e due donne maggiorenni. In particolare, l'ex Prefetto, chiedendo prestazioni sessuali, millantava agevolazioni per le donne come la possibilità in un caso di far entrare una giovane in Polizia e, in un altro caso, di risolvere la questione di un permesso di soggiorno per un'altra ragazza.
L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Stefano Civardi, è nata dalla denuncia del presidente di Sos racket e usura Frediano Manzi, che aveva raccolto le testimonianze di alcune vittime di usura ed estorsione, secondo le quali Ferrigno avrebbe promesso di «accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura, farle passare in commissione, se avesse ottenuto in cambio prestazioni sessuali». In merito Frediano Manzi era stato sentito come persona informata sui fatti, ma il pm aveva poi secretato gli atti. «Da tempo circolavano le voci nel nostro ambiente di prestazioni sessuali che erano richieste soprattutto alle vittime di usura che presso la sede del Comitato Nazionale Antiracket a Roma, in Via Cesare Balbo 37, entravano in contatto con il Prefetto Carlo Ferrigno». Così si apre la lunga nota pubblicata sul sito dell'associazione antiracket già nel febbraio del 2010. All'epoca risalgono anche le testimonianze video registrate nella sede dell'associazione. Le presunte vittime di Ferrigno raccontavano la disavventura con il funzionario che era arrivato a molestarle pesantemente. «Queste voci riferivano di una prassi consolidata e perpetrata negli anni dal Prefetto: accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura. Nel caso fossero stati uomini a far domanda al fondo, era loro richiesto esplicitamente se avessero avuto una "amica" da presentargli». Secondo quanto Manzi scriveva sul sito dell’associazione «era abitudine del commissario antiracket inviare un autista (...) con la macchina in dotazione del ministero a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni, per fare orge e festini presso l’abitazione del Prefetto a Roma». Il nome di Ferrigno è poi spuntato in un’intercettazione svolta nell’ambito dell’inchiesta sul caso Ruby il 29 settembre 2010, in cui Ferrigno dice a un uomo parlando delle feste del presidente del Consiglio: «C’erano orge lì dentro non con droga, non mi risulta. Ma bevevano tutte mezze discinte. Berlusconi si è messo a cantare e a raccontare barzellette. Loro tre (Berlusconi, Mora e Fede) e 28 ragazze. Tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto solo le mutandine strette...». Un racconto che all'alto funzionario era stato fatto da Maria Makdoum, ventenne danzatrice del ventre in un caso ospite a Villa San Martino. La ragazza era diventata la sua amante, e per controllarla avrebbe anche violato il sistema informatico del Ministero dell'Interno. Da quanto si è saputo, Ferrigno controllava i contatti telefonici della Makdoum, anche grazie all'aiuto di altre persone indagate. In particolare, aveva l'accesso ad alcuni account e a delle password per spiare il traffico telefonico della ragazza. Il presidente dell'associazione Sos-Racket e Usura, che ha dato il la all'inchiesta, Frediano Manzi commenta così l'arresto: «Noi siamo stati gli unici tra tutte le associazioni antiracket a denunciare questo fenomeno. Ora pretendiamo che vengano verificate le posizioni di tutti coloro che hanno ricevuto i finanziamenti disposti dal prefetto Ferrigno dal 2003 al 2006 periodo in cui è stato commissario Antiracket».”
Ma c’è di più. Sulle cronache locali di tutta Italia ci sono pagine e pagine che parlano del fenomeno: Fallimentopoli.
A Torino. Ricostruisce i fatti, confessa e si giustifica: «il sistema mi è sfuggito di mano». Giovanni Marabotto, l’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, arrestato per associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata, non ha potuto che ammettere le sue responsabilità davanti al sostituto procuratore Maurizio Romanelli che lo ha interrogato per un paio d’ore circa. Di più: al magistrato, l’ex procuratore capo ha di fatto "consegnato" il suo tesoretto, quello che nel corso delle indagini ancora non è stato trovato, "custodito" in un conto aperto presso una Banca di Monte Carlo. Un deposito al quale gli inquirenti erano già arrivati ma solo come "sigla", senza sapere fino ad ora che proprio lì l’ex magistrato aveva fatto confluire le sue "fortune", cioè tutte le somme percepite nel tempo sulla marea di perizie disposte su indagini "inventate" su almeno 375 società. L’ex procuratore capo ha confessato di aver preso tangenti nel corso degli anni. Ma non nella percentuale del 30%, come gli contesta l’accusa, ma "solo" del 10%. Il "resto" finiva in altre tasche di quella piccola "catena" di consulenti, collettori e amici fidati creato ad hoc.
A Milano. Il Caso Maria Rosaria Grossi. A parlare negli interrogatori è Mauro Vitiello, magistrato in servizio al Tribunale di Milano, sezione fallimentare e dunque ex collega della Grossi: "Era sospettata di scambiare favori di natura economica con professionisti vari utilizzando il sistema della loro nomina nelle procedure concorsuali. Altra voce che correva sul conto della Grossi era relativa al fatto che avesse avuto relazioni sentimentali con avvocati e professionisti che lavoravano nello stesso settore dove lei svolgeva attività di giudice". Vitiello fa riferimenti espliciti: "La Grossi si occupò della vicenda lodo Mondadori (...)
A Firenze. Il giudice Sebastiano Puliga, già in servizio alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze, e i professionisti che, secondo le accuse, avevano costituito con lui una sorta di comitato d'affari che lucrava sulle procedure fallimentari, sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell' udienza preliminare di Genova Elena Daloiso. Sono accusati, a vario titolo, di concussione, corruzione, peculato, concorso in bancarotta. Si è chiusa così, con il rinvio a giudizio di 30 dei 36 indagati, l'inchiesta sul più grave scandalo scoperto a Firenze negli ultimi anni.
A Roma. La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia. Usava una "falsa" identità, grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali". E c’è di più. Sono sei i magistrati finiti sotto inchiesta. Oltre a Briasco e al suo vice Anacleto Grimaldi, le imputazioni riguardano Pierluigi Baccarini, Vincenzo Vitalone, Pierluigi Bonato e Raffaello Capozzi. Gli ispettori li accusano di essere riusciti a farsi assegnare le pratiche più importanti aggirando le disposizioni sulla rotazione degli incarichi. E soprattutto di aver affidato la gestione dei fallimenti a commercialisti e avvocati di propria fiducia. Quale fosse la contropartita dovranno accertarlo le inchieste penali, ma il sospetto è evidente. I consulenti nominati ottengono infatti un compenso percentuale rispetto all' entità del fallimento e gestiscono i beni delle società in dissesto. Due di loro sono stati indagati per peculato dai magistrati romani che hanno poi trasmesso gli atti ai colleghi di Perugia competenti a indagare sulle toghe capitoline.
Ma che fine fanno i beni pignorati di cui si chiede la vendita?
Si premette che non sempre il magistrato procedente, sentito il Prefetto e il Presidente del Tribunale, opera la sospensione del procedimento di vendita, in caso di reato di usura.
Come spesso accade, può succedere, anche, che il magistrato titolare proceda alla vendita, (per dolo o colpa) nonostante nullità procedurali o addirittura insussistenza dei motivi, per intervenuto adempimento stragiudiziale dell'obbligazione.
Un’inchiesta di Enrico Bellavia per Repubblica svela come funziona il sistema delle aste giudiziarie. I trucchi e le pratiche illecite degli affaristi e delle cosche mafiose per pilotare le aste e far scendere di prezzo degli immobili. Un sistema che sulla carta offre “garanzie e trasparenza” ma che nella realtà…
Una casa su dieci passa di mano alle aste giudiziarie. Un mercato nel grande mercato immobiliare. E in costante crescita, con il trenta per cento di transazioni in più ogni anno. Centocinquantamila gli immobili ceduti in un anno. Con previsioni di ulteriore espansione, considerando che le proprietà a rischio di procedura esecutiva sono più del doppio. Dieci miliardi sui 100 della borsa del mattone vengono già spesi così, all'interno di un sistema che, sulla carta, offre mille garanzie di trasparenza, ma che gli operatori per primi considerano una prateria per le scorribande di speculatori affaristi e mafie. I vecchi proprietari rientrano con le buone o con le cattive in possesso degli immobili perduti, i nuovi potenziali acquirenti sono indotti a mollare l'affare o a versare sostanziose tangenti per non incontrare ostacoli. Agenzie che operano alla luce del sole e faccendieri che si propongono come consulenti alle aste si infiltrano tra le pieghe delle regole che governano gli incanti, ne pilotano gli esiti e fanno incetta di immobili.
Per il cittadino qualunque avventurarsi nell'acquisto di una casa o di un terreno messi in vendita dai tribunali equivale a intraprendere spesso un percorso pieno di insidie. Per evitare le quali il ricorso all'intermediazione diventa l'unica alternativa. Ma come funziona il sistema? Dove sono le trappole? Quali i trucchi?
Un esperto di aste che conosce bene quel mondo confessa candidamente: "Per un acquirente che decida di concorrere da solo, le speranze di concludere positivamente l'affare si assottigliano e di molto e soprattutto si assottigliano le previsioni di strappare un immobile a prezzi stracciati. Quello è mestiere per chi sa tenere a bada le offerte fino a far crollare il prezzo ed entrare in gioco solo quando le decurtazioni hanno fatto precipitare il valore del bene". Un gioco di nervi, ma anche e soprattutto di astuzia. Che autorizza metodi spicci, come l'allontanamento preventivo dei concorrenti o i patti di cartello che consentono la turnazione alle aste di gruppi organizzati. Si calcola che a rischio sia almeno il venti per cento delle compravendite, in cifre due miliardi di euro all'anno. Con buona pace del fisco che vedrà volatilizzarsi parte del proprio gettito in favore di una "tassazione criminale".
Il sistema prevede che la vendita sia gestita da un giudice. Ma, con l'obiettivo di velocizzare le transazioni e smaltire l'arretrato, chiudendo in tempi ragionevoli procedure esecutive che durano anche 15 anni, dal primo marzo 2006 si è introdotta la delega ai professionisti. Avvocati, commercialisti, esperti contabili, oltre ai notai che già operavano in precedenza, possono ora procedere alla vendita. Le aste sono pubbliche, chiunque può assistervi - gli annunci compaiono sui giornali e su Internet - e chiunque, meno che il vecchio proprietario, può concorrere. Nella vendita senza incanto le offerte arrivano in busta chiusa e rimangono segrete fino alla data fissata per l'aggiudicazione. Nel sistema con incanto, invece, le offerte vengono formalizzate a voce. La procedura prevede un sistema alternato fino a sei tentativi, esauriti i quali l'immobile scende ancora di prezzo e si ricomincia.
Prima di farsi avanti, nella prassi, si seguono delle regole. "C'è da sapere intanto - spiega la fonte che opera nel mondo delle aste - a chi appartiene l'immobile. Il nome del proprietario, soprattutto in certi ambienti, può dire molto e un passaparola sotterraneo consente di sapere se non ci sono ostacoli o se ci sono interessi precisi su quella casa, su quel terreno o su quel capannone industriale. La regola, in questi casi, è starsene alla larga il più possibile. Tutto deve svolgersi nella massima segretezza sino al momento dell'asta. Nei fatti però, basta conoscere in anticipo se ci sono altri potenziali acquirenti e avvicinarli, o contattarli appena dopo l'aggiudicazione per costringerli a ritirarsi o a pagare una tangente per ottenere il via libera all'affare e il gioco cambia". Chi opera in quel mercato sa che le informazioni equivalgono a moneta sonante. Accaparrarsele è il primo obiettivo. I fascicoli delle procedure stanno nei tribunali. Hanno accesso a quelle carte giudici e cancellieri. Conoscere per tempo lo stato della pratica garantisce un indubbio vantaggio. Ma l'idea che solo attraverso un'interessata fuga di notizie sia possibile garantirsi il primato è riduttiva. L'avvento dei professionisti nel gioco delle vendite ha moltiplicato, senza risolverli, i conflitti di interesse. Capita che a occuparsi dell'incanto sia lo studio di riferimento di un legale che ha seguito la procedura in passato come avvocato della banca intenzionata a rientrare del mutuo erogato e non pagato. Capita che la stima dell'immobile che deve andare all'asta sia affidata a un tecnico che ha rapporti di parentela diretti o indiretti con chi fatalmente concorre all'acquisto. L'esperienza e l'affidabilità richiesti come requisito per l'affidamento degli incarichi, mostrano come rovescio, la concentrazione in poche mani delle procedure delegate.
Le indagini che hanno gettato luce sul mondo delle aste truccate rivelano la costante presenza di "ganci" interni che offrono su un piatto d'argento informazioni da spendere al banco di intermediari che agiscono quasi sempre in gruppo, con o senza la copertura delle cosche, a seconda dei contesti. Ma sono quasi sempre indagini nate in altri ambiti che poi svelano i meccanismi delle combine. Le intercettazioni si rivelano fonti primarie. A Milano, dove si registra il record di aste, dieci anni fa, fu un giudice a insospettirsi per la presenza costante alle aste di alcuni personaggi. Chiese e ottenne che si aprisse un'inchiesta. Furono piazzate anche delle microspie e si scoprì così che c'era un gruppo capace di scoraggiare gli acquirenti fin dietro la porta del magistrato con minacce esplicite. Da Palermo, a Lecce, passando per Reggio Calabria, tre inchieste nate intorno a vicende di mafia, hanno permesso di ascoltare in diretta come prassi e metodi si pieghino agli interessi più disparati. Ma sono scoperte, per così dire casuali, all'interno di indagini partite per altro. Ma quali sono i metodi? Chi sono i mediatori? Come agiscono? Fatalmente è dalle indagini di mafia che arrivino le informazioni più aggiornate sulle storture del sistema. Svelano l'esistenza di colletti bianchi, professionisti al servizio di cosche più o meno organizzate che mettono a disposizione informazioni ed esperienza per pilotare il sistema.
A Palermo, nel 2008, era il potente clan dei Madonia a giocare con un misterioso avvocato mai individuato per assicurarsi di rientrare in possesso degli immobili finiti in una procedura fallimentare. Beni per milioni che, riacquistati all'asta, attraverso prestanome sarebbero sfuggiti così alle misure di prevenzione patrimoniale a carico dei padrini.
In Calabria, dove periodicamente, si sono accesi i riflettori sulle aste, a giugno scorso, l'indagine del Ros dei carabinieri, Meta, coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone ha permesso di accertare che intorno alle aste due cosche un tempo rivali, quelle degli Imerti-Condello e quella dei De Stefano-Tegano-Libri, sotto l'egida di Cosimo Alvaro di Sinopoli avevano siglato un patto di non belligeranza in nome degli affari. Compravano come immobiliari capaci di stare sul mercato con una solvibilità immediata. Gestivano il riacquisto per conto degli affiliati ma avevano allargato il giro stimato in cento milioni di euro, proponendosi come veri intermediari. Perno fondamentale era l'avvocato Vitaliano Grillo Brancati: non uno 'ndranghetista, ma un colletto bianco molto utile, "capace di spianare la strada" per le aggiudicazioni. Un professionista, un esponente della zona grigia che "supportava", come ha spiegato il procuratore nazionale Pietro Grasso, le operazioni della criminalità organizzata. Vitaliano Grillo Brancati avrebbe mandato avanti la moglie Anna Maria Tripepi, anche lei avvocato, a fare incetta di immobili. Non solo mafia anche in Calabria. A Vibo Valentia, nel maggio 2010, in cinque sono finiti arrestati dopo la scoperta di un carico di marijuana nel capannone del responsabile delle vendite giudiziarie. Si è ricostruita da lì una combine delle aste soprattutto dei beni mobili. Il resto lo ha spiegato un imprenditore che aveva perso la propria casa a un'asta beffa.
Nella intermediazione pura erano specializzate due famiglie pugliesi, una guidata da Salvatore Padovano di Gallipoli, l'altra dai Coluccia di Galatina, i cui affari sono stati radiografati a novembre 2010 dalla procura di Lecce guidata da Cataldo Motta. Gli emissari dei clan costituivano agenzie di mediazione capaci di restituire i beni agli insolventi, dietro pagamento di una provvigione. L'indagine ha subito una brusca accelerazione per una fuga di notizie che vedeva sospettato un ufficiale dei carabinieri. Ed è stata ritrovata anche un'agenda sulla quale il mediatore alle aste, Giancarlo Carrino di Nardò, aveva annotato tutti i suoi interventi. In una intercettazione il boss gli ricordava: "Noi siamo legati da complicità".
C'è poi l'aspetto del riciclaggio del denaro. Tra cauzione e oneri, per partecipare a un'asta, bisogna disporre di denaro contante: il dieci per cento subito, il saldo dall'aggiudicazione con assegni circolari in un periodo che va dai venti ai sessanta giorni. Tempi troppo stretti se si considerano quelli medi per ottenere un mutuo. All'acquisto si arriva con assegni circolari emessi dagli istituti bancari. E qui c'è un'altra possibile falla: "Il sistema dei controlli - spiega il professionista delle aste - è assolutamente inesistente. A partire dalla provenienza dei soldi che arrivano a costituire il capitale di acquisto. Basta aggirare le norme antiriciclaggio, con la complicità di una mano amica dietro allo sportello, per trasformare il denaro contante di dubbia provenienza in assegni circolari, e trovarsi in mano soldi puliti con i quali comprare all'asta un bene che rientra nel circuito legale. Nessuno va veramente a controllare come si sia costituito quel capitale: se provenga da un mutuo, da risparmi o dalla massiccia immissione di contante ripulito in banca". La lavanderia ha così il bollo del giudice.
L’usura, secondo l’art. 644 c.p., è l’attività di chi si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, secondo il calcolo della media dei tassi applicati ai titoli di Stato. A differenza delle vittime della mafia, a cui la legge 44/99 ha riconosciuto a tutti l’indennizzo per i danni subiti e non risarcibili dal responsabile, alle vittime dell’usura si applica una discriminazione ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi, per far fronte alle obbligazioni.
Secondo la legge 108/96 al "Fondo di solidarietà per le vittime dell'usura" istituito presso l'ufficio del Commissario straordinario del Governo per il coordinamento iniziative anti-racket possono accedervi solo soggetti economici.
Il Fondo provvede alla erogazione di mutui senza interesse di durata non superiore al quinquennio a favore di soggetti che esercitano attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione, i quali dichiarino di essere vittime dei delitto di usura e risultino parti offese nel relativo procedimento penale. Il Fondo è surrogato, quanto all'importo dell'interesse e limitatamente a questo, nei diritti della persona offesa verso l'autore del reato.
Pare chiaro che il cittadino comune, vittima dell’usuraio, in quanto costretto da circostanze avverse a rivolgersi a questi per impedimento di accesso al credito da parte delle banche, sia discriminato dalla legge.
La stessa legge 44/99 ha introdotto la possibilità di ottenere la sospensione dei termini esecutivi per 300 giorni e di tre anni per quelli fiscali, sino all'esito dei giudizi penali incardinati a seguito di denunzie delle vittime. La sospensione la concede il giudice procedente, sentito il parere del Prefetto rilasciato entro 30 giorni dalla richiesta.
Anche sulle stesse sospensioni vi era discriminazione, sanata dall’intervento del parere emesso dal Consiglio di Stato il 3 dicembre 2007, in seguito al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il decreto del Commissario Straordinario del Governo Prefetto Lauro.
Oggetto del ricorso fu l’illegittimo orientamento seguito dal Comitato di Governo nel quantificare il danno da usura bancaria ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi previsto dalla L. 44/99 . Difatti pur riconoscendo lo status di usurato bancario l’ufficio Amministrativo sopra menzionato ha ritenuto di dover diversificare e penalizzare la condizione.
Il Consiglio di Stato ha accolto le critiche denunciate e ha riconosciuto che: “… Manca d’altronde, qualsivoglia precetto che legittimi una diversità di trattamento. Né può essere ravvisato nell’ordinamento attraverso una interpretazione contraria al principio di uguaglianza e ragionevolezza che struttura l’intero sistema costituzionale…”.
Così argomentando il Consiglio di Stato ha dichiarato che l’atto impugnato è illegittimo e va conseguentemente annullato. Tale parere rappresenta una pietra miliare all’interno delle procedure di erogazione dei fondi e costituisce il modello interpretativo e di indirizzo al quale tutte le Prefetture d’Italia e l’ufficio del Commissario Straordinario di Governo dovranno attenersi.
Nell’intervista rilasciata a “Striscia la Notizia” il 18.12.07, il Commissario Straordinario del Governo, Prefetto Lauro, ha manifestato la volontà di costituirsi parte civile in tutti i procedimenti di usura ed estorsione bancaria.
Per la gente comune l'usura ha un significato del tutto incomprensibile, che rimane tale sino a quando accade di trovarsi nella condizione di ricorrere a un certo e oscuro amico, in apparenza benefattore. Completamente diverse sono invece le circostanze che inducono imprenditori e professionisti a ricorrere al credito alternativo a quello convenzionale. Mentre per il nucleo famigliare il ricorso all'usura avviene solo in circostanze straordinarie, per risolvere problemi che la normale redditività non consente di appianare, per gli imprenditori e i professionisti il meccanismo del ricorso all'usura scatta, quando per una qualsivoglia ragione si ritrovano incagliati verso la banca che gli ha dato credito, quando si accumulano rate insolute di mutuo o vengono revocati i crediti affidati.
In pratica si diviene potenziali vittime di usura a partire dal momento in cui il proprio nominativo viene censito dalla Banca Dati CRIF o dalla Centrale Rischi di Bankitalia o ancora nella Centrale di Allarme Interbancario, anche quando si è incorsi nel semplice caso che un proprio assegno è risultato scoperto a prima presentazione, o sia stato richiamato dal suo presentatore per accordi col debitore. La situazione di affidabilità peggiora poi se l'imprenditore o il professionista sono incorsi in protesti di assegni o cambiali.
In pratica, per il sistema bancario e finanziario del nostro paese, ai cittadini, alle imprese e ai professionisti i cui nomi finiscono nelle predette Banche Dati, indipendentemente dal loro patrimonio e dalle loro capacità reddituali, non viene data alcuna possibilità di appello, poiché sino a quando i loro nomi risultano nella lista nera sono e saranno letteralmente inibiti ad ogni operatività col sistema bancario. Fatto più grave, che, mentre per gli evasori fiscali, per coloro che incorrono in abusi edilizi e per una infinità di reati o condannati a pene detentive fino a tre anni, sono previste sanatorie, condoni e indulti che fanno sparire ogni traccia degli eventi e consentono a questi soggetti piena operatività, per i malcapitati dei protesti la situazione diviene drammatica, poiché non viene loro consentita alcuna possibilità di operare con e tramite banche, neppure volendo operare con mezzi e soldi propri, anche quando sono in grado di dimostrare di avere assolto al pagamento dei titoli finiti in protesto.
Problema per il quale, l'ABI e le banche tutte, si ostinano a negare soluzioni obiettive.
Va considerato che le banche sono gli unici soggetti abilitati dalla legge alla raccolta dei risparmi e al reimpiego con il credito. La situazione non è cambiata neppure quando nell'estate del 2006 è intervenuto il famigerato decreto Bersani n.248/2006 che col suo art.35, comma 12, obbligava gli italiani, a effettuare tutti i pagamenti tramite banca, carte di credito o bancomat, per consentire la tracciabilità e limitava sotto la soglia dei 500 euro ogni pagamento con l'utilizzo di contante.
Secondo il Centro Studi SNARP, in Italia, oltre 6 milioni di cittadini e imprese sono costretti ad operare in modo sommerso, solo perché, in modo del tutto incostituzionale, sono esclusi dalla possibilità di operare attraverso le banche. Un problema, ripetiamo, che vede coinvolti oltre 6 milioni di protestati, in aggiunta agli oltre 15 milioni censiti nella CRIF e nella Centrale Rischi.
Più di 20 milioni di cittadini dunque ai quali è preclusa l'operatività.
Il Consorzio Patti Chiari di emanazione ABI, costituito da circa 150 Banche, ha istituito sì "il conto corrente di base", si dà il caso però, che tutte le volte che lo SNARP ha trasmesso richieste in favore di soggetti per i quali tale tipo di conto sarebbe stato istituito, le banche non hanno mai ritenuto opportuno aprirlo, neppure quando si è fatto prioritariamente dichiarare agli interessati che non avrebbero richiesto il libretto degli assegni, e che avrebbero operato solo con mezzi propri.
Ma veniamo al nocciolo del problema. Con queste premesse e limitazioni, risulta inevitabile che in situazioni di bisogno, chi non può disporre di soluzioni convenzionali sia costretto a ricorrere a soluzioni estreme. E dopo essere finito nelle mani degli usurai, comincia per i malcapitati un periodo più o meno di lunga agonia, in dipendenza della durata del rapporto e soprattutto della dipendenza economica del soggetto sventurato.
Il Ministero dell'Interno anno dopo anno ha fatto costosissime campagne informative sulla legge anti-usura e anti-racket per esortare le vittime dell'usura e del racket a sporgere denuncia per essere protetti dalle istituzioni, ma tutto ciò si scontra con una dura realtà.
Il Prof. Francesco Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, ha avuto modo di istruire e seguire oltre 8 mila denunce, col risultato che, pur in presenza della documentata consistenza di ipotesi di reato, almeno la metà delle stesse, rimaste per anni insabbiate, sono state archiviate per prescrizione dei reati; per circa il 40% delle denunce è stata richiesta l'archiviazione, le cui opposizioni hanno condotto al rinvio a giudizio solo in una decina di casi; e per circa il 10% si sono ottenuti i rinvii a giudizio degli aguzzini con qualche condanna.
Di contro, il 92% delle vittime che hanno denunciato i propri aguzzini non hanno mai ottenuto l'accesso ai mutui di solidarietà, anche quando gli usurai sono stati condannati. Non è andata meglio per coloro che hanno invocato i fondi per la prevenzione, con cui viene garantito l'80% delle somme erogate; poiché gestiti dalle banche, nella maggior parte dei casi vengono concessi solo in favore di soggetti indebitati con le medesime, le quali così recuperano i loro crediti, spingendo gli altri, che hanno sofferenze con soggetti diversi dalle stesse, nelle braccia degli usurai.
Va fatto notare che, la maggior parte delle denunce sono state presentate per il reato di usura bancaria, fronte su cui la magistratura ha quasi sempre mantenuto un atteggiamento di notevole distacco, evidentemente perché considera usura, solo quella praticata da chi non espleta attività bancaria, e non invece l'usura praticata dalle banche, specialmente dopo l'uscita della contestata legge n. 24/2001 di interpretazione autentica della precedente legge n. 108/96, che autorizza il sistema creditizio ancora oggi a percepire interessi alle condizioni stipulate sui contratti antecedenti al 1996, frequentemente a tasso superiore al 40% annuo.
Ma tornando alle vittime, divengono ancor più vittime dopo la presentazione delle denunce: rimangono isolate più di prima, e tenute a debita distanza dalle banche e dagli usurai. Le richieste di accesso al fondo di solidarietà si sono rivelate un autentico fallimento, poiché la maggior parte dei soggetti ammessi, hanno richiesto 100 ed hanno ottenuto delibere per 20, e, per ottenere i 20, hanno dovuto attendere mesi, se non addirittura anni. La lungaggine burocratica è dovuta prima alle Prefetture delegate alla gestione amministrativa delle domande e poi al Comitato Consap, istituito presso il Ministero dell'Interno.
Peggio ancora l'iter per ottenere la sospensione dei termini esecutivi, che in passato hanno consentito il salvataggio di molte gravi situazioni. Difatti dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n.457 del 14/12/2005, che ha attribuito al giudice delle esecuzioni il potere di concedere le sospensioni, si è rivelato del tutto inutile l'iter che prevedeva la domanda al Prefetto per l'emissione del decreto che autorizza la sospensione, subordinata però all'acquisizione del parere positivo del Presidente del Tribunale e di quello del pubblico ministero designato all'istruttoria delle denunce, con il risultato, che, anche in presenza di tutti e tre i pareri positivi, i giudici delle esecuzioni si ostinano a rigettare le richieste di sospensione delle esecuzioni e delle scadenze fiscali, dando così impulso a illegittime espropriazioni di interi patrimoni, calpestando ogni diritto che compete alle vittime, che si ritrovano beffate e ingannate. Tutto questo, mentre per la crisi che ha investito l'economia mondiale, nell'ultimo anno è aumentato del 27% l'indebitamento delle famiglie, è cresciuto del 32% il numero dei soggetti costretti a ricorrere agli usurai, ed è paurosamente aumentato il numero dei suicidi per debiti.
Secondo Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, “sembrerebbe esserci un patto federativo fra banche, uffici amministrativi, Prefetture, uffici giudiziari affinché i diritti dei cittadini vengano calpestati”.
Parole durissime che vengono pronunciate con la massima tranquillità, perché nascono da dati di fatto, sottolinea Petrino, docente di Diritto bancario. Una particolare forma mentis induce a pensare all’usura come a un reato commesso da nomadi, pseudo finanziarie, associazioni di falsi samaritani. In realtà “i principali usurai sono le banche”, afferma Petrino. Non è un caso che la legge anti-usura preveda anche l’usura bancaria che viene sanzionata sotto il profilo penale e civilistico.
Dal punto di vista civilistico esiste un articolo secondo cui anche le banche che superano per tasso le soglie stabilite trimestralmente dalla legge incorrono nel reato di usura. Il Consiglio di Stato ha stabilito che quando le banche si macchiano di usura sono sanzionabili penalmente e civilmente con la perdita degli interessi, “mentre la magistratura – attacca Petrino – si ostinava a far passare i tassi bancari ripristinandone il diritto”.
“In teoria la legge anti-usura ha istituito tutele per i cittadini e le imprese che denunciano il fenomeno (famoso lo slogan ‘denunciate l’usura e le estorsioni, noi vi tuteleremo’); nell’arco di dodici anni abbiamo presentato 8 mila denunce, ma nessuno di loro è stato tutelato dalla legge”.
Come se non bastasse “i Comitati di gestione dei fondi anti-usura hanno privilegiato soggetti che non avevano alcun diritto, tanto che sono partite inchieste sull’utilizzo dei fondi, chi li ha concessi, chi ne ha beneficiato; per non parlare poi – continua Petrino – del Fondo di prevenzione del fenomeno usuraio gestito da Confidi attraverso le banche che avevano concesso finanziamenti solo a soggetti che erano scoperti con quella banca. Il risultato? Imprese lasciate sole”.
Per Petrino la realtà è che le “banche si sono dimostrate istituzioni espropriative”. Il presidente nazionale punta il dito anche contro le Prefetture “responsabili di incomprensibili ritardi”.
Le anomalie sono tante, non ultima la sospensiva dei termini di esecuzione in attesa che i responsabili vengano rinviati a giudizio: “Troppe volte i giudici non tengono conto della sospensiva”. In altri casi vengono concessi i 300 giorni, ma l’istruttoria poi non viene conclusa (chissà come mai) e i beni finiscono venduti all’asta. Secondo Petrino “la banca è una società speculativa che eroga il credito dopo aver valutato l’immobile; quando il debitore diventa inadempiente e c’è un rapporto superiore al 60 per cento fra valore immobiliare e debito reale, la banca non può far vendere l’immobile da 100 a 40, ma tutt’al più prenderlo e rimborsare il debitore”.
A ingarbugliare il quadro ci si mette anche il ‘caso Banca d’Italia’: “La Banca d’Italia non è un organo dello Stato in quanto è stata venduta ad alcune banche”, spiega Argo Fedrigo, imprenditore, presidente del Comitato di sovranità monetaria. In pratica “la Banca d’Italia è privata e controllata da due Istituti che fanno capo all’estero: San Paolo Intesa e Capitalia Unicredit, queste ultime due dovrebbero essere controllate e invece controllano la Banca d’Italia; questo significa che la carta moneta non è di proprietà dello Stato, bensì delle banche”.
L’usura bancaria e l’usura comune, comunque indotta dalla banche, è solo un tassello anomalo del sistema creditizio italiano.
Altro tassello anomalo è l’impedimento della portabilità dei mutui da una banca ad un’altra. Tutti gli istituti di credito più importanti del nostro Paese sono stati condannati dall’Antitrust per pratiche commerciali scorrette per non aver applicato la legge sulla portabilità dei mutui (art. 8 della legge n. 40/2007), che non prevede spese a carico del consumatore per trasferire il mutuo a un’altra banca. L’ inchiesta aveva svelato il comportamento scorretto del 95% delle banche italiane che, nonostante il dettato della legge, facevano pagare il trasferimento del mutuo ostacolando la concorrenza e impedendo al cittadino di risparmiare. Chi è stato costretto a pagare le spese richieste dalla banca per trasferire il mutuo con la surrogazione ha diritto a chiederne il rimborso. La condanna dell’Antitrust è la conferma ulteriore che si è trattato di una richiesta illecita.
Altro tassello anomalo è la costituzione di società ad hoc per la gestione dei fallimenti. Le principali banche hanno infatti costituto apposite società denominate "Asteimmobili", nei principali Tribunali (Roma, Milano, Genova, ecc.), con la finalità di chiudere il cerchio quando i tartassati e maltrattati utenti non hanno la possibilità di adempiere alle obbligazioni, specie su mutui e prestiti.
ABI e banche si sono quindi ritrovate ben presto, con personale impiegato nella società costituita “Asteimmobili” a fare lavoro di cancelleria come altri pubblici ufficiali (con la non piccola differenza di non essere entrati per concorso e di non aver dovuto "prestare giuramento di fedeltà" allo Stato) in gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti d'appello sia civili che penali, le stesse procure.
Le precedenti società, per aver offerto un invidiabile vantaggio competitivo imbattibile, ossia la gratuità del servizio offerto, che svolgevano questo delicato lavoro, come Data Service ed Insiel, sono state sostituite dalla Asteimmobili Servizi spa con sede sociale presso l'A.B.I. (via delle Botteghe Oscure 46 di Roma) e come soci un pool di banche, quali Intesa San Paolo S. p. A., SI TE BA S. p. A., UGC Banca (Gruppo Unicredit), ICCREA Holding, Banca Monte Paschi di Siena, Credit Servicing, Banca Sella, Banco di Desio, Banca Carige, Banca Popolare di Verona e Novara, Interhol 2001 s.r.l., Banca del Piemonte, Bipielle S.G.C., Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, Banca Popolare di Puglia e Basilicata, Banca Popolare di Lajatico, Banca Popolare di Sondrio.
Come mai imprenditori taccagni e vessatori come le banche, dovrebbero offrire prestazioni di servizio gratuite allo Stato?
Per chiudere il cerchio, essendo la Asteimmobili di proprietà dell'Abi, e delle banche,che avrebbero investito 3,5 milioni di euro in questa operazione, con una generosa offerta con la finalità privatistica, come ad es. la trasformazione dei pignoramenti degli immobili (chiesti al 99% dalle stesse banche!) in vendite all'asta; oppure le procedure fallimentari di società (che devono soldi alle banche, altrettanto spesso); l'archiviazione (o no, si potrebbe anche sospettare, visto che non sempre il deposito di un atto processuale di diritto civile prevede rilascio di una ricevuta) degli atti e delle sentenze. Le banche gestiranno questi servizi con molta più efficienza, ma con minore attenzione per l'interesse pubblico, per la terzietà degli atti della pubblica amministrazione, per i diritti dei vessati cittadini sottoposti ad ogni sorta di abuso da parte degli Istituti di credito, alla stessa stregua di un “Dracula” chiamato a gestire la banca del sangue!
Per questo evidente conflitto di interessi tra gli istituti di credito, che avrebbero il dovere di salvaguardare anche il sudato risparmio investito nelle abitazioni per acquistare la prima casa per abitarci, tutelato dalla Costituzione, e la voracità di banche, non aduse a guardare mai le esigenze dei cittadini ed andare incontro a temporanee esigenze per onorare gli impegni, nel caso di specie con l’allungamento non oneroso della durata dei mutui stessi, i Senatori Di Lello, Casson (ex magistrati penali) e Bordon, hanno presentato una interrogazione parlamentare al Governo, mentre l’Adusbef, ha presentato esposti denunce alle Procure di Milano, Roma e Genova.
Il risultato delle anomalie su indicate è che da Nord a Sud, un sodalizio criminale in grado di condizionare l’attività giudiziaria, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando della magistratura, sino alla Suprema Corte di Cassazione e al C.S.M., controlla indisturbatamente, da oltre 40 anni, le vendite giudiziarie e i fallimenti, garantendo impunità ai magistrati collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti e criminalità organizzata.
Era il 1998 quando la legge di riforma dava il via all'ambizioso progetto teso all'ottimizzazione delle tempistiche e della prassi legate alla vendita degli immobili da parte dei Tribunali competenti. In quel periodo il Tribunale di Milano era sommerso da una vera e propria valanga di procedure: 11.000 quelle pendenti, di cui 4.000 in attesa della fissazione della prima udienza, come dire bloccate a causa del mancato deposito dei certificati richiesti (quelli che in gergo tecnico vengono definiti "certificati ipocatastali"). Ed è stata sempre la stessa riforma a dare un "colpo d'acceleratore" all'intero comparto delle procedure esecutive, grazie alla sostituzione del certificato ipocatastale col certificato notarile ed alla sostituzione di termini più brevi per il deposito, pena l'estinzione della procedura stessa. Ma l'entrata in vigore di una normativa non sempre coincide con l'effettiva sua applicazione. Un impulso concreto, perciò, alla prassi delle esecuzioni immobiliari si è registrato grazie al lavoro sinergico promosso da un pool di magistrati di Milano unitamente all'Ordine degli avvocati ed al Consiglio notarile.
Obiettivo: coniugare garantismo ed efficienza nel pieno rispetto delle disposizioni vigenti in materia. Da qui la prassi inaugurata dal Tribunale di Milano in seno alle procedure immobiliari rappresentata dalla delega al notaio. Almeno per tutti quegli immobili di valore superiore ai 50.000 euro. Una formula, questa, che ha rappresentato un vero e proprio acceleratore. Attraverso la delega, infatti, ogni giudice riesce oggi, in ogni singola udienza, a rilasciare dalle 15 alle 20 deleghe. Potremmo dire che, considerati i tempi medi necessari all'espletamento della intera fase notarile, che vanno dai 6 ai 18 mesi, la procedura avviata dal Tribunale di Milano può, a pieno regime, garantire l'espletamento di una esecuzione immobiliare ordinaria nel giro di un anno e mezzo/due, un termine che può dirsi senza dubbio più ragionevole ed accettabile se confrontato alla media europea.
Non si può, comunque, dimenticare che il percorso dei giudici del Tribunale di Milano è stato particolarmente difficile, soprattutto nei confronti di un problema estremamente rilevante quale quello legato alla turbativa d'asta, vero e proprio tallone d' Achille per il sistema delle esecuzioni.
E' proprio su questo punto che i giudici sono intervenuti in maniera decisa denunciando alla Procura il fenomeno. I giornali allora parlarono di un "cartello" di speculatori per le “aste truccate”. Una specie di organizzazione in grado di condizione le gare per l'acquisto degli immobili pignorati. Come dire, nessuno poteva partecipare ad un'asta giudiziaria senza pagare una "commissione" che andava dal 10 al 15 percento del valore dell'immobile che intendeva acquistare. In caso contrario il "cartello" soprannominato allora "La compagnia della morte" avrebbe fatto lievitare al prezzo.
In passato, a partire dall’esperienza pilota del Tribunale di Milano, stampa ed istituzioni hanno dato grande risalto alla pretesa "innovazione" del sistema delle vendite giudiziarie, dedicando intere pagine, anche di pubblicità a pagamento, sui quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli otto arresti di avvocati e pubblici funzionari della c.d. "compagnia della morte", si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l'acquisto degli immobili pignorati.
Ci hanno spiegato e confermato che per svariati anni una banda di "professionisti" ha potuto agire impunita, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di un "pizzo" pari al 10-15% del valore dell'immobile pignorato e pilotando l'assegnazione su società immobiliari vicine o su professionisti, soggetti privati e prestanome, i cui interessi spesso sono risultati riferibili agli stessi magistrati giudicanti, come nei tanti casi da noi vanamente denunciati.
Lo stesso dicasi per quanto attiene l'ambito delle procedure fallimentari, controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano, da cui sono stati sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, ha messo a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all'insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ‘80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando solo negli ultimi anni svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell’obbligo di registrazione delle denunce nell’apposito Registro delle notizie di reato, tassativamente previsto dall’art. 335 c. 1° c.p.p. (26.000 procedimenti insabbiati e occultati in soffitta dalla sola Procura di Brescia).
Un fenomeno che caratterizza la vita giudiziaria in ogni parte del Paese, mettendo in evidenza, come la “mafia giudiziaria” non sia una questione legata alle sole zone del sud a forte concentrazione criminale, ma una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e al modo di gestire le funzioni giurisdizionali - a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici - ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ormai storicamente entrata a fare parte della cultura dominante e delle perverse logiche di amministrazione della cosa pubblica, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di arricchimento occulto e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto”, secondo cui, indipendentemente dalle latitudini, vince chi ha le giuste aderenze ed entra a fare parte del “giro” dei comitati d’affari.
Un “codice”, imposto dalla politica e dalla cultura dominante che accomuna il nord al sud del Paese e fa di quella che possiamo con giusta causa definire “mafia giudiziaria”, un fenomeno di elevatissima pericolosità sociale e allarme per la stabilità democratica e la sicurezza nazionale, riferibile alle logiche dominanti di gestione del potere e del finanziamento illecito dei partiti, che dalla malagiustizia si alimentano, attingendo ingenti risorse, consenso e protezione, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata e mafiosa.
Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un'ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto e alimentato dagli istituti bancari e dalle mafie locali. Un malaffare legalizzato dallo Stato, che tende a mostrare l'efficienza dei Tribunali, nascondendo ogni coinvolgimento di magistrati e infedeli funzionari.
Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Da “La Repubblica”. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. La sentenza è stata firmata dal giudice Beatrice Cristiani che ha condannato anche a 2 anni il commercialista Luciano Quadrini in relazione al crac appunto dell' Immobiliare Europa. Sotto processo oltre a Pierluigi Baccarini e Luciano Quadrini era finito anche Ercole Pugliese ( condannato a 3 anni), arrestati alla fine del 2004 e poi tornati in libertà. Tra gli imputati anche la moglie del magistrato, Luisa Fasoli (condannata a 2 anni e 4 mesi) e l'avvocato Oreste Fasano che è stato assolto. L' inchiesta, per corruzione anche in atti giudiziari è stata coordinata dai pm Sergio Sottani, Roberto Rossi e Andrea Claudiani. Secondo l' accusa il giudice Baccarini per cinque anni, dal ' 99 al 2004, il giudice avrebbe «ricevuto ingenti somme di denaro» per agevolare le procedure assegnate con «artifici» al suo ufficio. Nella distribuzione delle consulenze avrebbe «favorito costantemente» Pugliese e Quadrini e a quest' ultimo avrebbe assicurato una gestione del crack dell' Immobiliare Europa, ex immobili Dc, «atta a garantire gli interessi» curati dal commercialista. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l'attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.
Dalle cronache dei giornali si apprende che una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie. Mantovano lo ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti. Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie.
“Un procedimento disciplinare per tutti gli avvocati coinvolti nella vicenda delle aste giudiziarie sottoposte all’indagine della Procura”. È quanto ha annunciato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce Luigi Rella. “Ancora non c’è nulla di certo – ha dichiarato il presidente – ma non appena riceveremo notizie ufficiali da parte della Magistratura, avvieremo un procedimento disciplinare nei confronti di chi è coinvolto”. Nel giorno in cui la categoria degli avvocati fa sentire la sua voce nell’ambito dell’omicidio Romano, che ha visto prendere di mira gli avvocati per lo svolgimento non trasparente di alcune aste giudiziarie, il presidente Rella avverte: “Abbiamo sentito l’esigenza di intervenire in questa vicenda che si è poi dilatata. Se ci sono avvocati coinvolti non si può genericamente dire che lo sia tutta la categoria”. Rella continua dicendo che il fenomeno di cui si è parlato in queste settimane riguardante le aste sospette, esiste indubbiamente e conferma la volontà, da parte dei giudici, di eliminare tutte quelle influenze negative che ci sono sulle aste. “A Lecce la giustizia è al collasso – conclude il presidente – ma non ancora al fallimento”.
Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2011 Giovanni Longo racconta la Fallimentopoli barese. C’è voluto un camion per trasportare tutte le carte da Bari a Lecce. E quando i faldoni sono giunti a destinazione, pare che nella stanza del procuratore di Lecce Cataldo Motta non ci fosse spazio sufficiente. L’inchiesta della Procura di Bari sulle procedure fallimentari si allarga e trasloca: oltre a curatori, consulenti, professionisti, bancari e cancellieri, nel mirino del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza sono finiti anche magistrati in servizio presso il Tribunale del capoluogo pugliese. E dunque il Pm ha passato la mano.
I primi particolari dell’inchiesta sono emersi nella primavera del 2011, con numerose perquisizioni e l’arresto dell’avvocato barese Marco Vignola. Dopo che l’indagine ha toccato alcuni giudici le carte sono passate a Lecce, ufficio competente a indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Corte d’Appello di Bari. Quattro i filoni d’indagine. In tre sarebbero stati individuati comportamenti penalmente rilevanti da parte di toghe baresi, in merito, sembra, alle modalità con cui per anni sarebbero stati gestiti i mandati di pagamento delle curatele. È il tema toccato in due informative che gli investigatori hanno depositato a fine settembre e fine ottobre ipotizzando, sembra, anche la corruzione in atti giudiziari. Che le indagini potessero allargarsi lo si era intuito leggendo la richiesta di misura cautelare nei confronti di Vignola, indagato per falso, peculato, truffa e omesso versamento delle imposte. «Occorre capire - scriveva tra l’altro il Pm barese Ciro Angelillis, ormai ex titolare di tutti i fascicoli - se e come sia stato possibile operare nel modo contestato senza che altri soggetti (cancellieri, creditori, giudici, bancari, ecc.) operanti all’interno di uffici in vario modo al controllo se non proprio alla gestione congiunta (col curatore) del patrimonio fallimentare se ne siano avveduti; occorre capire se vi siano state connivenze o, addirittura, forme di concorrenza nei reati commessi».
L’indagine era partita dalla presunta falsificazione dei mandati di pagamento per oltre sette milioni di euro che sarebbe stata commessa dall’avvocato Gaetano Vignola, padre di Marco, curatore fallimentare da almeno un ventennio. Ma ora l’inchiesta si è allargata: in uno solo dei quattro filoni passati a Lecce sarebbero analizzate otto procedure. Più recente invece il fascicolo su Marco Vignola, indagato nella veste di curatore della procedura fallimentare «Nova Tessile Srl». I fatti contestati al giovane legale - che ha assistito Alessandro Mannarini, uno dei tre «moschettieri» del caso Tarantini - si riferiscono agli anni 2000-2008 e riguardano presunti falsi mandati di pagamento e l’appropriazione di 1,6 milioni dai conti del fallimento. Soldi che il professionista sta restituendo alla nuova curatela.
Ora tocca a Lecce iniziare la fase degli accertamenti su alcuni magistrati baresi.
"Basta fallimenti truccati promossi dal sistema di potere, che distruggono aziende sane. Basta caste professionali, che gestiscono con arbitrio la svendita dei beni per arricchirsi alle spalle dell’indifeso cittadino imprenditore. Da anni denuncio al mondo l’anomalia dei fallimenti, su segnalazione dei miei associati locali, spesso vittime di racket ed usura e rappresentanti di comitati territoriali. Lo denuncio pubblicamente da Presidente nazionale di una associazione antimafia riconosciuta dal Ministero degli Interni. Il fenomeno copre tutta la penisola, ma le note stampa vengono ignorate e le mie denunce penali vengono insabbiate. Per il sistema devi subire e tacere”.
Il dr Antonio Giangrande nella sua inchiesta elenca una serie di casi eclatanti.
Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.
E che dire del caso Cirio. Ci furono accertamenti su presunte irregolarità avvenute nella sezione fallimentare del Tribunale di Roma, che hanno visto coinvolti giudici accusati di aver “pilotato” alcuni fallimenti e che vede una procedura di trasferimento d’ ufficio per incompatibilità, avviata nei confronti di un giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari.
E che dire delle aste truccate in Lombardia. Al Tribunale di Milano i magistrati hanno denunciato una loro collega: tentata concussione e abuso d'ufficio nelle nomine dei consulenti, al fine di suddividerne i compensi. A Brescia si è archiviato un procedimento penale per usura, pur essendo stato accertato dal perito della Procura un tasso applicato del 446% annuo.
E che dire dell’intrigo che lega il Piemonte e la Toscana. Un Giudice condannato per tangenti per il fallimento Aiazzone e legato con un esponente della P2 in altri processi in Toscana. All’indomani di una udienza a Prato contro di questo, il suo difensore, noto avvocato e professore milanese, fu trovato morto a causa di uno strano suicidio. Nell’ambito di quei processi si denunciano casi di violazione del diritto di difesa. Sempre in Toscana, si chiede il processo ad un giudice: al magistrato vengono contestati corruzione, concussione, peculato, falso, abuso di ufficio e concorso in bancarotta.
Anche in Emilia Romagna si denunciano casi di lesione del diritto di difesa e del contraddittorio a danno dei falliti.
Nelle Marche l'inchiesta sul crack delle aziende dell'imprenditore sambenedettese ha coinvolto ben 18 personaggi. Fra essi numerosi magistrati, avvocati, curatori fallimentari e dirigenti di banca.
In Abruzzo, l’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato da un cancelliere.
A Lecce, per la prima volta in Europa, è stato dichiarato il fallimento del creditore su richiesta del debitore. L’imprenditore è stato sbattuto fuori di casa, nonostante sia stato assolto dai reati di truffa e falso denunciati dal direttore generale di un noto istituto di credito spacciatosi per suo creditore, mentre era, in realtà debitore dell’imprenditore di cui ha provocato il fallimento. Una vittima spara e uccide il suo aguzzino: solo allora danno il via alle indagini, rimaste da tempo insabbiate.
Ciliegina sulla torta è il caso Palermo e Catania. A Palermo per il fallimento con il trucco, tre giudici rischiano il processo. A denunciare le illegalità un comitato antiracket ed antiusura. La competenza è passata alla Procura di Reggio Calabria. Nei suoi uffici è scoppiato lo scandalo “cimici”. A Catania, con atto ispettivo al Ministro della Giustizia n. 4-29179, l'interrogante On. Angela Napoli, ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti su una denuncia di un imprenditore dichiarato, ingiustamente, fallito.
Il sistema lobbistico di potere delle banche usufruisce di altri favoritismi: lo scandaloso meccanismo delle cartolarizzazioni che non ha risparmiato le casse dello Stato, la piccola e media impresa e i cittadini.
E’ doveroso spiegare in che cosa consiste di fatto la cartolarizzazione e quali sono le ragioni per cui la definisco, la più grande truffa organizzata dal sistema bancario in danno degli italiani.
Nel 1999, quando alla guida del governo italiano in barba a Prodi si era insediato D’Alema, il quale all’insegna del partito della coalizione della solidarietà ebbe a propinare agli italiani il grande evento rappresentato dalla promulgazione della legge n. 130/99, che soltanto gli esperti non allineati compresero subito essere una legge istituita per salvare le banche. Difatti di li a poco sono esplose le tre principali vicende cui si allude, conseguenti al mancato rimborso in misura adeguata delle obbligazioni emesse dallo Stato argentino, nonché da società riconducibili al gruppo Cirio e al gruppo Parmalat, titoli di cui le banche italiane hanno infestato i nostri poveri risparmiatori allettandoli con prospettive di lauti facili guadagni, per la sola finalità di scaricare quelle che si sarebbero presto rivelate perdite sulla pelle della povera gente. Va ricordato che in Italia sono stati sottoscritti circa 12 miliardi di euro di obbligazioni argentine, 1 miliardo di obbligazioni Cirio e 4,8 miliardi di obbligazioni Parmalat. Nel complesso si tratta dunque di quasi 18 miliardi di euro, ossia l’equivalente di tre finanziarie, che in massima parte si sono tradotti in consistenti perdite per varie centinaia di migliaia di investitori. E non sono stati gli unici casi purtroppo.
«Non è con le suggestioni» o «con il vibrato richiamo enunciato dal pm Francesco Greco» ai «tremendi guasti della finanza 'tossica' che si ricostruiscono i reati nelle aule di tribunale», qui «non si tratta di un convegno ma di accertamento penale»: e «l’enfasi » dei pm, «esibita» per sostenere «una sorta di aggiotaggio immanente» (tipo «la vicenda Parmalat è talmente grave, i fatti così macroscopici che qui tutti sono responsabili di tutto... »), avrebbe meritato «impegno degno di miglior causa» verso «ben altri responsabili certi del default, usciti» invece «per strategia inquirente con pene irrisorie» in patteggiamenti «già oggetto di indulto».
Trecento pagine di motivazione non argomentano solo la condanna a 10 anni di Calisto Tanzi per aggiotaggio e le molte assoluzioni decise invece il 18 dicembre 2008 per amministratori di Parmalat e funzionari di Bank of America: i giudici Luisa Ponti (processo Sme), Giuseppe Gennari (inchiesta Telecom) e Silvia Baldi vi formulano anche inedite critiche all’«errore di fondo» dei pm «i cui effetti deleteri hanno attraversato tutto il processo»; alla Consob «priva di curiosità» sui debiti Parmalat; e alle «scarse (a essere benevoli) capacità mnemoniche» del testimone Enrico Bondi, commissario Parmalat. Il Tribunale esprime «notevole imbarazzo» per un’accusa che «soffre di quei medesimi gravi difetti già segnalati dal Gip che respinse la richiesta di giudizio immediato (Piffer nel 2004,)». «Non emendati» dai pm. Ad esempio, Bank of America (BofA) o i consiglieri non esecutivi di Parmalat «per quale ragione avrebbero dovuto scandalizzarsi», se nel 2003 «Consob con poteri ben più ampi al termine di un’accurata attività ispettiva non solo non contestava alcun addebito, ma attestava l’attendibilità dei saldi contabili? Sia chiaro, questa domanda non vuole suonare come una critica alla Consob», tanto più che «i suoi accertamenti sono stati ostacolati in ogni modo da Tanzi », e «poi vale sempre il principio che meglio tardi che mai».
Ma «neppure si può alzare il dito contro» la banca BofA «pretendendo, come sostiene la consulente del pm, che dalla mera lettura dei bilanci si scoprisse l’arcano mistero celato dietro le scritture Parmalat». Altrimenti bisognerebbe ripensare alle «curiosità che Consob non aveva nutrito in precedenza pur visionando i bilanci»: su Epicurum, l’asserito fondo d’investimenti da 7 miliardi di dollari e in realtà inesistente, «neppure Consob ha consultato Internet e non si è resa conto che doveva essere falso perché sarebbe stato, pur sconosciuto, uno dei dieci più consistenti al mondo». E Bondi? «Imposto — ritiene di scrivere il Tribunale — come sempre e come in altre note vicende italiane da Mediobanca, neanche a lui, che pure conosceva almeno superficialmente i conti Parmalat al momento di accettare l’incarico, è parso così sospetto il rapporto tra indebitamento e liquidità, altrimenti non si sarebbe adoperato così apertamente» per provare a pagare il bond del dicembre 2003, «operazione che ha indotto più di un investitore a tornare sul titolo, convinto che il gruppo si sarebbe salvato».
Il Tribunale, poi, «avrebbe avuto interesse a conoscere» anche «il contenuto degli accordi riservati» tra Bondi e il capo (Lagro) del team di suoi consulenti PwC, perché, «se i compensi fossero legati al successo delle iniziative giudiziarie intraprese da Bondi in base al lavoro di verifica del team, ciò non potrebbe non avere una ricaduta sulla valutazione del teste Lagro, che tanto più guadagnerebbe quanto più sostenesse tesi funzionali al commissario». E la tesi di Tanzi, io vittima delle banche voraci? «Se il Collegio non esclude che alcuni istituti possano aver lucrato illecitamente dal rapporto con Parmalat, non per questo il ruolo di Tanzi non può essere ridimensionato, visto che il 'sostegno' bancario è servito a mantenere un sistema di cui era ideatore e primo avvantaggiato».
Delusi dalla sentenza erano stati i 42mila risparmiatori rinviati dai giudici penali a una futura quantificazione dei danni in sede civile. Nel rifiutare il ricatto morale di «insostenibili generalizzazioni in nome della generica tutela del risparmiatore o della 'enormità' della vicenda Parmalat», i giudici rivendicano l’impietosa «verità: accertare il nesso causale tra condotta e danno avrebbe richiesto un’istruttoria su ciascuna delle 42mila parti civili che, va detto senza infingimenti, era impossibile da svolgere», pena «tempi intollerabili e sicura prescrizione». Se mai, proprio questo fallimento «dovrebbe fare riflettere sull’idoneità stessa del processo penale a fornire adeguato strumento di ristoro in caso di violazioni di massa che interessano migliaia di persone».
Ma torniamo alla sindrome della cartolarizzazione. Le banche italiane nel 1999, tirando le somme del contenzioso maturato dopo la crisi del 1992, si sono accorte che avevano crediti ipotecari con difficili probabilità di recupero per parecchie migliaia di miliardi, oltre a decine di migliaia di miliardi di crediti chirografi. Avendo i rappresentanti del sistema bancario mantenuto sempre buoni rapporti con i sinistri “governi della solidarietà”, sin da quando l’ex governatore Carli è stato ministro del tesoro, Ciampi, presidente della Repubblica, Dini e Prodi presidenti del Consiglio, hanno caldeggiato al suo successore una legge che permettesse lo sgravio dei bilanci delle partite difficili e l’abbattimento dell’importo dei crediti.
Col bene placido dell’allora presidente della Repubblica, è stata approvata una legge tutta italiana per la cartolarizzazione dei crediti, concepita per permettere alle banche una evasione legalizzata. Da quel momento si evince che nei soli primi due anni, 2000-2001, si è concretizzata in un buco di oltre 90.000 miliardi di lire per i conti dello Stato, danno ricaduto poi sui contribuenti.
Il 30 aprile 1999, con la legge n.130 intitolata “disposizioni per la cartolarizzazione dei crediti”, il governo presieduto da Massimo D’Alema, proseguendo nel suo progetto di sostegno alle povere banche italiane, dopo il decreto salva anatocismo del 1998, si è sentito in dovere di concedere alle banche un ulteriore strumento idoneo a distruggere la media e piccola imprenditoria del nostro paese, accattivandosi la riconoscenza del medioevale sistema bancario italiano.
Non appena questa legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, le banche più furbe, sempre pronte all’arrembaggio, avevano già costituito delle banali s.r.l. con capitale di 20 milioni di lire, ovviamente sottoscritto da esse stesse. S.r.l. alle quali hanno venduto crediti miliardari in cambio di obbligazioni (derivati - hedge found) di durata anche ventennale. Ma la vera astuzia degli scaltri manager delle grandi banche è consistita nel vendere in blocco (a se stesse), in cambio della promessa di pagamento del 40% del loro valore iscritto a bilancio, i crediti assistiti da garanzie ipotecarie, con perdite dichiarate del 60%. A questo si aggiungano anche i crediti chirografi per svariate centinaia di miliardi, svenduti a se stessi al 10% del loro valore a bilancio, partite per le quali le banche hanno dichiarato perdite del 90%.
Così che per conseguenza del metodo legalizzato delle elusioni fiscali e delle compensazioni per le presunte perdite subite a far data dall’anno 1999, le pseudo istituzioni creditizie, si sono sottratte al pagamento di molte migliaia di miliardi di vecchie lire di tributi, pari all’equivalente delle perdite multimiliardarie derivanti dalle cartolarizzazioni alle loro società controllate.
Ma non è tutto qui, le cause e gli effetti della cartolarizzazione derivante dalla legge D’Alema, si sono rivelati devastanti non solo per i conti dello Stato, ma anche per i debitori del sistema bancario, i quali si sono ritrovati a fare i conti con una nuova forma di usura e di estorsioni, attuata delle società di recupero crediti e delle immobiliari, in prevalenza di emanazione bancaria.
Veniamo al nocciolo del problema. Cartolarizzazione, significa “cessione dei propri crediti” ad altra azienda finanziaria, la quale, a fronte di posizioni creditorie ipotecarie contenziose paga con obbligazioni di durata anche ventennale, in media il 40% del valore dichiarato dalla banca venditrice dei crediti.
Così stando le cose, si è portati subito a pensare che la povera banca che si trova costretta a cedere i sui crediti, per esempio di un miliardo di euro, per effetto della cessione, incassa in 5/10/20 anni soltanto 400 milioni e perde di fatto l’importo di ben 600 milioni. Anche se i dati contabili portano in questa direzione, il risultato reale è ben diverso, poiché con l’operazione di cartolarizzazione, la banca venditrice, anziché perdere il 60%, in realtà realizza un duplice magnifico affare. Analizziamo insieme come e perché.
In dipendenza della cessione del credito, sul bilancio di esercizio, la banca consegue nello stesso anno dell’avvenuta cessione, l’immediato pareggio contabile dell’intero ammontare del credito ceduto. Il pareggio è costituito in parte dal controvalore incamerato con la percentuale pattuita per la cessione ed in parte per l’elusione fiscale conseguente alla perdita patrimoniale derivata dalla cessione del credito.
La prima «truffa» deriva dal fatto che per la perdita registrata, la Banca è esonerata dal versamento delle imposte dovute per pari ammontare delle presunte perdite dichiarate in bilancio.
La seconda operazione consiste nel fatto che la banca, per i medesimi crediti ceduti, con la formula della cartolarizzazione al momento della cessione, aveva già praticamente ammortizzato ognuno dei crediti vantati, poiché aveva già conseguito il beneficio degli ammortamenti attraverso il dispositivo degli accantonamenti annuali al fondo di svalutazione crediti e al fondo di rischio.
Questo graverà per il 50% circa sul debitore reale e per l’altro 50% sugli ignari cittadini contribuenti, costretti a pagare quelle tasse che gli istituti di credito sistematicamente eludono. Le operazioni di cartolarizzazione a partire dal 1999 sono state attuate dalle maggiori banche nazionali, per un ammontare stimato di oltre 300 miliardi di euro, pari a circa 580.000 miliardi di lire, con elusione fiscale derivata che ha aperto una voragine nei conti pubblici di almeno 150 miliardi di euro, pari a 290.000 milioni di lire.
La realtà che emerge è che le banche col meccanismo della creazione di società costituite, alle quali conferiscono mandato per la gestione dei crediti, fanno la parte del leone nei confronti degli sprovveduti cittadini e titolari di imprese, i quali si ritrovano di fronte ad autentici automi che discutono solo di rapporto tra credito preteso – benché infarcito di mostruosi interessi – e valore degli immobili in espropriazione, rapporto logico tra credito erogato e somme già rimborsate.
La conseguenza derivata è la assoluta impossibilità dei debitori a trovare soluzioni, se non quella di ricorrere al credito usuraio, per chi riesce a ottenerlo. In tale situazione i malcapitati delle cartolarizzazioni, vengono sottoposti ad una autentica aggressione psicologica e costretti a vivere in uno stato di totale insicurezza per l’imminenza della perdita della casa e per la triste sorte a cui si ritroverà esposto il proprio nucleo famigliare. Lo stato di stress emotivo–psico-fisico, in una gran percentuale di soggetti potrebbe portare alla graduale perdita delle difese immunitarie, e di conseguenza a gravissime patologie cardiache e tumorali senza scampo, come purtroppo è accaduto in moltissimi casi descritti sul dossier SNARP.
La drammatica situazione, è ignorata dal governo, oltre che dalla magistratura penale e tributaria.
Anzi, dopo il vertice di Parigi del 12 ottobre 2008 l'Esecutivo completa gli strumenti messi in campo con il decreto 9 ottobre 2008 n. 155 per far fronte alla crisi dei mercati finanziari.
Il nuovo decreto legge (13 ottobre 2008 n. 157, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 ottobre 2008 n. 240) introduce alcune misure per riattivare il funzionamento del mercato di prestiti interbancari. Le soluzioni adottate, attivabili fino al 31 dicembre 2009, vogliono favorire la liquidità, la capacità di finanziamento e la solvibilità delle banche con lo scopo di garantire il flusso di finanziamento all'economia reale.
Insomma, a garantire le Banche in sofferenza ci pensa lo Stato, ossia i cittadini vessati dalle stesse banche.
La crisi mondiale delle banche e del mondo della finanza ha scatenato una miriade incontrollata di opinioni. Sono spuntati opinionisti economici ovunque, tutti pronti a condannare il libero mercato indicandolo come la causa principale del finimondo finanziario a cui stiamo assistendo. Credere nel libero mercato, significa credere nella libertà dell’uomo di agire e a volte anche di sbagliare. Crederci non significa in ogni modo che chi sbaglia non debba pagare le conseguenze dei propri errori.
Il “diritto” o il rischio di fallire non deve rimanere appannaggio di pochi ma è il freno che regola il libero mercato che, se tolto o eluso, può provocare molti sconquassi.
Dove sta scritto che le banche non possano fallire? Dove sta scritto che non è giusto che una banca, grande o piccola che sia, finisca con dichiarare fallimento? Certo, le ripercussioni per il crollo di un grande istituto sono ingenti, con migliaia di posti di lavoro persi, piccoli risparmiatori coinvolti, azionisti che vedrebbero trasformarsi in carta straccia i loro investimenti (come del resto anche senza il fallimento dichiarato lo sono già). Lo spauracchio del fallimento, conseguenza logica di cattiva gestione, di perdita della clientela, di spese che superano le entrate, di mancanza di liquidità, è il vero regolatore del libero mercato. Crudele che sia, a volte cinico ma garanzia che richiama gli operatori alle proprie responsabilità.
D'altronde lo stesso metodo del fallimento è adottato per il clienti inadempienti delle stesse banche.
Allora, perché si chiede il fallimento delle imprese e viceversa si salvano le banche??
Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi gli istituti bancari raccolgono i soldi dei risparmiatori e li investono in attività di carattere finanziario. Direttamente. Per le grandi banche, ad esempio, oltre il 50% dei loro ricavi viene da questi strumenti finanziari. In questo modo, le banche da anni hanno perso il ruolo di intermediario del credito e stanno svolgendo un altro mestiere. Dopo i casi di Cirio e Parmalat, da allora centinaia di testimonianze di dipendenti del settore bancario raccontano come prodotti ad alto rischio siano stati venduti a massaie, pensionati e a chi ci metteva tutti i risparmi. Se all'inizio le banche hanno teso solo a massimizzare gli interessi degli azionisti, con profitti davvero notevoli anche negli ultimi anni, di recente hanno usato questo procedimento anche per scaricarsi delle insolvenze, sui clienti. E adesso i tassi interbancari sono alle stelle, le banche non si fidano più di prestarsi soldi tra loro.
Le banche non si prestano tra loro denaro perché hanno una crisi di liquidità e sono preoccupate di non essere in grado di soddisfare le eventuali richieste di rimborso che potrebbero arrivar loro dai risparmiatori. E poi c'è il problema enorme della montagna di titoli spazzatura dentro le loro tesorerie. Di fatto i bilanci dell'intero sistema globale sono falsati. D'altronde la massa di carta finanziaria che gira è 25 volte l'economia reale.
La distanza tra economia finanziaria e reale non c'è più.
Alla base di questa crisi vi è quindi il mancato ritorno di denaro alle banche che l’hanno prestato, ma che hanno agito come se quel denaro fosse comunque immediatamente disponibile per altre operazioni finanziarie. Vi è quindi un enorme mercato bancario parallelo, fatto di debiti non coperti.
Ed è su questo mercato parallelo, da cui non c'è praticamente nulla da recuperare, che i governi cercano di intervenire cercando di mettere in atto provvedimenti volti a sgonfiare la bolla prima che esploda: trasferire masse di denaro fresco dalle casse dello Stato alle casse delle banche ed elargire ulteriore denaro alle imprese che non saranno in grado di ottenere finanziamenti attraverso i canali del credito. Nessuna operazione di ingegneria finanziaria, solo un gigantesco passaggio di risorse dal pubblico al privato in nome della salvezza del sistema economico e finanziario, con conseguenti lacrime e dolori per i lavoratori e i pensionati.
Non solo le banche fanno ciò che vogliono in economia, ma “le banche rappresentano la rete più estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti lì”. Ne è convinto Francesco Forgione, già presidente della commissione Antimafia, in una intervista a Sintesi Dialettica.
"La politica - spiega Forgione - non ha avuto la forza di approvare una buona legge come quella sull'anagrafe dei conti correnti - legge Mancino del 1993, mai applicata. Da qui, quando si arresta un mafioso e gli si vogliono congelare subito i conti correnti, il mafioso, o l'amministratore del mafioso, ha tutto il tempo per svuotarli e movimentarli via internet in uno dei tanti paradisi fiscali del pianeta. Noi non abbiamo neanche la possibilità, attraverso l'anagrafe dei conti correnti e l'anagrafe degli immobili, di capire anche gli spostamenti di proprietà e le movimentazioni catastali. Manca, quindi, la possibilità di intervenire proprio lì dove si concentra il potere mafioso".
Insomma, per il presidente della commissione Antimafia il ruolo delle banche è centrale. Per Forgione, dunque, è necessario aggredire "il santuario del mercato", altrimenti non si possono sconfiggere le mafie. "100.000 milioni di euro all'anno è l'ammontare di movimentazione delle mafie di cui almeno il 60% entra nell'economia legale - dice ancora -. Da qui si apre il problema della rintracciabilità dei flussi e dei patrimoni. Le mafie non hanno più la coppola e la lupara dei film in bianco e nero. Hanno capito che investire in patrimoni è rischioso per cui "finanziarizzano" le loro attività. E per colpire questo livello di "finanziarizzazione" e intercettarne i flussi, bisogna aggredire il sistema bancario".
IL CERCHIO SI È CHIUSO. SI È PARTITI DALL’USURA E SI È ARRIVATI ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.
PARLIAMO DI FONDI STRUTTURALI UE.
La piaga delle frodi comunitarie costituisce un tema discusso e studiato da tempo. Si discetta se l'Italia abbia il record delle irregolarità dell'Unione Europea perché ha più truffatori e più amministratori incompetenti degli altri Stati membri, oppure perché è il Paese con gli investigatori più bravi e più scrupolosi. Insomma, il primato italiano potrebbe non essere quello delle irregolarità, bensì quello della sorveglianza, perché gli altri non controllano né denunciano quanto noi.
Il record di cui invece pochi parlano è quello del mancato recupero dei fondi elargiti, ma poi risultati frutto di frodi o di irregolarità procedurali. Fino a poco tempo fa, il fatto che l'Italia trascurasse questo adempimento veniva per lo più ignorato da Bruxelles. Che si faceva perciò carico dei suoi costi. Ma non è più così. Da Bruxelles hanno cominciato a presentarci i conti. E sono salatissimi. Al “Sole 24 Ore” risulta che ne stia per arrivare uno da 200 milioni di euro. Ma in totale sì parla di una cifra che potrebbe superare il miliardo di euro.
In Italia l'approvazione del regolamento sui contributi comunitari, il 1290/2005, è passata del tutto inosservata. Nonostante includesse una novità molto significativa proprio sulla questione dei recuperi, una norma a prova di furbi. Nel senso che può essere ignorata, ma non c'è modo di evitarne l'applicazione. Il regolamento prevede infatti che, dopo un certo periodo di tempo, il mancato recupero venga addebitato allo Stato membro attraverso una detrazione automatica dai contributi futuri.
La gravità delle possibili ripercussioni sull'Italia di questa nuova normativa è stata evidenziata dagli addetti ai lavori nel corso di una riunione presso il Dipartimento delle Politiche Comunitarie. Fu una sorta di summit dei massimi dirigenti delle amministrazioni statali interessate, del quale “Il Sole 24 Ore" ha ottenuto un resoconto scritto a fini interni (e quindi senza remore).
Per rendersi conto della situazione, basti sapere che il più antico credito non riscosso dell'Agea risale a ben 28 anni fa e che ci sono ancora da recuperare ben 553,5 milioni di euro.
Questo per quel che riguarda i fondi agricoli, fronte sul quale Agea e Saisa hanno dato dimostrazione di grande trasparenza. Quanto ai cosiddetti fondi strutturali, al “Sole 24 Ore” non è stato invece possibile ottenere dati. Sebbene il Dipartimento delle Politiche Comunitarie abbia ufficialmente comunicato che «notizie in merito agli importi restituiti o dedotti possono essere acquisite all'Ispettorato Generale per i Rapporti Finanziari con l'Unione Europea (Igrue) presso il ministero dell'Economia e delle Finanze», il Ministero ci ha informato che «la divulgazione dei dati non è opportuna in quanto può portare a conclusioni errate sul fenomeno delle restituzioni». Come dire: per non confondere le idee agli italiani sul tema dei mancati recuperi, meglio tenere tutto nascosto.
CAPITOLO 2: FISCOPOLI
OSSIA, SPREMA O EVADA CHI PUO’
TASSATI E MAZZIATI!!!!
ESTORSIONE DI STATO. PARLIAMO DEL COSTO DEL LAVORO.
Costo del lavoro alto e burocrazia complessa: ecco perchè non si scommette più sull'Italia. Indagine della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro.
PERCHE' GLI STRANIERI NON INVESTONO IN ITALIA E GLI ITALIANI INVESTONO ALL'ESTERO.
I mancati investimenti, da parte di aziende straniere, in Italia e la contemporanea delocalizzazione all'estero di quelle italiane, hanno un comune denominatore: la gestione dei rapporti di lavoro è onerosa ed estremamente complicata. Per cercare di capire nei dettagli il devastante fenomeno, che crea non pochi danni all'economia del Paese, la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, tra gli iscritti agli Ordini provinciali, che gestiscono nei loro studi oltre 1 milione di piccole medie aziende, ha fatto un'indagine i cui risultati forniscono interessanti spunti per le riforme da attuare e che, purtroppo, non sono nessuna di quelle finora varate. Perchè gli imprenditori spostano all'estero la produzione? Perchè non vi sono più investimenti in Italia mirati alla creazione di nuove attività produttive? Perchè sempre più aziende italiane delocalizzano all'estero? Dall'analisi delle risposte a queste domande emergono praticamente tutti i mali italiani. L'esito dell'indagine della Fondazione peraltro non stupisce e rispecchia le opinioni di chi vive concretamente la realtà del nostro Paese, cioè imprenditori e professionisti. Ad assegnare il primo posto tra i problemi che frenano la crescita è certamente l'eccessivo costo del lavoro, seguito dal peso della burocrazia che crea adempimenti inutili; seguono a ruota la lentezza della giustizia e la carenza di infrastrutture. Se infatti si chiede ad un imprenditore perchè non assume, la risposta sarebbe una ed una soltanto: perchè per garantire un netto di 1.236,00 euro ad un lavoratore, bisogna spendere 2.648,19 euro; vale a dire il 114,22% in più . E allora è questo il problema vero. Non c'è dubbio che l'articolo 18 rappresenti una norma che va adeguata ai tempi. Ma non facciamolo diventare il capro espiatorio poichè il vero problema è da tutt'altra parte. Il costo del lavoro deve essere ridotto. Vanno individuate le risorse economiche adeguata e vanno adottate strategie per ridurre sensibilmente gli oneri per i datori di lavoro. Medesime motivazioni esistono per la mancanza degli investimenti stranieri in Italia che nel 2011 sono calati del 53%. Per un imprenditore internazionale, il costo del lavoro, la rapidità burocratica, la stabilità amministrativa e la dinamicità del mercato sono elementi fondamentali per poter pianificare lo sviluppo della propria aziende. Tutti fattori che in Italia non si riesce a trovare e che inducono le imprese straniere a non investire in Italia e quelle italiane a delocalizzare all'estero, nei Paesi dove trovano maggiore convenienza dando così competitività ai loro prodotti.
Il Costo del Lavoro è un indicatore di breve periodo che indica il costo orario del lavoro sostenuto dai datori di lavoro. È calcolato dividendo il costo del lavoro per il numero delle ore lavorate. I costi di lavoro sono costituiti dai costi per i salari e gli stipendi, più i costi non salariali come i contributi sociali a carico del datore di lavoro. Non include invece i costi per la formazione professionale o altre spese come i costi per la ricerca del personale, i costi per l’abbigliamento da lavoro, ecc. L’indice del costo del lavoro copre tutte le attività di business, indipendentemente dal numero di impiegati, e tutte le attività economiche escluse agricoltura, silvicoltura e pesca, economia familiare e organizzazioni extra territoriali. La stima dell’Ocse copre le imprese con più di dieci dipendenti.
Fisco e tasse, la spada di Damocle sugli italiani. I dati Eurostat non lasciano molti dubbi: I'Italia è la numero uno in Europa per quanto riguarda la pressione fiscale sul lavoro. Come se non bastasse, il peso del fisco sulle spalle dei contribuenti, inteso come persone fisiche, è destinato a crescere di quasi due punti. Nel 2010, in base ai dati resi noti da Eurostat, il peso ‘implicito’ - ovvero tasse più oneri sociali - dello Stato sul costo del lavoro è salito dal 42,3 del 2009 al 42,6%. Nei 17 Paesi dell’Eurozona il tasso medio è stato del 34%. Sempre secondo i dati Eurostat, quest’anno il peso del fisco sulle spalle degli italiani - persone fisiche - è destinato a crescere di quasi due punti percentuali passando dal 45,6 al 47,3%. Resterà invece ferma al 31,4% la pressione sulle aziende. Secondo “Panorama” l'Italia vanta infatti da tempo un record negativo in Europa: quello di essere uno dei paesi con il costo del lavoro lordo più alto e con le retribuzioni nette (sottratti i contributi e le tasse) meno elevate. Secondo le rilevazioni dell'Ocse, nella Penisola il salario medio netto di un lavoratore senza figli a carico è di poco superiore a 27.700 dollari, contro gli oltre 38mila della Gran Bretagna e i 33mila circa della Germania. Nello stesso tempo, però, le retribuzioni lorde che incidono sui conti delle imprese non sono altrettanto a buon mercato, ma pongono l'Italia ai vertici della classifica europea. Colpa delle tasse e dei contributi che, secondo le statistiche dell'Ocse, nel nostro paese pesano sui salari per quasi il 47%, 1 o 2 punti in meno della Francia o alla Germania ma quasi il 10-15% in più della Gran Bretagna e alla Spagna a addirittura oltre il 20% in più rispetto agli Stati Uniti e alla Svizzera. Per questo, un lavoratore italiano che percepisce uno stipendio medio-basso, oggi pesa sui conti della sua azienda per una cifra più che doppia.
Secondo le stime del Consiglio Nazionale dei Consulenti del lavoro, una busta paga netta di 1.300 euro al mese, comporta per l'impresa un esborso di oltre 2.700 euro ogni 30 giorni. A divorare le retribuzioni c'è una lunga sfilza di tasse e soprattutto di contributi. In primis quelli pensionistici che arrivano sino al 33% del salario (23% circa a carico delle imprese e oltre il 9% a carico del lavoratore), a cui va aggiunto un altro 7% circa per il Tfr (trattamento di fine rapporto), cioè la quota di stipendio accantonata tradizionalmente per la liquidazione (che può arrivare anche al 9-10%, con un contributo aggiuntivo, se il dipendente sceglie di destinare i soldi a un fondo della previdenza complementare). La lista dei balzelli sul lavoro, però, non finisce qui. Qualche altro punto percentuale del salario se ne va per i contributi sociali alla maternità e alla disoccupazione (variabili a seconda dei settori), mentre le aziende devono pagare pure l'irap (imposta regionale sulle attività produttive), che è legata anche al numero dei dipendenti dell'impresa. Infine, come “ciliegina sulla torta” arriva l'irpef, (imposta sui redditi delle persone fisiche), che colpisce la busta-paga (in questo caso al netto dei contributi) ed è una tassa progressiva, con aliquote comprese tra il 23 e il 43%, che crescono man mano che aumenta la retribuzione . Va inoltre ricordato che sui conti dell'impresa pesa anche la parte di salario percepita dal personale per le ore non lavorate e trascorse in permesso, in malattia o in ferie. Di conseguenza, un dipendente che ha una paga oraria netta di appena 5 o 6 euro, in realtà costa all'azienda più di 13 euro ogni 60 minuti. Già. Tutto questo in cambio di cosa? Disservizi e sprechi………
ITALIA: RACKET DI STATO
Concussione, Corruzione, Usura Bancaria, Finanziamento illecito ai partiti, Nepotismo e clientelismo, Tassazione eccezionale……
Il tutto per mantenere lor signori: il “potere” infedele ed inefficiente.
Non paghi le tasse? Loro ti tolgono la vita!
Italia: una Repubblica fondata sulle tasse, così scrive Anna Lisa Chirico su Panorama.
Eccovi servita la “questione morale”. Non c’entra la filippica scagliata contro i tangentisti da parte di chi le tangenti le pigliava dall’Unione Sovietica. Non c’entra neppure la gestione allegra dei soldi pubblici ad opera di quei comitati d’affari che ancor oggi si fregiano, impropriamente, del nome di “partiti”. Da Tangentopoli a Partitopoli sono trascorsi vent’anni ma ben poco è cambiato. I soldi sono troppi, la trasparenza troppo poca. Non è questa però la “questione morale” di cui voglio parlarvi. Berlinguer la sventolava come pedigree di una presunta superiorità morale, i fatti lo smentirono. Oggi la questione morale riguarda il rapporto tra le casse dello Stato e le tasche dei contribuenti. Se abbandoniamo infatti la mistica dello Stato al pari della sua ipostatizzazione, se in altre parole vediamo nello Stato nient’altro che persone che gestiscono la cosa pubblica con il potere (e che potere!) di decidere quanto prelevare dalle tasche altrui, allora alcune domande s’impongono con urgenza. E’ forse moralmente giustificabile uno Stato che ti toglie quasi la metà di quello che guadagni col tuo lavoro? E’ forse moralmente giustificabile uno Stato che alle imprese – quelle che producono la ricchezza di un Paese – sottrae oltre i due terzi dei profitti? Si attaglia a una democrazia liberale considerare il cittadino presunto evasore ribaltando su di lui l’onere della prova e ponendo in atto controlli sempre più intrusivi nella sua vita privata, come denunciato apertamente dal Garante della privacy? Si attaglia a una democrazia liberale la decisione di premiare la delazione fiscale purchè “a volto scoperto”, come prevede il decreto di semplificazione fiscale varato dal Parlamento? E poi ancora, in tempi di crisi, come si può pretendere la crescita da un’economia dove lo Stato confisca oltre la metà della ricchezza nazionale per tenere in piedi un mastodontico apparato inevitabilmente caratterizzato da spreco e corruzione?
Se il burocrate pesa più dell’imprenditore o del risparmiatore, non c’è verso di crescere. Ai livelli attuali di tassazione le imprese è già tanto se non chiudono i battenti. Si pagano i salari sempre più risicati, per investimenti e innovazione neppure le briciole. Se ai tempi di Marx lo Stato deteneva il monopolio della violenza organizzata, oggi esso detiene il monopolio dell’esproprio legalizzato. Ma allora su un piano morale possiamo giustificare il latrocinio di Stato? Sia chiaro: qui non s’intende filosofeggiare. Chi vuole cimentarsi, faccia pure. Qui la questione che preme è concreta assai.
Il bilancio lo danno le imprese che falliscono e gli imprenditori che si tolgono la vita (già 26 da gennaio a marzo dell’anno 2012 secondo la Cgia di Mestre). Vi parrà forse un’esagerazione, un atto estremo come il suicidio ha le sue imperscrutabili ragioni. Eppure ci sono coincidenze che ritornano, lettere inequivocabili di congedo dalla vita. La depressione di chi non riesce più a far quadrare i conti, di chi non sa come arrabattarsi quando lo Stato gli succhia pure il sangue, con l’amara consapevolezza che insieme alla sua ci saranno decine, centinaia di famiglie sul lastrico da un giorno all’altro. E’ l’esercito degli “esodati”, dei cittadini contribuenti che chiedono allo Stato di aver pietà di loro. Basterebbe qualche taglio vero – non mero maquillage – per stare tutti meglio. Dagli enti inutili, province incluse, alle innumerevoli agenzie statali di cui neppure gli onniscienti tecnici ricordano il nome. Basterebbe dismettere una parte dell’immenso patrimonio immobiliare pubblico e introdurre finalmente un principio di sana concorrenza nell’agone politico: i partiti si autofinanziano e lo Stato interviene esclusivamente per agevolare le attività di propaganda (spese postali, sedi e simili).
“Pagare tutti, pagare meno” è una menzogna. E’ vero invece che una tassazione più sostenibile incentiva l’obbedienza fiscale. Per il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chi non paga le tasse è indegno della cittadinanza. A pensarci bene ha ragione lui. Nella Repubblica fondata sulle tasse non pagarle significa collocarsi al di fuori del consorzio civile. E’ una scelta di campo. Prima però, Presidente, cambiamo la Costituzione. Mettiamolo nero su bianco.
Siamo l’ultimo baluardo di socialismo reale in Occidente.
“L’Italia è una Repubblica fondata sulle tasse, dove di tasse si muore”.
Basterebbe poco, però, per cambiarne le sorti: avere uno Stato meno parassita e più efficiente ed avere una Costituzione dove al primo articolo si prevedesse "L'Italia è una Repubblica fondata sulla Libertà".
Chi vive a spese degli altri, danneggia tutti (spot tv del fisco: il parassita).
Già. Però c'è tanto da ridire. Da “Fai Notizia” di Radio Radicale una scottante verità. Più di 800 dei dirigenti dell’ente pubblico che vigila contro l’evasione fiscale di cittadini, imprese, partiti ed enti in tutta Italia, è stata scelta in maniera discrezionale, senza criteri di trasparenza ed è tenuta sulla corda della revoca. Infatti i dirigenti non sono di ruolo e dunque facilmente revocabili se non in linea con i superiori. A chi conviene tutto questo? Ma la legge vigente è chiara e dopo le condanne del Tar all'Agenzia delle entrate, il Governo Monti presenta in Parlamento il "salva dirigenti", un piccolo comma contenuto nella Legge semplificazioni.
FaiNotizia.it vuole raccontarvi una storia che pochi conoscono...
L'Agenzia delle Entrate, sottoposta alla vigilanza del Ministero dell’economia per quanto riguarda l’indirizzo politico, gode di autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria. Questa autonomia gestionale permette all’Agenzia di collocare le risorse umane, senza alcun controllo, nemmeno di spesa. Unico vincolo, come ogni Ente pubblico, il rispetto delle norme sull'accesso ai ruoli dirigenziali, consentito solo tramite concorso pubblico. Peccato però che l'ultimo concorso pubblico risalga a 12 anni fa e che 800 attuali dirigenti dell’Agenzia, siano stati scelti tra i funzionari interni, senza criteri di trasparenza e senza concorso pubblico. Questo significa che i nominati che occupano un ruolo dirigenziale non sono dirigenti effettivi e possono quindi essere facilmente sollevati dall'incarico dai propri superiori. Insomma la maggioranza dei dirigenti dell’Agenzia che vigila contro l’evasione fiscale di cittadini, imprese, partiti ed enti in tutta Italia, è stata scelta in maniera discrezionale ed è tenuta sulla corda della revoca. A chi conviene tutto ciò?
La pronuncia del Tar non è piaciuta all'Agenzia delle entrate che ha proposto ricorso dinnanzi al Consiglio di Stato, ricavandone, nelle more della discussione di merito, la sospensiva della eseguibilità della sentenza. L'agenzia ha dunque chiesto una norma di "copertura" al Governo. Il governo Monti ha tentato prima con i decreti precedenti (Milleproroghe e Liberalizzazioni) e adesso con il decreto semplificazioni, approvato al Senato ed ora alla Camera per l'approvazione definitiva, che contiene al comma 24 articolo 8 la norma "salva dirigenti".
«La previsione suscita non pochi dubbi e porta con sé un'evidente contraddizione - sostiene Pietro Paolo Boiano, vice segretario generale di Dirstat, la federazione nazionale di associazioni e sindacati dei dirigenti e dei funzionari della Pubblica Amministrazione, intervistato da FaiNotizia.it il format di giornalismo d'inchiesto di Radio Radicale - perché se da un lato impone all’Agenzia delle Entrate di attuare le procedure selettive previste della legge n. 296 del 2006, e dalla legge n. 248 del 2005, per la copertura dei posti vacanti di Dirigente, dall’altro lato, la autorizza a continuare ad abusare del suo potere non soltanto facendo salvi gli incarichi già conferiti ma, cosa più grave, attribuendo incarichi dirigenziali a propri funzionari con la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato. Viene, quindi, stabilito proprio quanto è stato recentemente dichiarato illegittimo dalla giurisprudenza amministrativa, che ha annullato un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate».
Secondo i dati forniti dalla stampa di regime foraggiata dai contributi pubblici, che come i burocrati, ha tutto l'interesse a far mungere i contribuenti, il 49% di loro sono sotto i 15mila euro: Metà poveri, metà evasori. Secondo loro in base alle le dichiarazioni del 2011: in dieci milioni non pagano l'Irpef. Gli imprenditori dichiarano meno di tutti. In Lombardia i più ricchi. Circa 10,7 milioni di contribuenti hanno un'imposta netta Irpef pari a zero euro. E' quanto emerge dalle dichiarazioni dei redditi 2011 pubblicate dal Mef. Il ministero spiega che si tratta "prevalentemente di contribuenti con livelli reddituali compresi nelle soglie di esenzione, ovvero di contribuenti la cui imposta lorda si azzera con le numerose detrazioni riconosciute dal nostro ordinamento". Cifre che assumono tutt'altra consistenza se viste in relazione alle stime sull'evaso diffuse giovedì dall'Eurispes, secondo il quale in Italia il sommerso equivale a 540 miliardi, una fetta pari al 35% del Pil. Si scopre così che il reddito medio degli italiani è pari a 19.250 euro: le cifre sono state diffuse dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia. Nell'arco di 12 mesi il reddito degli italiani è cresciuto dell'1,2%, ma il 49% dei contribuenti ha un reddito complessivo lordo annuo che non supera i 15mila euro, praticamente un italiano su due. Un terzo degli italiani, una cifra pari a circa 14 milioni, non supera un reddito complessivo lordo di 10mila euro e circa la metà. Il 30% dei contribuenti dichiara un reddito compreso tra i 15mila ed i 26mila euro, mentre il 20% dichiara redditi tra i 26mila e i 100mila euro.
Mi si deve spiegare come è dedotto il dato sul sommerso. Perchè se è conosciuto è facile accertarlo.
Invece da Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano” si scopre una realtà ben diversa: Equitalia sbaglia 2 volte su tre e c'è chi si brucia per le tasse. Un milione di liti con l'Erario, ma in un terzo dei casi il balzello si rivela ingiusto: numeri che fanno paura e impressione. Contenziosi tributari. Persone e imprese che hanno portato il Fisco (o chi per esso) davanti al giudice, poiché si ritengono vittime d’una qualche ingiustizia o sopruso. E attenzione, che non si tratta di dare addosso all’Erario in quanto tale. Ma certo i numeri - soprattutto in questo periodo di parossistica pressione fiscale - fanno impressione. Perché i contenziosi fiscali pendenti davanti alle Commissioni tributarie - secondo i dati consolidati al 31 dicembre 2009 e diffusi dal Dipartimento ministeriale delle Finanze - i contenziosi pendenti di questo genere, dicevamo, sono addirittura un milione. Per la precisione: 945mila e 295. E non è che negli ultimi due anni la situazione sia cambiata. Per dire: nel corso del 2009, ne sono stati presentati ben 360mila di nuovi. E s’arriva così a un 6,22% di vertenze in sospeso in più rispetto all’anno precedente: il numero di ricorsi pervenuti è stato superiore a quelli definiti. Com’è facilmente intuibile, le controversie più numerose si sviluppano intorno a imposte quali Irpef (limitandosi all’anno 2009, il 18% del totale) e Irap (21,5%, da sola o con altre imposte dirette e indirette), la tassa sulle attività produttive di cui si promette l’abolizione da tempo immemorabile. «Il fatto è che la crisi ha colpito non solo il sistema produttivo, ma anche il sistema istituzionale». In che senso? Il commercialista Pierluigi Balsarin, che proprio di questi casi si occupa nel Trevigiano, ci spiega che «ultimamente abbiamo notato un notevole irrigidimento nel dialogo fra istituzioni amministrative e contribuenti. Come se, ancor di più, questi accertamenti servano all’Erario soprattutto per far cassa». E dunque? «Un tempo riuscivamo a chiudere più facilmente i contenziosi in via extragiudiziale, a trovare punti di accordo. Ora non più: vengono applicate rigidamente le tabelle anche in presenza di situazioni chiaramente paradossali. E attenzione, perché qui non si tratta di evasori, ma di persone e imprese ben presenti al fisco». Ma c’è anche un altro dato che fa riflettere: in questi contenziosi, per quanto riguarda il primo grado di giudizio (che si svolge presso la Commissione provinciale), una volta su tre - nel 35,6% dei casi - il giudice dà del tutto ragione al contribuente. E c’è un altro 25% di procedimenti in cui il magistrato propende per, diciamo così, una soluzione di compromesso. La percentuale di sentenze favorevoli al ricorrente addirittura sale - e arriva al 44,21% - nel secondo grado di giudizio, quello su cui decidono le Commissioni regionali. Facendo un calcolo nient’affatto scientifico ma nemmeno campato per aria: considerando il milione di pratiche pendenti e applicando queste percentuali, è probabile che in circa 600mila casi - 600mila! - il fisco abbia completamente o in parte torto. Ha appioppato tasse che non gli erano dovute.
Per ovviare a questa mole di lavoro per il fisco dalla cartella facile, dal 1° aprile 2012 entra in vigore l’istituto della mediazione tributaria per le liti fiscali minori, di valore fino a 20mila euro. L’Agenzia delle Entrate ha fornito, con la circolare n. 9/E , alcuni chiarimenti e linee guida sulla nuova figura. Lo scopo dell’istituto è rimuovere in via preventiva e immediata gli eventuali profili di illegittimità e infondatezza degli atti, evitando l’instaurazione del giudizio e contribuendo direttamente al miglioramento della qualità dell’azione amministrativa. Il contribuente deve presentare prima un reclamo circostanziato all’Agenzia delle Entrate e poi ricorso davanti alle Commissioni tributarie. L’istanza deve essere presentata entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso d’accertamento o altro atto e può contenere oltre all’eventuale proposta di mediazione anche una richiesta di sospensione dell’atto impugnato. Nei 90 giorni successivi, l’Ufficio prenderà in esame, attraverso strutture diverse da quelle che hanno definito e redatto l’accertamento, l’istanza e deciderà se accoglierla, del tutto o parzialmente, oppure formulare d’ufficio una proposta di mediazione. Se entro i 90 giorni non si raggiunge un’intesa o nel frattempo l’Ufficio non ha espresso diniego, il contribuente ha 30 giorni di tempo per depositare il ricorso in Commissione tributaria, aprendo così la via al contenzioso. Nel caso in cui la mediazione si concluda positivamente, viene sottoscritto un accordo in base al quale le sanzioni vengono ridotte al 40%, sia nell’ipotesi di una rideterminazione della pretesa, sia nel caso in cui venga confermato integralmente il tributo contestato. Il pagamento dell’intero importo dovuto o della prima rata, in caso di rateizzazione (fino a un massimo di 8 pagamenti trimestrali di pari importo), va effettuato entro 20 giorni dalla sottoscrizione. “La mediazione – ha commentato il direttore Attilio Befera durante la conferenza stampa di presentazione – è diretta ad alleggerire il lavoro delle Commissioni tributarie che, per effetto della riduzione del numero delle controversie, potranno dedicare più tempo e più attenzione alle cause di maggior valore. Le liti che potenzialmente si possono chiudere grazie al nuovo istituto, senza impegnarsi in defatiganti contenziosi, sono più di 110 mila, 66% del contenzioso”. “I vantaggi per il contribuente – ha aggiunto il direttore Affari legali e contenzioso, Vincenzo Busa – sono i tempi brevi e certi per ottenere una decisione dell’Agenzia su richieste di annullamento, rimborso e rideterminazione in sede di mediazione”.
Nel 2011, mentre il numero dei ricorsi è diminuito del 9,2% rispetto al 2010, il numero delle liti pendenti è aumentato del 5,9%. Il numero delle controversie vinte da parte dell’Agenzia delle Entrate rimane stabile, attestandosi al 61,4%, mentre aumenta l’indice di vittoria per valore, che raggiunge il 73,5% (rispetto al 70,3% del 2010). Già. Ma quel 38,6 di accertamento fiscale ritenuto fasullo, ma comunque dichiarato certo e messo in bilancio statale, e che ha creato danno al contribuente, non dà da pensare?
FURTO DI STATO: Equitalia, la multa è illegale. Secondo Peter D'Angelo su “L’Espresso”. Gli interessi del 10 per cento applicati sulle contravvenzioni rendono nulle le cartelle in cui viene chiesto di pagare le vecchie contravvenzioni. Lo stabilisce una sentenza della Cassazione. Che fino a oggi è stata bellamente ignorata. C'è una sentenza, datata febbraio 2007, che potrebbe annullare le sanzioni di migliaia di cartelle di Equitalia. Una sentenza della Corte di Cassazione per anni introvabile anche nei database giuridici più forniti. Una pronuncia che, almeno sulla carta, segna un piccolo gol a favore dei debitori del fisco, dichiarando "illegittime" le sanzioni che la società di riscossione applica sulle multe e sulle ammende amministrative. A partire dalle infrazioni del codice della strada. Per cinque anni, da quando cioè la Cassazione s'è pronunciata, nessuno ne ha mai sentito parlare. Fino a quando un avvocato di Bari, Vito Franco, ha deciso di andare in fondo alla vicenda. Abbonato a una delle più prestigiose banche dati giuridiche private d'Italia si mette a dare la caccia alla sentenza fantasma. Eppure anche negli archivi telematici per i professionisti non trova alcun riscontro. Quel pronunciamento fantasma sembra non esistere. La ricerca si trasferisce online, fra siti, blog giuridici, forum di discussione fra fiscalisti. Anche qui niente. L'unica soluzione è andare a Roma e spulciare negli archivi cartacei della Suprema Corte. E così, si mette a scartabellare fra mucchi di carte alti come armadi. E alla fine ecco che spunta la sentenza annulla-sanzioni. E' stata depositata in Cassazione il 16 luglio 2007. Porta il numero di protocollo 3701. E parla chiaro: gli interessi del 10 per cento semestrale applicati da Equitalia sono illegittimi. Una pretesa del fisco, insomma, che i giudici contestano, spiegando che non è diritto dello Stato incassare quella specie di tassa sulle multe. Eppure, anche di fronte a una decisione del genere, dal 2007 a oggi Equitalia ha continuato ad applicare il rincaro: "Non è cambiato nulla. Le maggiorazioni continuano a essere presenti in tutte le cartelle relative alle sanzioni amministrative", spiega l'avvocato Franco. Proprio come risulta da centinaia di cartelle esattoriali. Gli esempi possono essere molti. Una, ad esempio, chiede la riscossione di 13.561 euro per un cumulo di multe non pagate. Ecco che nel conto di Equitalia ben 3.292 euro di maggiorazioni, secondo la sentenza della Cassazione, sarebbero "illegittime". Un caso molto diffuso, visto che gli automobilisti in debito con il fisco sono una percentuale piuttosto alta dei "clienti" di Equitalia: "A occhio e croce potrebbero rappresentare il 30 per cento delle cartelle emesse", spiega il legale, che fa da consulente anche a un'associazione di tutela dei consumatori, l'Assdac di Bari, che negli ultimi anni ha presentato oltre 3.500 ricorsi. A fare due conti le sanzioni "irregolari" creano maggiorazioni di milioni di euro, soldi che non sarebbero dovuti, secondo la Cassazione. Che sul "no" alla sovrattassa del 10 per cento parla chiaro: in caso di ritardo nel pagamento della sanzione, va applicata "l'iscrizione a ruolo della sola metà del massimo edittale e non anche degli aumenti semestrali del 10 per cento. Aumenti, pertanto, correttamente ritenuti non applicabili".
PARLIAMO DELLA MAFIA DEI CARBURANTI: LA CUPOLA TRA STATO E PETROLIERI.
«Senza le tasse la benzina costerebbe poco più dell'acqua minerale». Conti alla mano, il presidente della Federazione autonoma italiana benzinai (Faib) Martino Landi ha ragione. Ma guai a dirlo a chi, negli ultimi giorni, ha dovuto macinare chilometri in autostrada e ha pagato quasi 2 euro al litro. Peggio che dal gioielliere, insomma. Eppure su cinquanta euro di benzina meno di 1,50 vanno a finire nelle tasche dei benzinai. «Da sempre - spiega Landi - il carburante è il bancomat dello Stato: quando non sanno dove prendere i soldi, applicano nuove tasse alla benzina». Niente di più vero. La manovra "salva Italia", che per quanto riguarda le accise è già legge, ha introdotto un aumento di 10 centesimi sulla benzina e di 13,6 sul gasolio. E non è finita. Perché con l'inizio del nuovo anno l'oro nero aumenterà nuovamente per i rincari applicati a livello regionale. Due esempi: per appianare il buco regionale nel Lazio la benzina subirà un ulteriore rincaro di 3 centesimi al litro; in Toscana, dove la Regione deve rifinanziare il fondo statale che ha anticipato 90 miliardi di euro per le alluvioni di novembre, il rincaro sarà di oltre 5 centesimi al litro. Un capitale, insomma. Ma quanto rimane nelle tasche dei benzinai? Calcolatrice alla mano, si capisce subito che il grosso della spesa è dovuta ad accise e Iva. Ogni 50 euro di pieno, infatti, 20,46 euro sono di accise e 6,20 di Iva. A questo vanno aggiunti i costi del prodotto: il 37% del totale (poco meno di 19 euro) vanno a coprire le spese della materia prima, della raffinazione, dello stoccaggio e del trasporto. Se il ricavo complessivo lordo è di 3,22 euro, quello del gestore si assottiglia a 1,43 euro: meno del 3%. «Dall'inizio del 2011 - spiega Landi su “Il Giornale” - l'aumento medio delle accise è stato di quasi il 30%". Per quattro volte, infatti, il governo ha ritoccato al rialzo i prezzi dei carburanti. La prima correzione è stata fatta ad aprile per il Fondo unico per lo spettacolo (Fus), la seconda è servita a raggranellare soldi per i profughi libici. Quindi è stato previsto un terzo aumento per finanziare la Protezione civile all'indomani dell'alluvione in Lunigiana. Il quarto (e ultimo) rincaro è stato quello voluto dal Professore. L'Italia è il Paese dell'Eurozona dove la tassazione incide di più - spiega il presidente del Faib - adesso è anche più alta che in Grecia».
Dalla guerra in Etiopia al fondo per lo spettacolo, sono una miriade le accise sui carburanti che servono a finanziare ricostruzioni e missioni di pace. Il decreto Salva Italia che ha caricato su ogni litro un’imposta di 9,9 cent, diventa l’occasione per fare il calcolo delle accise. E’ il deputato di Fli, Claudio Barbaro a fare l’elenco in un'interrogazione al Ministro dello Sviluppo Economico, delle buone cause che i cittadini sostengono alla pompa di benzina: la guerra in Etiopia (iniziata nel 1935 e finita nel 1947 con la perdita di tutte le colonie da parte dell’Italia); la crisi di Suez, il disastro del Vajont, l’alluvione di Firenze, il terremoto del Belice, terremoto in Friuli, terremoto in Irpinia, missione in Libano, la missione in Bosnia. E poi, ancora 0,020 cent vanno al rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, 0,05 cent per l’acquisto di autobus ecologici (come in una sorta di contrappasso dantesco) e nel 2011 sono stati introdotti contributi per foraggiare il fondo unico dello spettacolo, l’emergenza immigrati dovuta alla crisi libica e per le alluvioni di Liguria e Toscana. Con tutte questi balzelli, nonostante il prezzo del barile scenda alla pompa rimane sempre uguale. In tempi di crisi la beneficenza imposta per emergenze oramai superate anche temporalmente appare al deputato di Fli troppo onerosa. Quindi propone Barbaro di cominciare tagliare proprio dai distributori, abrogando accise anacronistiche e promuovendo la liberalizzazione dei carburanti.
Non ha perso tempo, il governo tecnico Monti, per non cambiare le cose. Sebbene fra i suoi primi vagiti forse parso di udire addirittura dei termini compositi ed eufonici quale liberalizzazioni: mero ciangottare? Frattanto si è rincarata la benzina, immantinente, con il quinto aumento delle accise dall’inizio dell’anno: finalmente siamo i primi in Europa, per il prezzo dei carburanti. E secondi per ammontare della tassazione. Con l’ultimo intervento del decreto “Salva Italia” (e rallegriamoci almeno del nome), riporta Teleborsa : “la fiscalità di base (accisa + Iva sull’accisa, senza neppure considerare l’Iva sul prezzo industriale) in Italia è aumentata nel 2011 di 0,175 euro/litro per la benzina e di 0,210 euro/litro per il gasolio, un caso che non ha eguali nell’Europa comunitaria, se si eccettua la Grecia, dove, nel 2010, aumentò di 0,340 euro/litro per la benzina e di 0,151 euro/litro per il gasolio”. Nel dicembre 2010 la benzina costava in media 1,37 euro al litro, oggi siamo a 2 euro al litro. Senza dimenticare che, come dichiarano la Federconsumatori e l’Adusbef, “gli aumenti sul costo dei carburanti agiscono come pericolosissimi moltiplicatori sui prezzi dei beni di largo consumo trasportati in larga parte su gomma“. E, come dichiara la Cia, “l’aumento delle accise sui carburanti è un colpo di scure micidiale per l’agricoltura italiana”. C’è poi la Coldiretti con le sue solite comparazioni strillo: “Fare il pieno ad un’auto di media cilindrata con un serbatoio di 50 litri costa ben 100 euro, un importo leggermente superiore a quello che destineranno in media le famiglie italiane per la preparazione del pranzo di Natale”. Infine il Codacons: «Si tratta in sostanza di un provvedimento che andrà a deprimere ulteriormente il mercato e a incrementare l’inflazione». Come poter cambiare questa situazione? Il prezzo della benzina è determinato per oltre il 50% dalle accise, fra cui come si riporta in questa interrogazione parlamentare del 2004: “1,90 lire per la guerra di Abissinia del 1935 (0,001 euro); 14 lire per la crisi di Suez del 1956 (0,007 euro); 10 lire per il disastro del Vajont del 1963 (0,005 euro); 10 lire per l’alluvione di Firenze del 1966 (0,005 euro); 10 lire per il terremoto del Belice del 1968 (0,005 euro); 99 lire per il terremoto del Friuli del 1976 (0,051 euro); 75 lire per il terremoto dell’Irpinia del 1980 (0,039 euro); 205 lire per la missione in Libano del 1983 (0,106 euro); 22 lire per la missione in Bosnia del 1996 (0,011 euro); 39 lire (0,020 euro) per il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004”. A cui bisogna aggiungere: 0,005 euro per l’acquisto di autobus ecologici nel 2005; 0,0071 e 0,0055 euro per il finanziamento alla cultura nel 2011; 0,040 euro per far fronte all’emergenza immigrati dovuta alla crisi libica del 2011; 0,0089 euro per far fronte all’alluvione che ha colpito la Liguria e la Toscana nel novembre 2011. E ora anche 9,9 centesimi per la manovra economica Monti del 2011. “Buon senso vorrebbe che al cessare della causa che determina una tassa, dovrebbe cessare la tassa stessa. In Italia invece non è così. Anzi, su queste accise che in sostanza sono tasse, viene applicata anche l’Iva, cioè una tassa sulla tassa; nella situazione attuale una defiscalizzazione del prezzo della benzina, ossia un congelamento dell’Iva, e una riduzione delle imposte appare quanto mai opportuna e prioritaria per un allineamento dei nostri prezzi al valore medio europeo”. Oltre alle accise sul prezzo dei carburanti grava ovviamente il margine che le compagnie petrolifere riservano a se stesse quando fissano i prezzi alla pompa dei carburanti e quello che lasciano ai gestori, ma sopra di questi, c’è il cosiddetto “indice Platts”, cioè il valore della quotazione internazionale dei prodotti finiti, benzina e gasolio, convenzionalmente determinato dall’agenzia Platts. Un’altra agenzia di rating. “Oggi il Platts” riporta la Staffetta Quotidiana “ è una divisione della McGraw-Hill Companies (NYSE-MHP) a fianco di altri marchi guida del mercato come l’agenzia di rating Standard & Poor’s, la J.D. Power & Associates (customer satisfaction), l’Aviation Week, la McGraw-Hill Construction, la McGraw-Hill Education e la MacGraw-Hill Broadcasting”. Un indice discutibile su cui ha indagato di recente perfino la sonnacchiosa Antitrust. Del resto fa notare l’Aduc “Nel luglio 2008 il prezzo del petrolio era di 147 dollari (93 euro al cambio di allora) al barile e il prezzo della benzina era di 1,56 euro al litro. A dicembre 2011, cioè oggi, il prezzo del petrolio e’ di 99 dollari al barile (74 euro al cambio attuale), quello della benzina e’ di 1,70 euro al litro. C’e’ un differenza, in meno, di 48 dollari (19 euro) al barile. Considerando il cambio dollaro/euro di allora rispetto a quello attuale, ciò vuol dire che, rispetto al 2008, il prezzo del petrolio al barile è diminuito di 48 dollari, cioè 19 euro. Come mai il prezzo della benzina nel frattempo non è calato?“. Un fatto su cui si discute e ragiona da anni.
In conclusione, come scrive l’Unità: “La filiera petrolifera italiana è dominata da un oligopolio costituito da 8 società integrate verticalmente, ovvero che contestualmente producono, raffinano e commercializzano all’ingrosso, le benzine al prezzo che, loro sì, sono libere di fissare. Se poi consideriamo che circa l’80% delle stazioni di rifornimento è gestito, direttamente o indirettamente tramite il comodato d’uso, dalle stesse compagnie, il cerchio si chiude: anche il mercato al dettaglio è in mano alle solite “sorelle”. Il risultato: una filiera inefficiente, speculativa che grava tutta sull’automobilista italiano. Finché ci saranno punti di vendita completamente dipendenti dai produttori sarà difficile avere concorrenza. Del resto solo uno scarso 20% dei distributori è oggi veramente indipendente. Le cosiddette pompe bianche così come le stazioni gestite dalla Grande distribuzione, in virtù della libertà di approvvigionamento, possono rifornirsi dal miglior offerente consentendo agli automobilisti uno ”sconto” di 10-12 centesimi al litro”.
Il discusso ministro Passera, all’audizione in Commissione trasporti alla Camera dei deputati ha ribadito: “una parola chiave di quello che faremo è liberalizzazione”. Ma allora perché l’aumento delle accise non è stato combinato a una altrettanto immediata liberalizzazione dei carburanti, peraltro già presa in considerazione nella lettera di intenti che il governo Berlusconi aveva inviato all’Unione Europea ad ottobre? Nella bozza del “Salva Italia” era prevista una semiliberalizzazione, poi in ultimo cassata…Passera ha commentato “Il dossier sulla distribuzione dei carburanti rimane aperto, c’erano degli aspetti commerciali da approfondire” . Le sue parole non suonano diverse da quelle sulle frequenze TV “Non abbiamo ancora esaminato il problema”. Ricordiamo che la Faib e la Fegica, mesi fa, con la campagna “Libera la benzina!” avevano raccolto (e consegnato ai Presidenti di Camera e Senato) oltre 600.000 firme di sottoscrizione a un disegno di legge per liberalizzare i carburanti. Ci riusciremo?
La benzina è un prodotto distillato dal petrolio greggio a una temperatura che si aggira fra i 30 e i 210ºC. Da un litro di petrolio, solo il 10% diventa benzina dopo la prima semplice distillazione. Utilizzando le frazioni più pesanti (gasolio pesante e residui di distillazione) si possono ottenere molecole più piccole adatte a essere usate come benzina, grazie a un trattamento detto cracking attraverso il quale gli idrocarburi di maggior peso molecolare vengono frammentati in presenza di un catalizzatore. Caratteristiche. L'uso come carburante della benzina impone che essa abbia determinate caratteristiche:
· adeguata volatilità (sufficiente per un rapido avvio del motore)
· buona capacità antidetonante (capacità di non accendersi per la semplice pressione del pistone)
Questo ultimo dato si misura con il numero di ottano (NO). Questo è un indice di riferimento a una scala, in cui l'isoottano puro è uguale a 100 (poco detonante) e il normal-eptano è uguale a 0 (molto detonante). Per migliorare le proprietà antidetonanti della benzina si è in passato fatto ricorso ad additivi costituiti da composti del piombo il cui impiego, per gli effetti inquinanti, ha portato alla nascita della cosiddetta benzina verde, a basso tenore di piombo. In questa, l'agente antidetonante precedente (piombo tetraetile) è stato sostituito principalmente dal benzene, ma vengono utilizzati anche metil-terziar-butil-etere (MTBE) ed etil-terziar-butil-etere (ETBE). Una direttiva Ue ha proibito in tutta l'Unione europea la commercializzazione delle benzine contenenti piombo, a partire dal 2000. L'uso di MTBE è stato recentemente bandito negli Stati Uniti d'America per l'effetto fortemente inquinante per le falde acquifere e in quanto cancerogeno. L'ETBE viene preso ultimamente in maggiore considerazione in quanto parzialmente proveniente da fonte rinnovabile. Esso consiste infatti in un prodotto di reazione tra isobutilene e etanolo, che può esser di origine agricola.
La benzina è estremamente infiammabile e quindi pericolosa per la sua alta infiammabilità a causa di una semplice scintilla. In Italia è attualmente disponibile la benzina senza piombo con numero di ottano 95 (detta anche "Eurosuper"), che tutti i paesi dell'Unione europea hanno l'obbligo di adottare. Inoltre in quasi tutta l'Unione esiste la Superplus con numero di ottano pari a 98, in Italia è adottata solo da alcune aziende, IES, OMV) ed è resa meno inquinante grazie ad alcuni additivi. In Italia è inoltre disponibile benzina con numero di ottano 100, commercializzata da quattro aziende, IP, Shell, Tamoil ed Eni. Le benzine con numero di ottano 98 o superiore spesso vengono integrate con altri agenti in grado di mantenere pulite le parti interne del motore evitando la formazione di depositi carboniosi che possono influire negativamente su prestazioni e consumi. Queste particolari benzine sono indicate soprattutto per i motori con elevati rapporti di compressione e per quelli di vecchia concezione (le auto progettate nell'era della benzina con piombo avevano dei rapporti di compressione più elevati proprio per il maggior numero di ottano della benzina allora più diffusa).
Preparazione. Il petrolio greggio viene lavorato nelle raffinerie e comincia il suo percorso entrando in una colonna di distillazione. Qui viene separato nei suoi componenti che sono leggeri come i GPL (gas di petrolio liquefatti) e pesanti come i residui. Prodotti intermedi sono la benzina (ancora da considerarsi non impiegabile per l'autotrazione), il kerosene e il gasolio leggero e pesante. La benzina estratta dalla colonna di distillazione è presente in percentuali molto variabili, in quanto ogni greggio è diverso dagli altri e perciò può formare una miscela di prodotti particolare. La benzina semilavorata che esce dalla colonna di distillazione, deve essere trattata in un impianto di desolforazione con idrogeno. Lo zolfo infatti è un veleno per il catalizzatore dell'impianto successivo in cui verrà trattata per incrementarne il numero di ottano. La benzina che esce dall'impianto di desolforazione va quindi a un impianto detto reformer che deve incrementare il numero di ottano grazie all'azione di un catalizzatore di platino che lavora in atmosfera di idrogeno. In uscita si ha una benzina con un numero di ottano molto più alto di quello in ingresso (questo fenomeno è dovuto alla formazione di aromatici nel processo di reforming) e l'entità dipende dal tipo di benzina che è stata usata come carica e anche da come è stato esercito l'impianto (severità).
Si può ottenere facilmente una benzina con numero di ottano RON = 100. Il RON è un indice rappresentativo del potere antidetonante della benzina; più è alto più la benzina in camera di combustione del motore brucia senza dare luogo al fenomeno del "battito in testa", decisamente dannoso per il motore. La benzina (ora detta riformata) non ha ancora tutte le caratteristiche previste dalla legge per essere commercializzata; queste infatti sono ottenute operando un mix (blending) con altri prodotti della lavorazione del greggio come per esempio la benzina di cracking catalitico detta LCN, la benzina isomerata ottenuta in impianti di isomerazione dei componenti più leggeri C5/C6, l'alchilata. Anche l'MTBE prodotto da impianti petrolchimici e petroliferi è molto usato nel mix per ottenere le specifiche di legge per la sua commercializzazione. La colorazione verde non è caratteristica del prodotto, ma ottenuta per aggiunta di apposito colorante.
Molte delle accise italiane furono introdotte come temporanee per far fronte a vari eventi straordinari, ma nonostante il venir meno della causa a tutt'oggi non risultano ancora rimosse:
· 1935 +1,90 lire per la guerra di Abissinia
· 1956 +14 lire per la crisi di Suez
· 1963 +10 lire per il disastro del Vajont
· 1966 +10 lire per l’alluvione di Firenze
· 1969 +10 lire per il terremoto del Belice
· 1976 +99 lire per il terremoto del Friuli
· 1980 +75 lire per il terremoto dell’Irpinia
· 1982 +100 lire per la missione in Libano
· 1983 +105 lire per la missione in Libano
· 1996 +22 lire per la missione in Bosnia
· 2003 +0,017 euro per contratto autoferrotranvieri
· 2005 +0,005 euro per rinnovo autobus pubblici
2011
· 6 aprile +0,0073 euro per finanziamento alla cultura FUS
· 1 giugno +0,0400 euro per emergenza immigrati
· 1 luglio +0,0019 euro per finanziamento alla cultura FUS
· 1 novembre +0,0089 euro per alluvioni Liguria e Toscana
· 6 dicembre +0,0820 euro con il decreto Salva Italia
2012
· 8 giugno +0,0200 euro per terremoto in Emilia
· 11 agosto +0,0042 euro per bonus gestori e terremoto Abruzzo
A ciò si somma l'imposta di fabbricazione sui carburanti, per un totale finale di 70,42 centesimi di euro per la benzina e 59,32 per il diesel. Su queste accise viene applicata anche l'IVA al 21%, che grava per circa 15 centesimi di euro nel primo caso e 12 nel secondo. Inoltre, dal 1999, le Regioni hanno la facoltà di tassare i carburanti.
Il petrolio viene acquistato dai Paesi produttori in dollari americani ed è quotato in tale moneta alle Borse di Londra (Brent) e New York (WTI). Il generale rafforzamento del cambio euro/dollaro dal 2000 in poi ha contribuito a mitigare l'aumento del prezzo del barile di greggio nei Paesi UE, una volta calcolato in valuta. Le compagnie petrolifere sono state oggetto in varie parti del mondo di critiche per i ritardi con i quali i prezzi al consumo tengono conto di periodi di lieve discesa per le quotazioni del greggio, e del cambio euro/dollaro favorevole. Simili critiche sono mosse ai governi italiani perché una detassazione della benzina consentirebbe di compensare i rincari del barile di greggio, e di controllare una spirale inflazionistica.
Con la manovra finanziaria 2011 si è stabilito che verrà aumentata immediatamente l'iva al 21% (e da metà 2012 fino al 23%) ed introdotta dal 1º gennaio 2012 un'ulteriore tassa sui carburanti che porterà ad un rincaro di circa 10 centesimi/litro del prezzo della benzina (12 centesimi per il diesel).
Per accisa si intende una imposta sulla fabbricazione e vendita di prodotti di consumo. Il termine deriva dall'olandese accijns, che a sua volta deriva dal latino accensare, che significa "tassare". È un tributo indiretto che colpisce singole produzioni e singoli consumi. In Italia le accise più importanti sono quelle relative ai prodotti energetici (precedentemente limitati solo agli oli minerali derivati dal petrolio), all'energia elettrica, agli alcolici e ai tabacchi.
Definizione. L'accisa è un'imposta che grava sulla quantità dei beni prodotti, a differenza dell'IVA che incide sul valore. Mentre l'IVA è espressa in percentuale del valore del prodotto, l'accisa si esprime in termini di aliquote che sono rapportate all'unità di misura del prodotto.
Nel caso dei prodotti energetici si hanno aliquote rapportate al litro considerato alla temperatura di 15 °C, come nel caso della benzina e del gasolio, oppure al chilo come ad esempio sugli oli combustibili e dei GPL. Nel caso dell'alcole, l'aliquota fiscale è rapportata al litro anidro, cioè all'unità di volume considerato alla temperature di 20 °C, al netto dell'acqua. Ad esempio, una bottiglia da un litro di grappa a 40° contiene 1x40:100= 0,4 litri anidri, mentre il litro totale di prodotto viene detto litro idrato. Nel caso dei gas, come ad esempio il metano, l'aliquota è rapportata al metro cubo alle condizioni standard di pressione di 1 bar (100 000 Pa) e di temperatura di 15 °C. Nel caso dell'energia elettrica l'aliquota è rapportata al chilowattora.
L'accisa concorre a formare il valore dei prodotti, ciò vuol dire che l'IVA sui prodotti soggetti ad accisa grava anche sulla stessa accisa. L'armonizzazione delle accise è stato un elemento indispensabile alla corretta instaurazione del mercato unico europeo. D'altra parte, il gettito fiscale legato alle accise è fondamentale per la fiscalità interna dei singoli Stati membri, in quanto costituisce una parte cospicua delle entrate nel bilancio di ogni Paese. Pertanto, da una parte è stato necessario disciplinare il settore con norme europee applicabili su tutto il territorio dell'Unione (Regolamenti), dall'altra è stato lasciato ampio spazio alla sussidiarietà con il recepimento da parte di ogni Stato membro della direttiva comunitaria fondamentale (attualmente la n. 2003/96/CE del Consiglio del 27 ottobre 2003), dal momento che le accise concorrono tradizionalmente alla formulazione di scelte politiche, non solamente in campo tributario, ma anche nei settori industriali, energetico, sanitario, sociale, dei trasporti e dell'agricoltura.
Il grande impatto di questo tipo di fiscalità si rileva considerando che essa colpisce prodotti tipici dell'agricoltura e degli usi alimentari di ogni Paese e prodotti cosiddetti energetici, impiegati nella produzione di beni e servizi di larghissimo consumo quali l'energia elettrica, il gas o i trasporti. Date le caratteristiche territoriali molto diverse che contraddistinguono i Paesi membri, non è stato possibile giungere ad un'armonizzazione completa, ossia colpire gli stessi prodotti con le stesse aliquote in tutto il territorio dell'Unione Europea, però si è proceduto ad armonizzare le strutture dei tributi nell'ambito di un regime generale valido in ogni Stato membro. La disciplina europea ha introdotto l'istituto del deposito fiscale e alcune figure di soggetti passivi, quali il depositario autorizzato, l'operatore registrato, l'operatore non registrato e il rappresentante fiscale. Pertanto, i principi del regime impositivo, unitamente alle figure di soggetti passivi, riconosciuti in tutto il territorio comunitario, concorrono a quella armonizzazione della struttura fiscale delle accise che unificano le modalità di gestione e di controllo delle operazioni rilevanti ai fini della tassazione. In questo modo, è stata assicurata la libera circolazione delle merci nel territorio della Comunità, salvaguardando gli interessi dei singoli Stati. Ad esempio, l'aliquota di accisa zero sul vino non penalizza i produttori di quei Paesi dove è forte la produzione vitivinicola. Al tempo stesso, però, il regime di deposito fiscale garantisce gli interessi di altri Paesi in cui l'imposta è più o meno alta: lo speditore italiano che opera in regime di deposito fiscale è tenuto a garantire il carico di imposta gravante nel Paese di destinazione. La prestazione di un'apposita garanzia, infatti, consente al depositario italiano di emettere il DAA (Documento Amministrativo di Accompagnamento), riconosciuto in tutta la Comunità, la cui funzione è quella di trasferire, insieme alla merce, anche l'obbligazione tributaria tra operatori economici comunitari. L'armonizzazione dei testi normativi in materia di accise dei 25 Stati membri dell'Unione Europea è entrata in vigore il 1 gennaio 2005. Il formato standard del nuovo codice di accisa è composto da 13 caratteri alfanumerici. I primi due identificano lo Stato nel quale opera il soggetto assegnatario del codice (IT per l'Italia). Anche i tabacchi sono gravati dall'accisa, ma seguono regolamentazioni diverse. In Italia, ad esempio, la gestione delle accise sui tabacchi viene curata dai Monopoli di Stato mentre per gli altri settori viene curata dall'Agenzia delle Dogane. Da un punto di vista normativo, le accise sono regolate Testo Unico Accise - Decreto Lgs. 504/95.
SCANDALOSO, PERO’, E’ QUELLO CHE NON SI DICE: LE COMPAGNIE PETROLIFERE EVADONO LE ACCISE E L’IVA.
Mancate entrate per lo Stato di circa 50milioni di euro all’anno. Si tratta di soldi che le compagnie petrolifere non versano al fisco grazie ad un metodo di calcolo “discutibile” del numero di litri di carburanti, destinati alla vendita, caricati su una singola autobotte”. Lo denuncia la senatrice Adriana Poli Bortone, presidente di Io Sud, in una dettagliata interrogazione rivolta al ministro dell’Economia e a quello delle Attività produttive e disponibile in basso su questa pagina. Ai ministri si chiede “se intendano intervenire per recuperare le somme evase o eluse”. “Per quantificare il numero di litri caricati su una singola autobotte destinata alla vendita, - si legge nell’interrogazione - le dogane (di stanza all'interno dei punti di carico) pesano l'autobotte al netto e quindi dividono il peso netto per il valore di densità rilevato alla temperatura convenzionale di 15 gradi. In questo modo il numero di litri sui quali si pagano le tasse risulta inferiore a quello reale”. Per questo la senatrice chiede ai ministri se non sarebbe opportuno “procedere con la densità ambiente, rilevata dalla Guardia di Finanza ad inizio di giornata, assicurando così al bilancio dello Stato introiti che fino ad ora sembrerebbero illecitamente sottratti”. Nell’interrogazione si fa presente inoltre che “a Taranto ci sarebbe un deposito, non in regola, che riscalda con serpentine a vapore il gasolio e le benzine al solo scopo di aumentarne i volumi. Questo problema, e quello delle differenze di gradazioni di densità, pare essere presente in tutta Italia e sarebbe utile quindi indagare in tal senso anche a Porto Marghera e nelle raffinerie e/o depositi dei porti di Genova e Livorno e comunque in tutti gli altri porti italiani.”
IL TESTO DELLE 'INTERROGAZIONI
Atto n. 4-05817, Pubblicato il 7 settembre 2011, Seduta n. 600
POLI BORTONE - Ai Ministri dell'economia e delle finanze e dello sviluppo economico. - Premesso che:
nel commercio dei prodotti petroliferi (in particolare carburante e combustibile per autotrazione e riscaldamento) le procedure per il versamento sono abbastanza complesse;
la compagnia petrolifera estrae dalla sua raffineria e/o deposito (nel caso in questione Taranto) quantitativi di prodotto destinato alla messa al consumo;
per ogni litro di prodotto immesso al consumo (e quindi destinato alle stazioni di servizio e/o depositi commerciali liberi) la compagnia versa allo Stato una accisa che si aggira intorno al valore di euro 0,4722/litro per il prodotto gasolio autotrazione;
per quantificare il numero di litri caricati su una singola autobotte destinata alla vendita, le dogane (di stanza all'interno dei punti di carico) pesano l'autobotte al netto e quindi dividono il peso netto per il valore di densità rilevato alla temperatura convenzionale di 15 gradi;
ad esempio, al peso netto di chilogrammi 27.100 rilevati sul bilico si applica la densità a 15 gradi che, nel caso del deposito di Taranto, è 0,8324, sicché dalla semplice divisione del primo numero per il secondo risulta un volume pari a litri 32.556;
la compagnia petrolifera versa allo Stato l'accisa su questo volume, sicché moltiplicando 0,4722 (accisa) per 32.556 litri si ottiene un valore uguale a euro 15.373;
la compagnia, tuttavia, fattura ed incassa dal consumatore (rivenditore o utilizzatore) per lo stesso peso di merce un volume maggiore in quanto commercializza a densità risultante dalla reale temperatura di carico, e non dalla temperatura convenzionale. Nell'esempio specifico quindi: il peso di 27.100 chilogrammi diviso la densità rilevata a temperatura ambiente pari a 0,8176 fa risultare un volume pari a litri 33.142, con una differenza quindi di litri 586 che, moltiplicati per l'accisa gasolio di euro 0,4722, dà un maggiore introito nelle casse delle compagnie petrolifere pari a euro 276,70;
tali differenze sono tanto più marcate quanto più alta è la temperatura di carico del prodotto da parte delle compagnie. In estate fra la temperatura di carico (solitamente intorno ai 42 - 44 gradi centigradi) e la temperatura esterna (di circa mediamente 33-35 gradi) il disavanzo risulta ampio ma sostenibile da un sistema commerciale ormai dedito alle trasformazioni di disavanzi in cali da addebitare all'economia del proprio bilancio con evidente sottrazione di base imponibile;
in inverno dal deposito di Taranto si carica alla temperatura media di 44 - 46 gradi con uno sbalzo termico reale di almeno 20 gradi in quanto la temperatura esterna si aggira intorno ai 22 - 25 gradi;
l'accisa viene quindi versata allo Stato convenzionalmente a 15 gradi, mentre le compagnie incassano tutto il differenziale che in estate si aggira intorno ai 250 euro ad autobotte/gasolio ed in inverno quasi si raddoppia;
le situazioni citate riguardano solo il gasolio per autotrazione del quale, come media annua, si caricano circa 200 autobotti al giorno per 5/6 giorni la settimana a seconda della richiesta delle permute che Eni concede alle altre compagnie petrolifere. D'altro canto c'è da considerare che Taranto risulta di fatto la sola vera base di approvvigionamento per il Mezzogiorno, tant'è che Calabria, Basilicata e Puglia ritirano da Taranto l'80 per cento del fabbisogno;
a conti fatti, 200 autobotti al giorno per 300 giorni l'anno di carico risultano 60.000 autobotti che, moltiplicate per 250 euro di imposta non versata allo Stato, dà un totale di 15 milioni di euro (per il solo gasolio per autotrazione);
si applica lo stesso sistema di calcolo con riferimento ai carichi di gasolio da riscaldamento, di benzine, di olii combustibili, di carburanti per l'agricoltura, è di tutta evidenza che il danno per le mancate entrate per lo Stato si aggira intorno ai 45/50 milioni di euro all'anno;
le differenze legate alle giacenze del prodotto (che evidentemente sono ricalcolate partendo dai litri per il carico in chilogrammi) seguiranno il procedimento inverso con eccedenze che, da un lato, paiono misteriosamente sparire dalle contabilità ufficiali e, dall'altro, sono invece addebitate ai depositi di estrazione nelle rispettive voci di calo, che si tramutano in voci di costo nei bilanci delle compagnie;
a Taranto pare si verifichi, inoltre, l'anomala situazione di un deposito non in regola che riscalda con serpentine a vapore il gasolio e le benzine al solo scopo di aumentarne i volumi;
a memoria dell'interrogante, dovrebbero esserci in itinere delle inchieste sulle anomalie segnalate e sarebbe assolutamente utile conoscerne l'esito;
il problema segnalato per Taranto e quello delle differenze di gradazioni di densità pare essere presente in tutta la Penisola italiana e sarebbe utile quindi indagare in tal senso anche a Porto Marghera e nelle raffinerie e/o deposito dei porti di Genova e di Livorno e comunque in tutti gli altri porti italiani,
si chiede di sapere se i Ministri in indirizzo intendano approfondire le tematiche segnalate, intervenire per recuperare le somme evase o eluse e, per il futuro, procedere con l'unificazione di tutto il commercio di carburante alla densità convenzionale di 15 gradi, oppure alla densità rilevata nell'ambiente dalla Guardia di finanza ad inizio di giornata, assicurando così al bilancio dello Stato introiti che fino ad ora sembrerebbero illecitamente sottratti.
Atto n. 4-05897, Pubblicato il 21 settembre 2011, Seduta n. 606
POLI BORTONE - Al Ministro dell'economia e delle finanze. - Premesso che:
nel commercio dei prodotti petroliferi (in particolare carburanti e combustibili per autotrazione e riscaldamento) le procedure per il versamento sono le seguenti: la compagnia petrolifera estrae dalla sua raffineria e/o deposito quantitativi di prodotto destinato alla messa al consumo. Per ogni litro di prodotto immesso (quindi destinato alle stazioni di servizio e/o depositi commerciali liberi) la compagnia paga allo Stato un'imposta, l'accisa, che si aggira intorno al valore di 0,47220 euro a litro per il gasolio per autotrazione;
per quantificare il numero di litri caricati su una singola autobotte destinata alla vendita, le dogane (di stanza nell'interno dei punti di carico) pesano il netto dell'autobotte e poi dividono il peso netto per il valore di densità, rilevato per convenzione alla temperatura di 15 gradi (per esempio al peso netto di 27.100 chilogrammi rilevati sul bilico si applica la densità a 15 gradi che nel caso di specie è 0,8324 e dalla semplice divisione del primo numero per il secondo si ha un volume pari a 32.556 litri);
la compagnia petrolifera paga allo Stato l'accisa su questo volume (quindi 0,4722 moltiplicato per 32.556 dà 15.373 euro). La compagnia però fattura ed incassa dal consumatore (rivenditore o utilizzatore) per lo stesso peso di merce un volume maggiore in quanto commercializza a densità risultante dalla reale temperatura di carico. Nell'esempio specifico quindi: peso 27.100 diviso per la densità rilevata a temperatura ambiente, pari a 0,8176, rileva un volume pari a 33142 litri con una differenza, quindi, di litri 586 che, moltiplicati per l'accisa gasolio di 0,4722 euro, dà un maggiore introito nelle casse delle compagnie di 276,70 euro;
queste differenze tanto sono più marcate quanto più alta è la temperatura di carico del prodotto da parte delle compagnie. In estate dalla temperatura di carico (solitamente intorno ai 42/44 gradi centigradi) alla temperatura esterna (di circa mediamente 33/35 gradi) il disavanzo è ampio ma sostenibile da un sistema commerciale ormai dedito alle "trasformazioni di disavanzi in cali da addebitare all'economia del proprio bilancio" con evidente sottrazione di base imponibile;
in inverno dal deposito di Taranto, per esempio, si carica alla temperatura media di 44/46 gradi con uno sbalzo termico reale di almeno 20 gradi in quanto la temperatura esterna viaggia intorno ai 22/25 gradi. L'accisa viene quindi pagata allo Stato convenzionalmente a 15 gradi mentre le compagnie incassano tutto il differenziale che d'estate viaggia intorno ai 250 euro ad autobotte/gasolio mentre in inverno quasi si raddoppia;
nel caso descritto ci si riferisce al solo gasolio per autotrazione del quale si caricano giornalmente circa 200 atb per 5 o 6 giorni la settimana, a seconda della richiesta delle permute che ENI concede alle altre compagnie petrolifere. Per 300 giorni annui di carico sono 60.000 atb che moltiplicato per 250 euro di imposta, non versata allo Stato, si raggiunge un totale di 15.000.000 euro. Se si aggiunge che con lo stesso sistema si regolano i carichi per il gasolio da riscaldamento, le benzine, gli olii combustibili, i carburanti per l'agricoltura, è di tutta evidenza che il danno per le mancate entrate si aggira intorno ai 45/50 milioni di euro annui. Inoltre le differenze legate alle giacenze del prodotto, che evidentemente sono ricalcolate partendo dai litri per il carico in chilogrammi seguiranno il procedimento inverso con eccedenze da un lato che misteriosamente spariscono dalle contabilità ufficiali e cali che invece vengono artatamente addebitati ai depositi di estrazione, con addebito alle rispettive voci di calo che si tramutano in voci di costo dei bilanci delle compagnie;
inoltre, a Taranto pare che sia presente uno strano deposito, non in regola, che riscalda con serpentine a vapore il gasolio e le benzine al solo scopo di aumentare i volumi;
il problema di Taranto e le differenze di gradazioni di densità, purtroppo, è presente in tutta la penisola italiana, in misura maggiore o minore, ma ovunque è così,
si chiede di sapere: se il Ministro in indirizzo non intenda avviare con urgenza una seria indagine sulle vicende sopra descritte oppure intervenire al fine di portare a compimento le inchieste avviate; se non sia del parere che unificare tutto il commercio alla densità di 15 gradi, oppure unificare tutto alla densità dell'ambiente rilevata dalla finanza ad inizio giornata, significherebbe non solo eliminare una parte di malcostume legalizzato ma anche favorire maggiori (o meglio mancati) introiti per lo Stato.
PARLIAMO DEL BALZELLO DEI BALZELLI: L'ABBONAMENTO RAI.
Il Balzello dei Balzelli, specie se doppio. Oppressi, pur non guardando “le purghe di Stato”. Si dice TV di Stato, quindi TV pubblica al servizio del cittadino, invece è un baraccone mangia soldi in mano ai partiti politici ed alla loro claque. Foriera di censura ed omertà non offre qualità, ma straguadagni a giornalisti e dirigenti politicizzati ed immeritata visibilità a personaggi senza arte ne parte. Come tutte le cose italiane l’abbonamento RAI è regolato ancora dalla normativa del tanto bistrattato periodo fascista. Alla sinistra in Tv questo non gli fa schifo.
Gli Abbonamenti Ordinari riguardano la detenzione nell’ambito familiare (abitazione privata) di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive. (art. 1 e 2 R.D.L. 21-2-1938 n. 246 e modificazioni successive).
Gli Abbonamenti Speciali riguardano la detenzione di uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radio televisive fuori dall'ambito familiare nell'esercizio di un'attività commerciale e a scopo di lucro diretto o indiretto: per esempio Alberghi, Bar, Ristoranti, Uffici etc..
Il bollettino per pagare il canone Rai è arrivato in ufficio. Solo perché in quell’azienda esiste un computer, che con le moderne tecnologie (via Internet o grazie a un software che permette di vedere il digitale terrestre) in teoria potrebbe trasformarsi in televisore.
Ma i piccoli imprenditori non ci stanno. Anche perché per le aziende il canone speciale Rai costa 400 euro. «L’invio della richiesta per il pagamento del canone speciale Rai alle imprese di ogni tipo è, francamente, un balzello inaccettabile», dice il segretario generale Lapam, Carlo Alberto Rossi. «Nelle nostre sedi stanno arrivando centinaia di telefonate da parte di imprenditori delle più svariate categorie per denunciare questa situazione. Mi chiedo anche: come mai solo ora, dopo la scadenza dell’abbonamento del 31 gennaio? Questa volta si è passato il segno: ogni impresa che possiede un computer deve pagare il canone speciale presumendo che si riceva la Rai attraverso internet. Secondo questa logica un autoriparatore, una officina meccanica, un ufficio di servizi o un idraulico invece di lavorare starebbero davanti al computer a guardare ‘L’Italia in diretta’? Siamo al paradosso».
In effetti la normativa, che si rifà a un Regio decreto del 1938 prevede che ‘apparati atti o adattabili alla ricezione delle trasmissioni radiotelevisive’ debbano pagare il canone che, per le aziende, è appunto speciale.
«Con tutta evidenza — aggiunge Rossi — si stanno raggiungendo livelli inauditi nel tentativo di fare cassa con balzelli odiosi e barocchi. Perchè allora non chiedere il canone a tutti i possessori di uno smartphone, che si può collegare a internet? Non dimentichiamo — aggiunge il segretario della Lapam — che non stiamo parlando di pochi euro: il canone speciale va da un minimo di 200,91 euro per officine, studi professionali, negozi, circoli, alcune tipologie di esercizi pubblici etc... e sale a 401,76 per alberghi, altri esercizi pubblici, ma anche uffici, per salire ancora gradualmente fino a oltre 6mila euro per alberghi di lusso. Si tratta dell’ennesimo balzello, in un momento già durissimo a causa della crisi che non molla e, tra l’altro, il cosiddetto decreto ‘Salva Italia’ prevede che il numero dell’abbonamento Rai venga riportato sul modello Unico di dichiarazione dei redditi».
"La Rai - scrive Filippo Greci, presidente nazionale del Movimento Nuovi Consumatori - sta inviando una serie di avvisi a diversi operatori economici, commercianti e professionisti tramite i quali ipotizza l'esistenza di un televisore nei locali dello studio, ufficio o negozio. Di conseguenza richiede il pagamento del cosiddetto "canone speciale", previsto per gli apparecchi televisivi disponibili in pubblici esercizi ma anche in qualsiasi altro ambito "non familiare", per un importo pari ad € 200,00. L'obbligo è stato istituito di fatto con l'articolo 1 del regio decreto-legge 21 febbraio 1938, n. 246, con la seguente disposizione: "Chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento, giusta le norme di cui al presente decreto. La presenza di un impianto aereo atto alla captazione o trasmissione di onde elettriche o di un dispositivo idoneo a sostituire l'impianto aereo, ovvero di linee interne per il funzionamento di apparecchi radiotelegrafici, fa presumere la detenzione o l'utenza di un apparecchio radio-ricevente"; il canone "speciale" di abbonamento alle radiodiffusioni è stato di fatto introdotto dall'articolo 2 del decreto legislativo luogotenenziale 21 dicembre 1944, n. 458, sostituendo il secondo comma dell'articolo 10 del regio decreto legge 23 ottobre 1925, n. 1917 con questa disposizione: "Qualora le radioaudizioni siano effettuate in esercizi pubblici o in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dell'ambito familiare, o gli apparecchi radioriceventi siano impiegati a scopo di lucro diretto o indiretto, l'utente dovrà stipulare uno speciale contratto di abbonamento con la società concessionaria". Tale norma introduce in modo più chiaro ed esteso il criterio di distinzione per l'applicazione del canone speciale e del canone ordinario. Corrisponde al vero che esiste l'obbligo di pagamento se si detiene in ufficio, studio o negozio un apparecchio televisivo (adatto alla ricezione delle trasmissioni). Tuttavia è importante evidenziare che il tutto non si applica nel caso di monitor non dotati di sintetizzatore di frequenza. Anche se in apparenza le pagine della Rai paiono dare la sensazione che si tratti di una disposizione riferita solo agli alberghi, bar, ed esercizi simili. Sottolineamo che l'obbligo c'è ANCHE PER UFFICI, NEGOZI, STUDI, indipendentemente dall'uso che ne viene fatto. Bisogna evidenziare che l'obbligo vale esclusivamente nel caso si tratti di un televisore dotato di sintonizzatore (o con un videoregistratore dotato di sintetizzatore), perché si tratta di apparecchi atti alla ricezione. Non esiste obbligo per i monitor "puri" che non sono in grado di decodificare il segnale trasmesso via etere, e per i lettori di cassette o CD (non videoregistratori) che si limitano a leggere il segnale del nastro. Del pari è giusto sottolineare il fatto che se non c'è apparecchio televisivo (ricordiamo che la RAI semplicemente "ci prova"), ovviamente non si deve pagare, e non si può essere obbligati a compiere alcuna azione in merito. Vale a dire non opererebbe il principio della presuntività; tuttavia potrebbe esserci una verifica di ispettori della Rai, che comunque per legge non possono procedere ad ispezioni personali, né reali né sulle persone, nè sui luoghi di lavoro in quanto la legge non prevede in capo ai medesimi un siffatto potere di agire che andrebbe, se posto in essere, denunciato immediatamente all'autorità giudiziaria perché integranti fattispecie di reati ben precisi". La Rai ha inviato un’ingiunzione di pagamento a 5 milioni di imprese chiedendo il pagamento del canone su qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo: pc, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza. Il “canone speciale” di abbonamento costerà dai 200 ai 6mila euro l’anno, a seconda della tipologia, per un salasso sul sistema produttivo di oltre un miliardo di euro l’anno. Ma imprese e associazioni di consumatori non ci stanno e parte la rivolta. Basta possedere un computer, un telefonino o un iPad in azienda per essere costretti a pagare il canone. È quanto hanno scoperto 5 milioni di imprese italiane che hanno ricevuto una lettera, direttamente dalla Rai, contenente un’ingiunzione di pagamento della tassa. Con una novità: non paga solo chi possiede un apparecchio televisivo, ma anche chi dispone di qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo, inclusi monitor per il pc, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza.
«Quella del canone speciale Rai è una richiesta assurda perché vengono tassati strumenti come i computer che gli imprenditori utilizzano per lavorare e non certo per guardare i programmi Rai. Per Adusbef e Federconsumatori, l’estensione del canone a computer e telefonini «è l'ennesima vergogna, l’ennesimo tentativo di scippo con destrezza che deve essere respinto al mittente. La Rai, un’azienda lottizzata che sempre di più sforna cattiva informazione e servizi spesso taroccati e strappalacrime per inseguire il feticcio dell’audience ha sfornato l'ennesimo balzello, a carico di imprese, studi professionali ed uffici, per imporre un pesante tributo che va da un minimo di 200 euro fino a 6mila euro l’anno a carico di oltre 5 milioni di utenti per un controvalore di 1 miliardo di euro l’anno». Per l’Aduc, «in assenza di una determinazione in tal senso del ministero dello Sviluppo economico che non ci risulta esistere, la richiesta della Rai è illegittima», si legge in un comunicato dell’Aduc. Che aggiunge: «Obbligare un’azienda a pagare un abbonamento tv per il solo fatto di avere dei pc è paradossale. Primo, perché il computer è uno strumento ormai indispensabile allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, e l’inclusione dello stesso fra gli apparecchi tassati significherebbe di fatto imporre una nuova imposta sul lavoro. Secondo, perché in un momento di grave crisi economica, si andrebbe a colpire d’improvviso il mondo produttivo per un importo superiore al miliardo di euro pur di tener in vita un’azienda, la Rai, gestita secondo il peggiore malcostume italiano».
Finora, la giurisprudenza non sembra lasciare molte vie d’uscita. Nel 2007, con sentenza del 20 novembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che «il canone di abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo». Ancora più stringente la posizione della Corte costituzionale del 1988: «Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’articolo. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (sentenza n. 535 del 1988)». Insomma, anziché essere il corrispettivo della fruizione di un servizio, il canone si configurerebbe sul presupposto che un apparecchio (tv, pc, telefonino, altro) è «ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva». Sei così ricco da poter comprare un pc o un telefonino? Allora paga il canone Rai. Ancora assurdi “balzelli”: come se non bastassero quelli che già ci sono !! E’ vero che la crisi impone di raschiare il barile, ma da qui a sfiorare il ridicolo il passo è breve. Riteniamo di essere di fronte a una norma assurda che costringe le imprese a un ulteriore esborso, in un momento segnato da una crisi economica senza precedenti per le nostre aziende, già duramente colpite dai provvedimenti di deregulation in atto e dall’esistenza di decine di balzelli assurdi. Sarebbe opportuno modificare una norma vetusta e iniqua, emanata in pieno regime fascista, quando l’obbligo di pagare un canone per apparecchi radiotrasmittenti aveva anche funzioni di controllo di polizia sulla circolazione delle informazioni.
Per l’ADUC il computer è soggetto al pagamento del canone Rai? L’annosa questione è stata oggetto di nostri quesiti alla Rai, interpelli all’Agenzia delle Entrate e di interrogazioni parlamentari al ministero delle Comunicazioni (ora Sviluppo economico), ma mai è stata fornita una risposta in tal senso. La Rai ci ha infatti risposto di non sapere se il pc era soggetto al canone e che avremmo dovuto chiederlo all’Agenzia delle Entrate. Quest’ultima, deputata alla riscossione di questa tassa, ha risposto di non saper rispondere e di aver girato il quesito al Ministero delle Comunicazioni. Ad oggi non ci risulta che il Ministero abbia preso decisioni in merito. Nonostante ciò, la Rai sta comunque sollecitando le aziende e i professionisti a pagare il canone anche per i “computer collegati in rete (digital signage e similari)”. Tralasciando il linguaggio tutt’altro che chiaro, oltre al fatto che discriminare tra computer collegati e non collegati in rete non ha alcun fondamento nella legge, ci chiediamo: la Rai ha ricevuto indicazioni in tal senso dal Ministero, oppure sta solo cercando di indurre con l’inganno a pagare anche quando non si deve? E’ peraltro evidente che obbligare un’azienda a pagare un abbonamento TV per il solo fatto di avere dei pc è paradossale. Primo, perché quei pc sono spesso meri strumenti di lavoro ormai indispensabili a qualunque attività lavorativa. Secondo, perché in un momento di grave crisi economica, si andrebbe a colpire d’improvviso il mondo produttivo per un importo superiore al miliardo di euro pur di tener in vita un’azienda, la Rai, gestita secondo il peggiore malcostume italiano. In ogni caso, questa decisione non può certo esser presa autonomamente dalla Rai.
E poi pagare per cosa?
Se la Rai manda al macero 650mila euro…Nel caos della prima serata del "Festival di Sanremo 2012" qualcuno della Rai, tra l'incredibile blocco del sistema di voto e il sermone di Adriano Celentano si è dimenticato di far trasmettere pubblicità per 650 mila euro. Chi è questo qualcuno? Forse riuscirà a scoprirlo, dopo "accurate e prolungate indagini", il "commissario" Marano "inviato prontamente sul posto" per "riportare l'ordine" al "Teatro Ariston". Nell'attesa, comunque, una cortese richiesta: poiché la Rai continua a buttare via in mille modi i suoi soldi, smetta almeno di assillare gli "abbonati per forza", cento volte al giorno, con la sua richiesta di versare il rinnovo del canone. I boiardi di Stato stanno bene attenti a costringere gli utenti a mantenerli con balzelli odiosi nella non curanza dei pseudo rappresentanti dei cittadini sganasciati in Parlamento.
Da “Il Giornale” alcune verità eclatanti, sottaciute dai giornali di sinistra. Un bel balzello fresco fresco, aggiornato al 1938, per scucire dalle imprese italiane i soldi per il cachet di Celentano, per la farfallina e il minislip di Belèn e tutto il resto del carrozzone Rai. C’è anche questa sorpresina per le aziende che in questi giorni stanno ricevendo a pioggia, senza tante distinzioni, una letterina dalla Direzione abbonamenti della Rai. Gli chiedono il canone, e fin qui sarebbe anche normale. Il problema è che la Rai lo chiede anche alle imprese che non hanno una tv in ufficio ma solo i computer per lavorare. Perché? Perché la legge, attuale ma risalente a un Regio decreto di 74 anni fa, dice che la tassa più odiata d’Italia la deve pagare «chiunque detenga uno o più apparecchi atti o adattabili alla ricezione dei programmi televisivi». Quindi non solo un televisore, ma anche un computer, un semplice monitor, un telefono cellulare, un I-Pad, un decoder, e secondo certe interpretazioni persino un videocitofono, una videocamera, un macchina fotografica digitale, una telecamera per videosorveglianza! Questo vale sia per le famiglie, a cui arriva la domanda per il «canone ordinario», sia per le aziende, a cui mandano la richiesta per il «canone speciale», perché si suppone abbiano «apparecchi atti alla ricezione di programmi tv in locali aperti al pubblico o comunque al di fuori dall’ambito familiare». Nelle lettere che abbiamo potuto leggere è scritto chiaro e tondo dalla Rai: «La informiamo che le vigenti disposizioni normative impongono l’obbligo del pagamento di un abbonamento speciale a chiunque detenga uno più apparecchi atti od adattabili (...) compresi computer collegati alla rete, indipendentemente dall’uso al quale gli stessi vengono adibiti». Quindi se una ditta ha anche un solo computer per tenere la contabilità, deve pagare il canone Rai. La mazzata complessiva, come denuncia Rete Imprese Italia (Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti, Cna, Casartigiani), è di 980 milioni di euro sulle imprese, con richieste che variano dai 200 euro ai 6mila euro l’anno, a seconda della tipologia di impresa. Nessuna esclusa, perché l’invio è automatico. Così si è ritrovata la cartellina di pagamento Rai anche una ditta che fa autotrasporto, in provincia di Pistoia, e che difficilmente userà i pc per vedersi Celentano. Stessa cosa per un imprenditore di Vittorio Veneto, titolare di un’azienda di logistica, che avendo dei computer nell’ufficio dovrebbe pagare a Lorenza Lei e Paolo Garimberti 401 euro. «Facciamo già fatica a competere sul libero mercato, ci mancava pure questa spesa in più che, ci informa la Rai, è deducibile dal reddito di impresa... prendono pure per i fondelli! - ci scrive l’imprenditore - Non è che questa tassa serve alla Rai per coprire i buchi di bilancio e le cavolate tipo il mega contratto a Celentano?». E fino a qualche anno fa la richiesta di pagamento veniva spedita anche a rivenditori e riparatori di tv, che la tv ce l’hanno in negozio per evidenti motivi. Hanno dovuto attendere un contenzioso poi risolto nel 2003 per essere esentati dall’assurda gabella. Ma gli altri imprenditori che non smerciano tv no, loro la devono pagare. Fabio Banti, presidente di Confartigianato Toscana, sta raccogliendo le firme per contestare formalmente alla Rai la legittimità del canone richiesto. «Abbiamo appena chiesto al ministro Passera di aiutare le piccole imprese che ogni giorno devono fronteggiare la crisi nerissima e riceviamo la richiesta del pagamento del canone Rai, una sorta di tassa sulle tecnologie. La misura è colma». In breve, la Rai tenta di risolvere il problema dell’evasione del canone (800milioni di mancato introito l’anno, 96% di esercizi pubblici che non lo paga) chiedendolo a tutti indiscriminatamente, anche a chi non ha la tv, poiché le procedure sanzionatorie sono difficili da applicare e dunque spara nel mucchio. Una tattica che può ottenere un risultato: far salire oltre il 45% (fonte Codacons) la percentuale di italiani che la considera una tassa ingiusta.
Come è stato bello vederlo entrare in sella a quel destriero bianco, stile Garibaldi, sul palco dell’Ariston, sventolando la bandiera tricolore e urlando «Viva l’Italia». Quanto è stato bravo a recitare un monologo di quasi un’ora analizzando, verso dopo verso, tutto all’Inno di Mameli, come un vecchio professore di liceo. E che emozione, poi, quando con un filo di voce, senza accompagnamento musicale, ha fatto il patriota tenero, cantando l’Inno nazionale. All’edizione del Festival di Sanremo 2011, 15 milioni 398 mila spettatori seguirono lo special guest Roberto Benigni e la sua sorprendente performance che raggranellò il 50,23% di share. Virtualmente i suoi fan raddoppiarono quando trapelò la notizia che il compenso che avrebbe ricevuto dalla Rai, 250 mila euro per una sola sera, sarebbe stato devoluto all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, per la costruzione di un nuovo padiglione. Decisione che, si tenne a precisare, era stata presa prima di firmare il contratto con l’azienda per la presenza dell’artista sul palco di Sanremo, e non come gesto riparatore per l’indignazione popolare che il suo cachet aveva scatenato. Può anche essere, infatti lascia ancora più perplessi venire a sapere oggi che, dopo un anno esatto, quei soldi al Meyer non sono mai arrivati. «Chiedete a Benigni!», risponde un po’ stizzita l’addetta stampa del pediatrico fiorentino. «A me non risulta che sia arrivato mai nulla», conferma sereno il direttore generale del centro di eccellenza per la cura delle malattie dei bambini, Tommaso Langiano. Per carità, non ci sarebbe nulla di particolarmente grave qualora Benigni avesse deciso di non dare nulla a nessuno e tenersi tutto in tasca, se non fosse per il fatto che la donazione era già stata data per certa da tutti e pubblicizzata su siti e giornali che osannavano il toscanaccio per il beau geste. Ci avevano creduto tutti, tranne i dirigenti del Meyer, i quali ancora oggi quasi cascano dalle nuvole: «Io non sapevo nemmeno che Benigni avesse voluto darci qualcosa», dice Langiano. L’agente del comico toscano, Lucio Presta, commentò la notizia della beneficenza al Meyer sostenendo che Benigni non rende mai pubbliche le sue frequenti donazioni, lasciando intendere che un’eventuale opera pia sarebbe potuta avvenire anche in forma anonima. Suona strano allora che al Meyer, dal febbraio scorso, non abbiano mai visto donazioni simili sul conto corrente. Eppure l’anno scorso, proprio l’agente di Benigni ebbe anche a infervorarsi contro la Lega Nord che si permise di lamentarsi del maxi ingaggio al premio Oscar: «A differenza di Benigni, politici e parlamentari non si sognerebbero mai di devolvere una cifra simile in beneficenza. Ma la Lega, non è un segreto, è nota per i suoi eccessi di populismo fuori luogo». Sarà pure fuori luogo muovere critiche, ma almeno un sospetto oggi sorge spontaneo. Nell’edizione 2012 lo special guest Celentano ha copiato Benigni, replicando l’opera di bene: «Questi 700 mila euro (per due serate, ) saranno devoluti a Emergency (associazione di sinistra) e a famiglie povere italiane». Qualcuno diceva: «A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre ci si azzecca».
Questa proprio non l’ha digerita. E la famosa goccia che fa traboccare sempre ogni vaso, questa volta ha fatto traboccare anche la pazienza del senatore del Pdl, Domenico Gramazio. Quando ieri mattina ha letto su Il Giornale che Roberto Benigni, allo scorso Festival di Sanremo, aveva promesso di devolvere il suo compenso di 250 mila euro all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, ma che dopo un anno ancora dal nosocomio non avevano ricevuto nemmeno un cent, non ci ha visto più. Ha preso carta e penna e ha scritto un’interrogazione urgente, a risposta scritta, a Mario Monti, in qualità di ministro dell’Economia e delle Finanze. «Voglio sapere dal ministro - scrive Gramazio - come azionista di riferimento della Rai, se l’azienda pubblica abbia devoluto al Meyer quella somma su richiesta di Benigni, o se al contrario Benigni abbia direttamente incassato dalla Rai, senza poi rilasciare alcuna delega per il pagamento alla struttura pediatrica di Firenze». Il senatore azzurro non sopporta che «possa essere stata presa in giro una struttura pediatrica di altissimo livello come quella e che, come al solito, siano state fatte promesse al vento». E siccome un rischio simile è in agguato anche quest’anno, prima che Celentano annunciasse di voler devolvere i suoi 700 mila euro di ingaggio in beneficenza a Emergency e a famiglie povere italiane, il senatore Gramazio era già corso ai ripari. «Ho presentato un’altra interrogazione, rivolta direttamente al presidente del Consiglio: trecentomila euro per ogni mezz’ora di apparizione sono uno sproposito anche per Celentano. Ho chiesto che il suo ingaggio venisse pagato in Bot dello Stato. E verificheremo, famiglia per famiglia, che i soldi che ha promesso vengano devoluti. Questa storia non finisce qui». Ne siamo certi.
Non dimentichiamoci una cosa e per chi non lo sapesse la diciamo ora. Di non solo Rai è vittima “rapinata” il povero imprenditore che ha una tv o una radio. Già. Per questo c’è un altro balzello: la SIAE. E non è finita. A questi si aggiunge un altro mungitore alla vacca collettiva. Ecco a voi UN RISCOSSORE MUSICALE ALLA PORTA.
Il dr. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ed autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo”, denuncia l’ennesima anomalia italiana. “Non tutti sanno – dice il presidente – che, in tema di intrattenimento musicale, le direttive dell’Unione Europea e la legge sul diritto d’autore (vedi gli articoli 72, 73 e 73 bis, Legge n. 633/1941) riconoscono e tutelano sia i diritti degli autori, che compongono i brani (gestiti dalla Società Italiana Autori ed Editori), sia i diritti dei discografici, che realizzano le registrazioni musicali (gestiti in maggior parte dalla Società Consortile Fonografici). Il consorzio SCF è oggi composto da case discografiche major e indipendenti ed attualmente tutela i diritti discografici di oltre 280 imprese, rappresentative di larga parte del repertorio discografico nazionale e internazionale pubblicato in Italia. Ciò significa, che per sentire un brano musicale registrato, in qualunque modo e forma, è necessario riconoscere anche un compenso al SCF, diritto autonomo rispetto a quanto dovuto alla SIAE.
Ciò, per entrambi, avviene comunemente nei seguenti contesti:
trasmissioni radiofoniche e televisive;
trasmissioni via satellite;
attività che utilizzano musica a scopo di lucro (es. discoteche, sfilate di moda, corsi di fitness);
attività per le quali la musica in diffusione di sottofondo costituisce un elemento di valore aggiunto al business (es. bar, ristoranti, alberghi, esercizi commerciali, studi od esercizi professionali, oratori parrocchiali, circoli privati, feste patronali, ecc).
Il compenso è dovuto anche nel caso in cui la diffusione dell’opera avvenga senza fine di lucro (in auto o in casa). Ai sensi della legge sul diritto d’autore, non pagare i diritti alla SIAE o alla SCF comporta l’applicazione della sanzione penale, oltre che amministrativa. Per la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 00626/2007 resa l'8 giugno 2007 dalla terza sezione penale, la diffusione di musica registrata senza aver versato i diritti connessi alle imprese discografiche per la riproduzione dei brani musicali, in questo caso rappresentate da SCF, Società Consortile Fonografici, viola la legge sul diritto d’autore e assume rilevanza penale. Solo che il Conna, ente rappresentativo degli interessi di molte emittenti radiotelevisive, disconosce tale sentenza rilevando che l'articolo 180 della legge 633 del 22 aprile del 1941 dice che l'attività di intermediario è riservata in via esclusiva alla Siae e al punto 3 aggiunge che essa curerà la "ripartizione dei proventi medesimi fra gli aventi diritto". Un brutto colpo per i cittadini italiani, che dell’intrattenimento musicale fanno il loro stile di vita, salvo far finta di niente, fino a quando non si presenta qualcuno alla porta, che ce lo ricordi.”
PARLIAMO DI TRIBUTI E BALZELLI D’ITALIA
Il tributo è una prestazione patrimoniale coattiva, consistente in beni in denaro o in natura, che deve essere corrisposta allo Stato o ad un altro Ente pubblico, per effetto dell'esercizio della potestà impositiva da parte dello Stato o altro ente pubblico, per il soddisfacimento della spesa connessa ai bisogni pubblici. Secondo la Corte Costituzionale sono definibili tributi quelle entrate erariali caratterizzate dalla "doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: sentenze n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005)". Nel linguaggio corrente per indicare genericamente i tributi viene spesso usato impropriamente il termine "Tasse". I tributi sono classificati in: Imposte; Tasse; Contributi.
L'imposta è una prestazione coattiva di ricchezza finalizzata al soddisfacimento di bisogni pubblici indivisibili (quali secondo la dottrina classica la difesa dello Stato, la giustizia e l'ordine pubblico) ed è prelevato in relazione ad un fatto economico che esprime capacità contributiva, come il reddito nell'Imposta personale, il consumo nell'imposta sul valore aggiunto, ecc.. secondo il cosiddetto principio del sacrificio.
La tassa è una prestazione che viene richiesta per la fruizione anche potenziale di un servizio pubblico divisibile, come ad es. l'istruzione (tassa universitaria) o la sanità (ticket sanitario) in base al principio del beneficio. Solitamente, la tassa non copre totalmente il costo del servizio pubblico, che quindi viene in parte finanziato anche da imposte.
Il contributo è una categoria non ben definita dalla dottrina, in quanto secondo parte di essa è possibile ricondurlo nei casi concreti alla tassa (es. contributo di utenza stradale), in quanto dovuto per uno specifico servizio, o all'imposta (contributo al servizio sanitario nazionale), in quanto il suo importo tende a coprire o comunque ha relazione con il costo del servizio (contributi previdenziali, contributi di bonifica). A differenza della tassa, che si applica quando si richiede un servizio, il contributo può essere attivato obbligatoriamente dall'Ente Pubblico per tutti coloro che ricadono nell'ambito della prestazione di un determinato servizio. Ad esempio nei il consorzi di bonifica si applica obbligatoriamente a tutti coloro che sono proprietari di immobili nel territorio del consorzio. Oppure per l’Inps, a cui è dovuto il contributo che in base al calcolo del versato darà la controprestazione dopo anni alla pensione.
La tassa, nell'ordinamento tributario italiano, è una somma dovuta dai privati cittadini allo Stato e si differenzia dall'imposta in quanto applicata secondo il principio della controprestazione: essa è cioè legata ad un pagamento di una somma di denaro, dovute da un soggetto quale corrispettivo per la prestazione a suo favore di un servizio offerto da parte di un ente pubblico (ad esempio tasse portuali ed aeroportuali, concessioni, autorizzazioni, licenze). Il Prelievo può essere indiretto attraverso il prelevamento fiscale di un sovra più al prezzo pagato per una merce o un servizio reso.
La tassa è relativa a un servizio di cui ciascun contribuente può decidere se avvalersi o meno, e in generale non è dipendente dal reddito; tramite imposte si realizza la copertura finanziaria delle leggi e la spesa pubblica. Il finanziamento di opere o atti previsti per legge attraverso una tassazione è contraria al principio di eguaglianza e all'obbligo generale di contribuzione alla spesa pubblica (art. 3 e 53 della Costituzione). Questo strumento tende a perdere importanza, nei moderni sistemi tributari, a favore di altri strumenti, quali la tariffa (vedi passaggio dalla Tarsu alla Tia) o l'imposta. Spesso il termine "tasse" viene usato nel linguaggio corrente per indicare genericamente l'imposizione fiscale. In questo caso è più corretto il termine "tributi".
La distinzione tra tassa e imposta è ereditata dal diritto romano ed è tipica dei Paesi di diritto latino. Nei Paesi di Common Law (Regno Unito e Stati Uniti) vige da tre secoli il principio del "no taxation without representation", ideato all'inizio della Rivoluzione americana. Si tratta di un principio in base al quale i cittadini che pagano i tributi devono essere rappresentati in Parlamento, e i tributi debbano derivare da una decisione parlamentare, in merito a un servizio di cui beneficiano i contribuenti. Questo principio è recepito nell'ordinamento italiano dove è vietata tramite decreto governativo l'estensione o l'imposizione di nuovi tributi (art. 4 della legge 212/2000-Statuto dei diritti del Contribuente).
Nei Paesi democratici esiste un dibattito sulle modalità di prelievo e sull'impiego delle tasse. Le tasse servono a ripagare il debito pubblico, finanziare servizi come scuole, sanità, assistenza. Alcuni Paesi hanno adottato un sistema di flat tax, ad aliquota unica o con poche aliquote per le principali imposte. Alcuni ritengono che la semplificazione fiscale, la riduzione delle aliquote riducano l'elusione e l'evasione al limite che in base alla curva di Laffer un'aliquota unica, opportunamente scelta, massimizzi il gettito fiscale. Altri ritengono l'aliquota unica e la riduzione degli scaglioni profondamente iniqua verso i ceti medi e contro il principio di progressività del prelievo fiscale, affermato in varie Costituzioni. Altri propongono una Tobin tax, ossia un prelievo minimo sulle transazioni finanziarie, che darebbe comunque un gettito enorme, visti i volumi di denaro movimentati ogni giorno.
I servizi pubblici divisibili, quali ad esempio l'istruzione e la sanità, possono essere finanziati mediante tasse. Ne sono esempi in Italia le tasse scolastiche e universitarie o i ticket sanitari. Tuttavia, non si deve confondere la tassa con il prezzo di questi servizi. Almeno nell'ordinamento attuale italiano le tasse non coprono completamente il costo di questi servizi, che quindi ricade sulla fiscalità generale e viene finanziato con le imposte. Le giustificazioni, provenienti dalla dottrina economica per tale scelta, sono diverse. In primo luogo essa si giustifica con la teoria delle esternalità, secondo cui il consumo di determinati servizi produce benefici indiretti, non solo al consumatore, ma all'intera società, giustificandone così il contributo alla copertura dei costi con la fiscalità generale. Facciamo un esempio: l'istruzione universitaria produce benefici per lo studente ma anche per la società di cui viene accresciuto il livello culturale. In secondo luogo essa si richiama al principio costituzionale della capacità contributiva nel concorso a finanziare le spese pubbliche. Pertanto si ritiene necessario consentire la fruizione dei servizi ai meno abbienti fissando l'importo della tassa al di sotto del costo (o addirittura esentando alcune categorie dal pagamento) e contribuendo per la differenza con la fiscalità generale, che tiene conto di questo principio.
Le accise ed i balzelli, cioè i tributi che non possono essere evasi sono quelli caricati sul prezzo del carburante o delle utenze domestiche o industriali: luce, gas, telefono, ecc.. Ma ci sono altri tributi che sono pagati in virtù della capacità o volontà contributiva dei cittadini. La legittima difesa contro gli sprechi ed i disservizi o la deprecabile ingordigia del cittadino si tramuta in evasione fiscale.
Il gettito evaso, cioè quanto manca alle casse dell’erario ogni anno, è di 119,6 miliardi. La cifra, pari al 28 per cento del totale delle imposte pagate, risulta dalla somma dell'evasione delle 7 maggiori tasse del paese, che rappresentano da sole l'80 per cento del gettito tributario: Irpef, Iva, Irap, Ires, canone Rai, bollo auto e imposta di registro. Le stime emergono dall'incrocio dei dati della Commissione Giovannini, del Rapporto 2011 della Corte dei Conti sulla finanza pubblica e dell'indagine della Uil sul lavoro irregolare. In pratica è possibile mettere a confronto, relativamente al 2009, ultimo anno disponibile, provincia per provincia, i dati che provengono dall'economia reale (dal Pil pro capite, ai redditi, agli immobili e i consumi) con le dichiarazioni dei redditi e gli studi di settore. Emerge il cosiddetto tax gap, cioè quello che manca tra redditi guadagnati e redditi dichiarati al fisco. Per la prima volta si supera il concetto vago di economia sommersa (che l’Istat valuta in 275 miliardi) e si aggiorna il vecchio dato dell'amministrazione fiscale che indicava in circa 100 miliardi il gettito mancante all´appello. Ma la vera novità è la dimensione delle tasse evase, una per una.
Certo è che la campagna antievasione promossa soprattutto da chi si avvantaggia dal gettito fiscale (politica, informazione, pubblica amministrazione) omertosamente tace il fatto che il cittadino non ha più niente da dare, specialmente se nulla ha da ricevere in cambio da un sistema parassita e nullafacente.
Non solo in Italia preoccupano le spese incontrollabili dello stato e le conseguenti necessità di risucchiare soldi ai cittadini, anche nel povero Nepal ci si pone il problema. Lì Stato e cittadini, almeno, hanno un contratto sociale: non chiedermi niente che tanto non ti dò niente. Siamo all’inizio dell’anno e i conti non tornano nelle economie di molti paesi. In Italia riscopriamo l’evasione fiscale, soldi che fossero entrati sarebbero finiti nelle spese illimitate dello Stato.
Sul Web da Enrico Crespi si viene a sapere che anche in Nepal si scopre che la media delle entrate fiscali è solo il 13,2% del PIL contro una media dei LICs (Low Income Countries) del 15,2%. Anche qui il problema è lo stesso, le spese dello stato sono arrivate a superare del 24% il valore del PIL e possono essere coperte solo dagli aiuti internazionali, creando dipendenza e corruzione.
Anche in Nepal (con molte più giustificazioni) come in Italia un evasione così diffusa si spiega con due ragioni: il sistema fiscale non funziona (in Italia si parla da decenni di una sua riforma); vi sono settori dell’economia (Subsistence Sector) che se pagassero le tasse non avrebbero di che mangiare: venditori di strada, portatori, negozietti vari, risciòmen, etc. Se il sistema fiscale non funziona (nel caso Italia per la massa di norme, adempienze, incongruenze) è facile corrompere funzionari, evadere IVA e tasse varie, infilarsi nelle pieghe di norme inefficienti. A Thamel nessuno dà una ricevuta e lì è il meno, basta pagare qualche migliaio di rupie al mese per allontanare i controllori, ma lo stesso avviene, con somme enormemente superori, per le industrie più grandi, banche e finanziarie. False fatture, rimborsi dell’IVA, finte esportazioni non sono solo un problema italiano ma, come riferisce un mio amico imprenditore, uno dei modi di fare business in Nepal. Limitare gli interventi solo con più controlli e controllori non sembra la soluzione neanche qui, “se i controlli aumentano,” mi dice, “sarebbe un problema perché aumenterebbero anche i costi delle bustarelle date alle maree di controllori”. In entrambi i paesi la logica indurrebbe a dire che il sistema non funziona di fronte a evasioni così imponenti. C’è da dire che i cittadini nepalesi pagano poche\niente tasse e in cambio hanno altrettanto poco dallo Stato; in Italia si sborsa (tutto incluso) quasi il 60% e si ottiene poco (e si avrà sempre meno). Per cui i nepalesi se se ne stanno calmi, gli italiani sono un po’ incazzati. Gli studi dimostrano che una tassazione equa non può superare il 35% del reddito se no si crea un disincentivo a produrre, lavorare, pagare le tasse. I nepalesi devono arrivarci, in Italia devono pensarci. Si segnala, inoltre, che un sistema fiscale inefficiente (anche se con livelli di tasse basse come il Nepal) non favorisce neanche gli investimenti esteri perché non vì è la trasparenza necessaria per investire nè le risorse necessarie a co-investire da parte dello Stato. In Asia, è il Vietnam che ha il tasso PIL|tasse più elevato (sempre la metà dell’Italia) ed è anche il paese che attrae più investitori esteri. Mentre in Italia si parla di cooperative, enti religiosi, ONLUS che hanno trattamenti fiscali privilegiati in Nepal s’inizia a discutere se tassare le oltre 34.000 NGO e 250 INGO (la grande industria dell’assistenza).
Ma nessuno sa che in Italia non c’è solo Irpef, Iva, Irap, Ires, canone Rai, bollo auto ed imposta di registro. Ci sono miriadi di altri balzelli.
Dalla tassa sui gradini e ballatoi a quella sull'ombra che invade il suolo pubblico, fino alle tasse macabre su tumuli e lumini. «È ora di affrontare il nodo delle paleo-tasse che sopravvivono alla loro stessa assurdità», ha detto il presidente di Confesercenti, Marco Venturi, presentando a Roma «Balzelli d'Italia: le 100 trappole per imprese e famiglie». Una pletora di imposte che non risparmia quasi nulla: dalla tassa sull'Abissinia, a quella sulla benzina, ma anche casi più assurdi come la tassa sulla raccolta dei funghi, sulle suppliche, alla gabella sugli sposi per celebrare matrimoni nei comuni. «Siamo il terzo paese Ocse per imposizioni fiscale, ma continuando di questo passo diventeremo presto il primo» ha aggiunto Venturi, che chiede al governo di ridurre la pressione fiscale «dal 43,5% al 39,5% nell'arco di quattro anni».
Sulle Pmi una zavorra di ben 694 adempimenti. Chiaro anche il giudizio sul federalismo: «Con l'adozione della tassa di soggiorno e un'Iva per il turismo in vigore più alta dei nostri concorrenti è come dire ai turisti italiani e stranieri: statevene a casa vostra». Venturi punta il dito soprattutto sull'invasiva e opprimente burocrazia fiscale. Un vero e proprio stillicidio di adempimenti che per il 2011 si traduce «in 694 scadenze con costi aggiuntivi per le pmi e un tempo sottratto alla gestione d'impresa pari a ben 285 ore lavoro. Ben 60 in più della media europea». Le altre tasse "surreali" . Scorrendo ancora tra le pieghe dello studio, spicca tra l'altro l'esistenza della tassa sull'esposizione della bandiera tricolore e le imposte cosiddette "spietate". Vale a dire, le tasse che «magari all'insaputa del legislatore, colpiscono chi è già in difficoltà», come disoccupati, invalidi, studenti fuorisede, famiglie numerose e sfrattati. Ci sono poi le imposte "burocratiche", cioè prelievi che riguardano funzioni pubbliche, già finanziate per altra via con la fiscalità generale, che vengono imposte a chiunque voglia adire a tali servizi, dalla giustizia al catasto. Per arrivare poi al fisco "lunare": ogni anno in Italia si deve fare i conti con 62.500 norme tributarie. Una curiosità, infine: a non essere risparmiate dalle imposte sono anche le invenzioni. Ogni brevetto per invenzione industriale infatti è soggetto a tre tasse diverse: per la domanda, per il mantenimento in vigore del brevetto, per la pubblicazione a stampa della descrizione e dei disegni. Insomma: in Italia pure Archimede Pitagorico non avrebbe vita facile!
PIENI DI TASSE STUPIDE.
Un Paese strangolato dai tributi. Le amministrazioni per far cassa inventano imposte: dai gradini al tricolore ecco lo stupidario delle tasse. Anche i ricorsi sono tassati. E si pagano ancora le bonifiche compiute oltre 50 anni fa. L’elenco stilato da Paolo Bracalini su “Il Giornale”.
Cambiare la vita degli italiani, o almeno le tasse che gliela complicano? Mille balzelli e tributi che raggiungono ogni pertugio dell’esistenza, ogni piega del mondo reale per poter aspirare nuovo gettito (quattrini) e alimentare la bulimica macchina statale italiana. In cambio: sprechi, disservizi, malagiustizia, malasanità, malamministrazione, insicurezza, inquinamento, ecc. L’elenco è lungo e non tende a diminuire con gli anni. Lavoro duro se si pensa che sono serviti 70 anni per abolire la tassa sullo zucchero e sul caffè, considerati beni di lusso, 30 anni per togliere quella sulle banane (nel 1994), considerate uno sfizio da ricchi e dunque tassate più di mele e pere. Ma le altre tasse assurde restano, eccome se restano. Una per tutte: la tassa sull’ombra, balzello antico ma sempre in vigore, in base al quale se la tenda di un locale invade il marciapiede, il negoziante deve pagare l’imposta per occupazione di suolo pubblico (con lo stesso principio sono stati tassati i balconi fino al ’ 94). Tra i cimeli che paghiamo c’è pure la tassa sulle paludi, che nel frattempo non ci sono più.
La tassa però sì, sopravvive dal 1904 (un regio decreto) a oggi, come contributo per la bonifica delle paludi diventate terre coltivabili. Anche se è successo 50 anni fa? Sì, due recenti sentenze della Cassazione hanno chiarito che la tassa è dovuta nel caso in cui le opere di bonifica abbiano determinato un effettivo incremento di valore dell’immobile. Ma c’è anche la tassa sui gradini, riesumata da molti Comuni per far cassa, colpendo i proprietari di case che hanno i gradini d’ingresso sulla strada. Stesso discorso per i ballatoi, se invadono il suolo pubblico si paga. Vuoi andare per funghi? C’è la tassa,un’imposta di bollo sui permessi di raccolta di porcini e chiodini. Ti piace cacciare? Pescare? Pagati la concessione governativa per usare il fucile o la canna da pesca (rispettivamente euro 115 e 173,16), ma solo dopo aver pagato una tassa regionale sulla licenza stessa. Se si ritiene di essere tassati ingiustamente si può far ricorso contro la pubblica amministrazione, valutando bene la cosa, perché il ricorso contro una tassa è tassato a sua volta: istanze, petizioni, ricorsi, e relative memorie sono tutte soggette a imposta. Non manca la tassa sul bestiame, come nel Medioevo,sulla base di complicati coefficienti approvati dal ministero dell’Economia insieme a quello delle Politiche agricole, che individua le specie di animali rientranti nel sistema forfettario di determinazione del reddito. Bisogna pagare una tassa anche per poter uscire di casa, perché che altro è l’imposta sui passi carrai (introdotta nel 1997) che i proprietari di casa sono obbligati a versare ad Anas, Comuni e Province? Al fine della paleoimposta sono considerati passi carrabili «i manufatti costituiti da listoni di pietra o altro materiale o da appositi intervalli lasciati nei marciapiedi o, comunque, da una modifica del piano stradale intesa a facilitare l’accesso dei veicoli alla proprietà privata». Lo Stato però viene incontro al tartassato, concedendogli di non pagare ogni anno la tassa sul passo carrabile, a fronte di un modesto esborso: venti annualità di tassa una tantum. Una legge ancora in vigore permette agli enti locali di applicare una tassa sui cani, con importi che variano dai 20 ai 50 euro per ogni cane di proprietà a seconda della taglia. Gatti e canarini non sono tassabili, per ora. Anche il patriottismo può essere tassato. È capitato in un Comune del Nord, dove il proprietario di un albergo si è visto recapitare una cartella di pagamento per aver esposto sul balcone dell’hotel il tricolore italiano e la bandiera blu dell’Unione europea. Nemmeno da morti si è al sicuro dal fisco. In qualche Comune è stata rispolverata la tassa sui tumuli, sotto forma di imposta per la manutenzione dei cimiteri. Non basta. Se uno muore, va pagata una tassa per il rilascio del certificato di constatazione di decesso rilasciato dall’ufficiale sanitario dell’Asl, 35 euro più uno di bollettino postale. Si decide per la cremazione? Scatta l’imposta di bollo sia sulla domanda di affido personale delle ceneri che sul relativo provvedimento di autorizzazione. Inoltre c’è l’imposta di bollo sia sulla domanda di dispersione delle ceneri che sul relativo provvedimento di autorizzazione. Esiste anche un «diritto fisso » sul decreto di trasporto dei defunti (58 euro più due o tre marche da bollo da 14,62 euro) che chiedono i Comuni in cui è avvenuto il decesso. Senza parlare poi delle guerre di Abissinia e dei terremoti di vent’anni fa che ancora paghiamo nelle accise sulla benzina più cara d’Europa. «Ogni anno in Italia secondo alcune stime sono emanate oltre 60mila nuove disposizioni tributarie - spiega Confesercenti - il fisco italiano cambia le regole del gioco più volte nel corso dello stesso esercizio finanziario mettendo in seria difficoltà coloro che vogliono adempiere agli obblighi fiscali. I soli adempimenti tributari costano 18,3 miliardi all’anno ad artigiani, liberi professionisti e pmi». In Italia si paga una «tassa occulta» (cioè di pura burocrazia) annuale di circa 5mila euro all’anno,contro i 1.320 dei francesi, i 1.290 dei britannici, i 1.210 dei tedeschi, i 1.180 degli spagnoli. In effetti sì, si può cambiare la vita degli italiani.
Ci sono tasse che non muoiono mai e come le più antiche tradizioni, si tramandano di generazione in generazione. Gabelle così vecchie che Confesercenti le ha nominate Paleo tasse e costituiscono il primo capitolo dei Balzelli d’Italia. Un esempio su tutte? La tassa istituita addirittura nel 1904 che prevede un contributo per la bonifica delle paludi. Anche senza zone paludose l’imposta resiste per alcuni cittadini: due sentenze della Corte di Cassazione hanno stabilito che la tassa è dovuta solo nel caso in cui le opere di bonifica abbiano determinato un effettivo incremento di valore dell'immobile. Intanto, mentre si cerca di provare il contrario, si continua a pagare.
Esemplare è l’elenco fatto da “Business People”
CAPITOLO 1 – LE PALEO TASSE
1. La tassa sui gradini. Un tempo si pagava assieme ai ballatoi dei palazzi. E' tornata di moda vista l'esigenza dei comuni di finanziare il servizio di pulizia delle strade; a doverla pagare tutti i proprietari di case che hanno i gradini d'ingresso sulla pubblica via.
2. La tassa sull'ombra. Se con la sporgenza della tenda di un locale, il proprietario "invade" il suolo pubblico deve pagare l'imposta per occupazione di suolo pubblico.
3. La tassa sui ballatoi. Riesumata dal Comune di Agrigento nel 2008, va pagata dai condomini che abbiano ballatoi prospicienti sulla pubblica strada.
4. L’imposta sulle immagini. Sconosciuta negli altri paesi evoluti, l'imposta di pubblicità riguarda tutti i mezzi pubblicitari affissi per la pubblica via. L’imposta si applica sulla pubblicità esterna ed a quella diretta, vale a dire ogni forma di pubblicità diversa da quella editoriale, radiofonica e televisiva.
5. La tassa sulle paludi. Nasce nel 1904 da un regio decreto che prevedeva il pagamento di un contributo per la bonifica delle paludi che diventavano terre coltivabili. Quando però negli anni 60 gran parte delle terre furono abbandonate e sulle ex paludi furono costruite città, i proprietari che andavano ad abitare le case cominciarono a ricevere cartelle esattoriali con una strana tassa: il contributo di bonifica, che pagano molti milioni di italiani. Sono sorte da allora molte liti giudiziarie, e due sentenze della Corte di Cassazione (n. 8957/96 e 8960/96) hanno stabilito che la tassa è dovuta soltanto nel caso in cui le opere di bonifica abbiano determinato un effettivo incremento di valore dell'immobile, con un beneficio diretto e specifico, che, in caso di contestazione, deve essere provato dal Consorzio di bonifica. Intanto si continua a pagare.
6. Tassa sulla raccolta dei funghi. Anche sui permessi di raccolta di funghi scatta la famigerata imposta di bollo.
7. Imposta su caccia e pesca. Prevede il pagamento di una tassa di Concessione Governativa non solo la licenza di porto di pistola per difesa personale ma anche il porto di fucile uso caccia e la licenza di pesca. Ad oggi, l'importo è pari, rispettivamente, ad Euro 115 e 173,16. Per il rilascio della licenza di caccia, inoltre, va corrisposta anche una tassa regionale, che varia da regione a regione.
8. Imposta sui cani. Alcuni Enti locali hanno o sono in procinto di istituire nuovamente la tassa sul possesso dei cani introdotta dal Regio decreto n. 1393 del 1918 reso poi obbligatorio definitivamente nel 1931. La tassa consiste nel pagamento di un corrispettivo annuale per il possesso di ogni singolo cane custodito. Gli importi? Variano dai 20 euro ai 50 euro per ogni cane di proprietà a seconda della taglia.
9. La tassa di passaggio. Il Comune di Milano ed altri hanno introdotto un Ecopass a pagamento avente come fine principale la riduzione dell’inquinamento atmosferico.
10. La tassa sulle suppliche. Sono soggetti ad imposta le istanze, petizioni, ricorsi, e relative memorie diretti agli uffici dell’amministrazione dello Stato tendenti ad ottenere l’emanazione di un provvedimento.
11. L'imposta sui forestieri. È stata reintrodotta di recente una tassa di soggiorno, differenziata per classificazione alberghiera. Ed ora anche il federalismo fiscale sembra non poterne fare a meno.
12. Tassa sul bestiame. Il reddito agrario per l'azienda agricola che produce almeno un quarto delle unità foraggiere destinate ad alimentare gli animali allevati è possibile la determinazione di un reddito forfetizzato, se il terreno risulta insufficiente, utilizzando determinati coefficienti approvati del ministero dell'economia e delle finanze, di concerto con quello delle politiche agricole, che individua le specie di animali rientranti nel sistema forfetario di determinazione del reddito.
13. La gabella sugli sposi (ius primae gabellae). Introdotta da alcuni enti locali consiste nel pagamento di un corrispettivo a prezzo unico per poter celebrare il matrimonio in Comune. A Roma, ad esempio, costa € 200 sposarsi in Campidoglio nel week-end ed € 150 nei giorni feriali per tutti coloro che non risiedono nella Capitale. Era, addirittura stata prevista una delibera con la quale si prevedeva il pagamento anche per i residenti per il corrispettivo di € 100 (proposta poi ritirata).
Da stime fatte, il gettito non è niente male: il Comune di Sorrento ad esempio incassa qualcosa come 6 milioni di euro all’anno.
14. L'imposta sull'uscita di casa. E' la tassa sui passi carrai che ricorda le imposte medievali ma nasce nel 1997: in legge finanziaria il Governo diminuì i fondi all’Anas consentendogli però al contempo di "rifarsi" sui cittadini. La medesima normativa prevedeva che il secondo anno la tassa potesse essere incrementata del 150% lasciando poi libero arbitrio negli anni successivi. Ed è così che si è giunti addirittura a casi di aumenti dell’8000%. All'Anas si sono aggiunti i comuni e le province, per le rispettive strade. Al fine della paleo-imposta sono considerati passi carrabili i manufatti costituiti da listoni di pietra od altro materiale o da appositi intervalli lasciati nei marciapiedi o, comunque, da una modifica del piano stradale intesa a facilitare l'accesso dei veicoli alla proprietà privata (art.44, e. 4, D.Lgs. n. 507/1993). Per le strade private aperte al pubblico transito l'autorizzazione è concessa dal Comune. La superficie tassabile dei passi carrai si determina moltiplicando la larghezza del passo, misurata sulla fronte dell'edificio o del terreno al quale si dà accesso, per la profondità di un metro lineare "convenzionale". La tassa relativa ai passi carrai può essere definitivamente assolta mediante il versamento, in qualsiasi momento, di una somma pari a venti annualità del tributo.
15. La tassa sulle cabine telefoniche. E' il canone comunale dovuto sulle cabine telefoniche e sulle cabine elettriche dai relativi gestori. Il libero mercato non è un diritto, ma una tassa. Sapevate che fra le voci ‘occulte’ che compaiono nella bolletta ci sono anche i costi definiti “irrecuperabili” dell’Enel per la liberazione del mercato? In pratica i cittadini pagano per avere un mercato concorrenziale nel settore elettrico. Questo è solo uno dei balzelli che compaiono nel secondo capitolo dei Balzelli d’Italia dedicato a gas e luce. Dopo le paleo tasse, è il momento di parlare di quelle imposte sull’energia: quelle che non ci vengono spiegate, ma si pagano. Buona lettura!
CAPITOLO 2 - QUEL TESORO IN BOLLETTA
1. Misteriosa efficienza. Nella bolletta elettrica c’è una misteriosa voce denominata Ef-En, e finalizzata all’uso efficiente dell’energia: gettito 45 milioni di euro all’anno, che vengono versate dai gestori allo Stato. Altro che efficienza energetica! La tassa serve solo a procurare altri quattrini all'Erario!
2. La tassa sul mercato elettrico. Una delle numerose voci occulte della bolletta serve per compensare i costi cosiddetti “irrecuperabili” dell’Enel a causa della liberalizzazione del mercato. Come dire, i cittadini devono pagare dei soldi per avere un mercato nel settore elettrico. E il vantaggio del mercato dove sta? “Irrecuperabili” sembrano solo i quattrini versati sulle bollette.
3. Un contatore pieno di… tasse. Miracoli del fisco: pensate, un metro cubo di gas naturale ha un costo estrattivo di 2 centesimi; al confine italiano il prezzo sale a 20 centesimi; al consumatore finale costa 65 centesimi. Come si spiega? La tariffa media nazionale riferita al gas, ha la seguente composizione: materia prima (gas) 32%; costo delle infrastrutture 17%, 8 % per la commercializzazione, e 43% per le imposte. Il costo finale del gas per il consumatore in Italia è così superiore del 25% rispetto alla media europea. Ma anche i consumi elettrici sono un ottimo affare per il Fisco: le relative imposte assicurano ogni anno 9 miliardi di euro. Il costo del Kw per un utente italiano è circa doppio rispetto alla Francia e addirittura triplo rispetto a paesi come la Svezia.
Non basta: c'è anche una imposta mascherata sulla bolletta dell’elettricità, c’è una voce, Cip 6, che serve alla promozione delle fonti rinnovabili ma anche delle cosiddette “assimilate”, cioè fonti non rinnovabili camuffate come la bruciatura dei cascami del petrolio o l’energia derivata da spazzatura. Con questo trucco si stima che negli ultimi 20 anni i produttori di fonti assimilate abbiamo ricevuto contributi per circa 30 miliardi di euro pagati da tutti sulle bollette (costo, almeno 800 euro all'anno a famiglia).
4. La tassa sulla farina animale. Come fare ad eliminare 380.000 tonnellate di farine animali, pagarle ai produttori e far gravare tutto sui consumatori? Semplice: in Italia per sostenere le energie verdi si emettono i cosiddetti certificati verdi, il cui costo va direttamente sulle bollette elettriche. Così negli ultimi anni sono stati concessi alle aziende certificati verdi per la loro “valorizzazione energetica” ovvero bruciarle. Si è così riconosciuto come energia verde la produzione di energia imputabile alle farine animali. In pratica lo smaltimento (un costo per i produttori) è stato trasformato in ricavo e pagato dai consumatori. Alla faccia dell’amor di patria. Chi espone la bandiera dello Stato italiano rischia di dover pagare la tassa sulla pubblicità. La norma deriva da un’interpretazione del decreto legislativo n. 507 del 1993 che regola l'imposta sulla pubblicità e il canone sull'occupazione del suolo pubblico. Ma c’è di più, l'imposta potrebbe essere anche moltiplicata per due perché, come noto, le bandiere tendono a sventolare, e di conseguenza hanno due lati visibili. A dir la verità questa tassa patriottica, terzo capitolo del nostro appuntamento sui Balzelli d’Italia, deriva da un’interpretazione un po’ troppo ‘fiscale’ (è il caso di dirlo) della legge. Ma andate a dirlo alla famiglia Caslini, proprietaria di un albergo a Desio che, per quattro anni, ha pagato le tasse sulle bandiere poste fuori dall’Hotel…
CAPITOLO 3 - TASSE PATRIOTTICHE
Tassa sul tricolore. Chi espone la bandiera dello Stato italiano rischia di dover pagare la tassa sulla pubblicità. A Desio il titolare di un albergo ha deciso di esporre davanti all'ingresso il vessillo nazionale e la bandiera blu dell’Unione Europea. La concessionaria che si occupa di riscuotere la tassa per conto dell’amministrazione comunale ha richiesto per il tricolore 140 euro di imposta. Per le due bandiere l’importo annuale richiesto è stato di 280 euro. Nonostante la marcia indietro del comune, dopo la diffusione della notizia, il problema interpretativo resta, come la fame di quattrini dei comuni. Come promesso, trattiamo le tasse esoteriche. No, per pagarle non serve nessuna seduta spiritica, si tratta solo di una serie di imposte segnalate da Confesercenti nel suo rapporto Balzelli d’Italia. Tasse misteriose, su fatti immateriali che siamo costretti a pagare quando acquistiamo un prodotto come un cellulare, un computer o quando acquistiamo un biglietto del cinema. Un esempio? L’equo compenso, una somma che i produttori di beni tecnologici devono versare a Siae, a "compenso" della copia privata. Cioè del fatto che l'utente può usare quelle tecnologie per fare un (legittima) copia personale di cd e film acquistati. Ma le tasse esoteriche non si fermano qui e colpiscono anche l’aria ed arrivano a chiedere soldi anche per cose che non ci sono, come le centrali nucleari. Leggere per credere.
CAPITOLO 4 - TASSE ESOTERICHE
1. La tassa
sulla memoria. In
realtà è la riedizione potenziata del cosiddetto ‘equo compenso’, dovuto alla
Siae, che grava su vari dispositivi che forniscono tecnologie per copiare ad uso
privato CD e DVD musicali e cinematografici, coperti dai diritti d’autore.
Dapprima basata sui supporti di memorizzazione ed i masterizzatori (gettito 70
milioni di euro), dal 2010 è diventato un prelievo molto rilevante (gettito di
ben 300 milioni all'anno) con l'ampliamento della base imponibile a qualsiasi
dispositivo di memorizzazione, dai cellulari, agli smartphone, ai computer.
Perciò telefonini, computer, hard disk esterni, pen drive e similari sono
assoggettati alla nuova tassa, in quanto su di essi potrebbe essere registrato
qualcosa coperto da diritto d’autore.
2. La tassa sulla voce. La tassa sui telefonini cellulari ammonta per i
contratti ad uso privato ad Euro 5.16, mentre per i contratti ad uso affari
l'importo è di Euro 12,91. Non tutte le voci sono però uguali. Ce ne sono di
autorevoli: sono esentate dalla gabella le amministrazioni statali che – recita
una circolare interpretativa - "in quanto titolari di ogni diritto o facoltà"
(sic!) non necessitano di apposite autorizzazioni. Diverso il discorso per
finanzieri ed agenzie fiscali, che sono esentati dal versamento dell'imposta a
seguito di espressa previsione normativa (Finanziaria 2007).
3. Centrali fantasma. In bolletta elettrica i consumatori pagano un fondo per un premio ai Comuni che ospitano centrali nucleari. Paghiamo un euro ogni 5000 kwh. Di certo non ci saranno centrali almeno per i prossimi 10 anni, ma intanto la bolletta continua ad addebitare questo costo.
4. L'imposta sugli spiriti. L’imposta sugli spiriti è un’accisa che colpisce due categorie di merci: gli spiriti ottenuti da materie amidacee e zuccherine; gli spiriti ottenuti dalla distillazione del vino, delle vinacce, dei cascami della vinificazione e della frutta. I primi sono considerati spiriti di prima categoria sui quali si applicano delle tariffe più alte rispetto ai secondi, detti di spiriti di seconda categoria.
5. Tassa sull'aria. Tra le molteplici imposte di fabbricazione, c'è quella sul “gas di petrolio liquefatto anche miscelato ad aria” e sul metano “miscelato ad aria”. La miscela serve a rendere più facilmente combustibili petrolio e metano. Ma la tassa aggiuntiva a cosa serve? A tassare l'aria.
6. La tassa sul divertimento. Vige attualmente una imposta (diritto erariale sui pubblici spettacoli) su tutti gli spettacoli, sia teatrali, che cinematografici. E le feste private in luogo pubblico? Pagano anch’esse. Tasse e burocrazia, un binomio temuto dalla maggior parte degli italiani. Dopo aver affrontato le tasse esoteriche, incontriamo le tasse burocratiche: balzelli forse più conosciuti e ‘accettati’, ma non per questo meno fastidiosi. Si va dalle spese per ottenere dei certificati alle tasse sulla didattica (ebbene sì, per il diritto all’istruzione non pagano solo gli studenti, ma anche gli insegnanti). Ci sono poi le spese per sostenere un ricorso in tribunale che vanno da 33 a 1221 euro.
Questa legge è uguale per tutti: per il diritto alla giustizia bisogna pagare…
CAPITOLO 5 - LE TASSE BUROCRATICHE
1. La tassa sui certificati. sono tassati i certificati, copie ed estratti delle risultanze e degli elaborati catastali ottenuti dalle banche dati informatizzate degli uffici dell’Agenzia del territorio, nonché le attestazioni di conformità.
2. La tassa catastale. Rivolgersi al catasto costa caro. Le volture catastali per atti di compravendita, donazione, successione sono soggette alla imposta catastale. Sono obbligati al pagamento dell'imposta catastale coloro che richiedono le formalità e i pubblici ufficiali obbligati al pagamento dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni e donazioni, relativamente agli atti ai quali si riferisce la formalità. Sono inoltre solidalmente tenuti al pagamento delle imposte tutti coloro nel cui interesse è stata richiesta la formalità e, nel caso di iscrizioni e rinnovazioni, anche i debitori contro i quali è stata iscritta o rinnovata l'ipoteca.
3. La tassa sulla giustizia. Ecco quanto si paga per fare ricorso ai tribunali: euro 33 per i processi di valore fino a euro 1100; euro 77 per i processi di valore superiore ad euro 1100 e fino ad euro 5200 e per i processi di volontaria giurisdizione, nonché per i processi speciali di cui al libro IV, titolo II, capo VI, del codice di procedura civile; euro 187 per i processi di valore superiore ad euro 5200 e fino ad euro 26mila e per i processi contenziosi di valore indeterminabile di competenza esclusiva del giudice di pace; euro 374 per i processi di valore superiore ad euro 26mila e fino ad euro 52mila e per i processi civili ed amministrativi di valore indeterminabile; euro 550 per i processi di valore superiore ad euro 52mila e fino ad euro 260mila; euro 880 per i processi di valore superiore ad euro 260mila e fino ad euro 520mila; euro 1221 per i processi di valore superiore ad euro 520mila. Per i processi esecutivi mobiliari di valore inferiore a 2500 euro il contributo dovuto è pari ad euro 30. Per i processi di opposizione ad atti esecutivi il contributo dovuto è pari ad euro 132.
4. La tassa sulle autorizzazioni. Si chiama “canone ricognitorio” ed è una tassa che colpisce tutti coloro che sono in possesso di un'autorizzazione o di una concessione, rilasciata dal Comune, per l'occupazione di suolo pubblico, ad esempio le occupazioni dei cantieri edili o degli esercizi commerciali (tavoli e sedie), le infissioni dei pozzi. Si chiama “ricognitorio” perché rappresenta la somma dovuta come riconoscimento del diritto di proprietà del Comune sul bene oggetto della concessione, ma di fatto è una tassa perché si ripete ogni anno.
5. La tassa sulle pratiche edilizie. Sono dovuti i cosiddetti diritti di segreteria (una tassa) sul permesso di costruire, accertamento di conformità e D.I.A. relative ad interventi di nuova edificazione, ampliamento, ristrutturazione urbanistica e sostituzione edilizia di fabbricati. Autorizzazione temporanea autorizzazione paesaggistica, idrogeologica, programma aziendale, etc., quando costituiscono autonomo procedimento, e relative proroghe.
6. Tassa sulle
pubbliche affissioni.
Si chiama “diritto sulle pubbliche affissioni” e riguarda le affissioni eseguite
dal Comune nel proprio ambito territoriale, negli appositi spazi riservati.
7. Tasse sulla didattica. Oltre alle tasse universitarie, ci sono la
tasse sul pubblico insegnamento e le tasse locali sull'abilitazione
all'insegnamento.
8. La tassa sugli sfratti. Per i processi di esecuzione immobiliare si paga un contributo dovuto è pari ad euro 220. Per gli altri processi esecutivi lo stesso importo è ridotto della metà. Ogni 60 secondi in Italia vengono inflitte 24 multe per infrazione al Codice della strada, praticamente 1427 ogni ora, applicate da un vigile che in media compila verbali per 43 mila euro l’anno. Che dire, se si commette un’infrazione è giusto pagare, ma quando il maggior numero di contravvenzioni viene comminato nella seconda parte dell’anno, si inizia a pensare che queste sanzioni servano più al bilancio del Comune che all’educazione del cittadino. Confesercenti le ha soprannominate ‘multe salva bilanci’, imposte mascherate da contravvenzioni che fruttano alle amministrazioni comunali più delle addizionali Irpef. Ma le multe non sono le uniche ‘tasse in maschera’ che presentiamo oggi: ci sono anche quelle sui consumi presunti che pesano nelle bollette di gas e luce dei cittadini dai quali aziende come Enel e Italgas possono incamerare fino a 1,2 miliardi a bimestre. Praticamente un anticipo a costo zero per l’azienda…
CAPITOLO 6 – TASSE IN MASCHERA
1. Anticipi in bolletta. Le fatturazioni delle bollette avvengono quasi sempre per "consumi presunti" in genere più alti di quelli reali. Si stimano prudenzialmente in una trentina di euro l'eccedenza a bolletta per ognuno dei 40 milioni di utenti, Enel, Italgas ed aziende municipalizzate possono incamerare 1,2 miliardi di euro a bimestre di consumi anticipati a costo zero per le aziende. Il sistema farraginoso delle correzioni mediante call center fantasma rende poi quasi impossibile la correzione delle fatture secondo i consumi reali previsti dal contatore di gas e luce, obbligando i cittadini ad anticipare consistenti somme di denaro, pena il rischio di distacco della fornitura, vero e proprio cash flow a costo zero per le casse delle aziende.
2. Multe salva bilanci. Secondo una recente indagine, alle amministrazioni comunali le sanzioni comminate in base al Codice della strada fruttano più delle addizionali Irpef. Nel 2008 sono state staccate 12,6 milioni di contravvenzioni, il che equivale a dire 1427 all'ora (ben 24 al minuto). Divieto di sosta, sorpasso vietato e semafori ignorati sono costati, in media, 76 euro a ogni italiano; mentre ogni vigile, sempre mediamente, ha compilato verbali per 43mila euro. Le contravvenzioni risultano una voce irrinunciabile per garantire l'equilibrio economico del Comune. Il meccanismo ormai consolidato si traduce in una maggiore spietatezza delle pattuglie delle forze dell'ordine quando necessario. E infatti, analizzando il flusso degli introiti per le multe nelle casse comunali, si scopre che, almeno per quanto riguarda le amministrazioni più grandi, il maggior numero di contravvenzioni viene comminato nella seconda parte dell'anno (quando l'obiettivo di bilancio da raggiungere diventa più evidente e pressante).
3. La gabella sul televisore. Il cosiddetto “canone Rai” oggi non è più un canone ma un'imposta sulla detenzione di apparecchi atti od adattabili alla ricezione di radioaudizioni, indipendente dalla reale fruizione o dalla volontà di fruire del servizio. Le entrate dello Stato derivanti da questa imposta sono devolute direttamente alla Rai. Il governo ne ha preannunciato il prossimo trasferimento nella bolletta elettrica, in quanto l'erogazione di energia elettrica presuppone l'uso di un teleschermo. Ma una tassa, richiesta ogni anno, superiore al valore commerciale del televisore che tende a zero, appare scarsamente giustificabile.
4. La tassa sui giornalisti. C'è una tassa di concessione governativa che colpisce praticanti, praticanti già pubblicisti, direttori responsabili di pubblicazioni tecniche, di professionisti già pubblicisti. Di tasse clementi e gradevoli non si può proprio parlare, ma definire le imposte addirittura spietate sembra esagerato... o no? Per Confesercenti le imposte spietate ci sono eccome e ne ha individuate dieci che pesano sulle imprese e le famiglie italiane. Si va dall’imposta regionale che gli studenti sono tenuti a pagare per il diritto allo studio universitario (ma si può tassare un diritto?), alla tassa sulla disoccupazione, la gabella necessaria per partecipare ai concorsi pubblici. E se in Italia si arrivano a tassare anche le tasse, ebbene sì: le imposte spietate esistono eccome!
CAPITOLO 7 – IMPOSTE SPIETATE
1. Tassa sulla disoccupazione. Si tratta della nota tassa per la partecipazione nei concorsi pubblici. Da un decennio si riscontra sempre più spesso nei bandi di concorsi pubblici la c.d. tassa di concorso, che in mancanza di pagamento ed esibizione di avvenuto pagamento, diventa condizione di esclusione dalla procedura concorsuale.
2. La tassa sui debiti. L'imposta ipotecaria colpisce la trascrizione, iscrizione, rinnovazione e annotazione eseguite nei pubblici registri immobiliari (le conservatorie dei registri immobiliari), a seguito di atti di compravendita, donazione, successione, iscrizioni ipotecarie e costituzione di usufrutto o altri diritti. Sono obbligati al pagamento dell'imposta ipotecaria coloro che richiedono le formalità e i pubblici ufficiali obbligati al pagamento dell'imposta di registro o dell'imposta sulle successioni e donazioni, relativamente agli atti ai quali si riferisce la formalità. Sono inoltre solidalmente tenuti al pagamento delle imposte tutti coloro nel cui interesse è stata richiesta la formalità e, nel caso di iscrizioni e rinnovazioni, anche i debitori contro i quali è stata iscritta o rinnovata l'ipoteca.
3. La tassa sullo studente. È l'imposta regionale cui lo studente universitario è tenuto per il diritto allo studio universitario.
4. La tassa sulle cambiali. Tutte le cambiali sono soggette all'imposta di bollo.
5. La tassa sugli emigranti. Le imposte su chi lavora all'estero (con i Paesi con cui non esiste un trattato per evitare le doppie imposizioni) sono analoghe alla “gabella emigrationis” cioé la tassa corrisposta da un emigrante per il capitale che portava con sé.
6. La tassa sui tartassati. Sono tassati (con 24 euro per atto) anche i ricorsi, opposizioni e altri atti difensivi presentati per via telematica alle Commissioni tributarie.
7. La tassa sui disabili. Su ogni volo aereo dell’Unione Europea si applicherà una tassa di 50 centesimi per passeggero con carrozzina a rotelle. Tuttavia il Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio per i diritti delle persone disabili o con ridotta mobilità nei viaggi aerei - EC N. 1107/2006 adottato il 5 luglio 2006 - impedisce alle compagnie di rifiutare un imbarco per motivi di disabilità o ridotta mobilità.
8. La tassa (occulta) sui carichi familiari. Aumentare il reddito anche di 1 solo euro può costare una perdita per il contribuente fino a 1.254 euro. E’ quanto succede se il reddito del coniuge o del figlio eccede, sia pure di 1 euro, il limite di 2.840,51 € oltre il quale si perde tutta in una volta la detrazione Irpef per carichi di famiglia. Ad esempio, il contribuente con un reddito di 28 mila euro, percepisce uno sconto d’imposta pari a 690 euro per il coniuge e di 564 per 1 figlio, finché sono a carico. Sconti che decadono totalmente se il familiare supera il tetto di reddito fissato dalla legge.
9. Ghigliottina fiscale. L’aliquota dell’addizionale regionale Irpef, fissata allo 0,9%, può essere aumentata fino all’1,4% da ciascuna regione. Alcune regioni lo hanno fatto utilizzando il sistema della “progressività per classi”: superato un certo reddito, l’aliquota più alta si applica all’intero reddito; con il risultato che il superamento – anche di un solo euro – di un dato livello di reddito, si traduce in un eccezionale aumento dell’imposta. In Puglia, ad esempio, per un reddito di 28 mila euro si paga lo 0,9% di addizionale regionale, ossia 252 euro. Con un reddito di 28001 si è tassati con l’aliquota dell’1,4%, pagando 392 euro. Insomma, a 1 euro in più di reddito, corrispondono 140 euro in più di addizionale regionale, con un aumento pari al 139%!
10. La tassa sulle imposte. Ma si possono tassare le tasse? In Italia, sì. Un barlume di speranza l'aveva dato con la sentenza n. 238/09 la Corte Costituzionale, circa il diritto al rimborso dell’IVA pagata sulla tassa rifiuti in quanto sia la T.A.R.S.U (tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani) sia la T.I.A. (tariffa igiene ambientale): rappresentando una tassa alle stesse non può essere applicata l’I.V.A. (imposta sul valore aggiunto). La sentenza si basa sulla normativa comunitaria (art. 13 paragrafo 1, periodo della Direttiva n. 2006/112/ce Consiglio del 28 novembre 2006 e Sentenza Corte di Giustizia C.E, del 16 settembre 2008 causa C-288/07). Ma nel decreto legge 78/10 convertito nella Legge 122/10 è stata introdotta una disposizione secondo cui la T.I.A. ha una connotazione tariffaria e non tributaria con conseguente pagamento dell’Iva. Secondo stime, sono oltre 16,9 milioni gli italiani interessati alla Tariffa di igiene ambientale, pari al 28,6% dell’intera popolazione. E 1,3 miliardi di euro è l’ammontare dell’Iva fatturata in bolletta. Per lo Stato non si è morti finché non c’è un certificato che lo dimostra. Come ottenerlo? Il parente di turno deve recarsi in un ufficio sanitario Asl e farsi rilasciare il certificato di constatazione di decesso. Il tutto alla modica cifra di 35 euro. Ebbene sì, anche da morti bisogna pagare le tasse. E così, se il trapassato di turno non vorrà pesare troppo sui suoi cari, dovrà mettere da parte circa 200-300 euro tra marche da bollo, spese di illuminazione e autorizzazioni varie. Stiamo parlando di quelle tasse che non si fermano neanche davanti alla morte e che Confesercenti riunisce in un unico capitolo del rapporto Balzelli d’Italia. Signori e signore, a voi le tasse macabre:
CAPITOLO 8 - TASSE MACABRE
Quando anche la morte non viene risparmiata.
1. L'imposta sui tumuli. Il Comune di Torre del Greco ha rispolverato una tassa per la manutenzione dei cimiteri. Percossi (è il caso di dire) i parenti dei cari estinti.
2. La tassa sul morto. Non basta. Se uno muore, va pagata una tassa per il rilascio del certificato di constatazione di decesso rilasciato dall'ufficiale sanitario dell'Asl, 35 euro più un euro di bollettino postale.
3. La tassa sulla dispersione delle ceneri. Scatta l'imposta di bollo sia sulla domanda di affido personale delle ceneri che sul relativo provvedimento di autorizzazione. Inoltre c'è l'imposta di bollo sia sulla domanda di dispersione delle ceneri che sul relativo provvedimento di autorizzazione. In tutto circa 100 euro.
4. La tassa sul feretro. Esiste un “diritto fisso” sul decreto di trasporto dei defunti (58 euro più due o tre marche da bollo da 14,62 euro) che chiedono i comuni in cui è avvenuto il decesso.
5. Manomorta sui lumini. Si tratta del cosiddetto business dell'elettroilluminazione votiva. Il costo effettivo dell'illuminazione di un lumino, trattandosi di una lampadina in bassa tensione, anche considerando la sua sostituzione periodica, è inferiore ad un euro. Ogni anno in media vengono emanate 60mila nuove disposizioni tributarie, una vera e propria alluvione fiscale che ‘prosciuga’ i portafogli. La normativa fiscale in Italia nell'ultimo anno è cresciuta più del doppio rispetto agli altri Paesi europei e Confesercenti calcola che i soli adempimenti tributari costano 18,3 miliardi all'anno ai titolari di partita Iva. Per non parlare del modello di Istruzioni per la dichiarazione Irpef che nel ’93 Oscar Luigi Scalfaro (allora presidente della Repubblica,) aveva definito “lunare”.
Allora il modello contava 31 pagine, 45.178 parole e 217.743 caratteri. La situazione oggi è cambiata… in peggio: le pagine sono diventate 126, le parole 149.369, e i caratteri 772.062. Allora eccolo qui, il fisco “lunare”, capitolo 9 del nostro viaggio nei Balzelli d’Italia: nove paragrafi per un fisco che non sta né in cielo né in terra.
CAPITOLO 9 - IL FISCO “LUNARE”
Per un fisco che non sta né in cielo né in terra
1. Alluvione fiscale. Ogni anno in Italia secondo alcune stime sono emanate oltre 60.000 nuove disposizioni tributarie. Il fisco italiano cambia le regole del gioco più volte nel corso dello stesso esercizio finanziario mettendo in seria difficoltà coloro che vogliono adempiere agli obblighi fiscali. La normativa fiscale in Italia nell'ultimo anno è cresciuta più del doppio rispetto agli altri Paesi europei. I soli adempimenti tributari costano 18,3 miliardi all'anno ai contribuenti titolari di partita Iva (artigiani, liberi professionisti e le pmi). Ogni operatore italiano per esercitare una attività economica ha pagato una "tassa occulta", nel 2009, di 4.945 euro all'anno, contro i 1.320 dei francesi, i 1.290 dei britannici, i 1.210 dei tedeschi, i 1.180 degli spagnoli, i 1.080 degli olandesi ed gli 850 degli svedesi.
2. La mora ingiusta. Quando rimborsa, il Fisco applica interessi inferiori rispetto a quanto richiede dal contribuente in caso di accertamento o iscrizione a ruolo. Una situazione che può comportare eccezioni di incostituzionalità, poiché il pagamento degli interessi di mora deve avere la stessa misura: si tratta, infatti, di un elemento finanziario che prescinde dall'aspetto sanzionatorio, per il quale il fisco richiede ulteriori e più gravose somme.
3. Rapace riscossione. Il nuovo sistema della riscossione appare vessatorio e rapace. Infatti il Dl 78/2010, consentendo all'ente impositore di attivare un'azione diretta di aggressione sui beni e sulle cose del debitore (di tutti i debitori, non solo di quelli "a rischio") già dal 31° giorno seguente alla scadenza del termine per la notifica del ricorso, si mostra lontana dalla realtà operativa dove sovente le richieste di sospensiva sono discusse a distanza di tempo dal deposito del ricorso, e perciò obbligherà anche i contribuenti "virtuosi", vale a dire quelli le cui doglianze saranno accolte dai giudici di prime cure (ora circa la metà), ad anticipare le somme in base all'articolo 15 del Dpr 602/73 (50% delle maggiori imposte, contributi, oltre agli interessi), salvo poi cercare di ottenerne il rimborso.
4. Accertamenti a raffica. Ormai si sviluppano accertamenti a raffica e di adesioni poco convinte e vince la standardizzazione: lo sconto è del 20%, più o meno per tutti, prendere o lasciare. E quasi sempre il contribuente finisce per accettare, pur di evitare le perdite di tempo e di energie necessarie per affrontare un contenzioso che costringerebbe comunque, in un caso su due stando agli ultimi dati diffusi sulle sospensioni cautelari, ad anticipare il 50% degli importi a favore dell'Erario.
5. Perdite di tempo. Il fisco lumaca non accelera in periferia, anzi. La recente riforma dell'Amministrazione, che ha previsto l'accentramento delle attività di controllo su base provinciale secondo molti sarebbe servita solo a complicare l'attività di chi opera in periferia. Si sprecano le proteste per le perdite di tempo che potrebbero essere agevolmente evitate: se funzionasse il call center, per esempio. Se si riducessero le formalità che dilatano le attese per «deposito di documenti, notifica ricorsi, rispose a questionari ecc.»; anche riscuotere un credito con l'Erario, lamentano alcuni professionisti, può diventare difficoltoso. Per non parlare dei tempi necessari per avere un appuntamento: possono arrivare a sfiorare anche i 30 giorni.
6. 4 alla burocrazia fiscale. E’ crescente l’insofferenza verso le inefficienze della burocrazia fiscale. L’ultimo rapporto annuale PromoPa sulle piccole imprese e la burocrazia rileva un voto di gradimento (si fa per dire) di “4”. Qualche esempio degli impegni più detestati? Gli adempimenti “black list” (relativi ai rapporti con i cosiddetti paradisi fiscali), che fanno perdere molto tempo. A ruota, tra gli adempimenti più “sgraditi”, seguono gli obblighi sui servizi Intrastat e dulcis in fundo le complicazioni dell’Irap (che si paga anche quando si è... in perdita).
7. Gioco dell'oca. Il fisco in Italia funziona con l'onere della prova a carico dell'accusato. È cioè l'indagato che deve – a tutti i costi e al contrario di quanto accade negli altri paesi – dimostrare di essere innocente. Equitalia (la società pubblica al 51% della stessa Agenzia delle Entrate) prima incassa, ma poi – dovendo restituire le somme - non paga. Sui giornali si riporta il caso di un imprenditore che ha presentato nove istanze all'Agenzia delle Entrate. “Ogni volta ci dicono che siamo in regola, ma non possono certificare nulla. Quindi, come nel gioco dell'oca, ritorniamo ogni volta alla casella iniziale. Alla fine perdo la pazienza e faccio scendere in campo l'avvocato. Per farla breve ho buttato via un sacco di tempo, ho speso una valanga di quattrini e solo dopo un paio d'anni sono riuscito a portare a casa quello che mi aspettava”.
8. Condoni malfidati. Molti contribuenti, pur avendo fatto ricorso al condono Iva del 2003 e avendone pagato regolarmente il conto, vedono ora l'agenzia delle Entrate, la Guardia di finanza e talvolta le commissioni tributarie disapplicare la vecchia sanatoria. Il condono non vale più! I motivi? La Corte di giustizia Ue ha stabilito, tempo fa, che il condono Iva è incompatibile con il diritto comunitario (e quindi non produce gli effetti desiderati) e, per di più, nel 2006 sono stati raddoppiati i termini per gli accertamenti, in presenza di comportamenti che configurino potenzialmente violazioni di tipo penale. Quanto basta per indurre molti uffici dell'amministrazione a riaprire vecchi e polverosi faldoni (siamo agli anni di imposta 2001-2002) a caccia di un po' di gettito aggiuntivo per dare ancor più smalto alle statistiche sulla lotta all'evasione.
9. Dal “740 lunare” all’”Unico stratosferico”. Era la primavera 1993 quando l’allora Presidente della Repubblica definì “lunare” il modello di Istruzioni per la dichiarazione Irpef che nella sua versione “base”, contava 31 pagine, 45.178 parole e 217.743 caratteri. La situazione è oggi cambiata? Sì, ma in peggio: le pagine sono diventate 126, le parole 149.369, e i caratteri 772.062.
Le tasse si muovono con te. Gli automobilisti italiani sono tartassati da tasse e balzelli vari sui carburanti. Sapete che due terzi della cifra pagata per ogni rifornimento completo è in tasse? Ogni 10 euro di benzina pagate al distributore circa 7 euro derivano da tasse, tra accise ed Iva. È ormai nota la prima accisa che pesa sulla prezzo al litro del carburante: quella per la guerra di Abissinia del 1935 (irrisoria, ma ancora in vigore). Le imposizioni fiscali che pesano sulla benzina, tuttavia, non si fermano qui: c’è l’accisa per crisi di Suez nel 1956, quella per il disastro del Vajont nel 1963, l'alluvione di Firenze nel 1966, il terremoto nel Belice nel 1968, il terremoto del Friuli nel 1976, il terremoto in Irpinia nel 1980, la missione in Libano (1983) e molte altre ancora (vedi sotto, paragrafo 10) che rendono la benzina 0,25 euro più cara. Senza queste tasse gli automobilisti italiani pagherebbero circa il 50% in meno sul Gpl auto, il 65% in meno sul Gasolio e il 70% sulle Benzine. Nel capitolo 10 dei Balzelli d’Italia vi presentiamo le tasse in movimento. I balzelli vi seguono ovunque, sia che prendiate l’auto sia che decidiate di viaggiare in nave o in aereo.
CAPITOLO 10 - TASSE SUL MOVIMENTO
1. La tassa per guidare. Anche il rilascio di patenti per l'autorizzazione alla guida dei veicoli è soggetta a tassa.
2. La passport
tax. Al passaporto
si deve applicare una marca da bollo, che è una tassa italiana e non serve se si
viaggia verso un paese dell'area Schengen: può quindi esser controllata solo in
Italia e se si parte verso un paese al di fuori dell'area Schengen. Insomma il
bollo è una tassa e il non pagamento non può precludere l'espatrio ma dare luogo
a una multa di un'ottantina di euro.
3. Rotaie da asporto. Con la risoluzione 30 marzo 1998, n.22/Edel
Ministero delle Finanze è stato chiarito che, ai fini dell'imposta sul valore
aggiunto, gli acquisti di rotaie e di traversine di cemento, pur incorporandosi
nella costruzione, appaiono dotate di una propria individualità funzionale e
vanno comunque tassate con l'IVA in quanto teoricamente asportabili.
4. La tassa sugli sbarchi. Esiste un’addizionale di 6 euro per passeggero imbarcato, da versare all'entrata del bilancio dello Stato, per la successiva riassegnazione, per la quota eccedente 30 milioni di euro (destinati ad un fondo delle Ministero Infrastrutture) ad un apposito fondo presso il Ministero dell'interno. Il 40% di tale fondo è destinato ai comuni, in proporzione diretta al numero dei passeggeri che risultano partiti dai singoli aeroporti, secondo i dati comunicati ufficialmente dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. La metà del gettito però affluisce al “Fondo speciale per il sostegno del reddito e dell'occupazione e della riconversione e riqualificazione del personale del settore del trasporto aereo”.
5. Auto in acquisto. Su ogni acquisto di automobile incombe una grandinata di tasse. A pesare sulle nuove immatricolazioni è soprattutto l'imposta provinciale di trascrizione, che si aggira in media intorno ai 200 euro. All'imposta provinciale si aggiunge una lista infinita di altre tasse: l'imposta di bollo sulle formalità Pra, il costo della targa, i diritti del Dipartimento dei Trasporti terrestri, l'imposta di bollo sulle formalità del Dipartimento e i costi di esazione postale per le somme del Dipartimento. In una città come Milano, per un'auto di media cilindrata, si arriva così a circa 297 euro, di cui 196 per l'imposta provinciale. Niente a che vedere con gli appena 26,3 euro totali che fa pesare sulle immatricolazioni il fisco tedesco o i 71 euro del Regno Unito e il 151 dell'Austria. Le tasse sull'acquisto di un'auto nuova sono molto inferiori anche in Portogallo (86 euro per una vettura di media cilindrata) o in Spagna (69 euro). Anche nel caso di un passaggio di proprietà la situazione non migliora affatto. Nel caso di Milano l'imposta provinciale di trascrizione arriva addirittura a 246 euro, cui si aggiungono 20,92 euro di emolumenti Pra, 12,40 euro di diritti del Dipartimento dei Trasporti e 58,48 euro di imposta di bollo per l'autentica dell'atto di vendita. Il totale è così di 337,80 euro.
6. Tasse sui voli aerei. Sono pari a 18.71 euro a passeggero così ripartite: controllo bagagli, 1.49 euro; iva su tasse, 1.11 euro; tassa comunale, 4.50 euro; tassa d'imbarco, 3.34 euro; tassa per i servizi al passeggero, 0.46 euro; tassa di sicurezza, 1.81 euro; crisis surcharge (carburante), 6.00 euro.
7. Tasse sulla targa. Incredibili gli oneri che gravano su una targa automobilistica: Emolumenti ACI 20,92 euro; Imposta di bollo per iscrizione al PRA; 29,24 euro Diritti MCTC 9.00 euro; Imposta di bollo per immatricolazione 29,24 euro; Costo targa: Il costo della targa nuova è stabilito dal Dipartimento dei Trasporti Terrestri.
8. Tre tasse in una. Si tratta dell’imposta relativa ai premi assicurativi incassati dalle imprese del settore e di due contributi introdotti, con fini specifici, dovuti anch’essi dalle società assicurative. In particolare, di questi ultimi, uno è destinato a ripagare le spese sostenute dal Servizio sanitario nazionale, dalle Regioni e da altri enti in seguito a incidenti con auto o natanti (articolo 334 del Dlgs 209/2005), l’altro è diretto al Fondo per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura, ed è calcolato sugli importi relativi alle polizze stipulate per incendi, responsabilità civile diversi, auto rischi diversi e furto (articolo 18, comma 1, legge n. 44/1999).
9. La gabella sull'auto. Gli automobilisti italiani sono tartassati da tasse e balzelli vari sui carburanti. Due terzi della cifra pagata per ogni rifornimento completo è in tasse: ogni € 10,00 di benzina pagate al distributore circa € 7,00 derivano da tasse, tra accise ed Iva. Ogni centesimo di aumento sul carburante comporta un maggiore introito di circa 20 milioni di euro al mese per le casse dello Stato. Insomma senza le tasse gli automobilisti italiani pagherebbero meno 50% circa sul Gpl auto, meno 65% sul Gasolio e meno 70% sulle Benzine.
10. Benzina d'Abissinia. Dal 1935 al prelievo sulla benzina vengono annesse imposizioni fiscali per far fronte ad un impegno militare o ad un disastro civile. Troviamo la prima accisa sulla benzina di 1,90 lire nel 1935 per finanziare la guerra di Abissinia, quella di 14 lire per la crisi di Suez nel 1956, quella di 10 lire per il disastro del Vajont nel 1963, 10 lire per far fronte all'alluvione di Firenze nel 1966, le 10 lire per il terremoto nel Belice nel 1968, 99 lire per il terremoto del Friuli nel 1976, 75 lire per il terremoto in Irpinia nel 1980, 205 lire per la missione in Libano (1983), 22 lire per la missione in Bosnia nel 1996. La penultima accisa la ritroviamo nel 2003 per trovare i fondi necessari al rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri, circa 0,02 euro di accise addizionale sui carburanti. L'ultima accisa, decisa nel febbraio 2005, per finanziare il rinnovo degli autobus inquinanti nel trasporto pubblico. Ancora oggi nel fare benzina ben 0,25 euro sono pagate per questi motivi.
11. Regione che vai, tassa che trovi. Non basta, esiste anche l'IRAB, cioé la tassa regionale (facoltativa) sulla benzina, attualmente in vigore in Molise, Liguria, Piemonte, Campania e Marche. In più, ogni regione tassa la proprietà dell'auto, con importi anche molto salati, in base alla potenza ed ai (presunti) tassi di inquinamento.
12. La tassa sui camionisti. Licenze, concessioni ed autorizzazioni per l'autotrasporto merci pagano le relative tasse di concessione. Dopo aver affrontato tasse esoteriche e tasse macabre, dovevamo aspettarci l’arrivo delle tasse fantasma. Nel Capitolo 11 dei Balzelli d’Italia troviamo apparizioni più o meno inaspettate che, a differenza degli ectoplasmi, riescono a influire sul conto in banca, ma anche sui nostri acquisti. C’è per esempio l’imposta di bollo sull’estratto conto (vedi sotto) che, ad alcuni potrebbe far riconsiderare l’ipotesi di depositare il proprio denaro sotto un materasso. Ma le tasse fantasma si mostrano anche sulle ricevute con una tassa sugli adempimenti fiscali.
CAPITOLO 11 - TASSE FANTASMA
1. Balzelli bancari. C'è l'imposta di bollo sull'estratto conto: è in pratica una tassa di possesso del conto. Si pagano attualmente euro 34,20 all‘anno (dal 1.febbraio 2005), importo che può anche essere suddiviso in quote trimestrali (8,55 euro a trimestre). Un'altra imposta di bollo si paga anche sul possesso del "conto titoli" collegato.
2. La tassa sulle... ricevute. Anche in questo caso, una tassa relativa ad adempimenti fiscali: euro 1,81 per le ricevute di ammontare non superiore a euro 129,11; euro 2,58 per le ricevute di ammontare fino a euro 258,23; euro 4,65 per le ricevute di ammontare fino a euro 516,46; euro 6,80 per le ricevute di ammontare superiore a euro 516,46.
3. Fiscal drag. In un'imposta progressiva, come l'Irpef, l'imposta media aumenta all'aumentare del reddito monetario (fiscal drag). Quando si ha inflazione, un aumento del reddito monetario non comporta un pari aumento del reddito reale (e cioè della capacità di quel reddito di tradursi in acquisti di beni e servizi). Ma il sistema tributario non tiene conto di ciò, e tassa l'individuo di più (perché ha un reddito più alto) considerandolo più ricco. L'aumento di tassazione indotto dall'inflazione si chiama fiscal drag e discende da due fattori:
1) una quota sempre più ampia del reddito è assoggettata ad aliquote (marginali) più elevate;
2) il valore delle detrazioni e deduzioni di imposta per tipologie di redditi, per carichi familiari, eccetera, non è indicizzato all'aumentare dei prezzi e quindi diminuisce, in termini di potere d'acquisto. Poco importa se si abita in un paesino dove di impianti di depurazione non si è mai sentito parlare. La tasse sulle fogne si pagano sempre, anche se queste sono ‘temporaneamente’ inattive. Il caso della tassa sulle fogne – che rientra nel capitolo dei Balzelli d’Italia che trattiamo oggi – è uno di quei casi in cui il cittadino si trova a dover pagare anche un servizio non erogato. Neanche la Corte Costituzionale è riuscita a vincere sul Fisco: dopo una sentenza del 2008 che stabiliva l'illiceità a pretendere il pagamento di un servizio non erogato (nel caso specifico su “fognature e depurazione”), un decreto legge del 2009 ha stabilito che le società idriche possono inserire nella bolletta le note di pagamento relative a “fognature e depurazione”, anche se queste sono in fase “progettuale”. Un po’ come dire: inizia a pagare, prima o poi il servizio arriverà…
CAPITOLO 12 - LE TASSE SOTTERRANEE
1. L'imposta sui tubi (o del tubo). Imposta ambientale introdotta nel 2006. La tassa ha un precedente poco illustre nella "tassa sul tubo", introdotta nel 2002 dalla Regione Sicilia sotto le mentite spoglie di un tributo ambientale, ma che si qualificava in realtà come un'imposta in somma fissa di tipo patrimoniale (tubatico), avendo come base imponibile il volume delle condotte della rete di trasmissione nazionale e regionale del gas naturale situate in Sicilia. Oggi l'imposta sui tubi e sulle condotte è racchiusa nella imposta occupazione suolo pubblico. Colpisce anche condutture sotterranee per la distribuzione di acqua potabile, gas, energia elettrica, linee telefoniche sotterranee, camerette di ispezione, intercapedini, manufatti e simili, contenitori sotterranei di cavi, condutture e linee elettriche e telefoniche.
2. La tassa sulle botole. Si chiama “canone non ricognitorio” (per distinguerlo da quello ricognitorio) ed è un'imposta patrimoniale dei comuni che colpisce pozzetti, botole, tombini, griglie e qualsiasi altro manufatto posto sul suolo pubblico. Il rischio per gli esattori è di precipitare nel manufatto durante un'ispezione.
3. L'imposta sulle discariche. E' una cosiddetta “ecotassa”, un tributo speciale per i conferimenti in discarica, istituito per finalità prevalentemente ecologiche quali quelle di favorire la minore produzione di rifiuti ed il recupero degli stessi, di materia prima e d’energia. Si applica a tutti i rifiuti solidi e ai fanghi così detti palabili, conferiti in discarica e agli inceneritori senza recupero d’energia.
4. La tassa sulle fogne (anche se mancano). Una sentenza della Corte Costituzionale (335/ 8 ottobre 2008) ha stabilito l'illiceità a pretendere il pagamento di un servizio non erogato, nel caso specifico su “fognature e depurazione”. Un balzello “illegittimo” cospicuo: si stima 350 milioni di euro annui relativi al 25% di famiglie e imprese italiane. La sentenza ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale” delle normative (art. 14, comma 1, legge 5 gennaio 1994, n.36 - disposizioni in materia di norme idriche, legge Galli - e dell’art. 155, comma 1, primo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152) “nelle parti in cui si prevede che la quota di tariffa riferita al servizio di depurazione è dovuta dagli utenti anche nel caso in cui manchino impianti di depurazione o questi siano temporaneamente inattivi”. Niente paura, con un decreto-legge del 2009 si è stabilito che le società idriche possono inserire nella bolletta le note di pagamento relative a “fognature e depurazione”, anche se queste sono in fase “progettuale”. Avete difficoltà a salire le scale del vostro condominio? Ricordatevi che gli ascensori e i montacarichi sono un privilegio. Esiste infatti una licenza per questi impianti e tale licenza di esercizio è soggetta alle tasse di concessione governativa (Legge 24 ottobre 1942, n. 1415). Bene o male buona parte dell’etere è tassato, ne sanno qualcosa anche i proprietari delle gru che, se vogliono avere il marchio aziendale su un loro mezzo, devono pagare una tassa sulla pubblicità. In questo capitolo trattiamo le tasse aeree, cinque balzelli evidenziati da Confesercenti nel suo rapporto sulle 100 trappole per imprese e famiglie. Queste tasse no riguardano solo gli aerei, ma colpiscono anche i lampioni e i tralicci della corrente.
CAPITOLO 13 - LE TASSE AEREE
1. Imposta sulle gru. Si tratta dell'imposta comunale sulla pubblicità al marchio, apposto sulle gru mobili e sulle gru a torre adoperate nei cantieri edili. Tale marchio garantisce il diritto di distinguere il prodotto (art. 2569 del codice civile). In nessun altro paese si colpisce il marchio con una tassa: benché escluso dall'imposta (art. 5 del dlgs n. 507 del 1993), in numerosi comuni si è deciso di tassarlo.
2. L'imposta sui lampioni. La Tosap si applica a tutti i sostegni di lampade per l’illuminazione stradale o di linee elettriche, telefoniche o telegrafiche in legno o metallo.
3. La tassa sugli ascensori e montacarichi. La licenza per l'impianto degli ascensori e dei montacarichi e la licenza di esercizio sono soggette alle tasse di concessione governativa.
4. L'imposta sui tralicci. Colpisce i tralicci da elettrodotto ed è un canone concessorio dovuto al comune, che si aggiunge alla TOSAP.
5. Tassa sugli aerei. E' l'imposta regionale sulle Emissioni Sonore degli Aeromobili (IRESA) che rappresenta un tributo che ha come obiettivo la riduzione dell'inquinamento acustico nelle aree adiacenti gli aeroporti. Il gettito di questa imposta è infatti destinato al completamento dei sistemi di monitoraggio e disinquinamento acustico e all'eventuale indennizzo delle popolazioni residenti nelle zone dell'intorno aeroportuale. L'imposta è dovuta alla regione o provincia autonoma per ogni decollo e atterraggio degli aeromobili civili negli aeroporti civili. C’è la tassa sulla domanda, la tassa annuale sul mantenimento in vigore del brevetto e la tassa per la pubblicazione a stampa della descrizione e dei disegni. Con tutti questi balzelli uno come Leonardo da Vinci non avrebbe avuto vita facile e, forse, ci avrebbe pensato due volte prima di cimentarsi in una nuova invenzione. La tassa sulle invenzioni industriali è solo una (e forse la meno odiosa) delle tasse che spremono l’impresa italiana, protagonista dell’ultimo appuntamento dei Balzelli d’Italia. Secondo Confesercenti nel nostro Paese il carico fiscale complessivo per le aziende è il più alto d’Europa: il 68,6% dei profitti, rispetto a una media europea del 41,2%. Un buon 25% di tasse in più che si spiega se si considera quanto pagano le nostre imprese per l’Energia (2,95 euro in più ogni 100 kilowattora) e se si pensa che in Italia ci sono tasse anche sugli stessi adempimenti fiscali (vedi sotto). In conclusione? L’inventiva fiscale è proprio senza limiti.
CAPITOLO 14 - L'IMPRESA DA SPREMERE
1. Fisco zavorra. In Europa il nostro paese continua a essere quello con il carico fiscale complessivo più alto per le aziende: 68,6% dei profitti, rispetto a una media europea del 41,2%. Un recente studio condotto da Banca mondiale insieme a Price Waterhouse Coopers calcola il peso del prelievo fiscale sulle imprese, a causa soprattutto delle tasse sul lavoro e dei contributi sociali pagati dai datori di lavoro. Sui 183 paesi presi in considerazione dallo studio, l'Italia risulta al 167 posto quanto al peso del prelievo fiscale sulle imprese, a causa, soprattutto, delle tasse sul lavoro e dei contributi sociali pagati dai datori di lavoro, che coprono il 64% del totale. Del resto, anche i dati comparativi europei analizzati dagli esperti del ministero delle Finanze confermano che l'Italia, con la sua aliquota implicita sul lavoro attestata al 42,8% è al livello più elevato in Europa, essenzialmente per via dell'alto livello di contributi a carico del datore di lavoro, e per via della quota di Irap che viene attribuita alla componente lavoro secondo la metodologia continentale. Anche la Banca d'Italia si ricorda che il cuneo fiscale sul lavoro italiano è di circa 5 punti superiore al livello medio europeo, mentre il prelievo sui redditi da lavoro più bassi e quello sulle imprese, includendo l'Irap, risultano più elevati della media Ue di 6 punti.
2. Il doppio balzello sull'uso della TV. Oltre alla tassa di possesso, gli albergatori ed i gestori di esercizi pubblici sono soggetti al pagamento della tassa di concessione governativa per radio e per TV.
3. Energia alle stelle. Le imprese italiane sono costrette a pagare bollette decisamente più alte rispetto alle altre aziende europee e ciò si traduce in una pesante zavorra per chi vuol competere all’estero. Buona parte del fardello non è però determinato dalle difficoltà di produzione, ma dalle tasse. Basta vedere quanto i balzelli sull’energia elettrica pesino sui conti di un’azienda. Considerando infatti sia il maggior costo dell’energia che il maggior peso fiscale, le aziende italiane, rispetto alla media delle concorrenti europee, pagano in media 2,95 euro in più ogni 100 kilowattora. Il divario con la Ue equivale a 6,5 miliardi di euro, mezzo punto di Pil in più versato dalle aziende sotto forma di tasse sull'energia.
4. L'addizionale “federalista” sul lavoro autonomo. Il nuovo federalismo fiscale prevede in caso di disavanzo di bilancio l'adozione di una addizionale regionale all'Irpef che al di sotto di un determinato reddito pagano soltanto gli autonomi. Nel caso di adozione di questa addizionale, sono eliminate tutte le agevolazioni IRAP. Insomma, un balzello mirato contro i lavoratori autonomi e le piccole imprese.
5. La tassa sul frigorifero. E' soggetta a tassa sulle concessioni governative l'autorizzazione a detenere … macchine frigorifere.
6. La tassa speciale sui disavanzi sanitari. La c.d. tassa sulla salute (in termini tecnici Contributo Servizio Sanitario Nazionale), entrata in vigore con la Legge 14 Novembre 1992, n. 438, è stata sostituita con l'introduzione dell'Irap (che pagano solo le imprese), i cui introiti servono a finanziare la spesa sanitaria delle Regioni. Insomma una tassa sulla salute camuffata, che solo le imprese pagano per tutti.
7. La tassa sulle insegne dei negozi. Questa tassa si paga da alcuni anni solo se l'insegna supera i 5 metri di superficie (art. 2/bis, comma 5, della legge n. 75/2002). Ma secondo lo schema di decreto sul federalismo potrebbe essere tassata anche l'insegna sotto tale dimensione, con l'Imu “secondaria”, l'imposta municipale facoltativa che i comuni potranno adottare dal 2014. Si tornerebbe quindi alla situazione precedente al 2002.
8. La tassa anfibia sui contratti. L'imposta di registro è detta la tassa anfibia, perché si presenta come tributo avente una duplice natura, anche se alternativa, di “tassa” quando è correlata ad una erogazione di servizio da parte della pubblica amministrazione, e di imposta quando è determinata in proporzione al valore economico dell'atto o del negozio. Presupposto dell'Imposta è la richiesta della registrazione dell'atto o del contratto o operazione societaria. Per una piccola azienda si stima in circa 10-15mila euro il costo di ogni contratto. I contratti quasi sempre devono essere registrati, non basta scaricare i moduli da internet per poi compilarli. Inoltre alla spesa si aggiunge quella del notaio.
9. Le tasse sui registri e libri sociali. E' una tassa sugli stessi adempimenti fiscali! La tassa di concessione governativa è dovuta annualmente in misura forfetaria a prescindere dal numero di registri tenuti e dalle relative pagine, per la bollatura e la numerazione dei medesimi registri, da tutte le società di capitali, anche se in liquidazione, comprese quelle consortili (sono escluse le società cooperative e le società di mutua assicurazione). Per le società di capitali (le società per azioni, le società in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata) le società consortili a responsabilità limitata e le aziende speciali e i consorzi fra enti territoriali, a prescindere dal numero di libri e dei registri tenuti e dal numero delle loro pagine, la tassa per la tenuta di tutti i registri deve essere versata in maniera forfetaria. Non basta: c'è anche la tassa annuale di concessione governativa per la vidimazione dei libri sociali da parte delle società di capitale. L’importo da versare è 309,87 euro se, alla data del 1° gennaio dell’anno di riferimento, l’ammontare del capitale sociale o del fondo di dotazione non è superiore a 516.456,90 euro; se l’importo del capitale sociale o del fondo di dotazione è superiore a tale limite la tassa sarà di 516,46 euro. La tassa annuale di concessione governativa ha sostituito tutte le tasse che in passato erano dovute per la bollatura e vidimazione dei libri sociali ed è deducibile ai fini Ires ed Irap. Non sono tenute al versamento le società di capitale dichiarate fallite e le società cooperative; queste ultime pagano la tassa di concessione governativa pari ad euro 67,00 per ogni bollatura di libro sociale (per ogni 500 pagine o frazioni).
10. L'imposta sui tabulati. Con riferimento alla bollatura dei libri contabili, è prevista una marca da bollo da 14,62 euro ogni 100 pagine o frazione di 100 pagine (per pagina si intende una facciata, qualunque sia il numero di linee, e per quelli formati mediante l'impiego di tabulati meccanografici, ogni facciata utilizzabile).
11. La tassa sulle invenzioni. In Italia, Archimede Pitagorico non avrebbe vita facile. Ogni brevetto per invenzione industriale è soggetto alle seguenti tasse: 1) tassa di domanda; 2) tassa annuale per il mantenimento in vigore del brevetto; 3) tassa per la pubblicazione a stampa della descrizione e dei disegni. 12. Novennale sui tabacchi. La tassa novennale (detta anche una tantum) è una tassa obbligatoria d'accesso, e periodica, che viene imposta dal Monopolio agli esercenti di rivendita di tabacchi e per il gioco del lotto. Questa imposta ammonta per l'accesso (subentro) al 50% degli aggi dell'anno precedente, viene poi ripetuta ogni nove anni (da qui il nome) con un importo però del 10% dell'aggio dell'anno precedente anziché del 50%. insomma, se la tabaccheria nell'ultimo anno ha avuto un utile lordo di tabacco e lotto di 100.000€ dovrà pagare allo stato (monopolio ) chi acquista, una tassa di 50.000€.
13. Musica nel Bar? Doppia tassa. Il bar o il ristorante che voglia diffondere musica deve corrispondere i diritti non solo alla Siae ma anche a SCF (Consorzio fonografici che rappresenta l'industria discografica), poiché si tratta di una forma di pubblica diffusione di registrazioni musicali. Quest'ultima è una tariffa che può andare da € 120 a 660 l'anno per bar e ristoranti e da € 120 a 500 per i negozi.
14. Le “Concessioni” regionali. Oltre a quella dovuta allo Stato (concessioni governative) esiste anche una assurda “tassa sulle concessioni regionali” (in materia di igiene e sanità, turismo e industria alberghiera, fiere e mercati, etc).
Tassati e mazziati. Perché in Italia si pagano più tasse che in qualunque altro paese europeo? Il nostro fisco nasconde dietro il paravento dell’evasione la grande inefficienza nella gestione della spesa pubblica. La presentazione e le recensioni di Tassati e mazziati, saggio di Giuseppe Bortolussi edito da Sperling & Kupfer. Ogni mattina il signor Rossi fa colazione guardando le notizie in TV, poi si lava e si rade e, scendendo, butta la spazzatura. Va al lavoro in macchina e, prima di rientrare, passa al supermercato. Dopo cena, se resta a casa, si beve un amaro. Se si fermasse a contare quante tasse ha pagato nel corso della giornata, probabilmente non riuscirebbe a prendere sonno. Ci sono quelle più note: l'IVA, la tassa rifiuti, le accise sulla benzina e sugli alcolici, il bollo auto, il canone RAI, più le varie addizionali IRPEF comunali e regionali. Tasse, tasse, e ancora tasse. Odiose, e soprattutto troppe. Quanti soldi transitano dalle nostre tasche verso le casse dello Stato? Dove vanno a finire? Oltre ai balzelli più conosciuti ci sono imposte più o meno nascoste: più di un centinaio, che fanno del nostro sistema fiscale uno dei più complessi, opprimenti e meno trasparenti al mondo. In questo volume, Giuseppe Bortolussi smonta tutti i falsi miti della spesa pubblica in Italia e spiega le ricadute del nostro sistema tributario su cittadini e imprese; affronta senza mezze misure i temi dell'evasione e della pressione fiscale proponendo la soluzione federalista come uno dei modi in cui sarà più facile svelare i "giochi di prestigio" del mago Stato, l'abile illusionista, che fa sparire ben il 51% dei nostri guadagni, ci impone di pagare due volte gli stessi servizi (è il caso del miracoloso Project Financing...) e nasconde dietro il paravento dell'evasione la grande inefficienza nella gestione della spesa pubblica. Tasse, tasse e ancora tasse. Tutti dicono che sono troppe. Ma quasi tutti ignorano che, oltre a quelle visibili, si pagano una quantità incredibile di imposte nascoste: dai fondi pensione, al project financing (con cui "finanziamo" due volte le opere pubbliche), dalle "tasse sulle tasse", come l'Iva sulle accise della benzina, a quelle che cambiano nome (ma non sostanza). Un libro che intende smontare tutti i falsi miti sulla fiscalità in Italia e spiegare le ricadute concrete sulle «tasche» di cittadini e imprese. E affronta in questa chiave i temi più caldi: l'evasione, la reale pressione tributaria, il federalismo fiscale. E così, come spiega l’autore, segretario della Cgia di Mestre, in questo Tassati e mazziati, gli onesti arrivano a versare nelle casse pubbliche il 51 per cento di quello che guadagnano, grazie all’infinita fantasia dello Stato italiano. Bortolussi racconta “i giochi di prestigio del mago Stato, abile illusionista” che oltre a Irpef, l’Irap, l’Iva riesce a far pagare anche le “tasse sulle tasse”. E se poi quei servizi che lo Stato dovrebbe assicurarci come contropartita della tassa, sono scadenti? Bisogna rifornirsi dai privati, ovviamente, pagando due volte. E il rischio è che “Il circuito perverso che si è creato tra spesa pubblica inefficiente, evasione fiscale e tassazione occulta rischia di disgregare le basi stesse della nostra democrazia”.
EVASORI O TARTASSATI?!?
Si è sempre detto che al Sud Italia vi sia omertà. Non è vero!! Nel meridione, da masochisti, si ha la propensione a parlar male di se stessi, dando, spesso, un’immagine distorta. Al contrario, mentre più si sale, più si tace sui propri difetti. Da sempre si è reputata la Germania come il paese rispettoso delle regole, tanto da indicarla come esempio. Mentre invece: Evadere le tasse è la passione dei tedeschi. Trenta miliardi frodati all'anno. Inchiesta di di Enzo Piergianni su “Libero Quotidiano”. Il leader dei sindacati tributari: trecento miliardi nascosti all'estero e il governo fa finta che sia una cosa da nulla. La strenna di Natale di Angela Merkel è a scoppio molto ritardato. Il tanto atteso taglio delle tasse è stato finalmente deliberato dal Consiglio dei ministri, ma sarà attuato soltanto a partire dal 2013. Guarda caso, l’anno in cui la cancelliera si gioca la poltrona nelle elezioni politiche. Gli sgravi non saranno un granché, appena 6 miliardi per una platea di oltre 38 milioni di contribuenti. Però faranno colpo sul piano propagandistico e potranno forse avere anche qualche effetto come disincentivo psicologico contro l’evasione fiscale. E sì perché evadere le tasse non è cosa solo italiana. Anzi. «Frodare il fisco è diventato purtroppo il nostro sport nazionale. È un comportamento diffuso che, anziché essere additato come una vergogna, purtroppo viene trattato come una bagattella, un peccatuccio veniale» sostiene con toni allarmistici Thomas Eigenthaler, presidente dello Steuer-Gewerkschaft, il sindacato del personale tributario. «Ormai è una questione di mentalità» prosegue Eigenthaler, In Germania, la morale fiscale della gente continua a peggiorare». Sono iscritti alla sua organizzazione 70mila dei 120mila dipendenti degli uffici centrali e periferici del Finanzamt (agenzia delle entrate). «Non sono ancora abbastanza. Servirebbero altri diecimila uomini per affrontare efficacemente il problema», spiega Eigenthaler raggiunto ieri per telefono da Libero nella sua abitazione alle porte di Stoccarda. «Siamo arrivati al punto che persino i nostri arbitri di calcio nascondono i soldi in Svizzera», si arrabbia. L’ultima stima del 2008 ha quantificato in 30 miliardi la perdita annua del fisco in Germania per colpa degli evasori. «Quest’anno il danno è stato ancora maggiore, perché abbiamo avuto una forte ripresa economica e bisogna calcolare anche l’inflazione», fa i conti il presidente Eigenthaler. È un buco vertiginoso che corrisponde a più del doppio dell’intero bilancio del ministero federale della Sanità (14,4 miliardi programmati per il 2012) e alla spesa del ministero della Difesa (31,8 miliardi, compresa la discussa missione in Afghanistan). Un’audizione della commissione Finanze del Bundestag ha accertato che, anno dopo anno, i tedeschi hanno accumulato illegalmente all’estero più di 300 miliardi di euro (142 miliardi in Svizzera). L’evasione è un morbo epidemico, trasversale nella società. La Germania non fa eccezione. Se si trova un sotterfugio più o meno doloso per farla in barba al fisco, pochi se lo fanno scappare. «Siamo un popolo di peccatori», ha titolato settimane fa la Süddeutsche Zeitung. Tra gli evasori spiccano celebrità insospettabili, come l’ex tennista Boris Becker o il super-manager Klaus Zumwinkel, fino alle manette numero uno delle Poste e proprietario di un castello sul lago di Garda. Condannati entrambi al carcere, si sono salvati con la condizionale. Un trucco classico è l’occultamento delle entrate attraverso depositi cifrati in compiacenti banche all’estero. I rifugi più ricercati sono la Svizzera e il Liechtenstein, ma adesso sono meno frequentati per paura degli 007 federali che hanno pagato i guardiani e sono riusciti a penetrare fin nei forzieri più segreti dei paradisi fiscali. L’elenco trafugato dalla banca Lgt in Liechtenstein è costato 4,5 milioni ai servizi segreti di Berlino, ma poi la riscossione delle multe agli evasori smascherati ha fruttato 200 milioni al fisco tedesco. «Approvo queste incursioni all’estero dei nostri agenti – dice Eigenthaler – Quello che non mi sta bene sono gli accordi bilaterali, come quello con la Svizzera, che fanno cassa lasciando nell’anonimato i capitali fuggiti. Qui, il nostro governo dovrebbe appoggiare invece l’azione dell’Unione Europea per ottenere un accordo comunitario con Berna». Poi, sputtanati i tedeschi, passiamo agli evasori fiscali italiani. Ci si chiede: possono essere grandi evasori fiscali quei morti di fame e parassiti dei meridionali ?? Si pensa proprio di no. Evade chi ha molti redditi e quindi molti soldi da nascondere. Ergo: i soldi li hanno gli imprenditori o le società del Nord Italia, che pagano le tasse al nord, ma spesso hanno gli stabilimenti al Sud, dove creano reddito. In questo modo risulta che la ricchezza sia stata prodotta nel settentrione d’Italia, mentre in effetti la produzione è avvenuta altrove, spesso con conseguenze nocive per l’ambiente del territorio ospitante, come per esempio a Taranto con l’Ilva.
Perché vincono gli evasori, di Corrado Giustiniani su “L’Espresso”. I mezzi per recuperare 125 miliardi di tasse l'anno ci sarebbero. Quello che manca è la volontà politica. E alla fine, un condono tira l'altro. Impossibile proporre nuovi sacrifici, e magari nuove imposte, senza assestare un colpo ai furbi che non pagano le tasse. Per propinare l'amara medicina, si dovrà rivestire il cucchiaio con la glassa dell'equità, e la lotta all'evasione sarà forse il più importante banco di prova per il nuovo premier. Certo, nessuno può pretendere che, con il poco tempo a disposizione, arrivi a scalare il picco dei 125 miliardi di imposte evase annualmente (la stima è della Confindustria). Ma che riesca a piazzare qualche chiodo per una via ferrata di medio periodo, questo sì. Perché oggi, visto che il fisco può analizzare cinque annualità di imposta (e dunque pescare in un mare di 625 miliardi di evasione), i 10 miliardi e mezzo di euro recuperati nel 2010 appaiono davvero pochi. «In realtà, se togliamo interessi, sanzioni e minutaglie come gli errori nelle deduzioni mediche, è tanto se si arriva a tre miliardi di ricchezza nascosta recuperata», osserva Raffaello Lupi, professore di Diritto tributario a Roma Tor Vergata. La stima della Corte dei Conti, nel Rapporto 2011 sul coordinamento della Finanza pubblica, non si discosta molto: il recupero di imposta evasa sarebbe circa la metà di quello vantato ufficialmente dal direttore dell'Agenzia delle Entrate. Ma anche partendo da 10 miliardi di recupero, se si considera che sono cinque le annualità recuperabili, di questo passo, ci vorrebbero almeno 60 anni per arrivare in vetta. Come mai? Ci mancano i Walter Bonatti del caso? Non abbiamo corde e moschettoni? O quei monti sono nascosti da una malefica cortina di vapori velenosi che ostacola ogni ascensione tanto che, se per caso un governo ci si avventura, il successivo fa un rapido ritorno al campo base? Proviamo a capirlo. Strumenti tecnici e risorse umane per indurre gli evasori a più miti consigli, ne avremmo. L'Anagrafe tributaria, nata quasi cinquant'anni fa, è una banca dati di dimensioni mostruose, che contiene tutte le dichiarazioni dei redditi - circa 40 milioni ogni anno - le transazioni immobiliari, gli atti di successione, le operazioni doganali, è collegata col catasto e con le utenze Enel e Telecom, ed elabora 200 milioni di documenti l'anno. Ora tutti i dati sono nei computer dell'Agenzia delle Entrate, che ha festeggiato all'inizio del 2011 i suoi dieci anni di vita, è dotata di grande autonomia e di 32 mila dipendenti (non più di 15 mila, però, addetti ai controlli sostanziali). Inoltre, il fisco può disporre dei militari della Guardia di Finanza, 60 mila in tutto, un terzo dei quali impegnati sulle tasse. Ma allora, perché i risultati sono così scarsi? E' il più grave handicap del fisco italiano. A causa sua, la lotta all'evasione si blocca, a volte, per anni interi. Come è accaduto con il condono fiscale del 2002: un colpo di spugna che ha cancellato tre anni di attività degli uffici e ripulito la "fedina fiscale" di evasori incalliti. Ma in quel condono è accaduto qualcosa di ancora più grave: poiché per sottrarsi ai reati tributari bastava versare la prima rata, molti si sono fermati lì. E il 20 per cento delle somme dovute non è mai arrivato, con il risultato che si è aperto un buco di 4-5 miliardi di euro rispetto alle previsioni di incasso. Lezione inutile: a luglio, è stata partorita l'ennesima sanatoria del governo di centro-destra sulle liti pendenti per le controversie sino a 20 mila euro. L'aspettativa di sempre nuovi condoni (anche sotto mentite spoglie: dichiarazione integrativa, chiusura liti pendenti, deflazione del contenzioso) è un disincentivo potente a pagare le tasse, un inquinamento letale di sistema. Si cura in un solo modo: inserendo il divieto di condoni fiscali nel testo della Costituzione. E' una variante del condono che si applica a chi mette i soldi in Svizzera e nei paradisi fiscali. Il primo scudo, del 2001, riservato a grandi capitalisti che avevano i soldi all'estero, ha fatto venire l'acquolina in bocca ai medio-piccoli, che hanno iniziato a portare fuori dell'Italia soldi in nero (basta arrivare a Lugano), in attesa di un immancabile nuovo provvedimento. Sono loro ad aver colto in pieno la chance dello scudo ter di Tremonti, che garantiva anonimato e un mini-pagamento del 5 per cento. In questo modo 180 mila contribuenti hanno regolarizzato 104,5 miliardi di euro, che al fisco hanno fruttato appena 5 miliardi. In 65 casi su cento i valori "scudati" sono stati inferiori a 250 mila euro. Su poco più di 700 mila controlli sostanziali effettuati nel 2010 dall'Agenzia delle Entrate, ben 317 mila sono stati del tipo automatizzato. Nella grande maggioranza piccole omissioni, per lo più dovute a errori o dimenticanze, chiamate in gergo "36 bis e ter", dall'articolo che le contempla. Gli accertamenti veri e pesanti non sono più di 200 mila: possono passare dunque fino a 25 anni senza che un esponente del popolo delle partite Iva (che sono circa 5 milioni) cada sotto le grinfie del fisco. Ma cosa rischia chi viene sottoposto ad accertamento? Il pagamento dell'imposta evasa per quell'anno (o al massimo per due, poi i controlli si spostano verso altri contribuenti), più una sanzione che, in caso di adesione all'accertamento, con Vincenzo Visco ministro era pari al 25 per cento, e che Tremonti ha prima dimezzato al 12,25 e poi, nel 2010, rialzato al 16,66. "Non c'è però soltanto la sanzione irrisoria", osserva Salvatore Tutino, consulente scientifico del Centro Europa Ricerche di Giorgio Ruffolo, "è l'imposta stessa su cui si calcola la sanzione che, nella trattativa col fisco, può essere ridotta". In alcuni casi anche del 50 per cento. C'erano una volta le verifiche sulla mancata emissione di scontrini e ricevute fiscali. Adesso non vanno più di moda: dal 2009 al 2010 si sono ridotte del 28 per cento, da 64.500 alle 46.300. Parola della Corte dei Conti. Annullata la norma che imponeva la chiusura temporanea dell'esercizio, con tanto di affissione sulla saracinesca del provvedimento, per tre scontrini non emessi anche in una sola giornata. Oggi le violazioni debbono essere almeno quattro nel giro di cinque anni, e commesse in tempi diversi. In pratica, non si chiude mai. Dal 2007, da quando è stato abolito il segreto bancario, il fisco ha uno strumento potentissimo: l'anagrafe dei rapporti finanziari, che contiene i dati su tutti i conti correnti e gli investimenti mobiliari degli italiani. Denunci poco? Guardo quanto hai in banca e quanto investi in Bot, e ti concio per le feste. Peccato che praticamente non venga utilizzato. Le indagini finanziarie, nel 2010, sono state appena 9 mila 371, nemmeno lo 0,2 per cento di tutte le partite Iva. Di questo passo, ci vorrebbero sei secoli per avere la sicurezza che bussino a tutti i conti. L'anagrafe dei rapporti finanziari è come una Ferrari tenuta in garage, perché il segreto è stato rimpiazzato da una micidiale trafila burocratica: l'impiegato deve chiedere il permesso al direttore regionale delle Entrate (e lì la pratica si ferma un bel po'); se l'ottiene, la banca ha 30 giorni per rispondere: rinnovabili. E così passano i mesi. Ovvero gli studi di settore, che dovevano funzionare su dati di fatturato forniti dalle categorie professionali. Sono entrati in vigore nel 1998 e oggi si ammette che sono stati un fallimento. Una sorta di "minimum tax" che ha fatto recuperare ben poco e che si è accanita contro i soggetti più deboli all'interno delle professioni. Nel 1981, su proposta di Franco Reviglio, erano nati gli 007 del fisco, chiamati a indagare sulla grande evasione e anche a controllare che gli uffici del ministero da un lato, e la Guardia di Finanza dall'altro, facessero il loro mestiere nel migliore dei modi. Ma il Secit, così si chiamava il servizio dei superispettori fiscali, non è mai andato a genio ai ministri che sono seguiti a Reviglio. Così nel 2000-2001, con la riforma che ha dato vita all'Agenzia delle Entrate, Vincenzo Visco li ha allontanati dalla grande evasione, togliendo loro anche il controllo degli uffici e riducendoli a semplici esperti. Nel 2008 Giulio Tremonti ha completato l'opera, abolendo il Secit. L'intera macchina dei controlli è mossa dalla direttiva annuale del ministro. Un singolo funzionario non può di testa sua salire su uno yacht e indagare sul proprietario. E, se un ristoratore non gli dà la ricevuta, non può fare altro che muoversi come un cittadino qualsiasi, denunciandolo alla Guardia di Finanza. La quale, a sua volta, non ha alcun obbligo di tenerne conto, ma a discrezione può inserire il segnalato in un calderone ove attingere attuando la direttiva del ministro, oppure in una piccola quota di "controlli d'iniziativa" riservati alle Fiamme Gialle. L'evasione fiscale muoverebbe in totale almeno 10 milioni di voti. Eppure l'81,7 per cento degli italiani la ritiene inaccettabile, secondo un'indagine condotta dal Censis per conto del Collegio nazionale dei dottori commercialisti. "Un governo che volesse davvero debellarla, dovrebbe decidere subito due misure: vietare il cash per tutti i pagamenti a professionisti dai 100 euro in su, e ripristinare l'elenco dei clienti e dei fornitori introdotto da Visco nel 2006 e poi soppresso da Tremonti", consiglia al nuovo governo Oreste Saccone, animatore del sito www.fiscoequo.it ed ex dirigente dell'Agenzia delle Entrate. Tutte queste somme dovrebbero finire in un conto dedicato all'attività professionale. Attualmente la tracciabilità dei pagamenti (bonifici, carte di credito, assegni non trasferibili) è obbligatoria solo dai 1.000 euro in su e senza che vi sia un conto dedicato. L'elenco clienti e fornitori, ovviamente telematico, potrebbe evitare che un imprenditore o un professionista rilascino al cliente una regolare fattura, ad esempio per 500 euro, ma poi non la registrino o lo facciano solo per 50 euro, confidando nella scarsa probabilità di incappare in un controllo incrociato. Con l'elenco telematico, invece, l'evasione verrebbe intercettata automaticamente dall'Anagrafe tributaria, attraverso l'incrocio tra i dati dell'elenco dei fornitori e di quello dei venditori. Sta perdendo appeal un vecchio sogno: concedere al contribuente di dedurre tutte le sue spese, dal falegname all'avvocato all'idraulico, costringendo costoro a rilasciare un documento fiscale. Se la deduzione fosse totale, il gettito fiscale crollerebbe, senza essere compensato dal recupero di evasione. Perché? "Se guadagno 1000 e dimostro costi per 800", spiega Ruggero Paladini, docente di Scienza delle Finanze alla Sapienza, "alla fine verranno tassati solo i 200 euro che non ho speso". Alla gran parte dei contribuenti, dimostra Alessandro Santoro, autore per Il Mulino di "Evasione fiscale, quanto come e perché", conviene accettare lo sconto che il professionista gli propone, 120 in nero anziché 150 con la ricevuta; solo per chi ha aliquote marginali dal 43 per cento in su conviene viceversa insistere per la fattura: mille euro di spese dal medico, per esempio, produrrebbero una minore imposta di 500. I servizi sociali che funzionano male continueranno a fornire un alibi potente per non pagare le imposte, e pare tuttora inossidabile la convinzione espressa negli anni Cinquanta dal grande scienziato delle Finanze Cesare Cosciani: per gli inglesi un evasore è un reprobo; per gli italiani è un furbo. L'equità fiscale richiede dunque un impegno di lungo periodo. "Perché allora non far iniziare sui banchi delle scuole medie la lotta all'evasione?", suggerisce Tutino, "inculcando nei ragazzi l'articolo 53 della Costituzione: tutti sono chiamati a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva". E' davvero il minimo che si possa sperare.
Così esportano i capitali di Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. In Svizzera, come sempre. Ma anche a Singapore, in Irlanda, a Cipro. Ecco come migliaia di super benestanti italiani stanno nascondendo i loro soldi. Spaventati dal rigore del governo e dalla fine del segreto bancario. Palazzo Chigi, abbiamo un problema. Si chiama fuga di capitali all'estero. E' ripartita tra giugno e luglio, quando il beneficio effimero dello scudo fiscale è stato sommerso dalle paure di default dell'Italia e dai timori di stretta fiscale. E si sta accentuando in queste settimane sulla scia della manovra di Mario Monti. Il decreto in discussione in Parlamento gira attorno al convitato di pietra che ha promesso di presentarsi tra febbraio e aprile del 2012, quando scadranno 92 miliardi di euro di obbligazioni dello Stato e bisognerà pregare tutti i santi perché le aste di rinnovo vadano a buon fine. Ma se per quella data i grandi patrimoni nazionali si saranno trovati un rifugio sicuro e redditizio nei soliti paradisi svizzeri, lussemburghesi o caraibici, ci sarà poco da fare. Riforma delle pensioni, privatizzazioni e altri provvedimenti della manovra si mostreranno per ciò che sono: palliativi. La squadra economica di Monti, da Piero Giarda a Vittorio Grilli, è troppo preparata per non saperlo. E il prelievo aggiuntivo sui capitali scudati nella misura dell'1 per cento nel 2012 e 2013 (e del 4 per mille in seguito) non è tanto mirato a recuperare qualche centinaio di milioni di euro. I tempi supplementari dello scudo servono a fare il punto delle ricchezze italiane all'estero a partire dall'unico elemento di identificazione certo che è il database di conti correnti, immobili e cassette di sicurezza con gioielli o quadri d'autore legalizzati tra la fine del 2009 e la prima metà del 2010. La salvezza dei conti pubblici sta nel blocco della nuova emorragia. Peccato che l'arsenale di chi può scansare la manovra sia sempre ben fornito. Nella partita fra guardie e ladri dove si gioca il futuro dell'Italia, i cattivi hanno molti soldi e molte vie di fuga. La scappatoia più vicina, come da tradizione, è la Svizzera. A giugno del 2011 la stima dei depositi bancari nei vari cantoni era di 4.253 miliardi di franchi, oltre il doppio del Pil italiano, con una crescita del 10 per cento rispetto al 2010. Oltre metà di questa ricchezza, per un valore di 2.254 miliardi di franchi, è straniera. La stima del tesoro salva-Italia depositato nei cantoni elvetici oscilla fra i 150 e i 400 miliardi di euro. Se si applicasse un prelievo del 25 per cento come quello stabilito qualche mese fa dagli accordi bilaterali Svizzera-Germania e Svizzera-Regno Unito, il fisco italiano recupererebbe una cifra tra 37,5 e 100 miliardi di euro. Ci sono state guerre per molto meno. Ma invadere la Confederazione Elvetica non è solo poco etico. E' anche inutile. La Svizzera è l'equivalente finanziario di una portaerei. I soldi arrivano lì in prima battuta. Spesso in Canton Ticino. Ma chi esporta capitali ormai non si sente sicuro. Il segreto bancario svizzero è sotto assedio da ogni lato. Quindi, meglio decollare in fretta verso cieli più sicuri. Quali sono le tappe successive della fuga di denaro? "L'Espresso" lo ha chiesto a chi dà la caccia al denaro e a chi il denaro cerca di nasconderlo. I 105 miliardi di euro legalizzati con l'ultimo scudo fiscale sono passati attraverso gli intermediari autorizzati. Cioè, fiduciarie, sim, sgr e banche che agiscono da sostituto di imposta. E' stato Giulio Tremonti a chiedere loro di sborsare tra il 5 e il 7 per cento. E sarà a loro che Monti chiederà l'ulteriore prelievo. Gli intermediari hanno tenuto per sé i nomi di chi aderiva allo scudo e hanno proceduto al rimpatrio fisico, con ritorno dei beni in Italia, oppure giuridico, con il mantenimento dei beni all'estero. Primo problema: chi ha sciolto il rapporto con l'intermediario dopo avere pagato la somma prevista dalla legge può sfuggire al prelievo aggiuntivo purché abbia interrotto per tempo il rapporto e abbia trasferito i beni altrove. Il testo della manovra ha previsto che si possa chiedere all'intermediario di rivelare all'Agenzia delle entrate il nome del cliente che ha terminato il rapporto. Insomma, soldi in cambio di anonimato. Ma è un intervento di dubbia efficacia. Oltre la metà degli scudi fiscali realizzati nel 2010 sono esterovestiti. Chi ha dovuto legalizzare una casa a Lugano, l'ha conferita a una società che ha affidato le quote in gestione a una delle 700 fiduciarie ticinesi che hanno fatto perdere le tracce del proprietario finale. Lo schema si chiama scudo a ombrello e si può ripetere sotto forme ancora più sofisticate, spostando i soldi in paesi non collaborativi come il Liechtenstein o gli Stati delle Antille. Lì l'anonimato è garantito. La nuova mecca del binomio evasione-riciclaggio è Singapore dove ogni banca svizzera che si rispetti ha aperto una branch. Il caso Enelpower, un processo per 27 milioni di euro di tangenti avviato da Francesco Greco nel 2003 e arrivato alla sentenza di primo grado nello scorso settembre, ha mostrato che gli istituti di credito elvetici provvedevano a trasferire il denaro dei corrotti per via telematica verso il paradiso asiatico. Lì l'azione di recupero dei fondi si è rivelata impossibile anche per la magistratura. Ma ormai tutti i circuiti di alto livello funzionano con le compensazioni tra banche che sfuggono alle maglie del monitoraggio fiscale dei movimenti valutari e consentono di applicare commissioni robuste. La Svizzera ha dovuto cercarsi nuove sponde in quanto Paese segnato sulla lista nera del fisco italiano. La black list comporta l'inversione dell'onere di prova: gli italiani con patrimoni o attività industriali oltre la dogana di Ponte Chiasso devono giustificarne l'esistenza e la legittimità. Una società italiana che paga una fattura a una società elvetica deve essere in grado di fornire le prove dell'attività economica. L'Austria non ha questo problema. Il governo di Vienna ha varato una legge che prevede una sorta di pedaggio dell'1 per cento se il denaro in arrivo dall'estero viene immediatamente trasferito altrove. Basta quindi che una società austriaca stipuli un contratto fasullo con un'impresa italiana, si faccia pagare la fattura e giri subito il denaro in Liechtenstein o nella stessa Svizzera. In questo caso, dovrà essere il fisco italiano a provare che il rapporto è fittizio. Il che complica parecchio le cose. La portaerei svizzera è efficiente nella prima fase, quando garantisce il segreto. In seconda battuta, sono meglio i trucchi garantiti dai Paesi in regola, dove spetta al fisco italiano provare l'evasione. Lo si vede in altre pratiche alla moda. Ci si può organizzare una polizza vita in Irlanda per mascherare una gestione patrimoniale. Si manda a Dublino un gruzzolo di euro e la legge locale permette di investirli in prodotti ad alto rischio, cosa che è vietata alle assicurazioni in Italia. In più, il capital gain applicato a una polizza gode di una tassazione vantaggiosa rispetto a quella applicata agli altri investimenti mobiliari. Sempre in ambito Unione stanno avendo un grande successo i trust di diritto britannico. L'Assofiduciaria, che raccoglie le 300 fiduciarie autorizzate dal ministero dello Sviluppo economico, ha calcolato che ben 700 di questi trust sono presenti nelle catene di controllo delle imprese italiane, con preferenza per le società di shipping o del settore armamenti. La legge di Londra stabilisce che se il co-trustee, uno degli amministratori fiduciari, è straniero, per esempio neozelandese, il trust diventa apolide e tutto quello che c'è dentro è esente da tasse. Anche le holding lussemburghesi sono una sicurezza per chi evade, visto che consentono di schermare il beneficiario fisico con numerosi intermediari. Ma questo è un vecchio cavallo di battaglia dell'evasione. La nuova frontiera - e l'Inps non mancherà di apprezzarlo - sono i pensionati con trattamenti da centinaia di migliaia di euro annui che fingono di andare a vivere a Cipro sulla falsariga dello schema londinese del "resident but not domiciled" che già ha inguaiato la star del MotoGp Valentino Rossi. Chi ha investito i soldi dello scudo fiscale in attività poco liquide avrà parecchi problemi. Lo stesso vale per quei pochi che hanno usato i tesoretti esteri a beneficio dell'azienda. E' il caso di un imprenditore in crisi del Nord-est che ha recuperato i soldi dal Canton Ticino e li ha messi sui conti dell'azienda a titolo di prestito non fruttifero. La somma scudata era intorno ai 20 milioni di euro, che oggi sono già stati in parte erosi dai debiti dell'azienda. L'imprenditore è ora a corto di liquidità e con l'aggiunta dell'1 per cento di "tassa sull'anonimato" deve pagarne altri 400 mila nel biennio 2012-2013. Non avendoli, dovrà chiederli in prestito. In ogni caso, il suo intermediario procederà al prelievo per girare la somma all'erario. Su questo, infatti, non c'è da avere dubbi. I sostituti di imposta si rivarranno sui clienti sia girando allo Stato denaro dalle disponibilità liquide sia disinvestendo denaro impegnato. E se erano titoli della Borsa a picco, la minusvalenza teorica diventerà perdita effettiva. In attesa che la manovra si definisca con i vari emendamenti, fra i quali un possibile prelievo dello 0,1 percento annuo su attività finanziarie estere regolari di cittadini italiani, le società di servizi specializzati in esportazione dei capitali moltiplicano le loro offerte. Gli evasori con canali sperimentati sanno già a chi rivolgersi. La lista Pessina, con 500 nomi affidati alle cure dell'avvocato svizzero Fabrizio Pessina e a Mario Merello, il marito della cantante Marcella Bella, è il prototipo di una rete di servizi di consulenza a 360 gradi. L'intervento della Guardia di Finanza e gli arresti disposti dalla magistratura ha un po' guastato l'alone di efficienza di questo genere di network. Ma la corsa ai conti esteri non si è fermata per un incidente di percorso. Per i debuttanti e per chi non ha conoscenze, c'è sempre la Rete. Il Web pullula di offerte a pacchetto di weekend a Lugano con visita al casinò e alla fiduciaria. Sembrano tanto stangate per i desperados dell'evasione. Se così è, nessuno salvo i diretti interessati ci piangerà sopra. Forse, però, ci sono sistemi migliori per arrivare all'equità fiscale.
Una vergogna chiamata off-shore, di Giorgio Ruffolo su “L’Espresso”. Dal Vaticano alle Isole britanniche: un sistema economico parallelo, segreto e sempre più fiorente. Sono i paradisi fiscali. Valgono un quinto del Pil mondiale. E nessuno se ne occupa. I am lost in paradise, cantava nostalgicamente Johanna Wang in una canzone divenuta famosa: mi sono smarrita in paradiso. Suggerirei ai governi di adottarla all'apertura del prossimo G20, quando si tratterà di affrontare il tormentato problema dei paradisi fiscali. Da quando il mondo è stato scosso dalla più violenta crisi economica degli ultimi ottant'anni si susseguono le lamentazioni e le indignazioni sul ruolo che nella crisi hanno svolto i circa 50 paradisi fiscali (anche il loro numero è controverso) esistenti nel mondo, i quali - cito da una recente risoluzione del Parlamento europeo - "incitano a praticare l'evasione fiscale, la frode fiscale e la fuga dei capitali". Tanto vibrata la denuncia, quanto fiacca e irresoluta la risoluzione: l'Unione, afferma l'europarlamento, "condanna con forza (tipica espressione usata da chi è consapevole di mancare di forze) il ruolo svolto dai paradisi fiscali". Che cosa propone il Parlamento europeo all'Unione? Assolutamente, niente: "L'Unione è invitata a rafforzare la sua azione e a prendere misure concrete e immediate, come, ad esempio, sanzioni contro i paradisi fiscali" (!). Immagino che i signori dei paradisi avranno tremato leggendo queste righe. In un altro progetto di risoluzione, presentato da Cohn Bendit e Rebecca Harms a nome del gruppo dei Verdi si leggono considerazioni più sensate. Si constata l'impotenza della denuncia e il vuoto della volontà. In particolare, si rileva la scandalosa assurdità delle conclusioni dell'Ocse che ha cancellato dalla sua "lista nera" la maggior parte dei paradisi contro la semplice promessa di aderire ai principi relativi agli scambi di informazione: come dire, scagionare i delinquenti mafiosi da ogni accusa in cambio della loro assicurazione di comportarsi bene. Ma vediamo le dimensioni del fenomeno più crudo che si nasconde dietro i paradisi. Che non è la pur gigantesca evasione fiscale. E' la criminalità internazionale. Qualche cifra. Il prodotto lordo mondiale (Plm) ammonta a 4 mila miliardi di dollari. Il Plc, il prodotto lordo criminale, a mille miliardi, un quinto del totale. Di che si tratta? Di tutto: droga, racket, rapimenti, gioco d'azzardo, sfruttamento della prostituzione, traffico di rifugiati, di oggetti d'arte, di specie protette, di organi umani...Il prodotto di questo enorme giro di affari bisogna, ovviamente, riciclarlo. E a questo si provvede grazie all'anonimato dei paradisi, che si sottraggono ad ogni seria informazione. Si calcola che il riciclaggio di denaro sporco ammonti a 600 miliardi di dollari all'anno. Il giro d'affari dei paradisi fiscali è di 1.800 miliardi di dollari. Le società off shore presenti in paradiso sono 680 mila. Le banche, attraverso le loro filiali sono, dichiaratamente, 10 mila. Ma esistono sistemi bancari paralleli che operano completamente al di fuori del sistema ufficiale, sfuggono anche agli obblighi formali e agli ordinari strumenti di vigilanza e controllo delle autorità competenti. Questi assumono denominazioni folkloristiche. In Cina si parla di sistema Chop Shop. In India di sistema Hundi, in America latina di Stash house. L'Inghilterra è senza dubbio la madre di tutti i paradisi. La finanza britannica domina più di 20 paradisi dell'arcipelago off shore, dalle lontane isole Cayman alla vicinissima isola di Man. Ed è istruttivo constatare come alle denunce frementi di Blair del terrorismo, definito come la guerra del secolo, corrisponda il protettorato britannico dei 20 casinò che lo finanziano. La doppiezza politica in tema di criminalità internazionale non è però una prerogativa britannica. Non vi si sottrae certamente l'istituzione che più di ogni altra al mondo ha a che fare col paradiso: la Chiesa cattolica. Nel Vaticano opera una delle banche più misteriose del mondo, l'Istituto delle Opere di Religione, Ior. Le sue operazioni sono identificate solo attraverso un codice. Non si rilasciano ricevute, non esistono assegni intestati allo Ior. I suoi bilanci e i suoi investimenti sono noti solo al papa, al Collegio dei cardinali e, naturalmente, alla direzione e ai revisori dell'istituto. Poiché il Vaticano è uno Stato sovrano, ogni richiesta di rogatoria allo Ior deve essere indirizzata attraverso il governo dello Stato cui appartiene il richiedente. Non si sa se e quante siano state le rogatorie richieste. Ma è certo che nessuna rogatoria è stata concessa dallo Stato del Vaticano. Il Paradiso è ben custodito. Del resto, non risulta che il Vaticano aderisca a organismi internazionali impegnati nella lotta al riciclaggio. Una vicenda intricata, la sparizione del tesoretto del santuario della Madonna di Loreto, frutto della benevolenza dei fedeli, affidato dall'arcivescovo di Loreto a un consulente finanziario già imputato per bancarotta fraudolenta e di lì sparito attraverso banche marchigiane, e poi svizzere e poi brasiliane, nel paradiso delle Cayman, getta una luce indiscreta sul ruolo che queste ultime svolgono nel mondo della finanza vaticana. Secondo un articolo diffuso sul Web, "i segreti finanziari del Vaticano vengono conservati nelle isole Cayman, il paradiso fiscale caraibico spiritualmente guidato (!) dal cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio di vigilanza dello Ior. Le Cayman sono state sottratte al controllo della diocesi giamaicana di Kingston per essere proclamate Missio sui iuris, alle dipendenze dirette del Vaticano". E' falso? E' vero? E non sarebbe il caso che, nello spirito della trasparenza evocato rispetto ad altre e ben diverse accuse, si facesse luce sulle ragioni che giustificano, dopo la cacciata di Adamo ed Eva, l'ingresso in paradiso di così illustri trafficoni? Forse, la Madonna di Loreto ha le sue buone ragioni per piangere. Quel che è certo è che la Chiesa cattolica opera finanziariamente non solo in condizioni di totale assenza di controlli, ma anche di straordinario privilegio fiscale. Gli aiuti economici dello Stato italiano, di varia natura, ammontano complessivamente a un miliardo di euro all'anno, e sono finiti nel mirino dell'antitrust europeo, con la possibilità dell'apertura di una inchiesta per aiuti di Stato illegali. Torniamo alla cosiddetta mobilitazione del mondo politico contro i paradisi fiscali: grandi discorsi, un mare di ipocrisia. Se i governi avessero intenzione di eliminare questa verminaia potrebbero farlo in ventiquattr'ore, attraverso l'eliminazione completa e rigorosamente osservata del segreto bancario. Ma non possono, perché la criminalità è parte integrante del processo di accumulazione capitalistico. Non la più importante, ovviamente, ma comunque determinante. E' un aspetto organico del mercato mondiale. Si può dire che lo è sempre stato. La novità di questi ultimi decenni è che la imprescindibile presenza della criminalità sta aumentando. L'aumento è dovuto in larga misura alla globalizzazione, che ha ampliato enormemente le dimensioni dell'impresa criminale e che ha determinato, con la libera circolazione dei capitali, un varco crescente tra il mercato, diventato mondiale, e il governo politico, rimasto, malgrado ogni tentativo di "coordinamento", locale. In questo varco si inseriscono le zone franche, che assicurano al capitalismo mondiale protezione dal fisco e riparo da ogni pretesa di controllo. Come suona un disinibito slogan, move your money and fuck the system: fa circolare il tuo denaro e fotti il sistema. In conclusione, tre verità sembrano inoppugnabili. La prima. L'impegno solenne dei governi democratici alla lotta contro i paradisi fiscali è una menzogna. Basterebbe la reale abolizione del segreto bancario per renderli inutili. I governi non possono permetterselo perché in tal caso inaridirebbero una parte imponente dell'accumulazione capitalistica. Pertanto la cosiddetta lotta contro i paradisi fiscali è un combattimento con una mano legata dietro la schiena. La seconda. Il libero (e segreto) movimento dei capitali è al tempo stesso fonte di due esiti contraddittori. Da una parte, esso mobilita imponenti risorse che consentono di strappare milioni di uomini e di donne a un destino di miseria. Dall'altra, consegna altre risorse imponenti nelle mani della criminalità mondiale organizzata. La terza. Questa contraddizione non potrà essere eliminata finché esisterà un varco tra la libertà dei mercati e la sovranità politica a livello mondiale: insomma, finché non ci sarà una qualche forma di governo mondiale capace di imporre la piena trasparenza dei capitali "liberati". In tali condizioni risultano penosamente ipocriti le grida rivolte ai paradisi fiscali; e al di là di quelle, le chiacchiere edificanti sull'etica degli affari e i vasti silenzi che le accompagnano. Delle prime si può dire ciò che diceva agli imprenditori il pragmatico Mac Millen: se volete l'etica dovete chiederla all'arcivescovo. Degli altri, salta agli occhi in particolare il silenzio della Chiesa e del pontefice romano sul paradiso del Vaticano che non è propriamente quello di Adamo ed Eva. Anche la Chiesa è posta di fronte alle sue contraddizioni. Così come, nel caso dell'aborto, essa tuona contro l'assassinio di bambini inesistenti, pretendendo che vengano al mondo bambini veri votati agli stenti e alla morte, nel caso delle conseguenze sociali dell'economia, alla vibrante condanna del mercatismo esasperato e al mirabile impegno di milioni di cattolici operanti nelle imprese umanitarie si contrappone la tacita complicità con il crimine organizzato che si realizza nei paradisi del denaro.
Non solo grandi evasori privati. L’evasione fiscale viene anche dal pubblico. Consulenze e incarichi privati. Il doppio lavoro degli statali. Inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Il rapporto della Guardia di Finanza: già scoperti 3.300 casi. C'è chi timbra il cartellino ed esce subito dopo, chi sbriga in ufficio le pratiche dei suoi clienti privati. Addirittura chi accetta consulenze su progetti che poi dovrà valutare per conto dell'Amministrazione. Sono i dipendenti pubblici che svolgono il doppio lavoro senza aver ottenuto l'autorizzazione. E in questo modo causano un grave danno all'erario. Sono i numeri a dimostrarlo. Negli ultimi tre anni sono circa 3.300 gli impiegati e i funzionari, anche di livello alto, scoperti dalla Guardia di Finanza e dagli ispettori della Funzione pubblica a svolgere attività esterne. Hanno guadagnato illecitamente oltre 20 milioni di euro, causando un danno alle casse dello Stato che sfiora i 55 milioni di euro. Il settore degli sprechi nella spesa pubblica si conferma, dunque, quello dove maggiormente bisogna intensificare controlli e verifiche per recuperare denaro e soprattutto evitare ulteriori perdite. La dimostrazione è nella relazione annuale delle Fiamme gialle sul fenomeno dei «doppi stipendi» che evidenzia i dati relativi al periodo che va dal 2009 al 2011 e soprattutto fa emergere i casi più eclatanti. E nella quale viene sottolineata «l'importanza di intervenire nel settore degli sprechi della spesa pubblica che da un punto di vista ragionieristico pesa quanto e forse più di quello delle entrate fiscali. Un'importanza che oggi traspare in maniera ancor più evidente in ragione del perdurante momento di crisi e degli impegni politici assunti dall'Italia nei confronti della comunità internazionale, i quali impongono che le risorse disponibili siano spese sino all'ultimo euro per sostenere l'economia e le classi più deboli, eliminando sprechi, inefficienze e - nei casi più gravi - distrazioni di fondi pubblici che rappresentano un ostacolo alla crescita del Paese». La legge che disciplina «le incompatibilità, il cumulo degli impieghi e gli incarichi» consente ai dipendenti pubblici di eseguire attività professionali al di fuori dell'orario di lavoro, «purché lo svolgimento del lavoro venga preventivamente portato a conoscenza della Pubblica amministrazione di appartenenza ai fini della valutazione della sussistenza di situazioni di incompatibilità o di conflitto d'interesse con la stessa». Ed è proprio questo il nodo che ha evidentemente impedito a queste migliaia di persone di chiedere l'autorizzazione. Nel dossier gli analisti della Finanza sottolineano come «non sia possibile stereotipare il profilo del dipendente pubblico che viola queste norme, perché si va dai lavoratori con bassa qualifica fino a dirigenti con posizioni apicali», ma chiariscono che «i doppi lavori esercitati sono dei più eterogenei, spaziando dai lavori più umili alle alte consulenze professionali e tecniche prestate in cambio di laute retribuzioni. In sostanza si va da chi tenta di arrotondare magri stipendi a chi invece con il doppio lavoro incrementa redditi già invidiabili». Tra le denunce del 2011 spicca quella di un geometra in servizio in un'amministrazione provinciale che ha percepito consulenze per 885 mila euro senza aver mai chiesto alcun nulla osta. Ma la circostanza più grave è che i pareri riguardavano nella maggior parte dei casi le pratiche che doveva poi esaminare nello svolgimento del proprio incarico presso l'Ente locale. Poco meno ha guadagnato un ingegnere che è riuscito a ottenere compensi extra per poco più di 514 mila euro grazie al rapporto che aveva con alcuni studi specializzati. Sembra incredibile, ma persino alcuni dirigenti dell'Agenzia delle entrate hanno accettato di svolgere mansioni per cittadini e società private in materia fiscale. Il record spetta a un alto funzionario che senza chiedere alcuna autorizzazione ha svolto incarichi per 850 mila euro. Introiti di tutto rispetto anche per un professore universitario che oltre alle lezioni presso l'ateneo, ha percepito 266 mila euro di compensi aggiuntivi. Nel suo caso - come spesso accade - è stato l'organo di vigilanza interno ad attivare l'Ispettorato, ma molto più spesso i controlli vengono effettuati su segnalazioni di cittadini - talvolta colleghi di chi risulta al lavoro e invece non si presenta - oppure grazie a indagini autonome attivate dalla Guardia di Finanza. Nel 2009 le Fiamme gialle hanno effettuato 738 interventi. Risultato: «Sono stati 738 soggetti verbalizzati, 15 milioni e mezzo di euro le sanzioni contestate a fronte di 1 milione e 161 mila euro di compensi percepiti senza autorizzazione». L'anno del boom è stato certamente il 2010, quando l'allora ministro Renato Brunetta chiese un'intensificazione delle verifiche proprio in questo settore. Il dato registra «983 interventi effettuati, 1.324 denunce e ben 28 milioni 296 mila euro in sanzioni, a fronte di introiti illegittimi che superano i 13 milioni di euro». Buoni risultati anche nei primi 10 mesi di quest'anno (il dato contenuto nella relazione arriva fino agli inizi di novembre). Pur essendo calato il numero dei controlli a 722, le persone scoperte sono state 1.029 e 10 milioni e mezzo di euro l'ammontare complessivo delle contestazioni a fronte di cinque milioni e mezzo di euro guadagnati dai dipendenti pubblici senza autorizzazione». È proprio nella relazione pubblicata a fine ottobre scorso dagli ispettori del ministero allora guidato da Brunetta che viene citato il caso di «dodici tra funzionari e dirigenti in rapporto di lavoro con Aziende sanitarie che hanno ricevuto compensi superiori a 100 mila euro ciascuno» per attività extra. Ma il vero record l'ha raggiunto un dipendente statale citato in giudizio dalla magistratura contabile. Si legge nella relazione della Funzione pubblica: «Anche il procuratore capo della Corte dei conti della Regione Lazio ha citato durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2011 la "vicenda paradossale" di un dipendente sottoposto a giudizio per un'ipotesi di danno erariale di 2 milioni e mezzo di euro. Il dipendente è risultato titolare contemporaneamente di più rapporti di pubblico impiego, espletando altresì in un arco temporale di qualche anno ben 62 incarichi e consulenze professionali, figurando come avvocato e fatturando con la partita Iva della quale era titolare in quanto intestatario - tra l'altro - di un'attività commerciale di ristorazione». La direttiva d'intervento del comandante generale della Guardia di Finanza per il prossimo anno impone che l'attività dei vari reparti debba essere intensificata - oltre che nella lotta all'evasione fiscale - proprio sugli sprechi della spesa pubblica, così come del resto è stato più volte sollecitato dal governo. E quello dei doppi stipendi è certamente uno dei settori in cima alle liste di priorità per incrementare i «fondi di produttività» dei dipendenti pubblici (che servono tra l'altro a pagare gli straordinari); la legge prevede infatti che vengano incamerate non soltanto le somme ingiustamente percepite dai lavoratori, ma anche «gli introiti delle sanzioni comminate ai soggetti committenti, per lo più privati, che si avvalgono irregolarmente delle prestazioni dei pubblici dipendenti».
E poi, per ultimo ci sono i piccoli evasori-truffatori. L'esercito dei finti disoccupati. I costi dei raggiri all'Inps. Inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Rimborsi non dovuti, assegni e pensioni di parenti deceduti. Quello delle truffe all'Inps è certamente il settore che genera maggiore allarme visto che l'ammontare del deficit continua ad aumentare, nonostante l'intensificazione dei controlli. Perché è vero che il lavoro «nero» rappresenta una vera e propria piaga, ma anche gli illeciti compiuti grazie a false certificazioni o alla complicità di dipendenti dell'istituto di previdenza - soprattutto nelle sedi periferiche - provocano una vera e propria emorragia di fondi pubblici. In attesa dei dati consolidati per il 2011, sono le segnalazioni di infrazione già trasmesse al comando generale della Guardia di Finanza a dimostrare quale sia il livello degli illeciti compiuti. C'è chi ritira la pensione del parente morto e chi continua a percepire l'indennità di accompagnamento nonostante sia ricoverato in una struttura di lungodegenza a totale carico dello Stato. C'è chi ha ottenuto il rimborso per la sospensione della propria attività dopo il terremoto in Abruzzo e ci sono le migliaia e migliaia di falsi braccianti che causano ogni anno una perdita milionaria all'Erario. Il fenomeno è molto più esteso di quanto si creda: nel 2011 la Guardia di Finanza ha scoperto complessivamente più di 6.500 falsi braccianti agricoli che hanno provocato un danno alle casse dell'Inps di oltre 42 milioni di euro. L'indagine più capillare è stata certamente quella condotta dalla tenenza di Capo d'Orlando, in Sicilia, che ha esaminato circa 33.000 istanze di disoccupazione. I risultati sono stati sorprendenti. È stato infatti accertato come «1.759 individui avevano ottenuto circa 7,5 milioni di euro dalle casse dell'Inps, in quanto - pur essendo in realtà titolari di partita Iva e svolgendo attività professionali, commerciali o imprenditoriali - avevano presentato all'Istituto false autocertificazioni in cui dichiaravano di versare nella condizione di "disoccupato". Tutti i soggetti, che hanno percepito assegni che variavano tra i 1.500 e i 9.000 euro annui, sono stati denunciati all'autorità giudiziaria per falso e truffa ai danni dello Stato». Gli stessi reati sono stati naturalmente contestati ai datori di lavoro che, «al fine di dimostrare l'esistenza del rapporto facevano spesso ricorso a transazioni commerciali coperte da fatture false, utili da una parte a giustificare l'operatività di quei braccianti e, dall'altra, ad abbattere il reddito delle imprese». E questo ha fatto anche individuare «69 evasori totali e redditi non denunciati per circa 30 milioni di euro». Chi percepisce l'indennità di accompagnamento deve segnalare un eventuale ricovero in lungodegenza se si tratta di una prestazione erogata dal servizio sanitario nazionale. Una procedura che non sempre viene rispettata, come è stato scoperto dal nucleo di polizia tributaria di Lecce che ha effettuato 1.467 controlli sui «soggetti ricoverati in strutture sanitarie in regime di lungodegenza con retta a totale carico dell'Asl o di altre pubbliche amministrazioni, che risultavano essere anche percettori dell'"indennità di accompagnamento"». Alla fine delle verifiche sono state denunciate 443 persone per aver percepito complessivamente oltre 3 milioni e 800 mila euro di indennità non dovute. In particolare «26 persone hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale, di fatto, risultavano ricoverate in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello Stato. Gli stessi soggetti, attraverso la dissimulazione di circostanze esistenti hanno indotto in errore l'Inps che ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 270.823 euro. Gli altri 417 soggetti hanno riscosso l'indennità di accompagnamento in un periodo durante il quale erano anch'essi ricoverati in strutture di lungodegenza o riabilitative con pagamento della retta di ricovero a totale carico dello stato. A differenza dei primi, hanno omesso di comunicare all'Inps le informazioni dovute - in particolate l'avvenuto ricovero con pagamento della retta a totale carico dello Stato - e hanno indotto in errore il medesimo Istituto di previdenza che, pertanto, ha provveduto a erogare loro trattamenti economici complessivamente pari a 3.550.892». La più determinata è una donna di Palermo che è riuscita a percepire la pensione della madre morta dieci anni prima. Ma sono decine e decine i casi scoperti dai finanzieri di Palermo di persone che grazie a un'autocertificazione con dati fasulli sono riusciti a riscuotere per lungo tempo la pensione del familiare morto. Le verifiche sono state effettuate ricostruendo i flussi finanziari transitati su centinaia di conti correnti postali e bancari per individuare il reale beneficiario e hanno consentito di scoprire che numerosi soggetti, proprio per sviare eventuali indagini, avevano fittiziamente spostato la residenza in altri Comuni del territorio nazionale o addirittura all'estero. Alla fine degli accertamenti sono state denunciate 441 persone con un danno erariale che supera gli 800 mila euro. «Il sistema di frode - è scritto nella segnalazione - ha consentito agli indagati di percepire le somme di danaro, con riscossione direttamente allo sportello, attraverso la redazione e sottoscrizione di una dichiarazione con cui si attestava falsamente l'esistenza in vita del titolare della pensione. In altri casi, invece, la morte del titolare della pensione veniva completamente taciuta e, quindi, mensilmente, continuava ad avvenire l'accredito diretto su conti correnti postali o bancari». Tra le agevolazioni concesse alle vittime del terremoto in Abruzzo del 2009 c'era anche l'indennità per chi era stato costretto a sospendere la propria attività. Ed è proprio per verificare il rispetto delle procedure che la Finanza ha avviato controlli su tutti coloro che ne avevano fatto richiesta. Si tratta di professionisti, lavoratori autonomi, artigiani e piccoli imprenditori, coltivatori diretti e commercianti, che avevano presentato l'istanza allegando «autocertificazioni attestanti danni a immobili, impianti e macchinari o altri impedimenti». Ma per 56 di loro quella documentazione si è rivelata falsa: gli investigatori hanno accertato che - nonostante avessero percepito indennità per 300 mila euro - avevano continuato a svolgere regolarmente il proprio lavoro». Sciacallaggio come quello compiuto da sei persone, denunciate nel corso della stessa operazione, che hanno ottenuto i 600 euro mensili previsti per chi non aveva più l'abitazione agibile con un danno complessivo già quantificato in 50 mila euro.
NON CI RESTA CHE PIANGERE....
La Massoneria appoggia Monti. Esclusivo: parla il Gran Maestro.
CHE COS'E' "IL GRANDE ORIENTE D'ITALIA".
"La Massoneria del Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani è un Ordine iniziatico i cui membri operano per l'elevazione morale e spirituale dell'uomo e dell'umana famiglia. La natura della Massoneria e delle sue istituzioni è umanitaria, filosofica e morale. Essa lascia a ciascuno dei suoi membri la scelta e la responsabilità delle proprie opinioni religiose, ma nessuno può essere ammesso in Massoneria se prima non abbia dichiarato esplicitamente di credere nell'Essere Supremo. La Massoneria non è una religione né intende sostituirne alcuna: non pratica riti religiosi, non valuta le credenze religiose, non si occupa di nessun tema teologico, non consente ai propri membri di discutere in Loggia in materia di religione. La Massoneria lavora con propri metodi, mediante l'uso di Rituali e di simboli coi quali esprime ed interpreta i princìpi, gli ideali, le aspirazioni, le idee, i propositi della propria essenza iniziatica. Essa stimola la tolleranza, pratica la giustizia, aiuta i bisognosi, promuove l'amore per il prossimo e cerca tutto ciò che unisce fra loro gli uomini ed i popoli per meglio contribuire alla realizzazione della fratellanza universale. La Massoneria afferma l'alto valore della singola persona umana e riconosce ad ogni uomo il diritto di contribuire autonomamente alla ricerca della Verità. Essa inizia soltanto uomini di buoni costumi, senza distinzione di razza o di ceto sociale. I Lavori di Loggia sono di natura strettamente riservata, ma non segreta. Il Massone è tenuto ad osservare scrupolosamente la Carta Costituzionale dello Stato nel quale risiede o che lo ospita e le leggi che ad essa si ispirino. La Massoneria non permette ad alcuno dei suoi membri di partecipare o anche semplicemente di sostenere od incoraggiare qualsiasi azione che possa turbare la pace e l'ordine liberamente e democraticamente costituito della società. I Massoni hanno stima, rispetto e considerazione per le donne. Tuttavia, essendo la Massoneria l'erede della Tradizione Muratoria operativa, non le ammette nell'Ordine. Ogni membro, al fine di rendere sacri i propri impegni, deve aver prestato Solenne Promessa sul Libro della Legge da esso ritenuta Sacra.
E come in ogni altro tema sociale affrontato, troviamo sempre essa: la Massoneria.
Comunque la pensiate......
"Il curriculum di Mario Monti è di alto profilo. Spero vivamente che possa traghettarci fuori da questa crisi".
Gustavo Raffi, Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, la principale loggia massonica, con una intervista ad Affaritaliani.it appoggia il nuovo governo. E sull'esecutivo Berlusconi ha un giudizio poco lusinghiero: "Quando sento dire da Tremonti che con la cultura non si campa... c'è qualche cosa di sbagliato". Un buon punto di partenza è il ritorno alla meritocrazia: "Se vado a vedere le teste pensanti che erano presenti in tutti i partiti del primo Parlamento e poi vado a vedere quelle di oggi... l'Aula non può essere il rifugio di quelli che non possono fare altro".
Come valuta la lettera aperta a firma del Venerabile Maestro Gioele Magaldi, leader del Grande oriente democratico (corrente eterodossa del Grande oriente d'Italia) che fa le congratulazioni al "fratello Mario Monti"?
"Sono convinto che certi personaggi si sveglino la mattina in cerca di notorietà. Non bisogna dare corda a questo individuo, che tra l'altro è stato espulso dal Grande Oriente. Cui prodest? Solo a Magaldi che è in cerca di visibilità. Come diceva Troisi: non ci resta che piangere".
Che cosa ne pensa di Mario Monti?
"Il curriculum è di alto profilo. Spero vivamente che possa traghettarci fuori da questa crisi. Certo poi un governo va valutato sulla base delle opere che riesce a realizzare".
E' la persona di cui oggi l'Italia ha bisogno?
"Questo lo sapremo solo dopo che avremo visto i fatti. La massoneria non si occupa di politica del quotidiano. Si occupa dei grandi valori, dei grandi temi".
Ci spieghi meglio...
"Ancora ai tempi della Grecia antica un tale Aristotele disse che l'uomo è un 'animale politico', ma non certo perché è iscritto a qualche partito o perché ha una tessera. Semplicemente perché vive nella polis, nella società e quindi si fa carico dei problemi che riguardano la dignità e la libertà della persona. I grandi problemi della società erano i suoi problemi e sono quelli della massoneria".
In quest'ottica come valuta il governo Berlusconi?
"Beh, quando sento dire, da Tremonti, un ex ministro dello scorso governo, che con la cultura non si campa. Questo è una offesa, una violenza. Se non hai un ancoraggio ideologico, se non hai un sogno come puoi vivere. Da vecchio mazziniano dico che il problema è sempre l'educazione. Quando a Mazzini gli chiesero che cosa fosse la Repubblica lui disse che 'è una idea, non è una forza di governo o di partito che vince o che perde, è un progetto di educazione morale'".
L'Italia ha bisogno di meritocrazia?
"Assolutamente sì. E' un concetto che condivido. Anche se la meritocrazia significa anche la capacità di sapersi elevare, non solo di fare carriera in una azienda o in una professione. E' qualcosa di più ampio".
Secondo lei in politica ci sono troppo persone che non hanno i requisiti per sedere in Parlamento?
"Se considero la composizione del primo Parlamento e vado a vedere le teste pensanti che erano presenti in tutti i partiti e poi vedo quelle di oggi... Il Parlamento non può essere il rifugio di quelli che non possono fare altro. Lei sa chi era Alfredo Baccarini?".
No, devo ammetterlo, non lo conosco.
"Alfredo Baccarini è stato il più grande ministro dei Lavori pubblici che l'Italia abbia mai avuto. Era un uomo che quando il governo non manteneva il programma si dimetteva. E quando morì un giornale francese scrisse: 'E' morto povero, il più grande encomio che si possa fare ad un uomo politico'".
Ancora una volta, non ci resta che piangere, come dicevano Troisi e Benigni, anche dal ridere.
Francamente ci ha lasciato tutti per un attimo senza parole. Letteralmente. Perché, vedere un ministro che - mentre cerca di spiegare agli italiani quali "sacrifici" dovranno affrontare - scoppia a piangere, lascia davvero sconcertati. Poi lo stupore svanisce e rimane la domanda, anche un po' stizzita: ma perché diavolo piange la Fornero? Le risposte - come ci dimostrano i commenti dei nostri lettori - sono tra le più disparate. Chi si arrabbia, chi se ne frega, chi prova tenerezza. Eppure c'è un sentimento che si ripete in continuazione: lo sconforto. Che si rimanga inteneriti o incavolati neri, c'è uno scoramento di fondo perché: se nemmeno chi detta una via d'uscita crede in essa, dove vogliamo andare? Se proprio chi chiede agli italiani di fare sacrifici, lo fa senza speranza, vien da chiedersi: ma a chi siamo in mano? E, soprattutto, che fine faranno i nostri soldi? E questo fa arrabbiare praticamente tutti.
Il sondaggio - Il Corriere della Sera ha fatto un sondaggio: "E il ministro piange, via ha commosso o irritato?". Inizialmente il risultato mostrava una certa solidarietà verso il 'ministro sofferente': circa il 60% dei votanti si dichiarava commosso. Eppure, questa volta, nemmeno i lettori del Corriere hanno resistito a lungo. Così persino lo sponsor ufficiale del governo Monti è riuscito a difendere l'indifendibile e il risultato si è letteralmente ribaltato nel giro di poche ore. Segna circa il 60% di irritati contro circa il 40% dei commossi.
La manovra era necessaria e senza alternative, altrimenti «lo Stato entro breve non avrebbe potuto più pagare né stipendi nè pensioni» e quindi per l'Italia sarebbe stata la bancarotta. Mario Monti, al debutto televisivo da presidente del Consiglio, fa subito una premessa: «Sono qui per spiegare, non per far piacere a lei», ha detto a Bruno Vespa tramite il quale ha voluto completare il suo personale "road show" per illustrare - questa volta direttamente agli italiani - la gravità della situazione economica del nostro paese e i conseguenti sacrifici che il suo governo ha dovuto imporre. Ma gli italiani, si è detto convinto il premier, «certamente capiranno».
«Il rischio era che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni». Presentando la manovra - ha affermato nello stesso salotto dove Silvio Berlusconi firmò il famoso "contratto con gli italiani" - «ho invitato tutti a considerare che questa operazione di rigore, equità e crescita chiedeva sacrifici. Ma l'alternativa non era quella di andare avanti come niente fosse, ma quella di correre il rischio che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni. Non abbiamo da guardare molto lontano: la Grecia è la rappresentazione di che cosa sarebbe potuto accadere in Italia». Il premier ha ammesso che si è trattato di una operazione tutt'altro che indolore anche per lui stesso ammettendo che l'intervento più sofferto è stato quello sulle pensioni più deboli: «La cosa che mi ha fatto più soffrire - ha rivelato - è quando ho visto che per fare una cosa corposa bisognava chiamare a contribuire anche i pensionati e quelli con livelli molto bassi con il blocco dell'inflazione. A quel punto ho capito che bisogna chiamare a contribuire anche quelli dello scudo fiscale».
Per Monti, quindi, la reazione dei sindacati è più che comprensibile: «In passato ci sono stati scioperi, anche generali, per molto meno. Francamente capisco la protesta ma invito anche tutti a pensare cosa sarebbe accaduto al lavoro e alle pensioni senza questo intervento. Con i mezzi che ci erano dati abbiamo comunque fatto molta più redistribuzione di quanto non si sia mai fatto. Gli italiani capiranno e noi spiegheremo le nostre decisioni».
«Decisioni per domare i mercati». Decisioni che servono anche a «domare i mercati: questi - spiega - sono una bestia feroce e oggi sono imbizzarriti. Certamente - assicura - noi lavoriamo per i cittadini e non per i mercati, ma non possiamo non tenerne conto perché il loro funzionamento è essenziale». Talmente tanto che Monti lascia intendere come la manovra approvata sia, di fatto, quasi il "minimo sindacale" richiestoci. Blindando il testo. Pur non annunciandola apertamente il premier ha di fatto evocato più di una volta la fiducia soprattutto quando ha fatto sapere che se «il Parlamento è sovrano, il tempo è però poco e i margini per eventuali modifiche sono pochissimi».
Ma nel futuro dell'Italia a guida Monti non ci sono solo sacrifici: «Il mercato del lavoro - ha infatti detto - sarà il nostro prossimo cantiere e la concertazione sarà essenziale. Le prossime iniziative riguarderanno lo sviluppo, le liberalizzazioni, misure che non chiedono sacrifici, ma modificano la struttura per togliere ingessature all'economia italiana».
«Misure impopolari ma indispensabili». Ha spiegato che le misure, anche quelle più impopolari come l'aumento della benzina e la reintroduzione dell'Ici, sono state «indispensabili», ma ha anche assicurato che l'Irpef non verrà toccata. Ma già si sentono gli effetti di questa manovra pesante: l'Italia - ha detto - d'ora in poi siederà al tavolo europeo e internazionale «da protagonista e non da osservatore distratto.
Silvio Berlusconi amava arrivare all'ultimo minuto, Mario Monti invece approda in via Teulada 75 minuti prima della diretta. Non tanto per marcare la discontinuità, quanto per incontrare i vertici Rai. E una volta seduto sulla poltroncina bianca di Porta a Porta il premier ricorda il Cavaliere per un istante soltanto. Quando si rivolge al padrone di casa con un «se mi permette, dottor Vespa...» seguito da un brusco «non sono qui per fare un piacere a lei». Per il resto, il paragone è impossibile. Lontani i tempi del «contratto con gli italiani», il premier è venuto a dire ai cittadini - in prima serata e in un format tv ideato dopo le polemiche che hanno preceduto l' intervista - che senza «i sacrifici pesanti» il treno Italia sarebbe deragliato. «L'alternativa era il rischio Grecia, il non poter pagare stipendi e pensioni». Monti non cerca l'applauso e nemmeno lo trova. Il momento è cruciale e le misure proposte «non fanno piacere a nessuno», tantomeno a lui. «Gli scioperi? Capisco le reazioni». Arrivando in Rai gli avevano chiesto se era emozionato. E lui: «No». Gessato grigio e cravatta a pallini biancocelesti, incappa subito nel bello della diretta. «Normalmente io guardo lei?», domanda a Vespa in fuorionda. E il conduttore: «Me e le telecamere, aiuta la conversazione». E quando il giornalista gli fa notare che ha perso «solo» nove punti di gradimento, il premier si sbilancia: «Dovevo farla più pesante, la manovra?». I partiti lavorano agli emendamenti, ma Monti avverte che il decreto è pressoché blindato. In Parlamento terrà «occhi e orecchie spalancati», perché le forze che lo sostengono non provino a cambiare troppo i contenuti pur tenendo fermi i saldi: «Il tempo è poco e il margine di flessibilità è pochissimo». Metterà la fiducia? «È prematuro affermarlo, ma le ho spiegato qualcosa di più importante - e qui il "prof" bacchetta lo studente Vespa - cioè che non modificheremo la struttura». La cosa che più lo ha fatto «soffrire» è aver dovuto toccare le pensioni più basse. «Ci siamo sentiti molto in difficoltà - ammette -. Lì ci siamo convinti che era il caso di chiamare a contribuire anche chi aveva usufruito dello scudo fiscale». La ministangata «sarà fatta», lo dice Monti e lo ribadisce Grilli a Ballarò, aggiungendo che gli «scudati» che non verseranno la tassa dell' 1,5 per cento perderanno l'anonimato. Sull'Ici il viceministro apre a una proroga per le prime case e, sulle pensioni, Elsa Fornero spera che, se si troveranno i soldi, si possa «alzare il tetto per garantire l'indicizzazione» agli assegni più bassi. Per due volte Monti loda la sua «piccola squadra» e promette una futura ribalta anche a quei ministri rimasti in ombra, «fiero e orgoglioso» com'è di aver scelto uomini e donne «di straordinaria qualità». Respinge le critiche dei cattolici per i mancati sgravi alla famiglia, fa capire quanto sia arduo dover fare «equilibrismo» tra Pd e Pdl e conferma che non alzerà l'Irpef. Scherza su Vespa «ministro dell' Economia» e rivendica di aver riportato l'Italia «nel salotto buono» del mondo. Quanto ai costi della politica «siamo solo all'inizio», prepara nuove sforbiciate Monti. E annuncia una «task force aperta anche ai contributi dei giornalisti». Solo sul finale concede uno squarcio della sua vita privata. La mamma lo ammoniva a «tenersi alla larga dalla politica» e la moglie lo rimprovera ogni sera per essere rientrato tardi nell'appartamento presidenziale: «Non credo sia interamente contenta per gli orari che faccio». È forse l'unico sorriso, l'unico momento in cui Monti si rilassa dopo aver tenuto, per mezz'ora, i gomiti puntati sui braccioli della poltroncina.
«Il rischio era che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni». E allora……?!?
Pensioni, d’oro, pensioni baby, pensioni privilegiate, stipendi a statali nullafacenti e irrispettosi che causano disservizi a catena. Sprechi e foraggiamento ai media per tacitare verità scomode. Di che parliamo. Di truffa legalizzata, se non di che cosa?
Proprio il 9 dicembre 1011 un servizio di Mingo su “Striscia la notizia” denuncia uno spreco colossale: Pagato, ma non lavora da sei anni. Mingo intervista un signore.
Mingo «Innanzitutto complimenti, perché lei mette la faccia nel dire questa cosa che a noi sembra incredibile. Cioè lei percepisce uno stipendio senza lavorare.»
Persona «Sì, sì, esattamente così.»
Mingo «He sì. Lei fa il segretario comunale.»
Persona «Sì, sì, e questo è il mio lavoro… segretario comunale.»
Mingo «E cosa consiste, detto in parole povere.»
Persona «Intanto, come dice la parola, lavoro nei Comuni. Lavoro nei Comuni e mi occupo di coordinare i vari servizi dei Comuni…»
Mingo «Certo…»
Persona «Presto consulenza, soprattutto giuridica ai vari organi….»
Mingo «Certo…»
Persona «E anche ho anche il compito ingrato, qualche volta di vigilare su..su…sull’attività del Comune…»
Mingo «Del Comune….. Mi spiega perché sta a casa e percepisce lo stipendio.»
Persona «E guardi. E’ semplice. Circa 15 anni fa…»
Mingo «Sì….»
Persona «La legge è cambiata. Prima ci assegnavano le Prefetture. Il Ministero tramite le Prefetture ai comuni. Da circa 15 anni è stato stabilito che il segretario debba essere di fiducia del Sindaco o del presidente della provincia…»
Mingo «Haaa….»
Persona «Quindi che succede. Quando il Sindaco si scegli il Segretario di sua fiducia, quello che già lavora se ne deve andare…»
Mingo «Ho capito. Percependo lo stesso lo stipendio….»
Persona «E certo…..»
Mingo «Lo stipendio, vogliamo ricordare di…»
Persona «Duemila e seicento euro.»
Mingo «Mi scusi. Da quanti anni lei percepisce lo stipendio e non lavora.»
Persona «Lo devo dire…»
Mingo «Lo dica….»
Persona «Lo dico…»
Mingo «Lo dica….»
Persona «Da sei anni netti.»
Mingo «Haaa….mi scusi però, perché ha scelto di dirlo a Striscia.»
Persona «Beh…intanto, perché questo problema non coinvolge soltanto me, ma possiamo dire, centinaia di persone…»
Mingo «In Italia…in tutta Italia…»
Persona «Sì, nel nostro paese, evidentemente, e poi perché il fatto che il mio destino personale, professionale, familiare debba essere affidato a persone sulle quali, in qualche modo, dovrei esercitare anche un minimo di controllo, per quanto non mi faccia piacere»
Mingo «Certo….»
Persona «E’ un’aberrazione che non mi sta bene, che danneggia me e danneggia soprattutto i cittadini per le ricadute di illegalità che questa situazione comporta. »
E non è tutto.
Tira una brutta aria, sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. Il premier Mario Monti intende mettere mano agli stipendi dei parlamentari: una sforbiciatina da 5mila euro a politico che sta infiammando i corridoi dei Palazzi romani. "Non è necessario attendere l’esito dell’indagine della commissione Istat per equiparare le retribuzioni dei parlamentari italiani alla media Ue: basta riferirsi semplicemente a quanto accertato dall’Europarlamento nella sua indagine del luglio 2008 che aveva fatto uno studio approfondito per arrivare a una media dei compensi fino ad allora attribuiti dai singoli Paesi". In una intervista all’Adnkronos il presidente della commissione Esteri del Senato, Lamberto Dini, replica duramente alle indiscrezioni, apparse oggi su alcuni quotidiani, che parlano di una rivolta in parlamento a causa dell'emendamento "taglia-stipendi" che scatterebbe per decreto qualora la commissione guidata dal presidente dell'Istat Enrico Giovannini non finisse il proprio lavoro entro fine anno. La norma, contenuta nel decreto "salva Italia" licenziato dal premier Mario Monti, prevede la riduzione - già a partire dal gennaio 2012 - delle indennità ai parlamentari equiparandole a quelle percepite dai politici negli altri Paesi dell'Eurozona. Una presa di posizione che, a detta del Tgcom, non piace affatto ai nostri politici. Da Montecitorio e da Palazzo Madama fanno sapere che la norma violerebbe "l'autonomia del Parlamento". Lo stesso Dini va a riesumare una indagine disposta dall’Europarlamento due anni fa: la ricerca serviva a fissare la retribuzione degli eurodeputati come risultante dalla media delle retribuzioni dei parlamentari dei singoli Paesi. "La verità - ha spiegato il parlamentare del Pdl - è che le retribuzioni onnicomprensive nette (quindi non solo l’indennità, ma anche la diaria e i compensi accessori), dei deputati e senatori italiani sono già oggi, anche in virtù delle riduzioni già decise nei mesi scorsi, al di sotto della media delle analoghe retribuzioni dei colleghi europei". Per Dini questo dovrebbe bastare. Secondo i numeri riportati da Repubblica, l'indennità di un deputato ammonta a oltre 11.700 euro, cifra calcolata al netto della diaria. Si tratta di circa 6mila euro in meno (per essere precisi 5.339 euro) rispetto alla media delle retribuzioni percepite nel Vecchio Continente. A questi numeri il governo Monti sta guardando come modello al fine di riuscire a tagliare i costi del parlamento. La prima bocciatura ai tagli è stata decisa dalla commissione Affari costituzionali che ha espresso parere negativo sul settimo comma dell'articolo 23. Stesso copione anche a Palazzo Madama. "Quell'intervento, giusto nel merito, lede l'autonomia del parlamento - ha spiegato il senatore questore Benedetto Adragna a Repubblica - Se non lo faranno prima i colleghi della Camera, il nostro collegio dei questori depositerà un emendamento correttivo. Puntiamo all'equiparazione ai parlamentari europei, con tutto ciò che ne consegue".
Un nuovo trucchetto della Casta, che come titola Libero in edicola, martedì 3 gennaio 2012, "frega pure Monti". Perché? Perché la Casta si è salvata gli stipendi d'oro. Era stata infatti creata una commissione che, come spiega il vicedirettore Franco Bechis, "entro il 31 dicembre avrebbe dovuto stabilire se e come tagliare i trattamenti economici di deputati, senatori, politici degli enti locali, giudici, dirigenti e boiardi di Stato". Peccato che questa commissione abbia già rinunciato alla titanica impresa, poiché "troppo delicata". Eppure la faccenda non pare così complessa: Libero ha completato i calcoli che erano stati delegati alla commissione in poche ore. Nel Sistema parlamentare italiano c'è una tessera che consente loro di salire e scendere liberamente da aerei, treni, navi, di non pagare il pedaggio autostradale. Un privilegio che non ha nessun collega europeo: in Francia i parlamentari hanno una tessera che permette loro di fare più di 40 viaggi aerei tra il collegio e Parigi e sei fuori dal collegio. Come se non bastasse l'onorevole italiano usufruisce anche di 258 euro di rimborso mensile per le spese telefoniche e di 41 euro per la dotazione informatica. Fino al 31 dicembre 2011 la nostra Casta usufruiva di un vitalizio dopo solo due legislature, al compimento del 50esimo anno: resta l'assegno di fine mandato, ma il vitalizio è stato sostituito dal primo gennaio da una pensione calcolata con metodo contributivo e solo al compimento dei 65 anni d'età. In Italia il vitalizio è stato di 2.486 euro mensili per due legislature. La Casta percepisce anche un'indennità di residenza, una somma assegnata al parlamentare per mantenersi fuori dalla città di residenza: sotto questo aspetto gli italiani non sono primi, perché la somma che percepiscono i colleghi tedeschi è più alta: 3900 euro invece dei 3500 degli italiani. Da qualche tempo questa ricca indennità viene decurtata in base alle assenze: non solo quelle nelle sedute dell'aula ma anche delle commissioni. Si possono tagliare gli stipendi dei parlamentari italiani? Per la Commissione guidata dal presidente Istat Enrico Giovannini, il problema è che i nostri deputati e senatori guadagnano più dei colleghi europei in termini di stipendio, però costano di meno in termini di assistenti (i cosiddetti portaborse) e spese aggiuntive. Lo dice il rapporto della Commissione. Per la Commissione è impossibile fare una media. L'organismo che aveva avuto l'incarico dal governo Berlusconi e dalle presidenze di Camera e Senato, confermato dall'esecutivo Monti, doveva rendere il suo verdetto entro il 31 dicembre 2011 e lamenta il poco tempo a disposizione. La media comunque è complessa: in Italia l'indennità parlamentare lorda per i deputati è di 11.283 contro i 7.100 euro della Francia, i 2.813 della Spagna, 8.500 nei Paesi Bassi, 7.668 in Germania. A cui si aggiunge in Italia una diaria da 3.500 euro. Sono però minori le spese accessorie, in particolar modo quelle dei collaboratori: rientrano per i deputati nostrani fra le spese di segreteria e rappresentanza, 3.690 euro al mese. Mentre per esempio in Francia un deputato può spendere fino a 9.100 euro al mese per i collaboratori, in Germania sono pagati dal Parlamento per un totale di 14.700 euro, in Austria sono dipendenti della Camera. Per la Commissione comunque i dati raccolti sono «del tutto provvisori e di qualità insufficiente per una utilizzazione ai fini indicati dalla legge». Insomma insufficienti per capire se e quanto tagliare. Quindi «nonostante l'impegno profuso e tenendo conto dell'estrema delicatezza del compito a essa affidato, nonché delle attese dell'opinione pubblica sui suoi risultati, la Commissione non è in condizione di effettuare il calcolo di nessuna delle medie di riferimento con l'accuratezza richiesta dalla normativa».
Si potrebbe dire, però, che rapportati allo stipendio di altri boiardi di Stato, il Parlamentare non percepisce tanto, in riferimento alla carica ricoperta. Dà fastidio il fatto la loro tracotanza ed indifferenza nei confronti del cittadino che li elegge e che dovrebbe rappresentare. Provate a mandare un e-mail per chiedere un intervento istituzionale su un problema singolo o collettivo: lettera morta.
L'indagine di Mario Sensini su “Il Corriere della Sera”. Più di sedicimila euro al mese: il record dei parlamentari italiani. Le tabelle pubblicate dalla Commissione Giovannini. Al secondo posto i francesi con 13.500. Più di 16 mila euro lordi al mese in tasca. Contro i 13.500 di un deputato francese, i 12.600 di uno tedesco, i poco più di 10 mila euro che guadagna un rappresentante della Camera olandese, i 9.200 di un deputato belga, gli 8.650 di un austriaco, per non parlare dei 4.630 euro che costituiscono il «misero» appannaggio di un deputato spagnolo. Le tabelle che mettono a nudo i privilegi della politica italiana sono lì, appena pubblicate dalla Commissione Giovannini sul sito della Funzione pubblica: gli eletti del Bel Paese costano da un minimo del 20 per cento fino al 400 per cento in più rispetto ai colleghi. Dati che parlano chiaro, ma che rischiano di servire a ben poco.
Deputati e senatori italiani, insomma, si mettono in tasca il 60% in più rispetto alla media europea.
Ma quella media resta pur sempre un calcolo «a spanne», come ammette la stessa Commissione, e su queste basi sarà molto difficile, anzi praticamente impossibile, far scattare la mannaia sui costi della politica italiana. La norma voluta da Giulio Tremonti e attesa dai presidenti di Camera e Senato sembrava molto semplice, stipendi parametrati alla media europea, ma in realtà rischia di rivelarsi inapplicabile. Quell'articolo del decreto di luglio 2011, come scrive la stessa Commissione, presenta infatti «aspetti di ambiguità e talvolta di contraddittorietà». E il gruppo di lavoro guidato dal presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, composto da esperti di chiara fama, compreso un rappresentante di Eurostat, è letteralmente impazzito per tirarne fuori qualcosa di sensato. Senza riuscirci. Non solo per i tempi strettissimi che sono stati concessi alla Commissione, o perché la richiesta di una proroga è stata rifiutata da Palazzo Chigi, che ha ricordato come il termine ultimo per la consegna del lavoro sia quello del 31 marzo 2012. Alla Commissione ci sono volute intere settimane per arrivare a definire che cosa debba essere considerato nel «trattamento economico omnicomprensivo» cui fa riferimento la legge per le cariche apicali della pubblica amministrazione.
Altre settimane di lavoro, confronti, discussioni, per dare un senso alla definizione, invece, del «costo» relativo al trattamento economico omnicomprensivo che la legge prescrive di calcolare per i parlamentari. Poi c'è stato il problema dell'individuazione degli organismi «omologhi» a quelli italiani che in molti casi negli altri Paesi non ci sono (solo 16 istituzioni sulle 31 considerate dalla legge italiana perché fossero parametrate a quelle europee, hanno dei corrispondenti più o meno simili), la definizione del concetto di retribuzione (la legge italiana fa riferimento al lordo, ma come si sa a parità di retribuzione lorda le tasse e contributi fanno una differenza abissale), poi quello della ponderazione sul Pil (già, ma di quale Pil, se a prezzi correnti o a parità di potere d'acquisto la legge non lo dice), ed infine la raccolta dei dati. Spesso non ufficiali, e che sono arrivati attraverso i canali diplomatici solo a partire dal 13 dicembre scorso. Fatto sta che dopo tre mesi di riunioni a spron battuto, la Commissione Giovannini ha alzato le braccia e si è arresa. Ha pubblicato il rapporto entro il 31 dicembre 2011 come prevede la legge. Ma le conclusioni sono disarmanti: «La Commissione considera i dati contenuti del tutto provvisori e di qualità insufficiente per una loro utilizzazione ai fini indicati dalla legge». Se qualcuno pensa di tagliare gli stipendi dei parlamentari e dei vertici dell'amministrazione pubblica usando questa strada, dice in sostanza la Commissione, si sbaglia di grosso. «Di fatto è stato chiesto alla Commissione di condurre in pochi mesi lo studio degli assetti istituzionali e organizzativi di sei Paesi, più l'Italia, con un dettaglio mai realizzato in letteratura e visto l'utilizzo a fini legali dei risultati, con l'esigenza di raccogliere dati di elevata qualità, inconfutabili e pienamente comparabili». Considerati tutti i limiti, non deve stupire la conclusione del rapporto Giovannini. «Nonostante l'impegno profuso e tenendo conto dell'estrema delicatezza del compito ad essa affidato, nonché delle attese dell'opinione pubblica sui suoi risultati, la Commissione non è in condizione di effettuare il calcolo di nessuna delle medie di riferimento con l'accuratezza richiesta dalla normativa». Abbiamo scherzato? Può darsi. «Le difficoltà finora incontrate dovrebbero far riflettere il legislatore sull'effettiva applicabilità della norma di riferimento della quale (non a caso) non si trova alcuna analogia negli altri principali Paesi dell'Unione europea», si legge nel rapporto della Commissione. Insomma: per andare avanti servono dei correttivi alla legge. Così, in attesa delle mitiche «medie» ci si deve così accontentare di una paio di tabelle riferite al trattamento economico e previdenziale dei deputati e dei senatori italiani ed europei, ma piene zeppe di note a margine e farcite di formulette matematiche. Oltre a questo, il rapporto della Commissione non si spinge. Non servirà a tagliare gli stipendi dei nostri parlamentari, ma se non altro offre all'opinione pubblica un paio di conferme, verificate scientificamente, e scontatissime. Su base omogenea, quindi senza contare la spesa per i collaboratori, e dunque considerando soltanto l'assegno materialmente incassato, i parlamentari italiani sono i più pagati d'Europa. Se si considera anche il contributo per portaborse e uffici stampa gli italiani sono battuti solo dai francesi, ma con una differenza fondamentale. In Italia i contributi per i collaboratori (3.690 euro per i deputati, 4.180 per i senatori) sono erogati formalmente ai gruppi politici di appartenenza, sotto la voce spese di rappresentanza, ma poi da questi vengono girati ai rispettivi titolari. Molto più semplicemente in Francia c'è una linea di credito offerta dal Parlamento per pagare i collaboratori, che se non viene utilizzata, deve essere restituita. Mentre in quasi tutti gli altri Paesi, spesso, il collaboratore del deputato o del senatore è già un dipendente stipendiato dell'istituzione di appartenenza. Anche sul trattamento previdenziale dei nostri parlamentari c'era qualche vago sospetto, che la Commissione Giovannini puntualmente conferma.
Almeno fino al 31 dicembre scorso, quando è scattato il meccanismo del contributivo pro rata, gli italiani primeggiavano in Europa. Dopo cinque anni di mandato il vitalizio maturato era di 2.486 euro al mese, in Francia di 780 euro. Tre volte di meno. Maturato, per giunta, con una contribuzione previdenziale superiore: oltre il 10% dello stipendio contro l'8,6% versato dai parlamentari italiani.
Anche Carmelo Lopapa ha pubblicato la sua inchiesta su “La Repubblica”. L'indennità mensile (lorda) è la più alta d'Europa. Ma il "costo complessivo" del parlamentare in altri paesi, quali Francia e Germania, è ben superiore. Difficile, dunque, anzi "impossibile" decidere chi guadagna di più e chi meno. E soprattutto "fare una media". La Commissione per il livellamento retributivo, guidata dal presidente Istat Enrico Giovannini, rinuncia però a quell'obiettivo. L'organismo (composto anche da quattro accademici) incaricato dal governo Berlusconi - confermato da Monti - e dalle presidenze di Camera e Senato di confrontare i compensi tra le cariche elettive e gli organi istituzionali di sei paesi Ue, pubblica dunque i risultati della sua attesa comparazione. La relazione, nelle 37 pagine depositate il 31 dicembre 2011, si limita a fotografare la "giungla" retributiva dei parlamentari nei sette paesi presi in esame: Italia, Francia, Germania, Spagna, Paesi Bassi, Austria e Belgio. Giovannini ha chiesto però una proroga al 31 marzo per completare il lavoro su organi costituzionali e enti pubblici. "Nonostante l'impegno profuso - si legge nelle conclusioni - la commissione non è in condizione di effettuare il calcolo delle medie".
INDENNITÀ
Supera gli 11mila euro, a Berlino e Parigi 7mila
In nessun paese europeo un parlamentare percepisce un'indennità lorda mensile pari a quella del deputato (11.283 euro) e del senatore (11.550 euro) italiano. E quella costituisce solo una delle cinque voci che - si legge nella relazione - compongono il "costo" del parlamentare (diaria, spese di viaggio e trasporto, spese di segreteria, spese per assistenza sanitaria, assegno vitalizio e di fine mandato). Nel caso della Spagna, l'indennità in senso stretto (2.813 euro) è addirittura quasi quattro volte inferiore. Si avvicinano solo i Paesi Bassi con 8.503 euro. Tra i grandi paesi, Francia e Germania viaggiano tra i 7.100 e i 7.668. Ma si parla di lordo. E in Italia dopo le ultime (ripetute) decurtazioni, l'indennità netta è di poco superiore ai 5.000 euro. In ogni caso, fanno notare i professori della commissione, è difficile fare dei confronti perché diverso è anche il livello di tassazione tra paese e paese (per esempio in Francia tocca il 20 per cento sui 7.100 euro lordi). Il sindaco di Firenze Matteo Renzi ieri dettava la sua ricetta: "Ai parlamentari darei la stessa cifra che guadagno da sindaco di una grande città: 4.200 euro al mese".
DIARIA
3500 euro per spese di soggiorno, solo in Germania si spende di più
La diaria mensile o "indennità di residenza" non costituisce una prerogativa italiana. Per di più, il budget assegnato al deputato e al senatore per le spese di mantenimento fuori sede non costituisce un record continentale. A ricevere una cifra forfettaria più alta per le spese di soggiorno a Berlino è per esempio il parlamentare tedesco: 3.984 euro. Ma il collega italiano con 3.503 euro segue a ruota. Da qualche mese, alla Camera e al Senato questa ricca indennità accessoria (che non fa differenza tra chi soggiorna a Roma per l'attività parlamentare e chi vive e risiede comunque nella capitale) viene decurtata in proporzione alle assenze: non solo quelle nelle sedute d'aula, ma anche nelle sedute di commissione. Ed è il motivo delle recenti polemiche esplose per i frequenti casi di deputati presenti solo per firmare il registro e poi dileguarsi. In Francia il deputato non percepisce affatto la diaria, ma gode di alloggi a tariffe agevolate in residence di proprietà dell'Assemblea. A Madrid sì, ma ammonta a 1.800 euro, mille in meno poi se il deputato è eletto nella capitale. Trattamento simile nei Paesi Bassi, non prevista in Belgio.
PORTABORSE
4000 euro: meno che in altri Paesi, ma da noi non va giustificata
La commissione Giovannini le chiama "spese di segreteria e di rappresentanza". E accorpa sotto questa unica voce il budget messo a disposizione da Camera e Senato per i parlamentari al fine di consentire a deputati e senatori di avvalersi di collaboratori e di segreterie nei territori di origine e a Roma. Ma il confronto con gli altri cinque paesi messo nero su bianco dalla commissione Giovannini finisce per conclamare l'anomalia tutta italiana. L'anomalia consiste in questo caso non nell'importo - inferiore e in qualche caso di molto rispetto ad altri paesi quali Francia e Germania - ma nella modalità: forfettaria. Vale a dire che il deputato (3.690 euro) e il senatore (4.180) ricevono la somma senza aver alcun obbligo di rendicontazione e senza dover dimostrare se hanno pagato regolarmente un collaboratore. L'Europarlamento da sempre gestisce il budget assegnando al deputato il collaboratore richiesto, ma pagandolo direttamente. Avviene così anche in Germania (dove il fondo per la segreteria lievita a 14.712 euro) e in Belgio, si legge nella relazione. In Francia, se il deputato non utilizza la linea di credito da 9.138 euro in tutto o in parte, viene restituita.
BENEFIT
Treni, aerei, navi e autostrade solo a Roma non si pagano
Il monte benefit è la vera "babele" che fa del parlamentare - quello italiano soprattutto - un privilegiato. La relazione Giovannini lo certifica. La "libera circolazione ferroviaria, autostradale, marittima e aerea" consentita dall'apposita tessera di cui viene dotato il deputato e il senatore appena mette piede a Montecitorio e Palazzo Madama, non ha corrispettivi. In Francia, i deputati dispongono di una carta ferroviaria, più 40 viaggi aerei tra il collegio e Parigi e 6 fuori dal collegio.
In Germania, solo tessera ferroviaria e rimborso per i voli domestici con rimborso a piè di lista. In Spagna, è prevista una diaria da 150 euro per ogni giorno di viaggio all'estero e 120 per viaggio interno. Nei Paesi bassi, treno di prima classe e rimborso chilometrico da 0,37 euro al km ma solo se non esistono mezzi pubblici che consentano al deputato di tornare a casa. Tutta un'altra storia. Il parlamentare italiano usufruisce anche di 258 euro mensili di rimborso per spese telefoniche (in Francia 416 euro, nei Paesi Bassi 33 euro appena) e di 41 euro per dotazione informatica. La Spagna però offre Ipad e telefoni portatili di servizio.
VITALIZI
Ue, tutti con le pensioni: ma in Italia c'è un superassegno
Fino al 31 dicembre 2011, i parlamentari italiani usufruivano di vitalizio dopo almeno due legislature, al compimento del cinquantesimo anno. Resta ora come allora l'assegno di fine mandato, ma il vitalizio è stato sostituito dal primo gennaio da una pensione con metodo contributivo e solo al compimento dei 65 anni (60 con almeno due legislature). In Italia, fa notare la relazione Giovannini, dopo 5 anni di mandato il vitalizio finora è stato pari a 2.486 euro mensili, con un versamento pari all'8,6 per cento dell'indennità lorda. In Francia, dopo cinque anni di mandato, il vitalizio minimo è pari a 780 euro a fronte di un versamento del 10,5 per cento dell'indennità legislativa, se ne ha diritto a 60 anni. In Germania, l'età alla quale il deputato matura la pensione è stata innalzata gradualmente dai 65 ai 67 anni. In Spagna la pensione è un beneficio di carattere integrativo ed è pari alla differenza tra la pensione che il deputato riesce a maturare nella vita lavorativa e la pensione massima raggiungibile in quel paese. Integrazione che può essere richiesta se il mandato è stato almeno di 11 anni.
"Salvate le persone, non le banche", diceva la folla di manifestanti negli Stati Uniti per reazione all'imponente piano di salvataggio del sistema finanziario varato dopo l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, con l'obiettivo di evitare fallimenti a catena in seguito al tracollo della Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008.
La storia si ripete in Italia. Le misure adottate il 4 dicembre 2011 dal governo di Mario Monti, ex presidente dell'università Bocconi, sono severe con i pensionati, con i proprietari dell'abitazione (l'80% degli italiani possiede la propria casa), con chi ha un reddito medio-basso (i più colpiti dall'aumento dell'Iva di due punti).
Le stesse misure fanno invece sorridere le banche.
Nel decreto Monti ci sono almeno tre benefici per le banche. Il primo deriva dalla riduzione a mille euro del tetto per i pagamenti in contanti, finora era di 2.500 euro. Il tetto sarà più basso, solo 500 euro, per le pensioni. Questo farà aumentare i pagamenti con bonifico, assegno, carte di credito e prepagate. Una stima dice che queste transazioni aumenteranno del 30 per cento. Dunque le banche incasseranno più commissioni e aumenteranno gli utili. Secondo stime le maggiori banche italiane, Intesa Sanpaolo e Unicredit, potrebbero aumentare gli utili di una decina di milioni di euro all'anno ciascuna. Il tetto a 500 euro per i pagamenti in contanti delle pensioni obbligherà circa due milioni di pensionati ad aprire un conto corrente, anche questo andrà a vantaggio per le banche. Queste norme hanno l'obiettivo di ridurre i pagamenti in nero e l'evasione fiscale. Vedremo se accadrà. Tuttavia il governo non ha previsto un immediato abbassamento delle commissioni bancarie. Monti ha solo espresso un generico auspicio a una loro "adeguata riduzione". Si affida alla buona volontà dei banchieri...
Il secondo vantaggio per le banche deriva dalla riduzione dei prelievi in contante. Per le banche queste operazioni sono un costo, alcuni mesi fa alcuni istituti avevano perfino introdotto una tassa per chi prelevava allo sportello i propri soldi, sollevando una marea di proteste. Con l'aumento dei pagamenti senza denaro le banche avranno bisogno di meno personale allo sportello. Secondo stime autorevoli potrebbero essere in eccesso fino al 30 per cento dei cassieri. Per gruppi come Intesa e Unicredit questo significa diverse migliaia di potenziali esuberi (almeno 3-4mila cassieri in meno per ognuna di queste banche). Si tratta di personale dal costo medio di 70-80mila euro all'anno. E' difficile che le banche possano prepensionare questi dipendenti, nel momento in cui il governo alza l'età pensionabile. Avranno comunque una disponibilità di personale che potranno ricollocare. Uno dei banchieri più conosciuti stima che, se le banche riuscissero a ridurre il personale che risulterà in eccesso, nel complesso potrebbero risparmiare fino a un miliardo di euro.
Ma ecco l'aiuto più importante. Le banche sono senza soldi, non fanno più credito alle imprese. E non si prestano neppure il denaro fra loro, perché hanno paura che un'altra banca fallisca. In realtà non tutti sono a secco. Chi ha liquidità preferisce tenerla al sicuro alla Bce, a Francoforte, anche se riceve interessi solo dello 0,5 per cento, ci sono più di 300 miliardi parcheggiati. Cosa ha fatto allora Monti? Ha introdotto la garanzia dello Stato sulle passività delle banche, sulle obbligazioni che emettono per finanziarsi. La garanzia vale anche per le obbligazioni già emesse, è sufficiente che questi bond abbiano tre mesi di vita residua. Se un istituto non fosse in grado di rimborsare le obbligazioni alla scadenza, sarà lo Stato a pagare.
E lo farà con i soldi dei contribuenti, costretti a pagare di più con questa manovra. Il decreto stanzia infatti per questi possibili interventi a favore delle banche 200 milioni di euro all'anno, dal 2012 al 2016, in tutto un miliardo di euro. L'anno prossimo scadono 137 miliardi di bond delle banche. Il primo effetto di questa misura è ridurre il costo della provvista per le banche, grazie alla garanzia dello Stato dovrebbero riuscire a finanziarsi a tassi più bassi.
Se le banche fallissero sarebbe una catastrofe, anche per i piccoli risparmiatori. Dunque l'intento di Monti è comprensibile. Meno condivisibile però è che il salvagente non sia accompagnato da norme che consentano un controllo sulle banche e l'individuazione delle responsabilità e degli errori fatti dai banchieri. Per esempio molte banche hanno impegnato centinaia di milioni di euro in operazioni di potere, come gli interventi "di sistema" (cioè per favorire gli amici) di Intesa in Telecom e nella cordata berlusconiana della nuova Alitalia. Oppure i finanziamenti a favore di Ligresti e dell'immobiliarista Zunino, che vedono in prima linea Unicredit, Intesa e Mediobanca. Questi soldi sono stati sottratti a un utilizzo più corretto, distratti dal finanziamento della produzione delle imprese sane. Quando il presidente Obama ha varato il piano di salvataggio dei gruppi finanziari (Tarp), con un fondo da oltre 800 miliardi di dollari, ha introdotto norme precise di controllo, tra cui un tetto agli stipendi più alti, a cominciare dall'amministratore delegato delle società salvate, che non poteva guadagnare più di mezzo milione di dollari all'anno, pari a circa 350mila euro. Monti non ha messo alcuna norma di questo tipo. Eppure i capi delle grandi banche italiane guadagnano agevolmente almeno due-tre milioni di euro lordi all'anno.
Non c'è un conflitto d'interessi tra queste norme, così favorevoli alle banche, e il fatto che nel governo Monti ci sia una folta pattuglia di ex banchieri? O pensate che questa sia solo una coincidenza? C'è Corrado Passera, che ha lasciato la guida di banca Intesa per fare il superministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e Trasporti (stipendio 2010: 3,5 milioni lordi) e possiede ancora circa otto milioni di azioni della banca. C'è Elsa Fornero, il ministro tagli-pensioni che era vicepresidente del consiglio di sorveglianza di Intesa, c'è Piero Gnudi, il ministro del Turismo che era nel consiglio di Unicredit. E c'è Mario Ciaccia, uno dei principali dirigenti del gruppo Intesa, che adesso è il viceministro di Passera alle Infrastrutture. Monti chiama il decreto "salva Italia". Di sicuro è anche un decreto "salva banche". Potremmo chiamarlo decreto "ad bancam".
ITALIA E SISTEMA DI POTERE: UN POZZO SENZA FONDO
Tutte le Manovre 2011: un riepilogo per non perdersi.
5 Dossier per 5 Manovre. Abbiamo pensato di riepilogare in uno speciale tutte le Manovre approvate e pubblicate nel 2011, con l'indicazione dei principali provvedimenti e novità introdotte da ciascuna. Decreto Sviluppo 2011, Manovra Correttiva 2011, Manovra Bis di Ferragosto, Legge di Stabilità 2012 e infine la Manovra Monti.
Vista la proliferazione di Manovre elaborate nel 2011 dal Parlamento, ci è sembrato utile raggrupparle in ordine cronologico, con tutti i riferimenti normativi e le principali novità introdotte da ognuna di esse.
Ad ogni Manovra abbiamo dedicato un Dossier informativo che raccoglie tutta la rassegna stampa, la normativa e gli approfondimenti sul tema.
Riepilogando abbiamo le seguenti Manovre:
1. Decreto Sviluppo 2011
2. Manovra Correttiva 2011
3. Manovra Bis di Ferragosto
4. Legge di Stabilità 2012 (Legge Finanziaria 2012)
5. Manovra Monti – Decreto Salva Italia
Decreto Sviluppo 2011
DL del 13 maggio 2011 n. 70 - Semestre Europeo - Prime disposizioni urgenti per l'economia. Pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 110 del 13 maggio 2011. Convertito, con modificazioni, dalla Legge 12 luglio 2011 n. 106
Il Decreto Sviluppo 2011 (DL n. 70 del 13.05.2011) come modificato dalla legge di conversione del 12 luglio 2011, n. 106, è entrato in vigore il 13 luglio 2011 con tutte le sue novità introdotte nel corso dell'esame parlamentare. La legge di conversione del decreto sviluppo conferma l'impianto del testo originario, che contiene una miriade di norme che puntano soprattutto alla semplificazione degli oneri burocratici a carico di imprese e cittadini. Tra le modifiche di carattere generale l'abrogazione delle norme sulla concessione del diritto di superficie per il demanio marittimo, mentre per quel che riguarda il fronte fiscale le novità principali sono relative alle procedure di riscossione coattiva. Grazie all'entrata in vigore della manovra di rientro, però, le nuove disposizioni relative all'atto unico di accertamento e riscossione entreranno in vigore solo dal 1° ottobre.
Le novità immediatamente operative riguardano, invece:
divieto di ipotecare gli immobili in caso di debiti con l'erario inferiori ai 20.000 euro se la cartella contestata o ancora contestabile in giudizio e il debitore sia proprietario dell'unità immobiliare oggetto di ipoteca o espropriazione ed essa sia adibita ad abitazione principale;
8.000 euro la soglia al di sotto della quale non si può iscrivere ipoteca o procedere ad espropriazione immobiliare;
uscita di Equitalia dalla riscossione dei tributi locali a partire dal 2012;
per i tributi locali non pagati inferiori ai 2.000 euro obbligo di dare due preavvisi , a distanza di almeno sei mesi, prima di avviare le procedure cautelari;
obbligo di cancellazione delle segnalazioni dei ritardi di pagamento in seguito alla regolarizzazione.
Le altre principali novità riguardano:
credito d'imposta per gli investimenti in beni strumentali nelle aree sottoutilizzate del Mezzogiorno;
commissariamento per i comuni che non attuano le norme sullo sportello unico per le imprese;
allungamento dei termini per il varo da parte delle regioni delle modifiche al Piano casa;
obbligo di accatastamento per gli immobili rurali ai fini delle agevolazioni fiscali;
possibilità di utilizzare i dati catastali a fini commerciali;
· aumento tasse catastali per le visure dal 1° settembre.
Manovra Correttiva 2011 - Manovra Finanziaria
Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98 recante disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria. Pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 155 del 6 luglio 2011. Convertito, con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011, n. 111.
La manovra di riallineamento dei conti comprende un nutrito pacchetto di disposizioni fiscali destinate ad incidere in maniera significativa soprattutto sui lavoratori autonomi. Una manovra pesante, del valore di oltre 40 miliardi, approvata in 10 giorni dal varo del decreto alla legge di conversione. L’impatto sui conti è destinato a farsi sentire fin da subito e ancora una volta il settore fiscale è chiamato a fare la parte del leone. Nella miriade di norme, infatti, molte sono le novità che non risparmiano nessun settore.
Disposizioni tutte già in vigore grazie all’approvazione sprint del provvedimento.
Per quel che riguarda il pacchetto fiscale la novità di maggior rilievo la previsione del taglio del 5% delle agevolazioni fiscali per l'anno 2013, e del 20% a partire dal 2014, qualora entro il 30 settembre 2013 non siano adottati provvedimenti di riforma del sistema per un suo complessivo riordino, in grado di garantire 4 miliardi di risparmi per il 2013 e 20 miliardi dal 14 in poi. Interessati ai tagli lineari potrebbero essere tutte le agevolazioni fiscali contenute nell'articolo 21, comma 11 - lett. a) della legge 196/2009), senza eccezione alcuna. Previsti tagli, quindi, sia per le famiglie che per le imprese se non interviene una legge di riordino. Rivisto, poi l'aumento del bollo sui conti titoli che ora viene scaglionato in base al valore del deposito. Novità anche per l'addizionale sulle stock option, mentre per quel che riguarda il nuovo regime per i contribuenti minimi con la mini aliquota del 5% è stabilito che la durata può superare anche i cinque anni, ma il regime è valido non oltre i 35 anni di età del beneficiario. Riviste in parte anche le disposizioni in materia di ammortamenti. Alcune di queste misure entreranno in vigore solo il prossimo anno, mentre fin da subito scatta l'obbligo di pagamento del contributo unificato per i ricorsi di fronte alle Commissioni tributarie, come pure la possibilità di chiusura agevolata delle liti pendenti.
Ecco le principali disposizioni:
chiusura agevolata delle liti fiscali pendenti alla data del 1° maggio 2011;
contributo unificato per i ricorsi tributari;
abolizione della fidejussione per i versamenti rateali per accertamento con adesione;
accertamenti esecutivi dal 1° ottobre con obbligo di indicazione anche delle sanzioni;
obbligo per i gestori delle carte di credito di comunicare le operazioni ai fini dello spesometro;
rinvio dei pagamenti fino al 2012 e zona franca a Lampedusa;
limiti al riporto delle perdite e all'ammortamento dei beni gratuitamente devolvibili;
revoca delle partite Iva inattive;
aumento dell'imposta del bollo sul conto titoli;
addizionale sul bollo auto per i veicoli con oltre 225 kw di potenza.
Di seguito, invece, le novità operative dal 2012:
revisione del regime fiscale per i contribuenti minimi;
introduzione dell'obbligo di reclamo e mediazione in materia di ricorsi tributari.
Manovra di Ferragosto o Manovra Bis 2011
Decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, recante ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo. Pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 188 del 13 agosto 2011. Convertito dalla Legge 14 settembre 2011 n. 148.
La manovra di Ferragosto (d.l. 138/2011), in vigore dal 13 agosto 2011, è aggiuntiva rispetto a quella di luglio, per anticipare il pareggio di bilancio al 2013. L’intervento si è reso necessario a seguito delle sollecitazioni europee, e soprattutto della banca centrale europea. Fisco protagonista della manovra-bis. Dopo i tanti ripensamenti e le riscritture del provvedimento, è proprio quello delle entrate il settore destinato a garantire il valore aggiunto necessario per centrare l’obbiettivo del pareggio di bilancio fin dal 2013. Se i tagli in molti casi sono più che altro una dichiarazione d’intenti, come, in particolare, per quel che riguarda l’abolizione delle province, la stretta sulle entrate è un dato certo e ineludibile. Un insieme di disposizioni, peraltro, che si inseriscono nel solco tracciato già con la manovra del 2010. Ma se lo scorso anno per l’applicazione delle nuove disposizioni erano stati previsti tempi lunghi, quest’anno il clima è completamente diverso. Con la manovra-bis le novità sono tutte già in vigore, a partire dal ritocco dell’Iva, e con gran parte di queste occorrerà fare i conti già in sede di acconto.
Di seguito le principali novità in campo fiscale:
Iva ordinaria sui beni e sulle prestazioni professionali al 21%;
contributo di solidarietà del 3% sui redditi imponibili oltre i 300.000 euro lordi;
recupero coattivo delle somme dovute per il condono del 2002;
inasprite le sanzioni penali e aumentati i termini di prescrizione per i reati tributari;
maggiorazione del 10,5% dell'Ires per le società di comodo e quelle in perdita sistemica;
revisione della normativa fiscale sui beni d'impresa concessi in uso a soci o familiari;
revisione delle agevolazioni fiscali per le cooperative;
restituzione entro 90 giorni dei bonus bebè non spettanti per evitare le sanzioni fiscali;
bollo del 2% sui trasferimenti di denaro verso paese extracomunitari se l'ordinante non ha matricola Inps e codice fiscale;
arriva lo scontrino per gli stabilimenti balneari;
delineata la riforma degli ordini professionali
Legge di Stabilità 2012 (Legge Finanziaria 2012)
Legge 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012, ex legge finanziaria) Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Approvata in via definitiva dal Parlamento il 12 novembre 2011 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale 14 novembre 2011, n. 265.
Approvata in tempi record per la crisi politica, la Legge di stabilità è destinata comunque ad entrare il vigore dal 1° gennaio 2012. Nessuna anticipazione delle misure, quindi, rispetto ai tempi originariamente previsti, tranne la riforma degli Ordini che dovrà essere operativa entro agosto 2012. In ogni caso saranno necessari decreti attuativi. In vigore da gennaio, invece, il taglio della burocrazia e le semplificazioni per le srl, mentre per la possibilità di avviare società tra professionisti appartenenti a ordini diversi occorrerà attendere un apposito decreto del ministero della Giustizia.
Di seguito le principali novità per professionisti e imprese:
riforma degli ordini professionali e possibilità di costituzione di società interprofessionali;
certificati sostituiti da autocertificazioni per i rapporti con enti pubblici e società di gestione di servizi pubblici;
zone a burocrazia zero estese dal Meridione a tutto il territorio nazionale;
semplificazioni per la gestione delle imprese a contabilità semplificata e per i collegi sindacali;
taglio dei contributi per i contratti di apprendistato per le imprese con meno di 9 addetti;
revisione delle aliquote contributive per la gestione separata;
dismissione del patrimonio immobiliare e vendita dei terreni agricoli con prelazione per i giovani coltivatori diretti;
aumento del contributo unificato per le spese di giustizia.
Manovra Monti "Salva Italia".
Una manovra, quella approvata dal Consiglio dei Ministri il 4.12.2011, che come suggerisce il Presidente Mario Monti “salva l’Italia” e che si è resa necessaria per affrontare la crisi finanziaria gravissima che ha investito l’area Euro e più specificatamente il debito italiano. Complesso il pacchetto di interventi che il Governo ha messo a punto e che, nonostante l’emergenza, dà il via ad una serie di riforme strutturali dell’economia italiana. In tutto la manovra ammonta a 30 miliardi di €, per il triennio 2012-2014. Di questi 30 miliardi, 20 saranno destinati alla correzione dei conti pubblici e 10 a promuovere la crescita. Si ricorda, inoltre, che il testo della manovra – sotto forma di D.l. - dovrà essere firmato dal Presidente della Repubblica per poi passare al Parlamento, l’obiettivo è ottenere il via libera definitivo entro Natale.
Principali provvedimenti:
ritorno dell’Ici sulla prima casa (c.d. IMU);
Incremento di due punti percentuali dell'Iva: quella del 21% passa al 23%, quella del 10% passa all’11% da settembre 2012;
l’integrale deducibilità dell’Irap sul costo del lavoro ai fini Irpef ed Ires;
Super bollo per le autovetture pari a 20 € per ogni chilowatt di potenza superiore a 170 Kw;
Supertassa per lo stazionamento delle imbarcazioni da diporto e degli aeromobili privati;
Limite di 1.000 € per il pagamento in contanti;
Prelievo dell’1,5% sui capitali fatti rientrare in Italia con lo scudo fiscale;
riforma delle pensioni con l’aumento dell’età pensionabile.
Manovre, nel 2011 interventi per 75 miliardi. I più imponenti di sempre. In 20 anni finanziarie per 460 miliardi. Se si dovessero guardare gli interventi correttivi dei conti, questa sarebbe la peggior crisi degli ultimi vent'anni, peggio di quella di inizio Anni 90. Il governo Berlusconi Quater e il governo di Mario Monti, insieme, sono destinati a varare manovre finanziarie pari a quasi 75 miliardi di euro in un solo anno. La cifra supera di gran lunga l'intervento messo a punto dal governo Amato nella crisi del 1992, un 'correttivo' da 48 miliardi (96 miliardi di vecchie lire), ma con impatto immediato sui conti, diversamente da quanto avviene per le manovre di oggi, che sono cambiate e hanno un impatto triennale.
DECRETO BERLUSCONI-TREMONTI DA 54,2 MILIARDI. Il decreto Berlusconi-Tremonti varato a inizio settembre 2011 aveva un valore di 54,2 miliardi, con impatto sul 2013. A questo vanno aggiunti i 20 miliardi della 'correzione' del nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti. Per un totale per il 2011 di 74,2 miliardi di euro.
IN 20 ANNI MANOVRE PER 460 MILIARDI. Nel complesso, negli ultimi 20 anni, i conti pubblici hanno subito una correzione per quasi 460 miliardi di euro. Dopo la manovra del 2011, la seconda per entità è quella varata da Amato nel 1992, seguita da quella di Tommaso Padoa-Schioppa nel 2006 (oltre 35 miliardi). Mentre nel 1996, l'anno dell'eurotassa per centrare l'ingresso nell'euro, la manovra varata valeva 32 miliardi (62.500 miliardi delle vecchie lire).
Ecco una tabella che riepiloga l'entità degli interventi per anno governo e ammontare in miliardi di euro.
1991 Andreotti 29 miliardi di euro
1992 Amato 48
1993 Ciampi 16
1994 Berlusconi 25
1995 Dini 16
1996 Prodi 32
1997 Prodi 13
1998 D'Alema 7
1999 D'Alema 8
2000 Amato 0
2001 Berlusconi 17
2002 Berlusconi 20
2003 Berlusconi 16
2004 Berlusconi 24
2005 Berlusconi 27
2006 Prodi 35
2007 Prodi 15
2008 Berlusconi 13
2009 Berlusconi 11
2010 Berlusconi 13
2011 Berlusconi 74
2011 Monti 20
Queste manovre non ledono l’evasione fiscale: sia perché non si incentiva la volontaria e trasparente denuncia dei redditi con la detrazione assoluta di ogni spesa sostenuta, per obbligare il contribuente a chiedere la fattura o la ricevuta fiscale, sia perché pari a cento versato al fisco si ottiene zero in servizi.
Ergo si paga per sostenere le sanguisughe pubbliche, ed al cittadino, questo non gli va giù.
Allora i politici cosa fanno: si tirano fuori, nominano un capro espiatorio che si assume la responsabilità della stangata, per poi farlo fuori e ripresentarsi immacolati alle elezioni.
Sempre loro; sempre quelli uguali a se stessi da oltre 20 anni, sempre quelli, i quali hanno provocato il dissesto.
E gli italiani, coglioni, a rivotarli.
Iniqua, insostenibile, atroce, punitiva. Ma anche urgente, necessaria, senza alternative. Fra le molteplici definizioni e gli aggettivi che sono stati affibbiati alla manovra varata dal governo Monti forse manca quello più importante: inutile. Sebbene solo in pochi lo ammettano, voce ormai serpeggia fra gli economisti non allineati al pensiero dominante e gli osservatori più attenti: l'Italia si trova nel famigerato cul de sac, dal quale non è possibile uscire se non cambiando completamente paradigma. Uno dei postulati del paradigma della crescita è infatti il rapporto debito/pil. In un paese dall'economia sana – sempre ragionando nell'ottica della crescita - questo rapporto non dovrebbe essere superiore allo zero, e il debito non dovrebbe crescere con ritmi superiori al prodotto interno lordo. In Italia questo rapporto si aggira attorno all'1,2, ovvero il debito è circa il 120 per cento del pil. Inoltre il nostro debito sovrano è soggetto a forti speculazioni: quello che viene contratto in tempo di crisi, attraverso l'emissione di bond e obbligazioni, ha degli interessi a dieci anni che si aggirano attorno al 7 per cento. Il pil invece è praticamente fermo, ovvero l'Italia non cresce.
Ecco, in questa situazione – sempre nell'ottica dominante - si può intervenire un due modi: agendo sul debito o sulla crescita. La manovra Monti agisce sul debito: cerca cioè di tagliare il più possibile le spese per chiudere in attivo il bilancio statale e ripagare parte del debito (una parte minima a dire il vero) sperando così che con il diminuire del debito calino anche gli interessi da pagare su di esso. Ma così facendo egli va a colpire direttamente sia le risorse dello stato che le tasche degli italiani, che saranno più poveri e spenderanno meno. Dunque gireranno meno soldi, ancora meno ne entreranno nelle casse dello stato ed il bilancio tornerà in passivo. La crescita non ripartirà ed il debito aumenterà ancora.
Scrive acutamente nel suo blog il giornalista Paolo Barnard, “Mario Monti si troverà con un cane che si morde la coda, e mentre da una parte darà un colpo per raddrizzare il cerchio, dall’altra il cerchio picchierà sul muro storcendosi di nuovo”. È una situazione, quella attuale, dalla quale non si esce se non a patto di una radicale cambiamento di vedute. Per questo motivo sono fiorite, sul web come sulla carta stampata, moltissime proposte di contromanovre, che provano a vedere la situazione da altri punti di vista, e che nel cercare i soldi necessari al bilancio statale mettono al centro le esigenze dei cittadini piuttosto che quelle del mercato.
Il governo Passera-Monti decida di fornire garanzie statali sulle passività delle banche, garanzie pagate con soldi pubblici, che permetteranno agli istituti di credito di pagare più serenamente compensi milionari ai propri manager, senza che nessuno evidenzi un vergognoso conflitto d’interessi è francamente inaccettabile. Ci può spiegare il Primo Ministro secondo quale logica i conti delle banche italiane necessitano dei soldi di pensionati e famiglie se, tanto per citare un esempio, Banca intesa per il 2010 ha distribuito 1,3 miliardi di euro in dividendi ai propri soci e pagato poco meno di 4 milioni di euro come compenso al proprio amministratore delegato? Qual è la ratio che sta alla base della decisione di reintrodurre una tassa sulla casa di abitazione, bene per il quale la maggioranza degli italiani ha fatto sacrifici immani, non prendendo in considerazione ipotesi come quella di toccare grandi patrimoni, abolire i rimborsi elettorali e i finanziamenti pubblici dei partiti, eliminare tutti i “privilegi” della politica, non parlando demagogicamente solo dei costi, equiparare i livelli dei gettoni di presenza nei consigli comunali, spesso diversissimi tra Città e Città?”
Certo, al Senato non godono più dello stupefacente dono che fino a qualche anno fa veniva fatto da ogni presidente che, andandosene, regalava loro, a spese dei cittadini, due anni di anzianità. Ma ci sono ancora, a Palazzo Madama, persone che, assunte prima del 1998, possono andare in pensione prima di tutti gli altri italiani, a cinquant'anni o poco più, godendo anche di quella regalia. È giusto?
È un diritto acquisito e quindi intoccabile anche quello?
È accettabile che, 16 anni dopo la riforma Dini, nonostante i ritocchi, non ci sia ancora un dipendente del Senato (quelli arrivati dopo il 2007 possono andarsene con qualche penalità ancora a 57 anni) che accantoni la pensione col sistema contributivo? Così risulta: dato che dal 2007 non è entrato alcuno, i primi soggetti al «contributivo» (peraltro maggiorato con un «aiutino» intorno al 18%) dovrebbero essere sette funzionari in arrivo nel 2012. Come possono capire, gli italiani, che quei fortunati godano di 15 mensilità calcolate sul 90% dell'ultima retribuzione e trasmesse intatte al 90% alla vedova se ha figli minori di 21 anni. Ma non basta ancora: nonostante le polemiche seguite alle denunce del passato come quella dell'«Espresso» che quattro anni fa rivelò che al Senato uno stenografo arrivava a 254 mila euro l'anno e un barbiere a 133 mila, le retribuzioni sono cresciute ancora dal 2006, in questi anni neri, del 19,1%. Arrivando a un lordo medio pro capite di 137.525 euro. Centodiecimila più di un dipendente medio italiano, il quadruplo di un addetto della Camera inglese (38.952) e addirittura 19 mila più della busta paga dei 21 collaboratori principali di Obama, che dalla consigliera diplomatica Valerie Jarrett al capo dello staff William Daley, prendono al massimo (trasparenza totale: gli stipendi dei dipendenti, nome per nome, sono sul sito della Casa Bianca) 118.500 euro. Lordi.
Sia chiaro: Palazzo Madama può contare su collaboratori, dai vertici fino agli operai, di eccellenza.
Sui quali sarebbe ingiusto maramaldeggiare demagogicamente. Loro stessi, però, discutendo del loro futuro con l'apposita commissione presieduta da Rosi Mauro (sindacati di là, una sindacalista di qua) non possono non rendersene conto: di questi tempi, la loro trincea con tre liquidazioni (una interna, una dell'Inpdap, una del «Conto assicurativo individuale») e le due pensioni (una del Senato e ora ancora dell'Inpdap) è indifendibile. Tanto più che anche nel loro caso, il peso delle pensioni sui bilanci è cresciuto in modo spropositato.
Vale per Palazzo Madama, vale per il Quirinale dove troppo tardi la presidenza ha introdotto «misure dissuasive» con la previsione di «significative riduzioni» dei trattamenti pensionistici come un limite per l'anzianità «a regime» (campa cavallo...) di 60 anni con 35 di contributi (da leccarsi i baffi...), vale per Montecitorio, dove lo stipendio lordo è poco più basso che al Senato: 131.586 euro. Con tutto ciò che ne consegue sulle pensioni. Non sarà facile rompere certe incrostazioni. Verissimo. Ma è troppo facile far la faccia dura solo con i piccoli...
ICI, QUELLI CHE NON PAGANO: anche Confindustria, partiti e sindacati, gli esentati.
Sull'Ici è guerra di tutti contro tutti. Dopo le accuse alla chiesa cattolica i cui immobili - anche quelli adibiti ad attività di lucro - sono esentati dalla tassa sugli immobili, si è allungata la lista delle associazioni che non pagano. Dalle tante chiese e confessioni - sinagoghe e moschee in testa - ai partiti politici. In questo caso aggirare la legge è semplice: basta intestare l'immobile a una fondazione e il gioco è fatto. Per non parlare di ambasciate, consolati e sindacati. Il patrimonio della Cgil, per esempio, è stimato che si aggiri intorno alle 1.000 unità, anche se è difficile districarsi tra sigle e sottosigle, tra Filcams, Fillea, Fisac, Spi, Fgil. La Cisl conta sedi in ogni capoluogo di provincia e anche qui arriviamo a numeri a tre zeri. Idem per la Uil, che ha addirittura creato una società ad hoc per gestire il patrimonio immobiliare: la Labour Uil. Dal canto loro i confederali hanno prontamente rispedito le accuse al mittente: «Tutte le strutture sindacali, a ogni livello, pagano regolarmente l'Ici in base alla legislazione vigente», hanno messo nero su bianco in un comunicato congiunto. «Cgil, Cisl e Uil», hanno ribadito, «possono attestare l'avvenuto pagamento dell'Ici con i relativi bollettini a disposizione di tutti gli organi di informazione, a dimostrazione della trasparenza dell'attività sindacale».
È partita la caccia a chi non paga l'Ici. Si allarga il fronte politico di chi vorrebbe maglie più strette per far pagare le tasse anche alla Chiesa. Da "Il Corriere della Sera" si apprende che il presidente della Cei Bagnasco ha mostrato disponibilità «a valutare la chiarezza della norma». Ma allo stesso tempo l'Avvenire passa al contrattacco segnalando che non soltanto i beni ecclesiastici sono esentati dal pagamento delle tasse sugli immobili. In effetti l'elenco è lungo, e comprende tutti gli edifici di proprietà di organizzazioni internazionali e Stati esteri (compreso però il Vaticano), così come le fondazioni culturali e liriche, le Camere di Commercio, le università, le scuole. Anche i musei, ma a patto che non comprendano attività commerciali come book-shop o caffetterie (il che li esclude praticamente tutti). Sono poi esentate tutte le associazioni impegnate nel sociale, e in questo novero finiscono anche le attività ricreative, come buona parte dei 5.500 circoli Arci.
Ma torniamo ai beni ecclesiastici. Secondo stime dell'Anci aggiornate al 2007 - quando ancora esisteva l'Ici sulla prima casa - l'esenzione vale 400 milioni di euro l'anno, al netto dell'inflazione e della rivalutazione degli estimi catastali prevista dalla manovra. Come è noto, solo i luoghi di culto, di pertinenza religiosa o che svolgono funzioni di assistenza ai bisognosi sono esentati dalla legge. Ma da più parti sono stati sollevati dubbi sul rispetto delle norme. Al punto che lo stesso Bagnasco ha chiesto che vengano sanzionati gli eventuali abusi. Il controllo «fiscale» sui beni della Chiesa spetterebbe alle amministrazioni, che però su questo fronte fanno poco o nulla. Secondo alcune rilevazioni, addirittura il 20% del patrimonio immobiliare italiano farebbe capo alla Chiesa. Il catasto comprenderebbe 100mila fabbricati, con un valore di circa 9 miliardi di euro. Le stime di settore parlano di circa 115mila immobili, quasi 9mila scuole e oltre 4mila tra ospedali e centri sanitari. Solo a Roma ci sono 23mila tra terreni e fabbricati, 20 case di riposo, 18 istituti di ricovero, 6 ospizi. Ma di questi quanti realmente dovrebbero essere tassati?
I Radicali da anni, spesso come voce solitaria, segnalano l'anomalia dei beni di proprietà della chiesa sfruttati a fini commerciali e tuttavia esentati dall'Ici. Il consigliere comunale di Milano Marco Cappato ha presentato un'interrogazione per conoscere quali sono i beni della Chiesa, i controlli fiscali eseguiti e con quale risultato: «Non ho ancora ricevuto risposta - spiega al Corriere della Sera - nell'attesa ho chiesto conferma del trattamento riservato ad alcuni beni ecclesiastici chiedendo se fossero esentati. Ed ottenuta risposta positiva, abbiamo provveduto noi a fare una piccola verifica». Il segretario dei Radicali Mario Staderini si è presentato in alcuni studentati e convitti ecclesiastici chiedendo una stanza per qualche notte. Ha così scoperto che in qualche caso, dietro la parvenza di una struttura religiosa, si celava un vero e proprio albergo, con tanto di tariffe perfettamente in linea con i costi del mercato. Il tutto filmato da una telecamera nascosta.
Per Avvenire bisognerebbe diffidare dalla «Fissazione radicale». Come spiega il direttore Marco Tarquinio, quella in corso è un'offensiva contro la solidarietà: «I promotori della nuova campagna anti-Chiesa, che ha risposto acremente agli appelli del mondo cattolico per misure fiscali pro famiglia e anti evasione, vogliono in realtà tassare la solidarietà». Il giornale dei vescovi ribadisce che l'esenzione compensa il welfare erogato dalle strutture ecclesiastiche. «Chiunque altro risponderebbe con una serrata dimostrativa di almeno sette giorni delle proprie attività - aggiunge Tarquinio -. Ma una settimana senza carità cristiana l'Italia non se la merita e non se la potrebbe permettere, soprattutto oggi. E i cattolici, poi, non sanno nemmeno come si fa una serrata».
In un altro articolo appare invece una breve elencazione degli «esenti meno noti», ossia «partiti, circoli culturali e sindacati». Tesi poi ribadita anche da alcuni esponenti politici di primo piano, come Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo alla Camera del Pdl: «Esistono esenzioni fiscali per le attività non lucrative - prosegue - di cui beneficiano non solo le confessioni religiose ma ad esempio anche i sindacati e la vasta galassia dell'associazionismo». Avvenire cita il caso dei circoli di volontariato che diventano ristoranti: «Vi è mai capitato di entrare in un locale dove si ascolta musica, si mangia e si beve allegramente? Prima di entrare vi fanno pagare una piccola quota associativa con tanto di tesserina? Bene, quel locale, noto circolo di una nota associazione ricreativa, non paga l'Ici». In un duello che inevitabilmente riporta la memoria ai tempi di don Camillo e Peppone, il quotidiano dei vescovi passa poi ad elencare «le case del popolo, così come i partiti politici».
Quindi anche il Partito Radicale, che da anni è l'alfiere della caccia all'esenzione, non pagherebbe l'Ici? «Non è affatto vero - replica Staderini - per la nostra sede noi paghiamo eccome, anche 2-3mila euro all'anno». È ancora più preciso il tesoriere del Pd, Antonio Misiani: «La normativa vigente prevede che i partiti politici siano soggetti al pagamento dell'Ici, salvo diversa deliberazione delle amministrazioni comunali». Che però vengono gestite dai partiti medesimi. Ugualmente sollecitate, tutte le sigle sindacali hanno provveduto a fare lo stesso comunicato: «Paghiamo regolarmente l'Ici». Su un patrimonio che del resto, restando solo alle organizzazioni confederali, sfiora quota diecimila immobili.
Quelli che pagano meno dei preti. Un po' di chiarezza la fa Franco Bechis su Libero. Non pagano le tasse, o le pagano appena appena, ma non sono evasori. Sono decine di migliaia i privilegiati del fisco italiano che non troveranno mai l’esattore alla loro porta con la cartella in mano per reclamare il dovuto. C’è la Chiesa italiana, è vero, con tutti i suoi ordini religiosi e associazioni in qualche modo collegate. Come lei tutte le Chiese riconosciute in Italia, che certo pesano numericamente assai meno Ma ci sono anche partiti, movimenti e associazioni politiche nazionali e nelle loro ramificazioni territoriali. Ci sono i sindacati nazionali, le loro associazioni di categoria, le loro ramificazioni territoriali. Ci sono le associazioni di promozione sociale, una voce dentro cui finisce davvero di tutto: dall’Arci, agli alcolisti anonimi, a Italia Nostra, alla comunità di Sant’Egidio, al Movimento delle casalinghe, a Legambiente, alle associazioni dei consumatori, fino al Touring club italiano. Ci sono tutti gli enti non commerciali, un mare indistinto dove ci si riesce a infilare con una certa facilità. E naturalmente il mondo delle Onlus. Nemmeno la commissione presieduta da Vieri Ceriani che ha censito tutte le agevolazioni fiscali italiani è riuscita fino in fondo a quanto ammonti questo variegato mondo del no-tax. Per alcune voci i calcoli sono stati fatti, per altre lasciati in bianco: a occhio e croce lo sconto fiscale complessivo ammonta ad almeno una decina di miliardi di euro, e piccola parte è quella rappresentata dalla Chiesa italiana.
Ora la polemica sui beniamini del fisco è tutta centrata sull’Ici. Non la paga nessuna chiesa per fabbricati destinati al culto e relative pertinenze. Ma già su questa ultima formula ogni comune e commissione tributaria fa un po’ come vuole. Ci sono regioni che non hanno ammesso all’esenzione (per decisione della commissione tributaria) la casa del parroco, le stanze di un monastero dove vivevano le suore, in un caso perfino la stanza del vescovo. A Milano la chiesa paga l’Ici per gli oratori parrocchiali, che sembrerebbero esenti. A Roma e in altre città invece non paga. Stessa cosa per i cinema parrocchiali: in qualche posto si paga, in altri no. Eppure l’esenzione è pienamente sfruttata da enti laicissimi, come l’Arci e le associazioni di promozione sociale, che a differenza della Chiesa spesso riservano manifestazioni e servizi solo ai possessori di una tessera di adesione annuale a pagamento. È certo che l’Ici non venga pagata dai partiti e movimenti politici. In qualche caso nemmeno dalle fondazioni politiche che stanno nascendo come funghi. Sui sindacati qualche incertezza interpretativa in più c’è. La Cgil, poi la Cisl e la Uil hanno giurato di pagare su tutti i loro immobili ad ogni livello territoriale e funzionale. Dicono di essere pronti a mostrare i bollettini, ma non li mostrano. Solo la Cgil per la sede nazionale dovrebbe pagare 71.387 euro di Ici. Attendiamo con ansia copia della ricevuta di versamento al comune di Roma. Altro modo di verificare non c’è, perché i sindacati sono i meno trasparenti di tutto questo mondo no-tax. L’unica verifica possibile è sulle società controllate. I Caaf Cgil spesso hanno immobili di proprietà e pubblicano i loro bilanci. A leggerli, sembrano dare torto alla Cgil nazionale. Ha immobili il Caaf Cgil Puglia, e in bilancio indica 1.756 euro di Ici pagata. Però è l’unico. Perché hanno immobili anche i Caaf Cgil di Sardegna, Calabria, Lombardia e Mantova. Ma nessuno di loro indica in bilancio un euro di Ici pagata: tutte le altre imposte (scontate, scontatissime), invece ci sono. Non c’è solo l’Ici però: partiti e sindacati hanno sconti o esenzioni fiscali anche sulle principali tasse sul reddito, e per loro non entra nell’imponibile nemmeno l’attività commerciale temporaneamente esercitata durante manifestazioni, congressi, happening e così via. Godono di regime fiscale privilegiatissimo per tutte le donazioni a loro rivolte. Sono esentati da tutte le tasse di concessione governativa, hanno uno sconto dell’80% sulla Tosap per tutte le loro manifestazioni, del 50% delle imposte comunali sulla pubblicità e sui diritti alle pubbliche affissioni. Così come è scontato del 50% ogni tipo di attività promossa con il patrocinio di un ente territoriale (che certo non si nega mai a un partito o a un sindacato). Ben più anomala dell’Ici è invece l’agevolazione fiscale di cui gode il Vaticano insieme a tutti gli enti controllati su tutte le imposte principali: 3.400 dipendenti godono dell’esenzione totale Irpef sulle retribuzioni, sul Tfr e dell’esenzione totale contributiva. Si tratta di dipendenti che fanno lavori comuni, non strettamente collegati all’attività di culto. Amministrativi, dipendenti della farmacia vaticana, segretari di ufficio, dirigenti dell’Apsa o di Propaganda Fide, medici e amministrativi di ospedali e strutture di proprietà vaticana. Non sono cittadini stranieri, ma quasi tutti italiani con residenza a Roma e provincia. Ma ricevono busta paga dove il lordo è identico al netto. E avranno pagata lo stesso la pensione senza avere mai versato un contributo.
Se solo le nostre tasse corrispondessero a servizi pubblici e meritocrazia....saremmo tutti più contenti a pagarle, anzichè evaderle o eluderle.
A PROPOSITO DI SPRECHI PARLIAMO DELLA «MACCHINA» PUBBLICA.
Un’inchiesta di Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”.
Sei miliardi di euro sottratti all'Erario. In tre anni hanno provocato un «buco» nel bilancio dello Stato pari a 6 miliardi e 250 milioni di euro, quasi un terzo della manovra da 20 miliardi già varata dal governo di Mario Monti per il 2012. Sono i dipendenti pubblici accusati di danno erariale, dopo essere finiti sotto inchiesta per reati che vanno dalla corruzione alla truffa, dall'omissione in atti d'ufficio all'abuso. Ma anche per semplici «negligenze» nello svolgimento delle proprie mansioni. Funzionari e impiegati che sfruttano il lavoro dei propri colleghi e nella maggior parte dei casi riescono ad arricchirsi. Complessivamente, 14.327 persone che tra il 2009 e il 2011 sono state «segnalate» dalla Guardia di Finanza alla Corte dei Conti e per molte di loro è scattata anche la denuncia penale. Si tratta di una minoranza, ma capace di mandare in crisi il bilancio. Soltanto nell'ultimo anno sono state 883 le «ispezioni» effettuate dai finanzieri, 4.148 le «segnalazioni» per una «perdita» quantificata in un miliardo e 841 milioni di euro. Il settore della spesa sanitaria rimane in cima alla lista degli sprechi e delle ruberie, ma molti altri sono i campi dove la «cattiva gestione» si mescola all'illecito. Uno è certamente quello delle case popolari, amministrate spesso con l'obiettivo di favorire parenti, amici e potenti. E poi c'è il mercato delle consulenze, con amministrazioni locali che addirittura sostituiscono i dipendenti con «esperti» ingaggiati all'esterno e pagati con parcelle da capogiro. E proprio sull'attività di controllo nel settore della spesa pubblica che - al pari dell'evasione fiscale - si concentrerà l'attenzione investigativa della Finanza anche nel 2012 come ha ribadito nella sua direttiva il comandante generale Nino Di Paolo, proprio alla luce dei risultati ottenuti.
Le case vuote e i «senzacontratto».
A Catania il direttore dell'Ente Case Popolari aveva assegnato un negozio a suo figlio - che non ne aveva diritto - e non si è preoccupato di allegare neanche la richiesta, tantomeno di riscuotere il canone. Del resto sono moltissimi gli alloggi che aveva concesso a parenti e amici e alla fine ha provocato un danno di 42 milioni di euro. Grave è anche il «buco» causato da 21 tra amministratori comunali e responsabili di un altro Istituto case popolari che hanno consentito a numerosi inquilini di prendere possesso degli immobili, ma non hanno mai stipulato con loro un contratto di locazione e alla fine non hanno potuto pretendere neanche un euro. C'è anche il caso di un ente con 83 milioni di affitti non riscossi e lì per cercare, inutilmente, di recuperarli è stata autorizzata una consulenza legale che ha provocato un ulteriore esborso di tre milioni di euro. Altri problemi sono stati riscontrati dai finanzieri al momento di censire gli appartamenti lasciati vuoti. In un caso si è scoperto che c'erano 50 alloggi popolari pronti da anni e mai utilizzati: il mancato introito verificato è stato di due milioni di euro, da sommare alle spese di ristrutturazione per renderli nuovamente abitabili dopo anni di abbandono. Numerose indagini sono state avviate pure sulla «cartolarizzazione» degli stabili perché al momento della cessione è stato determinato un prezzo molto inferiore al valore di mercato. Fatti i conti, l'ammanco complessivo per il 2010 e il 2011 è stato di 170 milioni di euro con 70 persone denunciate alla Corte dei Conti e 34 alla magistratura ordinaria.
Il record del primario e le Tac private.
I casi più frequenti di «danno» sono quelli dei medici che lavorano per il Servizio sanitario nazionale e senza autorizzazione svolgono anche attività privata. Negli ultimi due anni, denunciano i finanzieri, «le verifiche per le prestazioni mediche "intramoenia" hanno consentito di scoprire un danno pari a 172 milioni di euro e di deferire ai giudici contabili 190 dipendenti, mentre nei confronti di 71 è scattata anche la denuncia penale». Il record di quest'anno spetta a un primario che ha svolto oltre 3.500 visite presso il proprio studio privato senza naturalmente dichiarare i relativi ricavi. Alcuni suoi colleghi di una Asl che percepivano le indennità di esclusiva, uscivano per andare a visitare i pazienti, ma per giustificare le assenze presentavano falsi contratti per attestare che andavano a insegnare.
Il «sistema» è stato sfruttato in maniera costante in Calabria: i finanzieri hanno denunciato alla Corte dei Conti 115 medici e 25 impiegati della Asp di Catanzaro contestando loro un danno complessivo di 12 milioni di euro. Il meccanismo di illecito riguarda la «Alpi», vale a dire l'attività libero professionale intramuraria. Chi l'accetta può svolgere lavori esterni soltanto in casi particolari e con il «visto» del dirigente. E invece si è scoperto che nessuno effettuava i controlli e questo ha consentito al personale ora finito sotto inchiesta di lavorare fuori e di svolgere l'attività privata addirittura all'interno di una clinica che non aveva le autorizzazioni per alcune prestazioni che invece venivano effettuate. Altrettanto grave è il caso di tre medici che dichiaravano sul foglio presenza di essere al lavoro, mentre facevano visite nei propri studi privati dall'altra parte della città o addirittura in un'altra provincia. La «segnalazione» delle Fiamme Gialle ai giudici contabili riguarda incassi «in nero» per 200 mila euro, ma è stata presentata anche una denuncia penale per truffa. Stesso reato è stato contestato ad alcuni specialisti che utilizzavano Tac e risonanze magnetiche delle strutture pubbliche per i propri pazienti privati.
I medici del lavoro e le «ispezioni».
Truffa, falso e concussione sono gli illeciti addebitati ad alcuni dottori che lavoravano in una struttura ispettiva sull'igiene e la sicurezza negli ambienti di lavoro e avevano accettato consulenze da quelle stesse aziende che dovevano tenere sotto controllo. Onorario concordato: mezzo milione di euro, oltre a docenze e corsi di formazioni pagati a parte.
Al momento appare inspiegabile il comportamento del direttore sanitario di un ospedale che, come viene sottolineato nella relazione della Guardia di Finanza «ha autorizzato personale sanitario dipendente all'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria ambulatoriale presso strutture private non accreditate, pur avendo a disposizione spazi realizzati ad hoc utilizzando un finanziamento pubblico di quasi 700 mila euro».
I consulenti legali.
Il caso più eclatante è certamente quello di un Comune che - nonostante potesse contare su un ufficio legale interno - aveva affidato incarichi esterni per un'attività che, come hanno riscontrato le Fiamme Gialle, era «seriale, superflua e svolta soltanto formalmente». Questo non ha comunque impedito un esborso di ben 21 milioni di euro. Nel dossier si evidenzia come quello dei lavori affidati a personale non dipendente sia ormai un vero e proprio «sistema» che consente agli alti funzionari di gratificare amici e parenti con un danno per il bilancio da centinaia di milioni di euro e soprattutto a discapito di quegli «esperti» interni che potrebbero svolgere perfettamente le stesse mansioni.
Scurriculum, le carriere misteriose di amici e amanti senza alcun merito. Una rassegna impietosa, e a tratti ironica, di eclatanti casi di raccomandazioni in uffici pubblici e delicati ruoli dirigenziali: mediocrità al potere, mentre l'Italia affonda nelle classifiche della competitività globale. L'Italia degli Scurriculum, di quei tanti personaggi che pur non avendo titoli adeguati sono stati piazzati dalla politica a fare i manager di imprese pubbliche, di Asl, di istituti di ricerca statali o di municipalizzate, potrebbe riassumersi tutta nella trascrizione di un interrogatorio dell'inchiesta Tarantini, l'imprenditore delle escort di Arcore e delle mazzette sulle protesi. Al pm Digeronimo l'ex direttore generale dalla Asl di Taranto racconta di aver incontrato un politico pugliese al pronto soccorso di Massafra. "Gli ho chiesto come mai fosse lì e fosse così preoccupato - fa mettere a verbale il direttore generale - e lui m'ha risposto che la figlia aveva avuto un incidente automobilistico. Allora l'ho rassicurato: guarda oggi dentro ci sta proprio il primario di ortopedia. E lui: è per questo che sono preoccupato, quello ce l'ho messo io là e so come ho fatto". Sembra una barzelletta, ma come in tante altre storie raccontate nel libro "Scurriculum, viaggio nella demeritocrazia", è solo uno dei tanti esempi che dimostrano come l'Italia sia sempre più una Repubblica fondata sulla mediocrità, una "mediocracy". Cioè un sistema che seleziona e promuove scientificamente una classe dirigente di basso profilo che non è funzionale al Paese, ma al partito. Al leader. Al segretario.
E' proprio questo il filo conduttore di Scurriculum (Aliberti editore). Il saggio scritto dal giornalista Paolo Casicci e da Alberto Fiorillo di Legambiente, con la prefazione di Gian Antonio Stella: mostrare come, a forza di spintarelle, raccomandazioni, tanti onesti gregari dall'esperienza professionale leggera e dalle amicizie pesanti, in virtù del tocco magico della politica, siano stati trasformati in straordinari manager e capitani d'impresa che hanno a che fare col domani del Paese e con l'oggi di tutti noi: con la salute, il trasporto pubblico, la spazzatura, la cultura, l'istruzione, il lavoro, l'ambiente... Una corte di vassalli che ha l'unica funzione di soddisfare le esigenze del principe (e ovviamente le proprie) a scapito della collettività. Come scrive Gian Antonio Stella nella prefazione, infatti, "da noi vige un sistema, ignobile e suicida, che mortifica i più bravi costringendoli spesso a regalare la loro intelligenza ai Paesi stranieri e premia al contrario quanti hanno in tasca la tessera giusta o il telefono del deputato giusto. Un errore che ha infettato la società italiana rendendola sempre più debole e incapace di stare al passo di un mondo che cambia a velocità immensamente superiore alla nostra".
E infatti via via Scurriculum dipana una galleria degli orrori: storie esemplari raccolte in altrettanti curricula, che spiegano come un ex calciatore dilettante o un insegnante di francese in pensione possano guidare due importanti enti di ricerca, come il dentista fidanzato con la Brambilla possa essere tra i boiardi che decidono le sorti della Formula1 a Monza, o come un cacciatore e un ultrà possono governare due aree protette, una nazionale e una regionale. Dal mazzo si può pescare ancora la carriera di Massimo Zennaro, portavoce e direttore generale dell'ex ministero della Pubblica istruzione, Maria Stella Gelmini. L'uomo è famoso per avere inventato l'esistenza di un tunnel costruito tra il Cern in Svizzera e i laboratori del Gran Sasso, lungo il quale i neutrini avrebbero superato la velocità della luce. Oggetto che gli è valso a lungo gli sfottò della Rete (e l'incredulità della stampa straniera). Laureato in Scienze politiche, un precedente di semplice "comunicatore" al Comune di Milano, Zennaro scala il ministero praticamente senza curriculum. Ed è ancora lì, dirigente all'istruzione, con il nuovo governo. La conclusione degli autori? "Ci resta la dignità della denuncia. O una moratoria contro i 'figli di'".
Senza parlare poi de LA CASTA DELLE STELLETTE.
Pensioni, case, indennità: ecco la casta con le stellette, secondo “Il Giornale” ad un capo di Stato maggiore spettano un milione di liquidazione e 15mila euro al mese. Ed ai vertici di Esercito, Carabinieri e Finanza va anche un bonus di 409mila euro. La casta per definizione è quella dei politici e anche i giornalisti che li criticano non sempre possono lanciare la prima pietra, ma nell’Italia dei privilegi pure i generali e gli ammiragli non scherzano. Gli alti ufficiali sono tanti, troppi, secondo qualche fonte il 30% in più del necessario, per un esercito volontario che verrà ridotto di ulteriori 40mila uomini. I capi di stato maggiore tirano i remi in barca con una liquidazione che sfiora il milione di euro e 15mila euro di pensione. Non solo: i vertici delle forze armate, compresi Carabinieri e Finanza, godono di una speciale indennità pensionabile di 409mila euro lordi, che in tempi di vacche magre salta agli occhi. Oggi lo Stato sta pagando oltre 4 milioni di euro per questa indennità ad personam. La chiamano S.I.P. e non ha niente a che fare con la vecchia compagnia telefonica. Nel 1981 il primo a godere della speciale indennità pensionabile era stato il capo della polizia. Nel corso degli anni si sono aggiunti il comandante della guardia forestale ed il direttore generale delle carceri. Le stellette hanno brontolato chiedendo, per certi versi a ragione, uguali diritti e così la SIP è stata garantita anche al comandante generale dei carabinieri, a quello della Finanza ed ai capi di stato maggiore delle Forze armate che sono 4 (Difesa, Esercito, Aeronautica e Marina), oltre che al segretario generale e direttore degli armamenti. Un generale a tre stelle non arriva a 6.500 - 7.000 euro al mese, meno della metà di tanti alti dirigenti dello stato. Nel momento in cui viene nominato capo di stato maggiore, con la responsabilità su decine di migliaia di uomini, forse è giusto garantirgli un’indennità di carica. Anche se 22.755 euro in più al mese per 13 mensilità «rivelati » in una proposta di legge che addirittura voleva allargare il privilegio ai vice, non sono bruscolini. Dalla precedente gestione della Difesa non siamo riusciti ad ottenere le cifre esatte, ma secondo le fonti de il Giornale e di stampa stiamo parlando di 409mila euro lordi che corrispondono ad oltre 250mila euro netti. L’aspetto più controverso è quel termine «pensionabile». In pratica la speciale indennità viene poi riconosciuta per calcolare la pensione. Dalla Difesa scrivono che «si tratta di indennità (...) soltanto parzialmente pensionabile istituita per eliminare o quantomeno attenuare il grande divario all’epoca esistente con i vertici delle Forze di Polizia». Fonti de Il Giornale, però, sostengono che la SIP è quasi totalmente pensionabile, a parte una decurtazione che si aggirerebbe sul 10%. In definitiva le stellette che sono state ai vertici delle Forze armate si godono una pensione che si aggira sui 15mila euro. «Le responsabilità che hanno assunto sono elevatissime e quindi non mi sembra scandaloso - sostiene una fonte de il Giornale nelle Forze armate che conosce i conti - Invece è scandaloso il tentativo di estenderla anche ad altri» come i vicecomandanti ed i vicari. In Italia i generali delle Forze armate sono 425. Negli Stati Uniti gli alti ufficiali sono 900, ma comandano 1 milione e 400 mila uomini, sette volte più di noi. Secondo una fonte de il Giornale che conosce il problema generali ed ammiragli potrebbero essere anche il 30% in più del necessario, compresi i carabinieri. Per non parlare della Finanza e degli altri corpi di sicurezza della Stato. E dei privilegi garantiti a 44 alti ufficiali, che beneficiano di appartamenti da 600 metri quadrati compresi di battitura tappeti e lucidatura dell’argenteria. La spesa per lo Stato sarebbe di 3 milioni e mezzo di euro l’anno. Non è un caso che nel piano di tagli in via di preparazione sia prevista una drastica riduzione degli alti ufficiali. Non solo: La Difesa sta studiando un taglio di almeno 40mila uomini su 190mila, che dovrebbe presentare entro fine anno al nuovo ministro, Giampaolo Di Paola. Per la prima volta è stato nominato al vertice un ammiraglio ancora in servizio, anche se oltre l’età prevista per la pensione. Proprio Di Paola è il fautore del nuovo «Modello di Difesa» che prevede la riduzione degli organici a circa 120/140mila uomini. Le spese del personale assorbono il 62% delle risorse della Difesa (quasi 9 miliardi di euro). L’obiettivo è arrivare ad un costo del 50% senza tagliare le unità operative. Nelle missioni all’estero, comprese quelle di guerra come in Afghanistan, sono impegnati fra 10 e 12mila uomini. Il problema è che i tagli hanno ridotto all’osso l’addestramento ed il prossimo anno potrebbero esserci 3mila volontari in meno da arruolare per mancanza di soldi. «Già adesso i bandi per ufficiali e sottufficiali hanno numeri sempre più ridotti. Si rischia che le forze armate diventino ancora più “vecchie”» spiega una fonte de il Giornale sottolineando l’altra faccia della medaglia rispetto ai tagli. Per snellire la Difesa bisogna sicuramente continuare sulla strada della chiusura degli enti inutili. Interi reparti esistono più o meno sulla carta. Dal 2008 il programma di dismissioni che dovrebbe portare alla vendita di 200 caserme, 3.000 alloggi e 1.000 installazioni va avanti a rilento. Spesso molti degli immobili sono occupati da abusivi o gravati da incredibili intoppi burocratici, anche se le norme per la dismissione si stanno sbloccando. Gli accorpamenti necessari riguarderanno la logistica, ma sacrifici, secondo il capo di stato maggiore della Difesa, Biagio Abrate, coinvolgeranno «soprattutto le strutture di comando e supporto alle categorie dirigenziali ». Anche sulla sanità militare si addensano critiche. Centinaia di posti letto e camici con le stellette dispersi in tutta Italia si occupano sempre più di certificazioni di invalidità. L’ufficiale medico può esercitare all’esterno, ma se gli chiedono di andare in prima linea in Afghanistan spesso marca visita. Un’altra realtà controversa è l’ausiliaria. Quando il militare raggiunge i limiti di età, o dopo 40 anni di contributi, può fare domanda per questo istituto, che dura 5 anni. In pratica serve a garantirgli «il 70 per cento degli incrementi di stipendio riconosciuti al pari grado in servizio». Un ufficiale in ausiliaria può venir richiamato nella provincia di residenza, ma capita per una piccola minoranza. Ai tempi della guerra fredda serviva alla mobilitazione generale in caso di conflitto, ma oggi l’ausiliaria è un po’ desueta. Dalla Difesa fanno notare che da quest’anno fino al 2014«l’istituto è di fatto sterilizzato» perché gli stipendi dei militari sono bloccati. Non durerà per sempre, si spera, ed in ogni caso l’ausiliaria pesa nell’ultimo bilancio della Difesa per 326,1 milioni di euro, con un incremento minimo dello 0,7%. Soldi che secondo alcuni, nelle Forze armate, sarebbe meglio utilizzare per stipendi più adeguati al personale in servizio e realmente operativo.
Nessuno parla dei COMMESSI PARLAMENTARI.
L’altra Casta. Reportage de “Il Giornale”. Commessi da 9mila euro I privilegi della Camera. Intorno agli onorevoli c'è la tribù degli addetti: dai tecnici agli stenografi. Tre volte più numerosi dei deputati. Alla Camera sono 1.642, quasi tre per ogni deputato. E da questo numero sono esclusi i collaboratori degli onorevoli, per i quali i parlamentari hanno un contributo a parte (fino a 3.690 euro al mese). Sono le comparse di Montecitorio, l’ingranaggio sotterraneo della Camera che non si vede, o che s’intravede in qualche seduta movimentata, quando un braccio nero arriva ad agguantare un eletto del popolo che si sta avventando su un altro eletto del popolo. Sono questi i cosiddetti commessi parlamentari, o assistenti, ma l’infinita varietà di mansioni dell’alveare Camera propone ben 19 servizi e 7 uffici della segreteria generale, con incarichi che vanno dall’operatore tecnico al segretario, appunto, che vanta uno stipendio superiore a quello del presidente della Repubblica (28.152 euro lordi mensili). La spesa complessiva di Montecitorio per stipendi e pensioni dei 1.642 nel 2010 ha superato il mezzo miliardo di euro, 508 milioni 225mila euro. Tutto ruota intorno alla Casta, ma per muovere l’onorevole tribù c’è appunto quest’altra Casta quasi tre volte più numerosa, che a ben guardare costa alle casse pubbliche non meno della dorata schiera dei politici. Il bilancio consuntivo 2010 della Camera dice che per gli stipendi del personale (ascensoristi, commessi seda-risse, stenografi, consiglieri eccetera) la spesa è stata di 256 milioni 128mila euro. Questo significa che il guadagno medio di un dipendente è di 155mila 985 euro lordi l’anno, 6mila euro al mese netti di media. Uno stenografo sfiora i 260mila euro l’anno. Per fare un paragone, le controverse indennità parlamentari si sono fermate a 94 milioni 545mila euro. Non è solo una questione di grandi numeri. Entrare alla Camera, anche nei ruoli meno prestigiosi come appunto quello di commesso con il compito di sorvegliare la seduta di assemblea, implica portare a casa uno stipendio base, alla prima assunzione, di 2.618 euro netti. Dopo 15 anni di lavoro la busta si gonfia: 5.613 euro. A fine carriera, dopo 35 anni, il supercommesso arriva a guadagnare 9mila 400 euro. La paga di circa cinque operai. E a proposito di fine carriera va segnalato che anche per i dipendenti, fino alla settimana scorsa, sono valse regole, se non favolose come quelle dei deputati, eccezionali rispetto ai comuni lavoratori italiani: gli assunti prima del 2009 potevano andare in pensione anche a 57 anni con 35 di contributi, oppure molto prima se gli anni effettivi di servizio alla Camera erano stati almeno venti. Le nuove norme stabilite dall’ufficio di presidenza lo scorso 14 dicembre 2011 impongono anche per l’altra Casta la pensione a 65 anni, con sistema contributivo. In men che non si dica però, nello stesso giorno,l’associazione dei consiglieri della Camera ha recapitato al presidente Fini e ai parlamentari una lettera, non ancora resa nota alla stampa, per rendere consapevole «l’intera rappresentanza parlamentare» che «uno slittamento dell’età di pensionamento» anche «di dieci anni» anche per «i dipendenti prossimi al pensionamento» non rispetterebbe il requisito «dell’equità». Si segnala quindi che la «burocrazia parlamentare non appare assimilabile a nessuna delle categorie di pubblico impiego». Pur consapevoli della necessità «di fare ogni sforzo per favorire il consolidamento dei conti pubblici», i consiglieri rivendicano «la dignità e la qualità professionale della burocrazia parlamentare» e il loro «ruolo centrale» nel «sistema democratico». Una qualità professionale che, comunque sia, è pagata benissimo. Un consigliere caposervizio (che gode di un’indennità di ruolo di 1.198 euro mensili) può arrivare a guidare un servizio e avere uno stipendio fino a 23.825 euro lordi al mese, praticamente superiore a quello di un parlamentare. Le pensioni dei dipendenti valgono oltre 200 milioni di euro. E a questa voce compaiono anche 110mila euro di «assegni integrativi », 145mila euro di contributi socio- sanitari ai pensionati e 390mila euro di oscure «pensioni di grazia », di cui una rapida ricerca storica consente di trovare traccia nei registri finanziari del regno di Napoli ( XVIII-XIX secolo).I contributi previdenziali a carico dell’amministrazione hanno sfiorato nel 2010 i 47 milioni di euro,di cui quasi 11 milioni versati all’Inpdap e 36 milioni di «integrazione al fondo di previdenza del personale».
Ci impongono il rispetto della legalità dal basso...dai cittadini.
Perchè non pretendiamo il rispetto della legalità dall'alto, da chi dovrebbe dare l'esempio?
Il ministro dell'economia fu indagato nel 1996 per evasione fiscale. Un'inchiesta poi archiviata, ma rimasta nascosta per 15 anni. E in cui giocò un ruolo anche Milanese. 'L'Espresso' ha scoperto e ricostruito tutta la vicenda.
L'interrogatorio di un super ministro che resta segreto per 15 anni. Mentre l'indagine muore sepolta da un'archiviazione molto contestata, con il risultato, fino a ieri raggiunto, di rendere inaccessibili le notizie più imbarazzanti. Come una fragorosa denuncia di Giulio Tremonti, poi ritrattata, contro Silvio Berlusconi. O la scoperta che l'operazione Bell-Telecom, cioè la più colossale evasione fiscale mai accertata in Italia, fu architettata dallo stesso avvocato lussemburghese che aveva gestito la cassaforte estera del professor Tremonti.
L'Italia è una Repubblica fondata sui segreti. Un sintomo inedito di questo male nazionale è nascosto in una vecchia inchiesta penale, in apparenza innocua. Tra la caduta del primo (1994) e la nascita del secondo governo Berlusconi (2001), il ministro dell'Economia ha dovuto deporre come indagato, per una spiacevole accusa di evasione fiscale, davanti a un ex pm della procura di Milano. Finora nessuno aveva potuto informare i cittadini neppure dell'esistenza di questo interrogatorio. Dopo varie peripezie, anch'esse rimaste segrete, l'indagine si è chiusa con un proscioglimento controverso. E ora si scopre che i più delicati risvolti politici e fiscali dell'inchiesta su Tremonti furono gestiti da un capitano della Guardia di finanza allora ignoto ai più: Marco Milanese.
Il politico e l'ufficiale. Entrato nelle Fiamme gialle nel 1981, Milanese è diventato dal 2001 il braccio destro del ministro Tremonti e dal 2008 è parlamentare del Pdl. Inquisito a Napoli per più corruzioni, violazioni di segreti istruttori e associazione per delinquere, ha evitato il carcere solo grazie all'immunità votata in luglio 2011 da Pdl e Lega. I giudici di Napoli accusano Milanese di aver intascato tangenti, tra il 2004 e il 2010, per oltre un milione di euro: 450 mila in contanti, altrettanti vendendo a prezzi gonfiati ville in Francia e barche di lusso, oltre a farsi pagare gioielli, orologi, vacanze a New York, Ferrari e Bentley. In cambio, il deputato garantiva favori ministeriali: usava il suo potere sulla Guardia di finanza per spiare le intercettazioni antimafia e piazzava i propri corruttori ai vertici di aziende pubbliche. L'inchiesta di Napoli ha spinto Milanese a svelare anche giri di denaro con Tremonti: era lui a finanziare l'affitto della casa di Roma abitata dal 2009 dal ministro, che a quel punto ha dovuto dichiarare che gli restituiva "mille euro in contanti alla settimana". Il 16 dicembre 2010, sentito come testimone dal pm Vincenzo Piscitelli, il ministro ha descritto così l'origine del rapporto: "Ho avuto occasione di conoscere Marco Milanese intorno al 2001, in occasione della sua applicazione come "aiutante di campo" al ministero dell'Economia". E "non c'è mai stata una collaborazione professionale di Milanese con lo studio di cui sono stato socio".
Carriera in orbita. Altre fonti, rintracciate da "l'Espresso", retrodatano il legame. Un generale della Finanza ricorda di aver inserito Milanese "tra i militari del nucleo a diretto servizio di Tremonti già dal '94, ma in via occasionale, senza ruoli formali". Un ex ministro aggiunge che "già nel '96" Milanese si presentò al suo staff come "tremontiano di ferro". Stando ai documenti interni delle Fiamme gialle, Milanese viene "distaccato" ufficialmente a Milano, come addetto militare di Tremonti, il 28 giugno 2001. Vari ufficiali dell'epoca precisano però che la sua nomina fu un colpo di scena: a quel posto era destinato un capitano già pronto a partire dal Friuli. Motivazione comunicata in caserma: "Tremonti ha voluto Milanese". Fin qui, le diverse versioni potrebbero dipendere solo da cattiva memoria.
Di certo un aggancio precedente al 2001 porta a Dario Romagnoli, preparatissimo ex ufficiale della Finanza (primo in graduatoria) che era amico di Milanese fin dai tempi dell'Accademia e che tuttora è una colonna dello studio tributario fondato da Tremonti. Romagnoli però è stato assunto dal professore nel '90. Eppure fino a tutto il '95 Milanese è rimasto un oscuro "capitanicchio", come lo etichettano due ufficiali già allora vicini a Tremonti. Di fatto la sua carriera entra in orbita solo a partire dal '96, quando diventa maggiore, compra la sua prima villa a Cap Martin e soprattutto si fa largo come factotum del nuovo comandante del nucleo di Milano, un fedelissimo del generale Nicolò Pollari. A quel punto riesce a entrare nella Scuola di Ostia che seleziona i vertici della Finanza e dal 2000 è tenente colonnello a Roma. Finora però s'ignorava che il balzo in avanti di Milanese fosse coinciso con due anni di indagini su Tremonti, gestite tanto riservatamente che i passaggi più delicati furono tenuti segreti perfino all'allora procuratore Francesco Saverio Borrelli.
PARLIAMO DI ESTORSIONE ED USURA LEGALIZZATA: LE CARTELLE ESATTORIALI.
Milioni di italiani ricevono richieste assurde di soldi, spesso per multe e bollette già pagate o non dovute. Un Moloch di Stato che non ascolta ragioni e ti pignora la casa per pochi euro. Sul “L’Espresso” il dossier.
Un grande falò di cartelle esattoriali sotto la Mole Antonelliana. Parte da Torino la rivolta fiscale contro Equitalia. Sono pronti a migliaia per la prima class action, proprio come nei film americani, che porterà davanti al giudice quello che definiscono il nuovo sceriffo di Nottingham: il fisco impazzito. Non difendono certo gli evasori e le frodi. Anzi, denunciano i metodi della società pubblica che riscuote tasse, contributi Inps, Iva, multe e canone Rai per conto dello Stato. Nel 2006 fu armata dal governo per scucire il dovuto ai più incalliti nemici del fisco, ma sta diventando l'incubo di un'altra categoria: artigiani senza più commesse, commercianti oberati di debiti, famiglie monoreddito stremate dai conti di casa. Secondo i dati diffusi per la prima volta, i 18 milioni di cartelle inviate solo nell'ultimo anno e i 40 milioni fra solleciti, notifiche e avvisi di pagamento colpiscono con la stessa rudezza furbi e imbroglioni, ma pure cittadini con colpe veniali e magari pronti a pagare. Gente che si vede trattare dagli sceriffi di Equitalia come ricercati. E che sfinita si sta ribellando.
Tutta Italia ne ha parlato. In galera per una settimana per aver omesso di versare 134 euro di contributi Inps. Siamo il Paese dove i grandi evasori fiscali quasi mai finiscono dietro alle sbarre, dove in Parlamento siedono liberi deputati e senatori condannati per mafia, dove le pene sono più teoriche che effettive, fatta eccezione per i poveracci e gli sbadati. Lo sa bene l'artigiano trentino che per una micro evasione contributiva rischiava di passare il Natale in carcere, benché certo non sia un delinquente.
Cosa era accaduto? L'uomo, in passato titolare di una ditta individuale, nel 2006 omise un versamento contributivo da 134 euro. Una cosa di poco conto insomma che poteva essere sanata con il pagamento e una piccola sanzione. Per qualche ragione ciò non avvenne e quella che era una bagatella si trasformò in un procedimento penale. All'inizio del 2010 l'artigiano venne processato e l'8 febbraio del 2010 fu condannato in contumacia a tre mesi e 300 euro di multa. Non beneficiò della sospensione condizionale forse perché aveva avuto un'altra condanna simile: un mese per un altro mancato versamento di contributi Inps da 68 euro. Per quella prima condanna l'uomo - padre di famiglia con moglie e una figlia piccola - aveva intrapreso un percorso di "riabilitazione" seguito dall'Ufficio esecuzione pene esterne. Al passaggio in giudicato della seconda condanna - quella più pesante a 3 mesi - all'artigiano venne notificato un ordine di esecuzione pena con sospensione di 30 giorni per permettergli di ricorrere al medesimo servizio. L'uomo però, che in quel momento non era seguito da un avvocato, ha erroneamente creduto che gli avvisi si riferissero sempre al primo procedimento, per cui era già seguito dall'Ufficio esecuzione. Certo l'artigiano ha commesso una grave leggerezza, pagata cara. Infatti, ha ricevuto una telefonata da parte dei carabinieri che gli dovevano notificare degli atti. Dopo aver salutato moglie e figlia convinto di dover solo ritirare una carta, ha scoperto in caserma che per lui si stavano aprendo le porte del carcere. Solo a questo punto è stato chiesto l'intervento di due avvocati di fiducia, ma la "frittata" era ormai fatta.
Il consigliere regionale Alberto Goffi è una specie di Robin Hood che viaggia per Torino su una jeep verde con il numero di cellulare sulla fiancata. È lui che ha chiamato a raccolta questo popolo e ha ingaggiato un duello inedito fra due soggetti pubblici: il locale ufficio di Equitalia Nomos e l'Osservatorio messo in piedi dalla Regione Piemonte, che gli fa le pulci. Un duello che potrebbe allargarsi a macchia d'olio in tutto il Paese. E così in mezzo a chi le tasse non le paga davvero, nasconde capitali all'estero, distrugge le multe e con le bollette riempie i cuscini, c'è sempre più gente come Anna: dopo la crisi della Fiat per mandare avanti l'azienda che faceva componenti per auto ha congelato i versamenti Inps. Aveva un debito da 300 mila euro, che nel frattempo è salito a più di un milione. E non si ferma. La rata da 37 mila euro al mese non la reggeva. Così, adesso che gli ordini sono tornati a salire e avrebbe lavoro per un decennio, sta licenziando e chiuderà baracca: "L'interesse annuale è più alto del debito, così io pago ma non finisco mai. Mi hanno portato via tutto, mobili, macchinari, auto e casa. Mi resta l'orologio che mi regalò mio marito e ho paura che me lo sfilino dal polso. Secondo lei, se volevo evadere mi intestavo tutto?". C'è Francesco, 46 anni, licenziato, bimba a carico. S'è visto ipotecare il mini-appartamento per non aver pagato il canone Rai. C'è Giorgio, 39 anni, cassintegrato: "Il mutuo mi mangia tutto e quelle vecchie multe di quattro anni fa si sono trasformate in un incubo: il debito è triplicato, paghiamo ogni mese e non scende mai". E c'è Giovanni, 60 anni, che fornisce macchinari alle carceri. Stavolta è lo Stato che ha smesso di pagarlo e così lui non ha potuto versare i contributi Inps per i tre dipendenti. Solo che adesso quello stesso Stato è pronto a mettergli all'asta la casa.
Nell'ottobre 2009 Equitalia mandò un preavviso di ganasce fiscali addirittura al Radio Soccorso di Torino, che trasporta i malati di cancro. Il tutto per un debito di 3.058 euro su una vecchia tassa rifiuti. "Una cosa è la caccia ai delinquenti, che ogni anno nascondono allo Stato 120 miliardi di tasse e vanno presi. Altra cosa è infierire su questi poveracci per fare cassa", dice Goffi.
Ecco il punto. Dal 2009 l'Agenzia delle Entrate ha diminuito le "commesse" per Equitalia: meno riscossioni con la forza, più disponibilità a trattare con i presunti evasori per ottenere in via bonaria e in tempi più rapidi il dovuto. In questo modo l'Agenzia incassa direttamente oltre il 67 per cento dei crediti, lasciando alla società di riscossione circa un caso su tre. E così Equitalia si concentra sempre di più su multe, canoni, Tarsu e ritardi di pagamento o sui piccoli imprenditori soffocati dalla recessione. Applicando le stesse ipoteche e pignoramenti previsti per chi evade, anche per poche centinaia di euro. L'effetto pratico è bizzarro: l'evasore consapevole, mimetizzato dietro off shore e conti esteri, senza case da sequestrare né auto da bloccare, se la cava spesso con un concordato. Mentre il cittadino che ogni anno compila il modello Unico, ma non ha i quattrini per saldare, si vede spogliato di tutto. Emblematico il fenomeno della case ipotecate spesso per pochi spiccioli. A "L'espresso" Equitalia ha fornito un primo quadro nazionale. Si parla di oltre 616 mila ipoteche iscritte dal 2007 al 2010. E sarebbero già tante. Eppure Federcontribuenti ripete che il dato non è attendibile e che in Italia le ipoteche sarebbero già oltre un milione e mezzo. "Basta leggere i dati della Provincia di Torino trasmessi alla Regione. Oggi in un territorio di 2 milioni di abitanti ci sono almeno 39 mila ipoteche attive. Impensabile che in Italia siano poco più di 600 mila, soprattutto se si considera che nelle grandi città come Roma e Napoli il fenomeno è storicamente più diffuso", spiega Goffi.
A dimostrare che i provvedimenti non scattano solo nei confronti degli evasori veri, c'è il boom di ricorsi da Roma a Milano. Centinaia di persone si sono trovate l'ipoteca per debiti inferiori ai mille euro, magari per vecchie multe. A chi s'è presentato allo sportello di Equitalia la risposta è stata sempre la stessa: "Noi applichiamo la legge". Lo ripetono tutti. Dal responsabile comunicazione dell'Equitalia, al direttore generale. Peccato che la Cassazione l'abbia smentito, dichiarando illegittima l'ipoteca della casa per meno di 8 mila euro. Equitalia ha preso atto e ha subito promesso di cancellare senza oneri per il contribuente le ipoteche irregolari iscritte dal 2007. Eppure finora non è accaduto nemmeno questo, in un rimpallo su chi debba sborsare i quattrini necessari. C'è pure il caso di chi, come Gianni di Milano, artigiano nel settore del mobile, s'è visto mettere all'asta la sua quota di casa che divideva con la moglie. Il 50 per cento è finito in mano a un estraneo che, pochi giorni dopo, ha cominciato a presentarsi a casa a tutte le ore: "Mi diceva questo: o ti ricompri da me la tua quota al doppio del prezzo o vi rendo la vita impossibile. Per me è cominciato un incubo". "Questi sono problemi che stanno emergendo e su cui è necessaria un riflessione sia a livello politico, sia di sistema", ammettono ai piani alti dell'Agenzia delle Entrate. Che vi sia un abuso lo conferma l'avvocato Carmelo Calderone. Siede in quasi tutte le commissioni tributarie d'Italia, da Trieste a Messina, e da tempo denuncia le storture del sistema: "La vessazione è evidente. Nell'ultimo triennio Equitalia nel Lazio ha attuato l'ipoteca al 69 per cento dei proprietari raggiunti da una cartella. È così che la bandiera della presunta lotta all'evasione sventola fiera sui tetti degli immobili ormai diventati di Equitalia".
Il fatto è che per sopravvivere la piovra di Stato Equitalia deve fare budget. E per riuscirci non guarda in faccia nessuno. Al Capone e la vecchietta con 500 euro di pensione che non è riuscita a pagare la tassa immondizie per loro sono la stessa cosa. "Lo dice la legge", ripetono ai call center. È vero, è una società pubblica (51 per cento di proprietà della Agenzia delle entrate, 49 dell'Inps). Un baraccone all'italiana con 8 mila dipendenti, come un ministero, che ha raccolto i rami secchi del vecchio sistema di riscossione privato abrogato nel 2005 dal ministro Vincenzo Visco. Per mandarlo avanti l'unico introito sono proprio le cartelle esattoriali. Su ogni debito contestato, alla società spetta il cosiddetto aggio, ovvero un interesse del 9 per cento. Una specie di gabella che si calcola sull'importo già maggiorato dalle sanzioni e non sul debito reale che il cittadino ha contratto. Significa che più cartelle spediscono, più notifiche mandano, più avvisi recapitano e più incassi fanno.
Di gente tartassata così ce n'è a migliaia. E l'incubo che grava sul Paese ha i numeri di una catastrofe finanziaria. Basta guardare una cartella esattoriale per capire che il sistema è destinato a esplodere, col debito che aumenta anche di quattro o cinque volte. In un caso documentato, un piano di ammortamento datato 18 dicembre 2009 partiva da circa 350 mila euro. Contributi in ritardo perché l'impresa doveva scegliere fra licenziare a Natale metà dei dipendenti o sospendere l'Inps in attesa di tempi migliori. L'hanno fatto decine di migliaia di aziende del Nord. Per Equitalia è evasione fiscale. Così ha fatto i conti e l'importo iscritto a ruolo è salito a oltre 544 mila euro, poi a 726 mila con gli interessi di mora. In più, su ognuna di quelle cartelle, la società si porta a casa il famoso 9 per cento: 25 mila euro calcolati sull'importo iscritto a ruolo, cioè già gonfiato. A questo punto l'imprenditore accetta di rateizzare e il calcolo riserva l'ultima amara sorpresa: il debito sale a 828 mila euro.
Senza tirare in ballo le migliaia di cartelle "pazze", multe mai ricevute che riappaiono dieci anni dopo con importi cinque volte superiori, capita anche che la contravvenzione annullata dal giudice di pace prosegua comunque il suo iter di riscossione. E che Equitalia ti mandi la cartella esattoriale. Nessuno è tenuto a informarla che quella sanzione sia ormai illegittima. E l'unico che resta fregato è il contribuente. L'importo cresce anche del 120 per cento e, se non viene coperto entro i fatidici 60 giorni, scatta il blocco dei beni. L'avvocato Antonella Nanna della Federconsumatori è in prima linea nel denunciare le storture del sistema. Dal Lazio alla Toscana, da Napoli a Trento sono migliaia le segnalazioni: "Un nostro associato aveva ottenuto l'annullamento di una cartella esattoriale con liquidazione delle spese processuali a suo favore, eppure s'è visto notificare un fermo all'auto", racconta. Un altro, con tanto di sentenza favorevole della commissione tributaria che prevedeva il rimborso di somme che aveva già versato a Equitalia, non ha ottenuto la restituzione dell'importo perché non era possibile stabilire chi dovesse risarcirlo.
E così la rivolta torinese è ormai una rivoluzione nazionale. Dal Veneto alla Lombardia, dalla Toscana alla Puglia, le storie sono tutte simili e drammatiche. Un circolo vizioso, secondo il presidente dell'Api torinese Fabrizio Cellino, il primo industriale italiano a schierarsi apertamente contro Equitalia. "Nelle regioni produttive del Nord oggi pesa perfino più della crisi economica: se un artigiano o un commerciante è in difficoltà, magari perché proprio lo Stato ritarda i pagamenti, Equitalia pignora e segnala la posizione alla centrale rischi. Il debito aumenta e molti chiudono. O finiscono nelle mani degli usurai. Mentre lo Stato non paga mai", spiega. La loro proposta al ministro Giulio Tremonti è una moratoria che consenta ai vessati di uscire dal gorgo dei debiti, per ripartire con la caccia all'evasione quando le regole saranno più eque.
Che il problema esiste, l'Agenzia delle Entrate lo sa. Tanto che ha varato il cosiddetto "bon ton" del fisco. Il gran capo Attilio Befera, che è anche presidente di Equitalia, è dovuto ricorrere a una severa lettera di richiamo per riportare a modi più civili il comportamento dei suoi segugi. Non che gli evasori meritino il guanto di velluto, ma la mossa indica il bisogno di cambiare il clima tra erario e contribuenti, soprattutto in vista della nuova battuta di caccia che si aprirà a breve: tra il 2011 e il 2013 all'Agenzia tocca di scovare 20 miliardi di euro che oggi le sfuggono e riportarli a casa. E se per l'Agenzia il sistema funziona meglio non si può dire che Befera abbia ottenuto grossi risultati con Equitalia, anch'essa con un obiettivo ambizioso: aumentare le riscossioni di un miliardo entro il 2012 (oggi è a quota 8).
Mentre da un lato il mastino di Giulio Tremonti sul fronte del fisco si preoccupa di bon ton, dall'altro si rafforzano i poteri del braccio operativo di Equitalia. Già superiori a quelli della stessa Guardia di finanza. Arrivano, notificano, pignorano, sequestrano, ipotecano, bloccano i conti senza nemmeno la necessità di un giudice che firmi. Ma non è finita. Dal 2011 la società ha anche un'altra arma: quella di agire direttamente sul contribuente infedele con indagini finanziarie che fino a oggi erano riservate all'Agenzia e relegate alla procedura penale, e rispetto alle quali il contribuente godeva di garanzie e tutele. Gli esattori potranno eseguirle in via amministrativa e guardare così nei conti correnti e negli investimenti di chiunque.
Nel 2008 è nato pure il Fondo giustizia, che incamera tutti i denari bloccati da un provvedimento giudiziario e finora depositati nelle banche. Si tratta di 1,7 miliardi, che Equitalia dovrà investire come fosse un gestore finanziario (incassando un aggio del 5 per cento sull'utile). Sempre per il ministero retto da Angelino Alfano, la Spa guidata da Befera dovrà recuperare i crediti delle spese processuali e le sanzioni pecuniarie maturate alla fine di un processo. Fra i pezzi grossi di Equitalia vige la regola del silenzio. A Torino l'amministratore delegato Nicola De Chiara non riceve giornalisti. Al centralino puoi chiamare decine di volte, che tanto nessuno ti passa nessuno. L'unico modo per parlarci e andarci di persona. Ma niente contatto diretto. "Parlate con Roma", rimbalza la segreteria. Eppure, fuori microfono, qualcuno che ammette gli errori c'è. Una mail riservata, partita dagli uffici milanesi, invita a osservare una coincidenza quanto meno bizzarra: mentre Equitalia continuava ad accumulare ipoteche sulle case nei mesi dello scudo fiscale, buona parte dei capitali che rientravano dai conti dei veri evasori all'estero (pagando solo il 5 per cento del dovuto) è finita proprio sul mercato immobiliare. Vale a dire che, oltre a portarsi in Italia milioni di euro con meno di un ventesimo di quello che versano i contribuenti trasparenti, quei soldi sono spesso serviti ad accaparrarsi, sottocosto, ville e appartamenti messi all'asta da Equitalia. Un trend che al quartier generale dell'Agenzia delle entrate a Roma osservano a distanza: "C'è anche un aspetto positivo: quegli evasori rientrati dovranno pagare le imposte e noi ora sappiamo dove sono. E possiamo controllarli". Peccato solo che molte di quelle case le ha perse gente che i redditi li aveva almeno dichiarati.
Le inique cartelle: ancora il dossier del “L’Espresso”.
Milioni di italiani ricevono cartelle esattoriali per multe non pagate, contributi non versati e tasse evase. Equitalia è diventata un carro armato fiscale che, solo nel 2010, ha recuperato 8,9 miliardi di euro. Ma gli errori sono tanti e molte le ingiustizie. Spesso a rimetterci sono i cittadini che hanno piccoli debiti col fisco. Restano indenni i "grandi" evasori, che hanno il patrimonio in società off-shore all'estero.
Sotto la direzione di Attilio Befera e la strategia del ministro Giulio Tremonti, che si serve della struttura per raccontare in Europa che lui la lotta all'evasione fiscale la fa davvero, Equitalia è diventato un pervicace tartassatore di cittadini (molti) ed evasori fiscali (alcuni). Si stimano in 18 milioni le cartelle esattoriali che ogni anno l'ente controllato dall'Agenzia delle Entrate (51 per cento) e dall'Inps (49 per cento) invia alle famiglie italiane. Sono dati comunicati dall'ente ma contestati da osservatori e associazioni consumatori.
In quella massa di ingiunzioni ci sono contestazioni sul tenore di vita dichiarato, errori formali sul "730", multe stradali non pagate, ma anche contributi previdenziali non versati da parte di aziende medio-piccole oggi sull'orlo della chiusura. Le contestazioni sono di diversa natura e l'onere della prova - capovolgendo il percorso del diritto naturale - spetta sempre al cittadino contestato. Chi riceve la "cartella" deve dimostrare in fretta di aver ragione, recuperare pezzi di carta vecchi anche dieci anni perché dopo 60 giorni scattano le sanzioni fiscali, cui poi si sommano gli aggi, le more, le percentuali quotidiane di crescita della cifra dovuta. Una multa da 38 euro dieci anni dopo è una cartella esattoriale da 363,53 euro.
Spesso la notifica della contestazione di Equitalia avviene a indirizzi sbagliati, non c'è la firma dell'interessato, eppure la macchina fiscale non si ferma e aziona gli strumenti straordinari di cui è stata dotata: fermo amministrativo dell'auto con cui si circola e si lavora (le ganasce fiscali), ipoteca su un pezzo della prima casa, sulla casa intera, blocco o prosciugamento dei conti correnti, richiesta al datore di lavoro del quinto di stipendio. I poteri di Equitalia sono ampi, probabilmente smisurati, tanto che l'ex ministro Vincenzo Visco, che l'ha inventata unificando quaranta riscossori privati presenti in Italia sotto un unico tetto pubblico (Riscossione spa), oggi dichiara: "Così cattiva io non l'ho mai pensata".
La struttura nel 2010 ha recuperato, contro i 3 miliardi e 800 milioni di euro del 2005, 8,9 miliardi (è il 130 per cento in più), ma sconta una buona quantità di errori e un buon numero di ingiustizie. Si segnalano "liti temerarie" che i giudici iniziano a sanzionare, possibilità di difese negate, restrizioni da applicare a una sola persona (la porzione del parcheggio di casa sequestrato) allargate invece all'intero condominio (parcheggio pignorato a tutti), appartamenti ipotecati nonostante il proprietario l'avesse venduto e in generale un atteggiamento da "carro bestiame" nei confronti del cittadino chiamato a rispondere della presunta evasione: lo si può quotidianamente verificare negli uffici delle varie Agenzie delle Entrate e della stessa Equitalia.
In questa inchiesta vi proponiamo la storia di un imprenditore romano a cui sono state messe sotto sequestro quattro case e sono stati bloccati tutti i conti con le relative carte di credito per non aver pagato multe stradali che non avrebbe mai dovuto ricevere (gestisce un servizio di limousine con autista), quindi i racconti dell'avvocato torinese Alberto Goffi, consigliere udc della Regione Piemonte, ormai alfiere della battaglia anti-Equitalia, e ancora il presidente del Palermo Maurizio Zamparini che su una radio romana arringa gli ascoltatori sui guasti delle ingiunzioni fiscali. Infine, ascolterete i pareri del presidente e dell'avvocato della Federconsumatori, l'associazione che segue più da vicino i cittadini colpiti da Equitalia.
E' dalla scorsa primavera che attorno all'ente di Befera - i suoi metodi, le sue funzioni - si è levato un forte dibattito. Ci sono stati assalti a sedi di Roma, Genova e Torino e nel Nord-Est un esattore è stato sequestrato. La Lega Nord ha addossato a Equitalia la sconfitta al Nord nelle ultime elezioni amministrative e ha ottenuto di non far pagare le multe per le quote latte ai produttori della sua base. Il ministro Tremonti ha accolto alcune proteste togliendo a Equitalia il controllo delle sanzioni stradali (dal 2012 torneranno ai Comuni) e la possibilità di ipotecare la prima casa per debiti inferiori ai 20mila euro.
Attilio Befera ha imposto un fermo all'attività a rischio mediatico e ha bloccato le interviste complesse (anche al sito delle inchieste di Repubblica.it, che gli aveva offerto la possibilità di spiegare). L'ex manager privato diventato primo consigliere di Tremonti vuole portare a termine la riforma che dal primo ottobre trasformerà le sedici Equitalia territoriali in tre macrostrutture dotate di un ulteriore potere straordinariamente oppressivo: trascorsi sessanta giorni dal debito riconosciuto dall'Agenzia delle entrate non ci sarà bisogno di formare una cartella esattoriale per far partire la contestazione formale. Il debito sarà subito contestabile.
Come racconta l'avvocato Alberto Goffi (l'UDC piemontese che da tempo denuncia gli abusi dell'agenzia), l'implacabile macchina da guerra Equitalia porta dentro di sé diversi conflitti d'interesse. La presidente di Equitalia Nomos (la struttura sovrintende Torino e provincia, in attesa di essere inglobata in Equitalia Nord) è Matilde Carla Panzeri. Già funzionario della Banca d'Italia, oggi la Panzeri è presidente di una società pubblica che cura il recupero dei crediti dello Stato e degli enti locali. Ha quindi possibilità di accesso alle informazioni sullo stato patrimoniale dei torinesi, sulla solvibilità degli imprenditori della provincia e - tra l'altro - negli ultimi quattro anni la Panzeri attraverso i suoi dirigenti ha firmato 43mila ipoteche sulle case di Torino e il suo hinterland. La manager, però, dal 2008 è anche presidente di una società privata, la Npl spa (sede a Milano), che cura per statuto l'acquisizione di immobili, la riscossione di crediti in sofferenza, il finanziamento terzi, ed è leader nella cartolarizzazione dei crediti bancari. Solo la disponibilità dei dati pubblici, si comprende, è un chiaro vantaggio per una società privata, in questo caso la sua Npl (Non Performing Loans).
Alcune inchieste giornalistiche e di magistratura hanno già messo in evidenza come spesso nei consigli di amministrazione delle sedici società satellite di Equitalia (oggi in via di scioglimento) vi siano ex politici che controllano come nel collegio di riferimento i controlli fiscali non siano troppo serrati. L'inchiesta della Procura di Napoli sulla P4, poi, sta rivelando come il braccio destro di Giulio Tremonti, il deputato pdl Marco Milanese (per il quale il pm John Woodcock ha chiesto l'arresto), ha usato anche la società pubblica di riscossione per sistemare uomini a sè vicini. Tra questi, Guido Marchese, commercialista del sindaco di Voghera Carlo Barbieri (Pdl). Marchese è stato figura di riferimento in Equitalia Esatri (la struttura che cura la riscossione a Milano e provincia). Entrambi, il sindaco di Voghera e il suo commercialista Marchese, oggi sono agli arresti domiciliari per corruzione (l'inchiesta, appunto, su Milanese).
E spulciando negli elenchi del personale di Equitalia, si scopre che dal 2008 vi lavora Flavio Pagnozzi, figlio del segretario generale del Coni, Lello. Più o meno nello stesso periodo, ai servizi legali del Comitato Olimpico è stato contrattualizzato Marco Befera, figlio di Attilio. Potrebbe sembrare un caso di "assunzioni incrociate".
Alberto Goffi, eletto in Piemonte nelle file dell'Udc, viaggia esponendo sulla propria auto un numero di telefono per raccogliere le segnalazioni contro l'agenzia di riscossione. La denuncia: "Chiudono più aziende per colpa del fisco che a causa della crisi economica".
La denuncia di Federconsumatori: multe raddoppiate in sei anni. Il presidente Rosario Trefiletti interviene e contesta i comportamenti di Equitalia. "E' assurda - dice - la cauzione da versare per i ricorsi al giudice di pace".
Antonella Nanna, avvocato di Federconsumatori, individua i difetti del sistema: "Gli Italiani sono spesso costretti a doppi ricorsi per le inefficienze di comunicazione tra gli enti e l'agenzia di riscossione".
Il presidente del Palermo, promotore di una class action contro l'agenzia di riscossione, raccoglie le testimonianze dei contenziosi con Inps e Agenzia delle Entrate. Un radioascoltatore: "E' assurdo, vanto un credito con il Comune di 60mila euro, ma mi bloccano i pagamenti per un debito di 5mila con l'ente previdenziale".
Prigionieri delle multe. Business da 4 miliardi.
Cartelle pazze e ricorsi inutili, così Equitalia va all'assalto di case, auto e conti correnti. Per il 2011 i Comuni hanno messo a bilancio entrate straordinarie prevedendo 14 milioni di contravvenzioni.
Le multe stradali, ormai, sono un pezzo della crisi economica, il più odioso. Ed Equitalia, il riscossore, viene vissuto come un nuovo problema sociale. Gli 8.094 comuni italiani, a forza di impiantare nuove telecamere agli incroci e chiedere ai 165 agenti che nel Paese riscuotono per gli enti pubblici di iscrivere ipoteche su case private hanno messo in conto tre miliardi e novecento milioni per il 2011.
Sono gli incassi previsti dalle contravvenzioni. Una necessità di sopravvivenza, assicurano i sindaci che non possono più contare sull'Ici, tassa federalista abolita dal centrodestra. Ma questa montagna di multe, 14 milioni, sta piegando le spalle dei cittadini-automobilisti. Sono un milione e mezzo, ormai, gli immobili con un'ipoteca giudiziale iscritta al registro immobiliare, 426 mila le ipoteche degli ultimi tre anni. E una parte consistente delle iscrizioni dipende dalle contravvenzioni stradali entrate a ruolo.
PIÙ MULTE CHE RESIDENTI.
A Roma lo staff del sindaco Gianni Alemanno ha annunciato con fierezza che nel 2010 l'Ufficio contravvenzioni ha comminato tre milioni e 631 mila multe: 731 mila in più dell'anno precedente, 1,3 multe per residente. Le telecamere sulle corsie preferenziali romane hanno avvistato 2000 infrazioni al giorno, altre 2000 multe sono arrivate quotidianamente per l'invasione delle zone a traffico limitato. Il Campidoglio incasserà 190 milioni di euro, nonostante in campagna elettorale Alemanno avesse annunciato che i vigili romani avrebbero smesso di fare verbali.
Perché le amministrazioni delle città aumentano il livello delle multe? Perché si costruiscono bilanci sulle sanzioni stradali? In tutta Italia (Equitalia-Gerit è riscossore in sedici città) la questione è bollente. A Mantova, 48 mila abitanti, le contestazioni sono state 66 mila per 3,7 milioni di incassi. Ad Alcamo, provincia di Trapani, si fanno 6 mila multe ogni anno per 600 mila euro di proventi. A Firenze le sanzioni da autovelox sono state centomila in più e il sindaco Matteo Renzi si è ritrovato 52 milioni di euro a budget dopo averne preventivati 42. Analizzando i bilanci comunali si scoprono manovre correttive fatte in nome della multa: se al 30 giugno un municipio è sotto la previsione, nei restanti sei mesi accende le telecamere e raggiunge il tetto. Il neo agente delle riscossioni Gerit, che in nove province italiane è subentrato a Montepaschi, sta dimostrando di avere corazza e armi per scatenare una guerra delle ingiunzioni mai vista prima. Sono diciotto milioni le cartelle (di ogni genere) inviate solo nel 2010, quaranta milioni gli atti firmati nello stesso anno nei confronti di chi non ha pagato l'Inps, la tassa sulla spazzatura, ha sbagliato il "730" o deve rispondere di contestazioni stradali.
Novantun euro è il valore medio della multa comminata in Italia, ma al momento in cui arriva la cartella esattoriale già ne costa duecento grazie a interessi, more e aggio applicati immediatamente (l'aggio è il guadagno di Equitalia, il 9 per cento della cifra contestata). Un divieto di sosta non pagato nel 2001, 38 euro, e passato indenne da ogni contestazione avanzata, dieci anni dopo è una cartella da 363,53 euro. Un aumento del mille per cento.
È possibile difendersi da questo diluvio di multe stradali? Ha un senso affrontare la lunga strada del ricorso oggi? No, in questa fase espansiva di Equitalia-Gerit e delle sue sorelle minori non c'è difesa. E la questione è ben più ampia rispetto alla potenza riscossoria degli agenti delle tasse. Spiega Carla Rufini, giudice di pace a Roma: "Il cittadino è stretto tra il contribuito obbligatorio, i ritardi abissali degli uffici giudiziari e il nuovo codice della strada. Non può che perdere". Infatti, i ricorsi nell'ultimo anno sono crollati: la gente ha compreso che non servono a nulla. A Roma le opposizioni in Comune contro le multe ingiuste sono passate da 350 mila a 261 mila. A Milano quelle avanzate ai giudici di pace sono quasi scomparse. A Napoli erano un terzo del lavoro dei giudici, in questo scorcio del 2011 sono diventate un quinto. Contributo obbligatorio, nuovo codice della strada. Tutte scelte del governo in carica per togliere - è già accaduto con la class action spompata - potere al cittadino-automobilista. Il contributo unificato per attivare un ricorso al giudice di pace è stato istituito nel gennaio 2010: si chiedono almeno 41 euro per una multa che può valerne 38. Meglio rinunciare. Con il nuovo codice stradale il giudice di pace può concedere la sospensiva a un'azione di riscossione solo se all'udienza sono presenti entrambe le parti. "Il Comune e la prefettura di Roma non si presentano mai", spiega l'avvocato Riccardo Galdieri. Il giudice non può sospendere e l'azione della Gerit inesorabilmente procede. C'è un terzo aspetto, ed è tutto romano. In queste settimane le cancellerie di via Teulada hanno aperto le buste dei ricorsi inviati per posta nel 2008: un ritardo di 27-28 mesi. E poi, causa triplicazione del lavoro e mancata sostituzione dei giudici pensionati, duecentomila sentenze depositate non sono mai diventate pubbliche. Le più vecchie hanno 19 mesi.
GANASCE ALL'AMBULANZA.
Ogni giudice di pace sul territorio italiano si muove con modalità proprie. L'avvocato Giuseppe Ceppaluni racconta di un suo assistito colpito in autostrada dai flash di tre autovelox, uno dopo l'altro: a Pontecorvo, a Cassino, infine a Frosinone. Tre foto, tre verbali distinti. Bene, il giudice di pace di Frosinone ha fissato l'udienza a ottobre 2010. A Cassino si è andati a maggio 2011. A Pontecorvo processo nel 2015. Nel frattempo, in attesa che si consumi l'udienza di Pontecorvo o si aprano le lettere-opposizione degli automobilisti romani, Equitalia-Gerit ha messo ganasce elettroniche ad auto e furgoni, ha pignorato box e tinelli. È accaduto, ancora, che un multato romano, uscito vivo e vittorioso dagli archivi di via Teulada, abbia raggiunto lo sportello del riscossore agitandogli la sentenza favorevole e ricevendo risposte liquidatorie: "Ci muoviamo solo su indicazioni ufficiali del nostro cliente, il suo atto non ferma la nostra azione". Sono 4.500 i clienti pubblici di Equitalia e il Comune di Roma, nella fattispecie, nel 50% dei casi non si costituisce davanti al giudice di pace e nel 100% non viene avvisato della sentenza.
Le storie che si raccolgono nei tribunali civili e di pace, negli uffici a difesa di consumatori e contribuenti, agli sportelli dei riscossori rendono visibile il concetto di "giustizia impossibile" rispetto a una sanzione stradale. "Un nostro associato aveva ottenuto dal giudice l'annullamento di una cartella esattoriale, gli hanno notificato lo stesso il fermo dell'auto", racconta Claudio Faielli, presidente della Federconsumatori Lazio. "Ho in mano un giudizio civile definitivo che da tre anni intima alla Gerit di restituirmi 770,45 euro non dovuti", racconta Emilio Colombino, direttore del canale Nuvolari su Sky, "da tre anni mi rimpallano tra l'Agenzia delle entrate e Gerit. Ho desistito". Il notaio Pacifico Spagnoletto rivela: "Mi sono dovuto occupare di ipoteche iscritte su beni immobiliari che non erano più nella proprietà del multato". A Roma immobili da un milione sono stati vincolati per 500 euro di debito, a Napoli una cautela giudiziale da 4 mila euro ha fatto saltare una transazione su un appartamento da 400 mila. Ancora il notaio Spagnoletto: "Equitalia nelle trascrizioni commette errori e spesso non controlla gli atti che sottoscrive: per mettere un'ipoteca sul posto auto di un protestato ha vincolato l'intero parcheggio di dieci persone". "La tensione è alta, prevedo una pioggia di ricorsi", dice il legale. All'Agenzia delle Entrate assicurano che controlleranno i casi segnalati "e se avremo sbagliato interverremo". Giorgio, 39 anni, cassintegrato, racconta: "Il mutuo si mangia tutto lo stipendio e le multe di quattro anni fa sono il mio incubo: debito triplicato, pago la rata ogni mese e la quota non scende mai". Sono molti i casi di persone mai avvertite dell'atto di ipoteca sulla casa. I funzionari dell'Agenzia: "Il sistema delle notifiche ha problemi, ma non dipende da noi. Equitalia spesso è vittima del contorno istituzionale che non funziona". Le poste, i comuni, le prefetture, le cancellerie dei giudici di pace.
C'è una protesta nel paese contro la riscossione aggressiva? E come è stata organizzata? Il consigliere regionale Udc Alberto Goffi, sceriffo anti-Equitalia, viaggia per Torino con il numero del cellulare sulla fiancata della jeep. Racconta: "Sono figlio di un artigiano che ha vissuto il dramma dello Stato esattore in casa e insieme al presidente del Palermo, Maurizio Zamparini, ho deciso di organizzare una class action contro Equitalia Nomos".
ERRORI E VESSAZIONI.
Ci sono aree del Nord-Ovest e del Nord-Est dove la Gerit è vissuta peggio della crisi. Solo a Torino, focalizza il consigliere Goffi, sono 45 mila le ipoteche sulla prima casa e 75 mila le ganasce alle auto. "Nei primi mesi del 2010 i depositi della città sono stati riempiti in due giorni e mezzo". In quel periodo Equitalia minacciò di fermare l'ambulanza di Radio soccorso di Torino: trasportava malati di cancro. A Roma hanno agganciato il mezzo di una disabile. L'avvocato Carmelo Calderone siede in molte commissioni tributarie e dice: "La vessazione è evidente, nell'ultimo triennio Equitalia ha attuato l'ipoteca al 69 per cento dei proprietari raggiunti da una cartella esattoriale". L'avvocato Antonella Nanna, esperta in contravvenzioni e riscossioni coatte: "In circolo ci sono multe già pagate che i colpiti saldano una seconda volta per sfinimento". Chiosa Goffi: "Equitalia ha più poteri della Finanza, può aggredire il quinto di stipendio e i conti correnti. Sotto Tremonti è diventata potente e dal prossimo luglio, con la riforma che le consentirà di rendere subito esecutivi i debiti dell'Agenzia delle Entrate, sarà invincibile".
Ogni giorno quattro siti "anti" allargano amici su Facebook mentre la Federcontribuenti sabato scorso ha organizzato, in un albergo vicino alla stazione Termini di Roma, la manifestazione nazionale "contro le vessazioni di Equitalia". Il presidente Carmelo Finocchiaro: "Sono al di fuori di ogni controllo, la legge ha eliminato qualsiasi compito di verifica sui concessionari". In Sardegna i comitati contro hanno già inscenato proteste a Cagliari, Nuoro, Sassari. L'associazione NoiConsumatori vuole inoltrare ricorso alla Corte europea dei Diritti dell'uomo. A Genova gli indisponibili del movimento studentesco autunnale hanno fatto irruzione nell'ufficio dell'assessore comunale al Bilancio, Franco Miceli, simulando un pignoramento: gli hanno spostato mobili e sedie nel corridoio, libri e cancelleria. Hanno lasciato questo volantino, prima di fuggire: "Volevamo farle provare, assessore, cosa si sente a stare nei panni di chi si vede.
Ma non è tutto. Il dr Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, fino a quando gli è stato permesso di esercitare la professione forense, ha presentato presso il Giudice di Pace di Manduria una richiesta di risarcimento danni a favore dei cittadini contro il Comune di Avetrana, in quanto l’Ente li aveva diffamati ed arrecato danno economico per la tutela, contestando loro l’evasione fiscale in cartelle di pagamento. Credito attestato essere inesistente. Il giudice rigettò con sarcasmo la particolarità della richiesta. Peccato che in altri fori molte associazioni dei consumatori hanno ottenuto numerose condanne al risarcimento del danno esistenziale e personale provocato ad alcuni cittadini vittime di cartelle pazze.
Sulla scia del fenomeno denunciato è scandaloso quanto succede a Taranto.
L’avv. Patrizio Giangrande, fratello del presidente Antonio Giangrande, e l’avv. Giancarlo De Valerio vincono la causa contro Equitalia Spa per risarcimento danni, sulla base di ipoteche su immobili emesse da detta società senza alcun avviso e per importi milionari attinenti presunti crediti, risultati inesistenti. Il Tribunale ha riconosciuto il risarcimento di svariate migliaia di euro liquidati in via equitativa. La cosa scandalosa è che, purtroppo, sono migliaia i casi in cui avvengono invii di cartelle talvolta recanti debiti anche estinti e con scadenze decennali. Il sistema permette al Fisco di effettuare sequestri di immobili o fermo amministrativo di auto, senza aver verificato, come nel caso di causa, la effettiva esistenza debitoria applicando interessi e spese che spesso superano l’importo del debito stesso, stranamente somme non calcolate come usuraie.
Allucinante è il fatto che gli avvocati, in virtù della sentenza di condanna, recatisi unitamente all’ufficiale giudiziario per rendere ad Equitalia il torto subito ed eseguire il pignoramento presso la loro sede a Taranto, gli è stato comunicato dalla stessa Equitalia spa che non intende pagare, ritenendo i beni e i fondi insequestrabili.
Pazzesco è che solo il Quotidiano di Puglia, alla pagina interna su Manduria, a firma di Gianluca Ceresio, si è occupato della vicenda che interessa tutti i cittadini, non solo tarantini, per la disparità di trattamento dei diritti lesi.
1 .Origini del fenomeno
Dal 1 ottobre 2006 la Società Equitalia spa, facente capo all’Agenzia delle Entrate, ha rilevato tutto il sistema di riscossione. Quindi le responsabilità per le cartelle pazze vanno equamente suddivise tra Equitalia, con attività delegata di riscossione, e gli Enti Impositori, deleganti.
Si precisa che per errate iscrizione a ruolo devono intendersi: le cartelle esattoriali mai notificate; i debiti prescritti o nulli; i tributi o multe già pagati o condonati; gli atti esecutivi già annullati con ricorso/sgravi; i crediti non riscossi nei termini e senz'avviso di intimazione.
Ci sono persone che si vedono preannunciare il "Fermo Amministrativo" dell'auto per contravvenzioni già pagate da anni o per sanzioni ormai prescritte. Tanti e tali sono i casi anomali, tale e tanta è la rabbia che si respira ogni giorno presso gli Uffici Tributi e Contravvenzioni dei Comuni interessati.
Cartelle pazze che arrivano a raffica ai contribuenti, verifiche contabili senza un codice di comportamento per il personale addetto, troppi ritardi nei rimborsi e troppi stock di crediti ancora da rimborsare. La Corte dei Conti nella relazione sui rapporti fra cittadini e fisco e sullo stato di attuazione dello Statuto del contribuente punta l'obiettivo sulle criticità rilevate. Un rapporto che segnala ancora troppe disfunzioni e disservizi nel sistema fiscale. Troppo forte anche la «pressione legislativa», sia per la quantità di norme che regolano la materia tributaria, sia per il susseguirsi a distanza breve di modifiche, ma anche per la contraddittorietà di norme sulla stessa materia e per la carenza di norme di coordinamento e semplificazione. Viene anche rilevato che manca la piena attuazione dello Statuto del contribuente, in vigore dal 2000.
Sul fronte delle verifiche contabili la magistratura di viale Mazzini segnala questioni aperte su modalità di svolgimento, tempistica, durata, numeroso contenzioso e sui dubbi interpretativi. Inattuata anche la previsione di un codice di comportamento del personale addetto alle verifiche tributarie. Nel mirino della Corte dei Conti, poi, le cartelle pazze, fenomeno «ricorrente con ciclica virulenza negli ultimi anni e inteso quale generalizzata erroneità di comunicazioni, avvisi di accertamento e iscrizioni a ruolo in tema di cartelle esattoriali».
Troppi ritardi, poi, nell'erogazione dei rimborsi alla cui origine la magistratura contabile pone le complesse procedure di accertamento e compensazione. La relazione segnala che nel 2004 il tavolo di concertazione tra Agenzia delle Entrate e Ministero dell'Economia portò all'individuazione di un magazzino arretrato di circa 4 milioni e 800mila rimborsi.
Non sufficientemente definiti, poi, i poteri dei Garanti del Contribuente e l'efficacia delle determinazioni dei paladini del contribuente nei confronti dell'amministrazione finanziaria. Secondo la magistratura contabile una sempre più concreta attuazione dello statuto dovrebbe mirare a obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa finanziaria, in direzione della ottemperanza volontaria degli obblighi fiscali, la cosiddetta tax compliance dei Paesi del Nord Europa.
Dai dati sul contenzioso tributario si rileva, invece, che il Fisco ha ragione 1 volta su 4.
Dopo le azioni giudiziarie molte sono le condanne al risarcimento del danno esistenziale e personale a favore del contribuente.
Il fenomeno ebbe origine nell’anno 1998, allorché l’allora Ministero delle Finanze emanò milioni di cartelle esattoriali sbagliate, procurando non pochi problemi ai contribuenti italiani.
Questo increscioso inconveniente,scaturito dal tentativo dell’Amministrazione Finanziaria di procedere alla modernizzazione e alla informatizzazione del servizio del sistema fiscale italiano,fu denominato dalla stampa specializzata e dall’opinione pubblica “ FENOMENO DELLE CARTELLE PAZZE”.
Fu Padre Rastrelli, nella trasmissione televisiva "Cara Giovanna" andata in onda il 17 febbraio 1998 su RAI UNO, che ha sensibilizzato l'opinione pubblica sul dramma delle Cartelle esattoriali errate emesse dalla Pubblica Amministrazione, denunciando un numero di un milione e cinquecentomila "CARTELLE PAZZE" iscritte a ruolo nell'anno 1998.
Tutto il paese si ribellò. E per primi scesero in campo le associazioni di categorie facenti capo alla difesa dei contribuenti italiani che, insieme a Padre Rastrelli, organizzarono la più grande manifestazione degli ultimi tempi avutasi nei confronti del Ministero delle Finanze.
Il 9 marzo 1998 incrociarono le braccia tutti i dipendenti del Ministero delle Finanze e lo stesso giorno furono ricevuti dall’allora in carica Segretario Generale del Ministero Dott. Giuseppe Roxas.
Ad "oras", il Ministero delle finanze fu costretto a emettere e pubblicare la famosa circolare n. 77/E del 1998 con la quale si sospendeva la riscossione delle Cartelle pazze per il 1998. Di tutto ciò i mass media diedero ampio risalto.
Si precisa che per errate iscrizione a ruolo devono intendersi:• LE CARTELLE ESATTORIALI MAI NOTIFICATE! • I DEBITI PRESCRITTI O NULLI! • I TRIBUTI O MULTE GIA' PAGATI O CONDONATI! • GLI ATTI ESECUTIVI GIA' ANNULLATI CON RICORSO/SGRAVI! • I CREDITI NON RISCOSSI NEI TERMINI E SENZ'AVVISO DI INTIMAZIONE.
2. Il fenomeno nell’anno 2003
A distanza di alcuni anni, bisogna prendere atto che tutto ciò non è servito a niente.
Infatti il Ministero delle Finanze successivamente ha dato attuazione ad un programma accelerato di smaltimento delle dichiarazioni dei redditi dal 1994 al 1998 che prevedeva, come termine ultimo di lavorazione delle dichiarazioni, il 31 dicembre del 2000.
Ciò, ha comportato, nei due anni successivi (2003 e 2004), un invio di 20 - 25 milioni di cartelle esattoriali relative a tributi erariali. Secondo una stima degli stessi funzionari del Ministero delle Finanze, circa il 40% delle cartelle lavorate hanno presentato errori sostanziali per cui è riesploso nuovamente il fenomeno delle "CARTELLE PAZZE .
Il fenomeno colpì venticinque milioni di italiani ed ebbe un’eco talmente clamorosa da indurre anche il Presidente della Repubblica Italiana di allora a denunciare pubblicamente le mostruosità del fisco italiano, arrivando a definire il 740 del 2003 come "lunare".
Le richieste di pagamento dell'amministrazione Finanziaria riguardavano i redditi del 1999 e comportavano interessi esorbitanti, tanto da raggiungere percentuali fino al 244%. Trattavasi, come si può facilmente arguire, di inutili vessazioni che minavano la fiducia tra cittadini, Amministrazione dello Stato e lavoratori, i quali oltre a sobbarcarsi a responsabilità non proprie, hanno prodotto dei carichi di lavoro tanto enormi quanto non produttivi per la Pubblica Amministrazione avendo generato, in modo indotto, danni all'erario per aver effettuato la loro prestazione professionale inutilmente.
E’ stato all’uopo ritenuto innanzitutto che le sanzioni non andavano pagate, dal momento che tale comportamento comportava una violazione dello statuto del contribuente ( la sanzione deve essere proporzionata al presunto errore). Ed inoltre venne manifestata la necessità di costituire un'Authority che oltre a vigilare possa anche sanzionare i responsabili di simili errori.
Il problema,tra l’altro, riguarderebbe, oltre ai semplici contribuenti, anche le società. E’ stato, inoltre sostenuto da Associazioni di categoria che avevano anche auspicato l’apertura di uno sportello del contribuente, che dietro il fenomeno delle cartelle pazze poteva ipotizzarsi una manovra Finanziaria occulta in quanto, cifre alla mano, o il contribuente pagava la sanzione ingiusta oppure per dimostrare la propria estraneità doveva comunque sborsare almeno 20,66 euro per marche da bollo.
Se queste cifre venivano moltiplicate per i milioni di avvisi pervenuti ai cittadini, il conto era presto fatto. Le medesime associazioni preannunciavano anche l'avvio di un'azione di responsabilità nei confronti del ministero dell'Economia e delle Finanze sia per la mancata costituzione di un tavolo permanente di confronto con le associazioni dei contribuenti e dei consumatori, obbligata tra l'altro dal Parlamento, sia per mancata vigilanza sulle Agenzie delle Entrate, responsabili del fenomeno, e sui concessionari alla riscossione.
Le giustificazioni addotte dalla Agenzia delle Entrate sono state quelle di minimizzare il fenomeno, rassicurando i contribuenti che se ci fossero stati errori in misura molto limitata, si sarebbe, comunque, proceduto all' annullamento. E’ stato precisato che il rischio di errori potrebbe essere stato determinato dal fatto che nel ' 99 non funzionava il modello F24 e questa potrebbe essere una fonte di errori perché non c' era un controllo automatico. Ma, è stato sottolineato ancora, nel 2000 esisteva già un filtro, ovvero gli avvisi preliminari. Ovvero c' era un sistema di controllo telematico, in modo tale che se risultavano irregolarità veniva inviata una lettera ai contribuenti che regolarizzavano o meno la propria situazione .
Inoltre è stato fatto notare che dai call center delle Finanze non risultavano telefonate e lamentele sul '99. E se ci fossero state milioni di cartelle, credo che l’Amministrazione lo avrebbero,comunque, saputo . L’agenzia delle Entrate ha precisato, inoltre, che l’anno 1999 era il secondo anno del telematico.
Non era ancora entrato in vigore il Mod F24 e la trasmissione da parte delle banche avveniva con la delega azzurra. Ma nel 2001, quando sono state liquidate le dichiarazioni del ' 99, un buon 70-75% di dichiarazioni erano già state definite. Quelli di cui trattasi erano, dunque ruoli di chi non aveva pagato oppure, avendo ricevuto la comunicazione, il contribuente non si era attivato . Quindi, se ci sono stati errori, concludeva l’Agenzia delle Entrate, essi sono stati limitati: 4-5% di errori commessi dai contribuenti o dall' amministrazione o da tutti e due. Comunque veniva data ampia assicurazione che le situazioni sarebbero state esaminate caso per caso e ,qualora fossero scaturiti errori, questi sarebbero stati immediatamente annullati attraverso l' autotutela.
3. Il fenomeno nell’anno 2007.
L’amara esperienza in materia vissuta dall’Amministrazione Finanziaria negli anni 1998 e 2003, probabilmente non è servita a nulla se anche nel 2007 si è ripetuto lo stesso fenomeno. Ecco cosa scrivono alcune agenzie giornalistiche:
A) FISCO/CONTRIBUENTE.IT: ONDATA CARTELLE PAZZE, COLPITI IN 630MILA. Notificate 1,5 mln cartelle esattoriali, il 42% sono errate.
Roma, 11 aprile 2007. (APCom) - Su 1,5 milioni di cartelle esattoriali notificate in questi giorni agli italiani per multe automobilistiche, Ici, diritti camerali, Tarsu, Irpef, Iva, Inps e redditi soggetti a tassazione separata ben il 42% sono 'pazze', cioè sbagliate, perché gli importi non sono dovuti.
La denuncia arriva da ' CONTRIBUENTI.IT' (Associazione contribuenti italiani) attraverso 'Lo Sportello del Contribuente' che rileva che il fenomeno ha colpito 630 mila cittadini in regola .il fisco. "Purtroppo - sottolinea l'Associazione - solo 18mila su quasi 630mila cartelle pazze sono state individuate dagli agenti della riscossione prima della spedizione". Il fenomeno delle “cartelle pazze”, spiega 'Lo Sportello del Contribuente, si registra in tutta Italia e la punta dell'iceberg è a Roma con 54.600 “cartelle pazze” seguita da Napoli con 53.900, Milano con 52.100, Genova con 47.600, Torino con 44.900, Palermo con 43.700, Bologna con 41.100 e Bari con 34.500. Chiude Campobasso ed Isernia rispettivamente con 15.100 e 6.200 avvisi.
Ciò che più allarma Lo Sportello del Contribuente è che tra le vittime figurano anche i minorenni, i disabili e persone decedute. "Basta con il continuo reiterarsi di queste inutili vessazioni poste in essere in dispregio di norme costituzionali, tributarie e statuto dei diritti del contribuente che minano la fiducia tra fisco e contribuente, generando, in modo indiretto, danni all'erario - afferma Vittorio Carlomagno presidente di CONTRIBUENTI.IT - il governo deve immediatamente prendere dei provvedimenti e fermare questo odioso fenomeno e malcostume".
B) Fisco: Contribuenti.It, Nuova Ondata Di Cartelle Pazze (ASCA)
Roma, 11 aprile 2007 - Nuova ondata i "cartelle pazze", per circa un milione e mezzo di contribuenti, di cui il 42% sono sbagliate. "Le cartelle notificate in questi giorni per multe automobilistiche, ICI, diritti camerali, Tarsu, IRPEF, IVA, INPS e redditi soggetti a tassazione separata e, tra queste, ben il 42% sono pazze, perche' gli importi non sono dovuti".
La denuncia arriva da CONTRIBUENTI.IT - Associazione Contribuenti Italiani attraverso "Lo Sportello del Contribuente", secondo la quale il fenomeno delle "cartelle pazze", cioe' sbagliate, ha colpito 630 mila di cittadini in regola con il fisco.
C) LA PADANIA 13/04/2007 Questo fisco ha le cartelle che si merita... gianmarco gallizzi.
Roma - Da oggi il Fisco nazionale ha qualche nemico in più, 630mi1a per l'esattezza. è infatti questo il numero allucinante di quanti hanno ricevuto in questi giorni cartelle esattoriali non dovute. Multe automobilistiche, Ici, diritti camerali, Tarsu, Irpef, Iva, Inps e redditi soggetti a tassazione separata: l'elenco delle notifiche "pazze", perché relative appunto a debiti inesistenti, è lungo e secondo CONTRIBUENTI.IT, l'associazione dei contribuenti italiani, la percentuale di errore sarebbe pari al 42% su un totale di un milione e mezzo di cartelle. Un'ingiustificata enormità.
Il fenomeno non fa discriminazioni geografiche, tutte le grandi città sono state colpite. II picco a Roma con 54.600 cartelle, poi Napoli (53.900), Milano (52.100), Genova (47.600), Torino (44.900), Palermo (43.700), Bologna (41.100) e Bari ( 34.500). Chiudono la classifica Campobasso ed Isernia rispettivamente con 15.100 e 6.200 avvisi.
Tra le vittime anche disabili e perfino persone decedute. La solerzia con cui si sono mossi gli agenti della riscossione ha permesso di bloccare soltanto 18mila cartelle sbagliate su un totale che arriva – come detto – a 630.000.
«Basta con il continuo reiterarsi di queste inutili vessazioni poste in essere in dispregio di norme costituzionali, tributarle e statuto dei diritti del contribuente che minano la fiducia tra fisco e contribuente, generando, in modo indiretto, danni all'erario», ha tuonato lo stesso presidente di CONTRIBUENTI.IT, Vittorio Carlomagno.
«Il Governo deve immediatamente prendere dei provvedimenti e fermare questo odioso fenomeno e malcostume». In effetti, se è possibile considerare quasi fisiologica una percentuale (minima) di errore nell'invio delle cartelle esattoriali, non si può fare a meno di indignarsi di fronte a numeri di tale portata.
E dice bene il presidente Carlomagno, sono proprio queste odiose vessazioni (perché in altro modo non è proprio possibile chiamarle) che incrinano quello che dovrebbe essere un rapporto di totale e cieca fiducia tra Erario e contribuenti. In questo momento, l'unica cosa cieca è invece la furia di chi, oltre a piegare la testa e pagare fino all'ultimo centesimo ogni tassa e imposta, si ritroverà a fare conti, non dovuti, con la "perfetta" macchina da soldi dell'Erario che - evidentemente cieca anch'essa - non guarda in faccia nessuno quando c'è da raccogliere. Sì, siamo tutti disposti a pensare che di errore si tratti e non certo di volontà di nuocere, ma per il contribuente poco importa finché il risultato è il medesimo.
E se la massiccia dose di tolleranza nei confronti delle Istituzioni di cui è ricco il nostro dna spinge a chiudere spesso un occhio di fronte all'insipienza di alcuni addetti poco diligenti nel proprio lavoro, di certo l'errore assolutamente imperdonabile ora sarebbe quello di non porre rimedio in modo rapido e completo alla questione. La pazienza dei contribuenti non è eterna.
D) LA PADANIA 14/04/2007 Divina: «Sospendere subito l'invio delle cartelle pazze».
Il senatore leghista Sergio Divina torna sul caso delle "cartelle pazze" con un'interrogazione al ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa. Al titolare dei dicastero di via XX Settembre Divina ha chiesto «quali iniziative si intendano assumere nell'immediato per ovviare ai pesanti disagi prodotti ai contribuenti - anche in termini di danni economici - con l'arrivo a domicilio di migliaia di cosiddette "cartelle pazze" e se il ministero non ritenga urgente emettere un provvedimento di sospensione della riscossione per le cartelle pazze già emesse e bloccare l'inoltro di quelle non ancora inviate ai contribuenti». L'esponente della Lega Nord ha chiesto inoltre «se ci sia l'intenzione di esaminare caso per caso gli errorî commessi procedendo all'annullamento delle cartelle errate, se non si ritiene necessario attivare lo Sportello del Contribuente dell'Agenzia delle Entrate, e di istituire immediatamente un tavolo di consultazione permanente tra le varie associazioni dei contribuenti ed il Governo, così come approvato dalla Commissione Finanze della Camera nel 2003».
E) Noi Consumatori - Una nuova ondata di cartelle pazze.
PASQUA 2007: AMARA SORPRESA PER I CONTRIBUENTI, LA CAMPANIA INVASA DA ALTRE 300 MILA CARTELLE PAZZE E NUOVE MINACCE DI FERMI AUTO ED IPOTECHE, AVV. ANGELO PISANI DENUNCIA ILLEGITTIMITA' METODI DELLA GESTLINE E CHIEDE RISARCIMENTO PER DANNI DA FESTIVITA' E VACANZE ROVINATE, OLTRE DANNI ESISTENZIALI E BUON NOME . PER I NOTIFICATORI GESTLINE IL 90% DEI CONTRIBUENTI SONO IRREPERIBILI 0 SCONOSCIUTI, PER NOI CONSUMATORI LE NOTIFICHE SONO VIRTUALI.
Una nuova ondata di cartelle pazze -per tasse automobilistiche palesemente prescritte del 1998/99- inviate sotto forma di "sollecito pagamento della GESTIine", con inammissibili ed ingiustificate minacce di azioni esecutive quali ; I) iscrizione ipoteca nei registri immobiliari ed espropriazione immobiliare; II) ) iscrizione di fermo amministrativo su veicolo o altri beni mobili ( nonostante l'illegittimità della medesima procedura stabilita ormai anche dal Consiglio di Stato); III) pignoramento presso terzi di stipendi, pensioni, provvigioni etcc; IV °) accesso alla sede/abitazione per la ricerca, il pignoramento e l'asporto di beni per la successiva vendita; per presunti e fantasiosi mancati pagamenti di carichi di ruolo prescritti, mai notificati, non specificati e comprendenti anche spese illegittime, tipo diritto di notifica di 5,56 euro quando i solleciti s'inviano con posta semplice del costi di 0,25 centesimi di euro, si stanno abbattendo sulle teste di ignari contribuenti campani da parte della solita GESTLine spa Gruppo Riscossione, che, pur di far quadrare i propri bilanci e proseguendo nel suo discutibile operato, dimenticando norme sulla trasparenza, correttezza e buona fede ed ignorando lo Statuto dei diritti dei Contribuenti, continua a perseguitare i cittadini cercando di ottenere pagamenti non dovuti, addirittura già versati oppure oggetto di sentenze o di sgravio, per non parlare di quelli prescritti o mai notificati, in un territorio dove secondo i notificatori di GESTIine tutti i contribuenti sarebbero sconosciuti o irreperibili.
Dopo le azioni giudiziarie del movimento NOI Consumatori, che ha ottenuto numerose condanne della stessa GESTLINE al risarcimento del danno esistenziale e personale provocato ad alcuni cittadini vittime di cartelle pazze, afferma l'Avv. Angelo Pisani, ancora una volta diffidiamo il Concessionario delta Riscossione ad attenersi alla normativa vigente ed a non proseguire nell'invio di tali cartelle pazze e nella minaccia di ipoteche, pignoramenti e fermi dei veicoli che terrorizzano i contribuenti e violano il loro diritto di difesa, pregiudicando anche le festività e vacanze pasquali di cui chiederemo il debito risarcimento .
Il movimento Noi Consumatori, invita tutte le vittime della solita persecuzione ed i contribuenti italiani che vengono raggiunti da cartelle pazze a denunciare l'accaduto alla Procura della Repubblica ed a chiedere alla magistratura la condanna della concessionaria tributi per ottenere il risarcimento dei danni personali, alla salute, da vacanza rovinata e patrimoniali subiti, avvalendosi, nel caso, del modulo scaricabile gratuitamente dal sito dove è pubblicata una sezione speciale dedicata alle ipoteche e fermi con tutta la documentazione necessaria per far valere i propri diritti.
L'avv. Pisani, quindi, invoca l' intervento preventivo della Procura della Corte dei Conti e detta Procura detta Repubblica di Napoli, promuovendo una raccolta di firme per la richiesta d'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sulla scandalosa persecuzione dei cittadini e per una proposta di legge popolare di modifica della normativa sulla riscossione. DIRITTI VIOLATI, il giorno di Pasqua in piazza contro i metodi ed abusi GESTIine, Una moratoria Onu dette persecuzioni bancarie ed assicurative in tutta Italia. Questo l'obiettivo detta fiaccolata prevista per giorno di Pasqua, domenica 8 aprite, nelle strade di Napoli. L'iniziativa, organizzata e patrocinata da NOICONSUMATORI.IT, per lanciare un segnale provocatorio al Parlamento e al Governo perché rafforzino l'impegno a presentare un a giusta legge di riscossione tributi, proponendo all'assemblea generale dette Nazioni Unite, la risoluzione di moratoria universale delta persecuzione del contribuente. Per sottolineare visibilmente l'appello, le cartelle pazze saranno ingredienti del falò dove saranno bruciate te prove dello scandalo in corso.
F) ilGiornale.it - Scoppia il caso cartelle pazze e l'opposizione chiede lumi –
Redazione - domenica 08 aprile 2007 - Maretta ad Anzio per 20mila bollette spedite ai cittadini per presunti mancati pagamenti di tasse comunali. Di fronte alla segnalazione di diverse «cartelle pazze», bollette di messa in mora relative a multe o imposte già regolarmente pagate, il centrosinistra ha presentato un'interpellanza urgente per chiedere lumi. Già dodicimila i residenti di Anzio che hanno ricevuto la lettera della Centro servizi europeo di Roma (Cse), incaricata dal Comune di richiedere «crediti inesigibili» come vecchie quote di tasse comunali o multe automobilistiche che risultano non pagate.
Gran parte cittadini, invece, sarebbe in grado di dimostrarne il pagamento. In difficoltà invece quanti hanno pagato le multe automobilistiche ma ne hanno gettata la ricevuta, e adesso rischiano, se non «regolarizzano» entro dieci giorni penali fino al 300 per cento. Proprio sulla scadenza tassativa e sull'impennata, considerata «da strozzinaggio», delle quote richieste in caso di ritardi sono al centro dell'interrogazione rivolta all'assessore alle Finanze Patrizio Placidi da parte del centrosinistra.
Nel documento si mette in evidenza anche come le lettere «per posta semplice» della Cse richiedano di regolarizzare il pagamento di tributi «dichiarati inesigibili dal concessionario per la riscossione, la società Gerit Spa». Dunque, se «a tutt'oggi la società incaricata per la riscossione dei tributi è la Gerit», le nuove cartelle possono «determinare una confusione delle procedure amministrative tra la Cse e la Gerit stessa a danno dei contribuenti». Di fronte alla richiesta di un consiglio urgente da parte dell'opposizione, il vicesindaco e assessore alle Finanze Placidi ha comunque difeso l'iniziativa dell'amministrazione. Pur «scusandosi» con quanti sono in regola e garantendo che a questi «sarà rilasciata una comunicazione scritta di chiusura pratica». Placidi, ricordando che «comunque l’ amministrazione avevamo il dovere di richiedere questi arretrati» ha reso noto di aver ottenuto dalla Cse «l'attivazione di un conto corrente posta che consentirà ai contribuenti di regolarizzare la posizione tributaria», prevedendo anche la possibilità di rateizzare i pagamenti.
4. Il comunicato di Equitalia s.p.a.
Sull’insorgenza del fenomeno delle cartelle pazze è prontamente intervenuta la Società Equitalia s.p.a. (la società pubblica facente capo all’Agenzia delle entrate che ha rilevato dal 1 ottobre 2006 tutto il sistema di riscossione)minimizzando l’episodio, e sostenendo che il margine di errore delle cartelle di pagamento delle tasse e delle imposte iscritte a ruolo è molto basso, si aggira intorno al 3%-5% del totale.
Di fronte ai timori dei cittadini per nuove ondate di avvisi più o meno "pazzi" Attilio Befera amministratore delegato di Equitalia spa spiega che su circa 6 milioni di cartelle inviate nei primi 100 giorni di quest'anno, quelle che contengono errori si aggirano tra 180.000 e 300.000. Estendendo la stima all'intero anno le cartelle inviate complessivamente dovrebbero aggirarsi in-torno a quota 20 milioni, con un margine di errore pari a 500.000 unità ben al di sotto del 3%, grazie agli strumenti che Equitalia sta mettendo in campo proprio allo scopo di ridurre gli sbagli. Si tratta, quindi, di cifre ben più contenute rispetto ai numeri che recentemente hanno alimentato le polemiche. Errori che, precisa Bef'era, non sono riconducibili alla società di riscossione, in quanto la società «non è responsabile della bontà del credito ma si occupa esclusivamente di eseguire l'attività della riscossione».
Quando si parla di errori, quindi, nella maggior parte dei casi «si parla di errori compiuti dall'ente creditore, per esempio il singolo Comune, e non dalla società di riscossione». Tuttavia Equitalia ha deciso di agevolare i contribuenti con un numero verde speri mentale: 800.422.687, per ora in funzione a Roma e gratuito per il cittadino.
VADEMECUM DEL CONTRIBUENTE
A:PREMESSA
Come si può rilevare dalla rassegna stampa sopra riportata non vi è dubbio che i cittadini sono inviperiti. I Comuni in cui si è verificato il fenomeno attaccano le nuove Società concessionarie partecipate da Equitalia spa ,(su cui deve ricadere tutta la responsabilità di gestione, avendo proceduto di recente alla nomina dei nuovi amministratori o, come molto spesso è accaduto, alla riconferma degli stessi,nonostante la cattiva gestione precedente) ,mentre quest’ultime si difendono o scaricando sugli enti impositori le responsabilità del fenomeno o minimizzando il fenomeno stesso.
Una cosa è certa:una valanga di avvisi di pagamento, di cartelle esattoriali ,di iscrizione di ipoteche,di fermo macchine e di procedure presso terzi per multe vecchie e "sepolte “, sta facendo infuriare migliaia di cittadini avvelenando i rapporti tra le stesse amministrazioni.
Ci sono persone che si sono viste preannunciare il "Fermo Amministrativo" dell'auto per contravvenzioni già pagate da anni o per sanzioni ormai prescritte. Tanti e tali sono i casi anomali, tale e tanta è la rabbia che si respira , ogni giorno agli Uffici Tributi e Contravvenzioni dei Comini interessati, che hanno sollecitato incontri e chiarificazione ai vertici dei Gruppo Riscossione competenti, le società controllate dallo Stato che hanno sostituiti, dal 1 ottobre 2006, i vecchi concessionari.
In particolar modo gli Enti impositori si chiedono perché i nuovi Gruppi di riscossione hanno atteso così a lungo per emettere gli atti esecutivi su ruoli di cui già si sapeva l'esistenza e, soprattutto, perché stanno arrivando tutti insieme tenendo conto che detti atti contengono richieste non dovute. Si è anche ipotizzata l’ipotesi che i nuovi gestori dell’azione esecutiva si siano accorti che migliaia di ruoli stavano per diventare automaticamente inesigibili, mandando in riscossione tutto quello che avevano in archivio, senza verificare nulla sulla posizione debitoria di ciascun contribuente.
È sempre più chiaro che il meccanismo del sistema riscuotitivo, basato esclusivamente su procedure massive (Fermo macchine,iscrizioni ipotecarie e procedure presso terzi) messe in piedi nel corso degli anni producono risultati infernali.
Nemmeno un'amministrazione prussiana sarebbe in grado di gestire i milioni di atti procedurali che ogni anno raggiungono i contribuenti italiani. I cittadini si infuriano. Gli uffici soli subissati di proteste.
I ricorsi sono centinaia di migliaia.
I nuovi agenti della riscossione emettono montagne di cartelle di pagamento.
Gli errori in questa mole imponente di lavoro, sono inevitabili.
L'assurdo è che i cittadini, anche quando hanno ragione, anche quando hanno già pagato, anche quando la muta è prescritta.
Anche quando sono in attesa della sentenza di un giudice devono sbattersi da un posto all'altro per vedere riconosciuti i loro diritti.
Sono contribuenti. Ma qualcuno, evidentemente, li considera solo pecore da tosare.
B: LE PROCEDURE ESECUTIVE, COME DIFENDERSI
Cartelle esattoriali e accertamenti esecutivi. Quando arrivano a casa bisogna prima di tutto chiedere la sospensione che può avvenire per via giudiziale, amministrativa ed in taluni casi dall’agente della riscossione.
Cartelle pazze. Procedere immediatamente con un’istanza in autotutela, la quale non sospende i termini per il ricorso: se non interviene lo sgravio della cartella entro 30 giorni, occorre procedere con il ricorso in commissione tributaria per evitare che il titolo diventi definitivo.
Ipoteca sulla prima casa. Se il debito è inferiore a 20.000 euro, l’immobile è adibito a prima casa, e se la somma è contestata in giudizio, non può essere iscritta ipoteca. Se vi è una procedura esecutiva in corso possono essere solamente usate le normali procedure previste per l’opposizione all’esecuzione, ma che difficilmente portano alla sospensione della vendita.
Centrale rischi. Dal 1 ottobre 2011, nel termine di 60 giorni dalla notifica senza opposizione e degli ulteriori 180 giorni prima dell’esecuzione forzata, non si esclude che si possa comunque iscrivere ipoteca con comunicazione alla Centrale rischi della Banca d’Italia, con evidenti conseguenze pregiudizievoli per gli imprenditori che hanno degli affidamenti in corso con gli istituti di credito.
Enti locali. Dal 1 gennaio 2012 sono gli stessi Comuni a procedere alla riscossione delle loro entrate tributarie e patrimoniali. I Comuni potranno procedere mediante: riscossione spontanea; riscossione coattiva.
Ganasce fiscali. Una novità introdotta dalla Legge n. 106/2011 riguarda l’esonero del contribuente dalle spese di cancellazione del fermo. L’articolo 7, comma 2, lettera gg-octies della Legge n. 106/2011, infatti, prevede che «in caso di cancellazione del fermo amministrativo iscritto sui beni mobili il debitore non è tenuto al pagamento di spese né all’agente della riscossione né al pubblico registro automobilistico gestito dall’Automobile Club d’Italia».
LE PROCEDURE DI ISCRIZIONI IPOTECARIE
Va innanzitutto, sottolineata una certa superficialità, in generale, nell'applicazione dei mezzi di riscossione che appaiono assolutamente coercitivi nei confronti dei cittadini. Il più delle volte l’agente della riscossione, che ha sostituito il vecchio concessionario, provvede, all'iscrizione ipotecaria sulla base di titoli mai notificati nei modi e nelle forme previste dalla normativa vigente ed incorrendo anche in una condanna del giudice di pace, come è successo alla Gest line di Napoli, come da sentenza depositata il 28.11.2005.
In questo caso i quattro contribuenti, l'attore principale della causa e i tre intervenuti nel giudizio, hanno ottenuto oltre al pagamento, da parte della Gest line, delle spese per la cancellazione delle ipoteche e quelle relative alle spese di giudizio, anche il risarcimento del danno esistenziale e il turbamento della vita, essendo risultata la nullità delle notifiche delle cartelle esattoriali perché non sono state eseguite regolarmente.
Com’è noto, L'art. 50, comma 1, del dpr 302/73 prevede infatti che il concessionario, decorso il termine di 60 giorni dalla notifica della cartella esattoriale, possa procedere a espropriazione forzata dei beni del contribuente inadempiente. Il secondo comma dell'art. 50 stabilisce, poi, che se l'espropriazione non è iniziata entro un anno dalla notifica della cartella, l'espropriazione stessa deve essere proceduta dalla notifica di un avviso che contiene l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro cinque giorni.
Qualora viene rilevato l’irregolarità e l’inesattezza nella notifica della cartella di pagamento e del successivo avviso di intimazione,che comportano la nullità delle iscrizioni a ruolo, ne discende anche la nullità dell'iscrizione ipotecaria.
Va poi controllato il comportamento dell’Agente della riscossione che ha effettuato l'iscrizione ipotecaria primo atto dell'esecuzione immobiliare (e non la vendita), se lo stesso sia in contrasto con l'art. 76 del dpr 603/1973.
Detta norma, da interpretare in modo estensivo , dispone che non si possa procedere a esecuzione immobiliare per un credito inferiore a 1.500 euro (ora aggiornato a 8 mila euro dall'art. 3, comma 40, lettera b-bis, della legge 248/2005 comprensivo di interessi e spese.
Se ciò accade ai contribuenti compete il risarcimento dei danni di tipo esistenziale e morale per condotta lesiva da parte dell’Agente della riscossione di pubblico servizio, nei confronti di interessi legittimi dei cittadini . Nei casi su indicati sottoposti appare evidente che i contribuenti abbiano dovuto dedicare tempo alla vicenda chiedendo spiegazioni all’Agente della riscossione senza apparente esito e dovendosi rivolgere a un legale per la tutela dei propri interessi.
C: LA FUNZIONE E IL CONTENUTO DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO.
La cartella di pagamento, in misura ancora maggiore rispetto a quanto avveniva in passato, riveste oggi un'importanza fondamentale nella procedura di riscossione dei tributi. Infatti oltre che mezzo per portare a conoscenza il debitore di quanto deve pagare - quindi con funzione di atto puramente comunicativo operante in via amministrativa - assume, la funzione di atto di messa in mora e quindi con funzione parallela a quella del precetto nell'esecuzione forzata ordinaria.
Come è noto il ruolo è l'insieme dei nominativi dei soggetti debitori e delle relative somme da essi dovute. Si tratta quindi di un atto collettivo, in quanto riferito ad una molteplicità di intestatari. La cartella di pagamento, invece, scinde la posizione del singolo da quella degli altri contribuenti, rendendo autonomo il rapporto giuridico. Tramite l'invio della cartella, l'interessato ha conoscenza dei dati contenuti nel ruolo ed a lui relativi.
In sostanza, la stessa cartella deve contenere gli elementi che facciano comprendere i fatti costitutivi della cartella medesima e la motivazione della richiesta. Ciò è quanto mai importante ai fini della sua legittimità essendo la cartella il principale strumento con cui il concessionario notifica al contribuente l'avvenuta iscrizione a ruolo di una richiesta di imposta, interessi e sanzioni a suo carico.
Prima del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, la cartella di pagamento era come la semplice rappresentazione cartacea del titolo esecutivo. Nell'ipotesi di mancato pagamento, si procedeva alla notifica dell'avviso di mora, al quale si connettevano effetti del tutto analoghi a quelli che, nell'ordinario processo di esecuzione, conseguano alla notifica dell'atto di precetto il quale contiene l'invito al debitore ad adempiere l'obbligazione, come essa risulta dal titolo esecutivo, entro un termine assegnato che non può essere inferiore a dieci giorni, con avvertimento che in mancanza si darà avvio all'esecuzione forzata.
L’avviso di mora, in modo abbastanza simile, indicava l'esatto importo del debito (capitale, interessi, sanzioni), dell'indennità di mora e delle spese, con invito ad effettuare il versamento entro cinque giorni dalla notificazione. L'atto produceva i propri effetti per centottanta giorni, trascorsi i quali occorreva emettere un nuovo avviso.
L'attuale normativa (art. 25 del DPR 29 settembre 1973, n. 602, nella versione riformata) prevede che la cartella "assorba" al suo interno l'avviso Dal 1 ° luglio 1999, se il contribuente non effettua il, pagamento delle somme indicate sulla cartella entro il termine di 60 giorni dalla notifica della stessa non sarà più necessario notificare l'avviso di mora, in quanto, come sopraccennato, la cartella già contiene l'intimazione ad adempiere.
Il nuovo art. 50 del D.P.R. n. 602/73 delega, quindi, l'istituto dell'avviso di intimazione ad una funzione residuale. È prevista infatti la sua notifica solo nel caso in cui l'espropriazione non sia iniziata entro in anno dalla notifica della cartella di pagamento. Il nuovo documento contiene quindi l'intimazione ad adempiere il pagamento, entro 5 giorni dalla notifica stessa, dell'obbligo risultante dal ruolo e perde efficacia trascorsi 180 giorni dalla predetta notifica.
Al riguardo è da evidenziare come con D.Lgs. n. 193/2001 è stato previsto che anche la notifica di tale atto possa essere effettuata con le modalità di cui all'art. 26 del D.P.R. n. 602/73 e quindi con raccomandata o messo notificatore oltre che con l'ufficiale della riscossione.
Per quanto riguarda la nuova cartella di pagamento si rimanda alle “ MODIFICHE AL MODELLO DELLA CARTELLA DI PAGAMENTO” Provvedimento del 13/02/2007 - art. 1 Agenzia delle Entrate - Titolo del provvedimento:Modifiche al modello della cartella di pagamento, ai sensi dell'articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. Testo:in vigore dal 21/02/2007 con effetto dal 25/03/2007- Sollecito di pagamento Il sollecito di pagamento o avviso di intimazione, è l’atto indispensabili per procedere alle successive incombenze procedurali.
Questo atto, tuttavia sta confondendo le idee ai contribuenti. l. Primo problema: il sollecito è un avviso "amichevole'', non un provvedimento, e, contro un avviso non e possibile presentare ricorsi. Cosa farà allora? Le strade sono due. La prima è ignorarlo e attendere gli atti veri e propri che invece sono ricorribili.
Nel frattempo si potrà predisporre la difesa.
Sul retro del foglio, ad esempio; c'è il numero di Cartella Esattoriale di cui si sollecita il saldo.
Se questa, ad esempio, fu notificata in modo illegittimo (a un portiere, a un vicino di casa, a un familiare non convivente), un futuro ricorso avrebbe ottime probabilità d i vittoria.
La prova e la copia della notifica va chiesta all’Agente della riscossione competente.
L'altra strada ovviamente è pagare: se si è coscienti di avere torto e di non avere appigli per un eventuale ricorso, rinviare è, inutile.
D: IL PREAVVISO DI FERMO.
Il preavviso di fermo è l'atto con cui l’ Agente della riscossione avverte il contribuente che è pronta (in genere entro 20 giorni) a imporre il "fermo amministrativo" di un veicolo a fronte di un debito scaduto (per una multa non pagata o altro).
Centinaia di contribuenti stanno ricevendo preavvisi per contravvenzioni di otto o nove anni fa.
Cosa stia accadendo e perché non è chiaro: gli uffici,come abbiamo visto nelle premesse, si rimpallano le responsabilità. E' chiarissimo invece che il tempo è tutto.
Se la cartella esattoriale da cui si fà discendere il fermo è stata notificata, rispetto alla data del preavviso, più di cinque anni prima, si potrà chiedere il blocco della procedura.
Idem se la notifica non fu fatta all'interessato.
Ma il cittadino non può fermare da solo la macchina burocratica. In , questo caso, può farlo solamente rivolgendosi ai Comuni,in caso di contravvenzioni al codice stradale e di tributi di loro competenza, oppure all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate del luogo, per i tributi erariali, previa acquisizione di un appuntamento.
Sempre che la richiesta sia fondata, i citati uffici provvederanno ad emettere il discarico del provvedimento. Va sottolineato che se la cartella viene notificata cinque anni dopo la notifica della multa o del verbale di accertamento delle infrazioni da cui discende oppure è avvenuto il pagamento, bisogna sempre chiedere il discarico della partita all’Ufficio competente.
5x1000: BENEFICI, MA NON PER TUTTI
Il trucco del 5x1000: beneficio, ma non per tutti.
Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 23 aprile 2010 si è previsto per il 2010 la possibilità per i contribuenti di destinare una quota pari al 5 per mille dell'Irpef a finalità di interesse sociale. Associazioni ed enti pronti a rimpinguare le loro misere casse con l'adesione di cittadini seguaci delle loro attività. Sarebbe bello se non fosse tutto un trucco, così come ha constatato l'Associazione Contro Tutte le Mafie, che avrebbe investito quei contributi nei suoi siti web: d'inchiesta www.controtuttelemafie.it e di promozione del territorio www.telewebitalia.eu .
L’Agenzia delle Entrate ha imposto la presentazione delle richieste di ammissione al beneficio entro il 7 maggio 2010 e solo in forma telematica, nei modi e nelle forme previste dall’ufficio. Per farlo vi è l’obbligo dell’abilitazione ai servizi telematici.
Dal 23 aprile al 7 maggio ci sono 14 giorni, di cui solo 10 lavorativi.
In questi 10 giorni, molti richiedenti hanno provato ad inoltrare la richiesta, ma il sistema non ha riconosciuto la password e il pincode dell’anno precedente.
I contatti telefonici con l’agenzia (a pagamento) sono stati impediti dalla lunga lista d’attesa, (fino a 70 contribuenti).
La richiesta del nuovo pincode e password è rimasta disattesa nei termini, se non riceverla dopo 12 giorni dall’istanza. Le comunicazioni dell’Agenzia delle Entrate non hanno alcuna data, per cui inutile contestare il ritardo, non avendo prova, né te la fornisce il servizio postale, che interpellato sull’apposizione della data di ricezione, ti dice: “noi non mettiamo alcuna data, altrimenti i ritardi dell’Agenzia delle Entrate ricadono su di noi”. In questo modo gli enti pubblici fanno ricadere le colpe sui contribuenti, che non possono provare il disservizio.
Comunque, se pur in palese ritardo, la richiesta del beneficio non si può inoltrare, in quanto avere il pincode e la password non basta. Dopo tutto il casino, nel momento in cui attivi i servizi telematici, ti comunicano sul portale web dell’Agenzia che bisogna rivolgersi ad un incaricato terzo abilitato (a pagamento). Cosa che a saperla, si sarebbe potuta fare dall’inizio, senza aver percorso tutta la trafila burocratica inutile.
Risultato: in tempi ristretti e per i disservizi dell’Agenzia delle Entrate non tutti hanno potuto accedere al beneficio. Ed è solo una semplice istanza.
Il problema è che la prassi si ripete ogni anno e nessuno vi pone rimedio, mentre i contribuenti ignari pensano di aver donato una quota di tasse alla loro associazione, mentre i contributi, in realtà, vanno ad altri sodalizi.
Nonostante un'interrogazione Parlamentare nessun ristoro vi è stato per il diritto leso.
GIOCHI D’AZZARDO LEGALIZZATI
PARLIAMO DI GIOCO D’AZZARDO DI STATO
Slot, gratta e vinci, poker on line, bingo, lotterie: sarà l'anno record per le scommesse legali, con 72 miliardi di giocate. Gestite dai grandi gruppi ma anche dalla malavita. Inchiesta de “La Repubblica”. Un popolo di santi, poeti. E giocatori: scommettitori seriali, professionisti delle lotterie, pokeristi. Per vocazione e per necessità: obbligati a giocare d'azzardo dalla fragilità dei tempi. Sempre inclini all'"economia del vicolo" - la fantasia, lo spirito di adattamento, la tentazione a rilanciare - per ribaltare la sorte. E non soltanto perché siamo italiani: "Il mondo è ormai troppo complesso per essere affrontato solo con il ragionamento. Oggi bisogna indovinare". Ma non si tratta di uno scacco alla razionalità. Al contrario, significa alzare la posta: affrontare la sfida della modernità vuol dire anche armarsi di strumenti razionali per dominare il caso. Stare al gioco, tirare il dado, ma conoscerne esattamente le facce. Se serve, qualche volta persino truccarlo.
Intervista al professore di Filosofia presso la University of California di Los Angeles. Professor Bodei, perché l'azzardo ci attrae così tanto? "Perché richiama la fortuna. E la fortuna ci coinvolge già nascendo. Si nasce in un certo posto e in un certo tempo. Per tutta la vita siamo costretti a navigare su rotte non tracciate e ad affrontare l'incertezza. Ecco perché da sempre l'uomo ha elaborato strategie per prevedere il futuro: dalla lettura dei segni premonitori alla divinazione, fino, in età moderna, al calcolo". Come popolo siamo straordinariamente sedotti dall'azzardo. C'è un rapporto tra intelligenza collettiva e propensione al gioco? "C'è una stretta correlazione tra l'incertezza e il gioco. Quanto più c'è incertezza tanto più si punta a vincere il superenalotto. L'incertezza del futuro porta a un oscillamento continuo tra paura e speranza. Se avessimo vite più sicure ci sarebbe più razionalità in giro. Invece, l'incremento del gioco è un dato di fatto". Sta dicendo che l'azzardo è il destino della contemporaneità? "Dico che il futuro è percepito in modo più incerto che in passato, che il caso gioca un ruolo forte, e che tutto ciò porta gli individui a rischiare di più. Si sta realizzando quanto diceva John Maynard Keynes: che "l'inevitabile non accade mai, l'inatteso sempre". Sono state inattese la caduta del muro di Berlino, le guerre nella ex Jugoslavia, in Cecenia, le guerre del Golfo. O la crisi economica che, per effetto della globalizzazione, ha avuto ripercussioni in tutto il mondo. A lungo abbiamo considerato la storia guidata da una logica di necessità. Oggi la prospettiva è cambiata: il futuro sembra aver riconquistato la sua natura di assoluta contingenza, di luogo nel quale si manifestano forze che sfuggono al controllo degli uomini". Nonostante tutti gli strumenti di previsione a disposizione? "Il paradosso è proprio questo. Ci sono settori nei quali la casualità diminuisce: nella medicina, ad esempio. Ma nei macrosettori l'azzardo pesa moltissimo e impedisce previsioni a lungo termine. Riguardo alla crisi economica, non è forse stato il gioco ad alto rischio delle Goldman Sachs e dei Lehman Brothers, degli hedge fund e dei subprime, a determinare le conseguenze più rovinose? Anche i sistemi capitalistici più sofisticati sono sottoposti a elementi irrazionali. Lo aveva intuito Max Weber a proposito della Borsa: un sistema perfetto, basato sul gioco d'azzardo. Sensibile alla paura, però: l'effetto-panico può farla crollare". Il caso è oggi il fondamento delle grandi narrazioni. Il cinema di Pedro Almodóvar ne è l'emblema. In letteratura ce lo ricorda Paul Auster: la vita è fatta di una serie di circostanze fortuite. E molti altri aspetti della cultura si muovono in formato random. L'azzardo è la metafora più giusta dei nostri tempi? "L'età moderna si apre con le enunciazioni di Machiavelli di situazioni "fuori di ogni umana congettura", di una fortuna che agisce oltre ogni possibile previsione. E il gesuita Baltasar Gracián, nel Seicento, scrisse un "Oracolo manuale o arte di prudenza" per evidenziare che, se una volta ragionare era l'arte suprema, quando i tempi si fanno complessi non resta che indovinare. E' vero: molti scrittori sottolineano che il mondo è esposto a una serie di casualità. Se non avessimo incontrato quella persona, se non avessimo fatto quel gesto, dicono, le nostre vite sarebbero cambiate. E' un ragionamento che in letteratura funziona. Lo trovo affascinante persino applicato alla storiografia, quando utilizza questo approccio congetturale: se nella battaglia di Maratona del 490 a. C. tra greci e persiani avessero vinto i persiani, il razionalismo greco, cioè la nostra civiltà, sarebbe stato soffocato sul nascere, le religioni orientali si sarebbero imposte. Però nella vita che senso ha ragionare così? Siamo quello che siamo esattamente perché abbiamo incontrato quella persona, compiuto quell'azione". E dunque? Non possiamo far altro che subire il caso? "Il caso non è un'entità metafisica. Le situazioni si possono ancora spostare, e cambiare, grazie al "dado truccato" suggerito da Max Weber. Mi spiego meglio. Se io lancio un dado la probabilità che esca, poniamo il 3, è di un sesto. Questa è la probabilità oggettiva, perché il dado ha sei facce. Weber ha mostrato che se spostiamo il centro di gravità di un dado verso il 3 aumentiamo le probabilità che esca quel numero. Quello spostamento di baricentro corrisponde all'intervento umano, perché tra necessità e caso c'è uno spazio largo, che può essere modificato. E più interveniamo, più le cose cambiano". Cioè, dobbiamo barare? "Più che barare, per piegare il caso alla nostra volontà dobbiamo fare dei calcoli basati su criteri di probabilità soggettiva, cioè prendere in considerazione il maggior numero di fattori possibili. Faccio un esempio. Se sto per aprire un negozio, e voglio avere successo, posso cercare di ridurre l'incertezza aumentando la quantità di informazioni in mio possesso: sui concorrenti, sulle caratteristiche del territorio, sulla gente che vi abita, su ciò che vendo. La conoscenza è un limite al caso. L'ignoranza, invece, ne incrementa il potere. Lo aveva già detto Aristotele: il caso non è altro che espressione della nostra ignoranza". Il caso si può razionalizzare? "Si può interpretare e controllare. Il matematico Condorcet, a fine Settecento, sosteneva che l'istruzione abbassa l'incertezza. Ecco perché fu tra i più attivi promotori della scuola gratuita e aperta a tutti. Vale la pena ricordarlo ai tempi del ministro Gelmini: perché acuire ed espandere l'intelligenza, promuovendo l'istruzione, è porre un argine al dominio del caso". Più siamo informati, meno siamo in balia dell'azzardo? "Più conosciamo, più il futuro diventa plausibile. Per questo è nata la statistica. E il calcolo delle probabilità, con Pascal. Fu un giocatore d'azzardo, Chevalier de Méré, a indurlo a contattare il matematico Pierre de Fermat. Ed è curioso sapere che Pascal è l'inventore del termine "roulette", che indicava non tanto il gioco in sé, ma la curva cicloide tracciata dalla pallina, girando". Il gioco è il tentativo di esorcizzare l'ignoto attraverso le regole. E come la mettiamo con la sfortuna? "Da razionalista, penso che la iella non esista. Certo, ci sono individui dall'aspetto così sinistro, come quelli rappresentati nei film di Totò, da provocare effetti negativi. Mia madre aveva un cugino ebreo che si era fatto prete. Viveva in Sardegna, e a quei tempi la vista di un prete suscitava nei maschi un gesto scaramantico. Un giorno, camminando insieme, incrociammo un signore che ebbe quella reazione davanti a lui. "Toccati in testa, che è la stessa cosa", gli disse mio cugino. Ecco: di fronte alla superstizione, dovremmo toccarci per prima cosa la testa. E ragionare". C'è nella letteratura russa un campionario di ufficiali che impugnano una pistola e, per similitudine con la roulette, si giocano la vita. C'è un rapporto tra azzardo e nichilismo? "Ho in mente anch'io, in Dostoevskij e in Tolstoj, quei personaggi mezzi ubriachi, sul davanzale della finestra con la pistola in mano, che fanno la roulette russa. La verità è che meno la vita vale, più ci si lascia andare al caso. Bisogna avere l'intelligenza di modificare il caso, e non restare marionette nelle mani della fortuna". Anche la fede è un fatto di fortuna? "Ci sono forti relazioni tra religione e caso. La Provvidenza, che "prevede e provvede", è una conferma di aver fatto la volontà di Dio. E non è un caso che i giochi d'azzardo nascano nel Seicento, in un momento in cui la fede nella Provvidenza si erode. Lo stesso Pascal, per l'esistenza di Dio, non usa prove ma una scommessa: dobbiamo scommettere che Dio c'è, tanto non abbiamo nulla da perdere. Oggi l'equazione è identica: più cresce l'incertezza più giochiamo d'azzardo; più cresce la sicurezza, meno siamo propensi a farlo. Ma se allo stato attuale guardiamo al futuro scommettere è un obbligo".
Dimenticate il giocatore con le fiches in una mano e il sigaro nell'altra, che aspetta la mossa dell'avversario tra i fumi di una bisca. L'azzardo è sempre più donna, e la partita inizia al supermercato e si chiude in fila all'ufficio postale. Un giocatore su tre è una signora, una pensionata che ha 'grattato' per la prima volta con le amiche al bar davanti a un cappuccino o una giovane mamma con il figlio in braccio di fronte alle slot. "Oggi le donne sono un terzo del totale: su circa 1.200.000 giocatori patologici, l'ipotesi è che la febbre del gioco abbia colpito più di 400.000 donne", dice Fulvia Prever, psicoterapeuta dell'associazione And (Azzardo e Nuove Dipendenze), che a Milano gestisce il primo gruppo in Italia per sole giocatrici. Ma chi sono queste donne per cui l'azzardo non è più un gioco? "L'età varia dai 30 agli oltre 60 anni, il livello di scolarizzazione è medio-basso, ma non mancano i casi di giocatrici di buona estrazione con passati brillanti e presenti di miseria e marginalità. Ci sono giovani mamme che si ritrovano alle sale slot dopo aver portato i figli a scuola, casalinghe di mezza età, ma anche professioniste e soprattutto pensionate". Ma da quando l'azzardo porta i tacchi? In principio fu un cavallo. In una nota pubblicità, una donna adagiata su un destriero ricordava che anche al gentil sesso piacciano i cavalli. E non si trattava di equitazione, ma di scommesse. Primo tentativo della gigantesca macchina del marketing dei monopoli di stato di sfondare il muro tradizionalmente maschilista delle sale da gioco. Poi ci fu il color pastello, con cui vennero dipinte le sale da gioco per renderle più accoglienti, accompagnato da un'illuminazione più calda e dalla possibilità di consumare qualche bevanda. Ma la vera rivoluzione è stato portare l'azzardo nel regno delle casalinghe: Bingo piazzati al posto dei vecchi mercati rionali, Gratta e vinci alle Poste, biglietti della Lotteria con il resto della spesa. Geniale. Il gioco si vende come una lavatrice o, meglio, come un pacchetto di caramelle. Perché le puntate sono bassissime, mica roba da casinò. E poi "giocare è facile", lo dice pure Claudio Bisio. "Il gioco più diffuso tra le donne è il Bingo, perché è una sorta di Tombola camuffata, ha un'aura familiare, rassicurante", spiega la psicoterapeuta. D'altronde basta fare un giro fuori da questi templi delle meraviglie: a qualsiasi ora, dalle 7 del mattino alle 2 di notte, più della metà degli astanti sono gentili signore di mezza età o più.. "Questi luoghi hanno la parvenza di un ritrovo sociale, dove scambiare due chiacchiere", continua la dottoressa Prever. Altro che due chiacchiere, una volta dentro il livello di concentrazione è altissimo e le giocate si susseguono a ritmo serrato. Ma almeno per quell'ora non si pensa ad altro che al numero che deve uscire. "Se l'uomo lo fa per sfida, competizione, questi giochi assecondano un meccanismo tipicamente femminile: più che un interesse per la vincita, per la donna giocare significa alienarsi, trovare solidarietà con altre persone che come lei inseguono un sogno, in un luogo dove dimenticare e staccare dalle preoccupazioni quotidiane". Una professionista milanese, 34 anni, con un figlio piccolo, spiega così la sensazione che prova al tavolo da gioco: "Il Bingo mi dà quella leggerezza di rapporti che non trovo altrove, mi fa evadere, mi anestetizza, mi pare di stare in una bolla, tutto il resto fuori...". Un'altra giocatrice compulsiva, lombarda, 60 anni e una relazione di coppia deludente, dice del gioco: "Almeno lì non devi essere una pin-up per sfondare, siamo tutti uguali, solo le vincite sono al centro dell'attenzione". E se non è il Bingo, è la macchinetta al bar sotto casa. Lo sa bene Lisa, romana di 66 anni, che alle slot ha dedicato 35 anni della sua vita: "Ho iniziato con i numeri ritardatari al Lotto, poi sono passata alle slot dopo l'ufficio. Una volta andata in pensione, con tutto quel tempo libero a disposizione, è stato un disastro. E poi dove ti giri ti giri, al supermercato o in tabaccheria, è un immenso campo da gioco. Mi sono giocata tutta la liquidazione... ho rubato persino ai miei nipoti quando non avevo più soldi. Il gioco era tutto, non mi interessava neanche più andare dal parrucchiere o lavarmi". Da 5 anni in recupero nelle strutture dei Giocatori Anonimi, è stata salvata dalla figlia che l'ha portata lì in cambio di 10 euro per giocare. Oggi vive una vita "normale", anche se, dice, "dentro di me ho una bestia che tengo dormiente".Stefania invece ha iniziato il folle inseguimento del jackpot sulla soglia della quarantina, la separazione dal marito, un lutto in famiglia e, senza nemmeno accorgersene, si è ritrovata giù nel tunnel del gioco: "Il mio calvario è iniziato con un paio di euro alle slot in pausa caffè. Non sapevo nemmeno giocare, ma per imparare e autodistruggermi è bastato un attimo. Avevo perso ogni dignità, per me non esisteva più nessuno, nemmeno i miei figli". Oggi che di anni ne ha 55, e inizia a vedere la luce grazie a un gruppo romano di Giocatori Anonimi che l'ha accolta da qualche mese: "Lì siamo tutti uguali, nessuno ti giudica. Non vedo l'ora che arrivi il giorno in cui ci troviamo, quelle stanze per me sono un miracolo". Sì, perché l'azzardo non è uno scherzo, ma può diventare una vera patologia, riconosciuta come tale anche dall'Organizzazione mondiale della Sanità. Tanto che sia le strutture pubbliche, che quelle del privato sociale, hanno attivato una rete di servizi ad hoc. "Le donne fanno molta più fatica ad arrivare ai servizi, spesso per l'impossibilità di poterne parlare in famiglia", spiega la psicoterapeuta Fulvia Prever, "inoltre le giocatrici rappresentano una sfida maggiore per il terapeuta, perché impiegano più tempo degli uomini a passare le barriere della trasgressione, ma quando avviene, è in modo esasperato". Come per il fumo e l'alcol, le donne ci arrivano dopo, ma poi ne diventano consumatrici incallite. "Per non parlare di un'altra popolazione femminile sommersa, ancora più silente: quella delle donne straniere, colf sudamericane, badanti dall'Est Europa che spesso perdono tutto e rischiano di entrare in un giro di piccola prostituzione per recuperare il denaro". Non è difficile vederle fuori dalle sale Bingo, ad offrirsi in cambio di pochi soldi per una nuova giocata. "A partire dalla metà del decennio scorso, le donne sono diventate un preciso obiettivo di marketing, attirate da un'offerta sempre più ampia, creata appositamente per un target femminile", spiega Maurizio Fiasco, sociologo e consulente della Consulta nazionale Antiusura, che sottolinea come la nostra legislazione non limiti ma, anzi, incentivi l'estensione del gioco: "Se dieci anni fa la spesa era di 10 miliardi di lire, oggi l'azzardo è il terzo investimento finanziario nazionale". Ma a chi conviene che sempre più donne abbassino la leva delle slot? Alle casse dell'erario no di certo. "Non c'è alcun interesse pubblico nel mantenere l'economia del gioco, anzi l'azzardo è una delle componenti strutturali del debito pubblico", chiosa Fiasco. "Si è assistito a una costante defiscalizzazione, passando da un'aliquota che superava il 30 per cento a inizio anni Duemila, al 14 per cento di oggi". Insomma, la spesa aumenta ma il guadagno per lo Stato diminuisce; eppure l'Italia, con meno dell'1 per cento della popolazione mondiale, assorbe il 23 per cento della spesa planetaria di gioco d'azzardo, ovvero 61,5 miliardi su quasi 260 miliardi di euro (dati 2010). Nel frattempo le possibilità si moltiplicano. Oggi si può tentar la sorte comodamente dal proprio salotto, senza che i vicini vedano o che i figli possano giudicare: non serve nemmeno alzarsi dal divano, basta accendere la tv e sintonizzarsi sul nuovissimo canale 63 del digitale terrestre interamente dedicato al gioco. Meglio delle televendite. Ma la prossima frontiera saranno i giochi online: e se le casalinghe italiane per il momento non hanno troppa destrezza con la tecnologia, non c'è da temere. A Londra (dove l'uso di Internet e la banda larga sono ben più diffusi) è già attivo il primo centro di cura pubblico dedicato alle donne che si sono bruciate le tasche e la vita per una puntata online.
Fino a pochi anni fa il gioco d'azzardo era confinato in una nicchia ai margini della legge. Oggi l'Italia assomiglia a una gigantesca bisca di Stato. Solo negli ultimi dieci anni, tra lotterie, new slot, jackpot e scommesse di ogni tipo, ci siamo giocati più di 400 miliardi di euro. Una cifra pazzesca: più di un quinto di tutta la montagna di debito pubblico accumulato dall'Italia in 150 anni di storia. E mentre la recessione sconvolge l'economia mondiale, il business del gioco legale non conosce crisi, anzi è in continua crescita: nel 2011 le puntate degli italiani sono arrivate a superare la quota record di 6 mila milioni al mese e l'anno si dovrebbe chiudere con un totale di oltre 72 miliardi. Il poker cash, che è solo l'ultima trovata on line, è fresco di legalizzazione, eppure già raccoglie poco meno di un miliardo al mese. Un mercato spaventosamente liquido, diviso tra pochi grandissimi concessionari e decine di migliaia di imprese minori, con regole davvero speciali. La più vistosa è che le tasse sono molto basse. E nell'ultimo decennio i governi di ogni colore hanno fatto a gara per ridurle. Quindi l'affare è sempre più ricco, ma l'indebitatissimo Stato italiano si accontenta, a conti fatti, di un settimo della torta. Mentre la Guardia di Finanza svela che l'illegalità è diffusissima. E i magistrati più attenti avvertono che scommesse illecite e giochi anche leciti rappresentano "la nuova frontiera della criminalità mafiosa". C'era una volta un divieto generale, con rare eccezioni: totocalcio, lotto e scommesse regolari sui cavalli. Dalla fine degli anni '90 è iniziata la liberalizzazione. All'italiana. In Svizzera, prima di aprire 22 nuovi casinò, il governo ordinò un'indagine epidemiologica per studiare i danni del gioco. In Italia, come avverte una ricerca del Censis sostenuta dal Codacons, "non c'è stato anno, dal 1997 in poi, in cui l'esecutivo non abbia introdotto nuove offerte di gioco d'azzardo pubblico". Senza analisi né precauzioni. Da Berlusconi a Prodi, dai decreti di Bersani alle manovre di Tremonti, tutti i governi hanno continuato a regalare nuovi spazi alle piccole e grandi imprese del gioco organizzato, spesso ben agganciate ai partiti. E nell'illusione di togliere acqua alle scommesse illegali (un business stimato in circa 20 miliardi all'anno), i politici hanno ridotto le tasse a un'aliquota media al 13,5 per cento, che crolla a una microscopica "imposta unica del 3 per cento" per i giochi di carte on line, il nuovo settore in turbo-accelerazione. Il risultato è che le puntate degli italiani hanno fatto il botto: dai 15 miliardi del 2003 si passa agli oltre 61 del 2010, con almeno 72,5 miliardi previsti per l'anno in corso (vedi l'interattivo). Le entrate fiscali però restano ferme o addirittura calano. E i super profitti dell'azzardo di Stato vengono privatizzati. Tirando le somme, dal 2003 al 2006, quando gli italiani si erano giocati la bellezza di 103,7 miliardi, lo Stato ne aveva recuperati 23,6, cioè quasi un quarto. Nel successivo quadriennio 2007-2010 le puntate sono raddoppiate (oltre 205 mila milioni), ma le entrate fiscali sono sprofondate a un sesto del totale (32,6 miliardi). Anche perché i giochi di maggior successo, caso strano, sono i meno tassati. Nonostante la crisi e lo stratosferico debito pubblico italiano. Il fiume straripante di denaro privato sta modificando l'identikit di intere categorie. I tabaccai ormai incassano, in media, quasi metà dei ricavi dalle lotterie d'ogni tipo. E il mercato è dominato dalle macchinette diffuse in decine di migliaia di bar: sui 48,3 miliardi giocati da gennaio ad agosto di quest'anno, ben 27,2 sono stati ingoiati da "new slot" e "videolotterie (vlt)". L'agenzia specializzata Agicos informa che "in Italia sono attivi 320 mila apparecchi elettronici e almeno 30 mila vlt, con altre 27 mila già autorizzate". "Per spesa pro capite siamo già i primi al mondo", spiega il direttore Fabio Felici, "e con l'asta di fine anno supereremo quota 400 mila". Il che equivale a una macchinetta mangiasoldi ogni 150 abitanti: come avere un mini-casinò in ciascun condominio. Il gioco legale è un mercato chiuso: si entra solo per concessione dei Monopoli di Stato (in sigla, Aams). Sul gradino più basso e più affollato si collocano, secondo i dati di Agipronews e Agicos, "circa 5 mila imprese con 120 mila lavoratori". In cima alla piramide, una decina di grandi concessionari. I big sono due: Lottomatica, controllata dal gruppo De Agostini, che con l'acquisto per 4 miliardi dell'americana G-Tech è diventata leader mondiale. E Sisal che, tramite una holding lussemburghese, fa capo a tre fondi, i britannici Apax e Permira e l'italiano Clessidra di Claudio Sposito, ex amministratore della Fininvest. Le due società quotate sono entrate anche in Confindustria con una neonata federazione di categoria che, informa Massimo Passamonti, "riunisce il 75 per cento delle imprese del settore, che raccolgono l'80 per cento delle giocate". Insomma, fuori la Fiat, dentro il Superenalotto e il Gratta e vinci. Lottomatica ha raccolto solo in Italia giocate per 20,6 miliardi nel 2010 (versandone cinque di tasse) e altri 14,4 nel primo semestre 2011. Per l'intero gruppo, il margine di profitto prima delle tasse (ebidta) è balzato a 1,3 miliardi in 18 mesi. Sisal si è accontentata di 7,1 miliardi di giocate nel 2010 e altri 3,8 tra gennaio e giugno scorsi, con guadagni netti per 265 milioni nello stesso anno e mezzo. Al terzo posto tra i colossi c'è la Snai, radicata da anni nelle scommesse sportive (ippica e calcio). Proprietari sono i veneti di Palladio finanziaria e la Investindustrial di Andrea Bonomi. Insieme hanno scalato pure la Cogetech. Le grandi imprese tengono a sottolineare che gran parte delle puntate tornano ai vincitori: ogni gioco ha le sue quote (e aliquote fiscali), ma la media dei premi è del 71 per cento. L'effetto è una colossale redistribuzione invisibile: l'anno scorso 44 miliardi sono usciti dalle tasche dei perdenti per entrare in quelle di ignoti vincitori. La massa degli esercenti, sempre in media, si divide l'8 per cento della raccolta lorda. Il resto viene spartito fra lo Stato e i concessionari. La nuova gara per le new slot, bandita dopo anni di proroghe, potrebbe garantire spazi per gli austriaci di B-win, i tedeschi di Merkur, gli spagnoli di Cirsa e Codere o i greci di Intralot. Ma per ora i colossi stranieri occupano piccole nicchie del fortunatissimo mercato italiano. Dove non mancano assetti proprietari che i magistrati definiscono "opachi" e "molto sospetti". L'esempio più chiacchierato è la B-plus, erede della Atlantis, che controlla circa il 30 per cento delle new slot. Nel silenzio delle autorità, fu un'inchiesta de "L'Espresso" a svelare che faceva capo, tramite società caraibiche, a due figli di Gaetano Corallo, amico del boss Santapaola e condannato (ma non per mafia) nel processo sulle scalate ai casinò. I figli però giurano di non aver alcun rapporto con il padre. Ed escludono che i legami con parlamentari di An abbiano favorito la concessione statale. Al primo posto nel neonato business del poker cash, ora, compare la società Pokerstars: è uno dei tre siti on line che in aprile sono stati banditi dalle autorità statunitensi, per presunte frodi da 3 miliardi di dollari. Dall'estero, i manager ribattono che le accuse dell'Fbi sarebbero infondate. Mentre i Monopoli di Stato osservano che Pokerstars non ha mai violato la legge in Italia. Al centro del sistema legale c'è proprio la rete telematica dell'Aams: un super contatore nazionale, a cui non dovrebbe sfuggire neppure una puntata. In realtà i trucchi abbondano: dalle macchinette scollegate alle doppie schede, dalle sale gioco abusive ai siti fuorilegge. Tra gennaio e settembre di quest'anno la Guardia di Finanza ha eseguito 4.484 interventi. Il bilancio? Ben 5.091 multe, 2.691 apparecchi sequestrati, 1.100 punti-scommesse chiusi perché fuorilegge. Nel 2010, a 6.095 controlli corrispondevano 6.295 violazioni, con sequestri di 3.746 macchinette e di 1.918 sale giochi abusive. Per i furbi il guadagno è doppio: tasse azzerate e nessuna percentuale da redistribuire con le vincite. Almeno fino al 2005, secondo un'indagine della Corte dei conti, anche i grandi concessionari avrebbero beneficiato dei buchi della rete di controllo statale. Sommando le sanzioni per migliaia di apparecchi scollegati, la procura era arrivata a contestare supermulte per 98 miliardi di euro. In teoria i processi sono ancora aperti. Ma i portavoce delle grandi aziende annunciano che "gli importi sono stati molto ridotti o azzerati dai ricorsi delle difese". L'Organizzazione mondiale della sanità classifica già dal 1992 il "gioco compulsivo" (o "ludopatia") tra le patologie che andrebbero curate come la dipendenza da droghe, alcol o fumo. Secondo il Censis, la sindrome più grave colpisce "almeno 105 mila italiani", mentre una ricerca del Cnr di Pisa stima un totale di "tre milioni di soggetti a rischio". Un problema ignorato dai politici, nonostante la mole di notizie allarmanti pubblicate dai giornali. Tra i tanti casi, c'è l'imprenditore veneto che porta la sua fabbrica alla bancarotta per debiti di gioco; la signora toscana ricoverata d'urgenza per un delirio da overdose di slot machine; l'invalido di Napoli che rapina il bar dove si era giocato la pensione; il nonnino derubato e ridotto in fin di vita da un maniaco del casinò. I ricercatori rimarcano che le nuove tecnologie rendono le puntate accessibili da ogni bar o dal computer di casa a tutte le ore. Con pesanti ricadute sui giovanissimi: secondo uno studio di Nomisma, il 5 per cento dei ragazzi tra i 16 e i 19 anni è "in situazioni di criticità", soprattutto per le scommesse on line. Tra i "giocatori patologici", secondo studi inglesi, i tentativi di suicidio sono il quadruplo della media. E tra gli assistiti dal centro specializzato di Campoformido (Udine), il primo in Italia, "uno su dieci risulta vittima di usura". In questi anni pochissimi parlamentari, concentrati tra centro e sinistra, hanno proposto disegni di legge per combattere la "dipendenza da gioco". Il governo ha sempre avuto altre urgenze. Solo nell'ultima manovra il ministro Giulio Tremonti ha varato le prime sanzioni contro gli esercenti che non vietano ai minorenni di giocarsi il futuro: multe massime fino a 20 mila euro e chiusura del locale da 10 a 30 giorni. E con lo stesso decreto di luglio il ministro ha istituito tre nuovi giochi di Stato. Il 5 novembre 2007, al boss palermitano Salvatore Lo Piccolo e a suo figlio Sandro, vengono sequestrati dei pizzini molto strani: resoconti in codice di attività economiche coperte da una cifra misteriosa, "(323)". Quella sigla, dimostrano le indagini, nasconde gli interessi di Cosa Nostra nel calcio-scommesse. E in gennaio un imprenditore siciliano, Giovanni Botta, viene arrestato come prestanome del clan Lo Piccolo nella gestione di sale (legali) per puntate sportive. A quel punto confessa di aver gestito anche l'azzardo illegale: toto nero e scommesse clandestine. Il gioco organizzato, secondo la procura nazionale antimafia, è "la nuova frontiera della criminalità mafiosa". Cosa Nostra, camorra e 'ndrangheta non si limitano a imporsi anche in questo ricchissimo mercato con i metodi di sempre: estorsioni, usura, rapine, sequestri, attentati, ferimenti e omicidi. Oggi l'emergenza, scrive il pm Diana De Martino in un'allarmante relazione in gran parte inedita, è che i clan finanziati dai superprofitti della droga e del crimine organizzato "si stanno strutturando sotto forma di imprese normali, in apparenza pulite", capaci di beneficiare delle "rendite monopolistiche" garantite dalla privatizzazione delle concessioni statali. E soltanto inchieste difficili, con lunghe intercettazioni e preziose confessioni di pentiti, possono dimostrare che dietro queste aziende d'oro ci sono i boss e i capitali mafiosi. Il contagio riguarda tutta Italia. Solo per l'ultimo anno giudiziario, il dossier dell'Antimafia elenca decine di casi. Il clan dei Casalesi, secondo l'accusa (29 arresti), era arrivato a controllare la società Betting 2000, che era la numero uno a livello nazionale per volume di scommesse sportive. Tra Campania e Lazio il loro imprenditore-prestanome, Renato Grasso (vedi box a pag. 41), beneficiava di un "monopolio di fatto nel noleggio di new slot e videolotterie", grazie a patti territoriali con decine di boss della camorra. Finora solo questa inchiesta ha portato al sequestro di patrimoni per 150 milioni di euro e di sale bingo sparse da Brescia a Lucca, da Frosinone a Padova. Nell'area di Santa Maria Capua Vetere il clan Amato-Belforte imponeva con "ronde armate" i propri apparecchi mangiasoldi, ovviamente scollegati alla rete dei controlli fiscali, e s'impadroniva delle vincite (parola d'ordine: "Facciamo scoppiare la macchinette") spiando le giocate al computer. Tra Caltanissetta e Catania (dieci arresti) i clan Madonia e Santapaola controllavano i videopoker attraverso due reclutatori di imprenditori incensurati: Carmelo Barbieri e Antonio Padovani, un colletto bianco che secondo i magistrati antimafia si era costruito "una porta d'accesso privilegiata per il rilascio delle licenze dei Monopoli di Stato". A Reggio Calabria un ricchissimo imprenditore, Gioacchino Campolo, titolare della società Are, sarebbe diventato "il re dei videopoker" grazie all'appoggio di due famiglie della 'ndrangheta federate al clan Libri. I magistrati gli hanno sequestrato opere d'arte di straordinario valore, tre aziende e la bellezza di 260 immobili tra Roma, Parigi, Taormina, Milano e la Calabria. Da Lecce è partita l'inchiesta, per un giro milionario di scommesse illegali via Internet, sulla Goldbet Sportwetten, in teoria austriaca, in realtà controllata da soci e amministratori italiani. La Goldbet aveva una rete con 500 agenzie in tutta la Penisola: 50 sono risultate controllate dal boss pugliese Saulle Politi. In provincia di Modena il clan Schiavone, corrompendo due agenti di custodia, è riuscito a gestire dal carcere duro due bische clandestine, mascherate da circoli privati, che fruttavano ai Casalesi 200 mila euro al mese. Altre inchieste sulle catene criminali che uniscono usura ed estorsioni al gioco illegale, riciclando denaro anche tramite vincite pilotate, coinvolgono imprese mafiose attive da Roma a Siracusa, da Gallipoli a Palermo. Ma il denaro sporco non ha confini, per cui le filiali abbondano anche in Lombardia, Veneto o Emilia Romagna. Tra le inchieste più recenti spicca l'indagine della Procura di Napoli sul clan D'Alessandro. Sotto osservazione c'è un mare di "puntate anomale" su circa 150 partite sospette di calcio e altri sport. Tra i fermati, a fine settembre, spuntano due manager di Intralot Italia (che si è dichiarate parte lesa), intercettati mentre vantavano rapporti con i boss di Castellammare con frasi del genere: "La gente con cui sto io, mannaggia la marina, ha trenta omicidi per uno". Dopo anni di lassismo, il ministro Giulio Tremonti ha inserito nella manovra salva-bilancio del luglio 2011 le prime misure antimafia. Niente concessioni alle società con dirigenti "condannati o anche solo indagati per associazione mafiosa e riciclaggio". E per il futuro, i candidati alle licenze statali dovranno indicare tutti i "proprietari effettivi" con quote superiori al 2 per cento. Secondo le grandi aziende con azionisti trasparenti, il nuovo decreto è "un primo segnale importante", ma non risolutivo: se un'azienda italiana è controllata da una società estera, che magari fa capo alla classica off shore esotica, la proprietà resta anonima. Perfino le condanne del passato, in Italia, sembrano pesare poco e insegnare nulla. Il colmo è che in questi mesi è tornato sotto inchiesta perfino il casinò di Sanremo, che negli anni '80 fu al centro di due clamorose scalate affaristico-mafiose. La nuova indagine, partita da due croupier che rubavano soldi gonfiando i cambi di fiches, ha scoperto un giro di tangenti divise tra porteur (reclutatori di clienti) e almeno un dirigente del casinò. Che prima dell'arresto aveva "continui rapporti" con un fiduciario del clan Zaza: l'ala della camorra con i primi alleati storici di Cosa Nostra.
Il gioco del lotto è un gioco d’azzardo, e probabilmente il gioco a premi più diffuso in Italia. Il gioco è disciplinato dalla legge n. 528 del 2 agosto 1982 e dal DPR n. 560 del 16 settembre 1996. La sua gestione è affidata all'Ispettorato Generale per il Lotto e le Lotterie, Direzione Generale delle Entrate Speciali, che ha sede presso il Ministero delle Finanze. La gestione della raccolta delle giocate e dei pagamenti delle vincite è affidata in concessione a Lottomatica. Si devono indovinare da 1 a 5 numeri su 90.
Si può scommettere di indovinare, su una ruota, su più ruote o su tutte le ruote:
l'ambata, o estratto semplice, ovvero un solo numero (l'ordine di estrazione non conta);
l'estratto determinato, ovvero un numero e la posizione in cui viene estratto;
l'ambo, ovvero due numeri;
il terno, ovvero tre numeri;
la quaterna, ovvero quattro numeri;
la cinquina, ovvero cinque numeri.
Si possono giocare fino a 10 numeri sulla stessa scheda. La vincita è pagata a quota fissa e dipende da quanti numeri si sono indovinati, da cosa si è giocato e da quanti numeri sono stati messi in gioco.
Nella seguente tabella viene indicata la vincita lorda che si ottiene giocando 1 euro su 1 ruota e indovinando tutti i numeri in gioco.
Numeri giocati |
Numeri indovinati |
Vincita lorda (euro) |
Probabilità di vincita |
1 |
1 |
11,23 |
1 su 18 |
2 |
2 |
250,00 |
2 su 801 |
3 |
3 |
4500,00 |
1 su 11 748 |
4 |
4 |
120 000,00 |
1 su 511 038 |
5 |
5 |
6 000 000,00 |
1 su 43 949 268 |
La tabella mostra anche che da un punto di vista matematico il gioco del lotto è un gioco definibile "non equo", laddove per gioco equo si intende un gioco che paga al vincitore una vincita pari alla posta giocata moltiplicata per l’inverso della probabilità di vincita.
Il Superenalotto è un gioco d'azzardo a premi gestito dalla Sisal, introdotto per la prima volta in Italia il 3 dicembre 1997, in sostituzione del gioco dell’Enalotto.
Come l'Enalotto, è stato legato strettamente alle estrazioni del lotto componendo la combinazione vincente con il primo numero estratto dalle seguenti ruote, in un ordine qualsiasi: Bari, Firenze, Milano, Roma, Napoli e Palermo. Qualora il primo numero estratto in una delle ruote suddette fosse stato uguale ad un precedente primo estratto, si considerava valido ai fini del gioco il secondo numero di tale ruota e così via. La combinazione vincente è completata anche dal cosiddetto "numero Jolly", ovvero il primo estratto (o il secondo o il terzo e così via in caso di uguaglianza) della ruota di Venezia, e dal "SuperStar", il primo estratto sulla ruota nazionale.
Il Superenalotto (a differenza, ad esempio, del Lotto) è un gioco a vincita variabile, nel senso che il Montepremi (più eventualmente il jackpot del concorso precedente) di ogni concorso viene suddiviso nelle 5 categorie di vincita e spartito in modo equo tra i vincitori delle singole categorie. Pertanto la vincita dipende dal montepremi e dal numero di altri vincitori della stessa categoria.
La probabilità di vincita delle categorie più alte è quasi nulla: nonostante ciò il gioco ha attirato, fin dal 1997, moltissimi giocatori, attratti dalle cifre milionarie messe in palio ad ogni concorso. Si tratta di un gioco d'azzardo che propone una speranza matematica di vincita remota ed infinitesimale: una vincita col punteggio di 6 al SuperEnalotto si colloca a 1 su 622.614.630.
Il vero vincitore di un tale business è chi lo gestisce, ossia lo Stato, i suoi concessionari e tutti coloro che ne fanno la pubblicità. Inoltre a tanti guadagni corrisponde equivalente pubblicità, sui giornali, e in televisione. Più si guadagna, più è facile da promuovere.
E’ una vera e propria “tassa” autorizzata, tra l’altro anche cara. Le lotterie furono inventate dagli imperatori romani che avevano bisogno di liquidità e non potevano tassare ulteriormente i cittadini. Quindi hanno inventato un intelligentissimo modo per “spremerli” senza che questi ne fossero consapevoli.
AFFITTI IN NERO
Affitti in nero, tutto da rifare. I giudici bocciano le "spie". Dichiarata illegittima la norma che consentiva agli inquilini di avere sconti in cambio di delazione su contratti fuorilegge, scrive Nino Materi su “Il Giornale”. L'esercito degli inquilini, in guerra contro le falangi dei padroni di casa senza scrupoli, si era trasformato in un'armata di «spie». «Delatori», per usare un termine più eleganti. E per un po' - gli inquilini - ci avevano pure «marciato». La legge era dalla loro parte. E li spingeva - a fin di bene (il proprio, s'intende) - a denunciare i contratti in nero proposti da quei furbetti dei proprietario degli appartamenti. Locatari (in nero) vs locatori (in nero). Davide contro Golia. Dove «Davide» assumeva spesso i connotati deboli di categorie tradizionalmente a rischio sfruttamento come studenti, stranieri e via discriminando; tutta gente che però, in cambio di un affitto dal canone inferiore (ma non registrato), accettavano di alloggiare sotto il tetto dell'illegalità. Poi cambiarono le regole e bastò «segnalare» a chi di dovere i magheggi del «Golia» di turno, ed ecco che per «Davide» scattavano benedici sotto forma di contratti a canone calmierato. Troppo bello per essere vero. O comunque per durare a lungo. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato illegittima la norma sulla determinazione dei canoni di locazione - che prevedeva vantaggi per gli inquilini che segnalavano contratti di affitto in nero - contenuta nel decreto del 2011 sul federalismo fiscale. La Consulta, in concreto, ha cancellato gli «sconti» previsti per gli affittuari che denunciavano contratti in nero e permettevano agli inquilini di registrare di propria iniziativa il contratto d'affitto presso un qualsiasi ufficio delle Entrate. I giudici costituzionali hanno però bocciato tale procedura per «eccesso di delega», annullando anche i contratti già registrati. Tradotto: ora torna il caos. La sentenza, la n. 50, è stata depositata ieri. Confedilizia esulta, gli inquilini protestano. Le norme censurate dalla Corte sono contenute nel decreto legislativo n.23 del 14 marzo 2011, che prevedeva disposizioni in materia di federalismo fiscale municipale. Nel dettaglio, diversi tribunali - Salerno, Palermo, Firenze, Genova, Roma sezione staccata di Ostia - hanno impugnato i commi 8 e 9 dell'art. 3, che contiene le misure sulla cedolare secca sugli affitti. Il comma 8 stabilisce, in particolare, che i contratti di locazione delle case che «ricorrendone i presupposti, non sono stati registrati entro il termine stabilito», hanno una durata di 4 anni e il canone annuo è fissato nel triplo della rendita catastale più l'adeguamento Istat dal secondo anno. Il comma 9 stabilisce poi che queste stesse disposizioni si applicano anche nei casi in cui nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo e sia stato registrato un contratto di comodato fittizio. «Emerge con evidenza - si legge nella sentenza - che la disciplina oggetto di censura, sotto numerosi profili rivoluzionaria sul piano del sistema civilistico vigente, si presenti del tutto priva di copertura da parte della legge di delegazione». Non capiamo, ma ci adeguiamo. E alziamo le mani anche dinanzi al passaggio successivo, in cui si «spiega» (si fa per dire...) che «il tema della lotta all'evasione fiscale non può essere configurato anche come criterio per l'esercizio della delega: il quale, per definizione, deve indicare lo specifico oggetto sul quale interviene il legislatore delegato, entro i previsti limiti». Ma qui - scusate - siamo al puro delirio giuridichese, nella sua forma più incomprensibile. Insomma, roba da azzeccacarbugli. Da mandare, gentilmente, a quel paese. Dove speriamo trovino una casa in affitto. Possibilmente non in nero.
Casa, la Consulta boccia gli sconti per chi denuncia gli affitti in nero. L'inquilino che denuncia la mancata registrazione del contratto non avrà trattamenti di favore sul canone. La doccia fredda arriva dalla Corte costituzionale: per i giudici le sanzioni sono spropositate rispetto alle violazioni fiscali. Il caso esploso dopo uno sfratto per morosità a Salerno. Ora il Fisco deve re-inventarsi le armi contro gli affitti in nero, scrive Antonella Donati su “La Repubblica”. Il padrone di casa affitta in nero? Niente più supersconto sul canone all'inquilino che denuncia la mancata registrazione. La norma antievasione, contenuta nel decreto sul federalismo fiscale è incostituzionale perché viola i diritti dei proprietari e impone una sanzione sproporzionata rispetto alla violazione fiscale. Una vera e propria doccia fredda, con una censura senza appello, che arriva dalla Corte costituzionale che con la sentenza 4/2014 pubblicata oggi ha cancellato con un tratto di penna quella che veniva considerata come una delle armi più efficienti per la lotta agli affitti in nero. La questione portata all'esame della Consulta riguardava la legittimità delle disposizioni contenute nell'articolo 3 del decreto in materia di federalismo fiscale municipale, che consentivano all'inquilino di registrare il contratto al posto del proprietario, in caso di mancato rispetto dell'obbligo di registrazione da parte del proprietario stesso. A fronte della registrazione effettuata dall'inquilino la legge riconosceva il diritto ad avere un canone annuo pari al triplo della rendita catastale rivalutata, a prescindere da qualunque accordo fosse stato preso nel contratto in nero. Inoltre il contratto, qualunque fosse stata la sua durata originaria, si sarebbe automaticamente trasformato in un contratto con durata di quattro anni +4. Queste stesse disposizioni si applicavano in caso di contratti registrati per un importo inferiore a quello pattuito e quindi richiesto dal proprietario. La norma era stata inserita dal governo proprio per favorire l'emersione degli affitti in nero, e finora era stata applicata soprattutto per le locazioni per gli studenti universitari. Fin da subito però erano state sollevate questioni di illegittimità, legate soprattutto alla possibilità del proprietario di dare o meno lo sfratto per morosità a fronte del pagamento di un canone pagato in misura inferiore rispetto a quello originariamente concordato. Proprio una situazione di questo genere è stata quella portata all'esame della corte costituzionale. A fronte di un'intimazione di sfratto per morosità, l'inquilina di un alloggio a Salerno, si era opposta alla richiesta di lasciare l'alloggio sottolineando che il contratto di locazione, in vigore dal 1° febbraio 2011, era stato registrato in ritardo a cura della stessa conduttrice in data 5 ottobre 2011. Conseguentemente il canone da lei dovuto, ricalcolato in base a quanto previsto dalle norme in questione, sarebbe stato pari a 224 euro e non a 950 euro, come stabilito dal contratto originario. Il tutto a far data dal bimestre ottobre-novembre 2011, mentre per i mesi precedenti non era dovuto alcun canone, in quanto il contratto non registrato doveva considerarsi nullo. Ovviamente la proprietaria si era opposta contestando la legittimità delle disposizioni, ottenendo su questo un primo giudizio positivo. Secondo il Tribunale, infatti la norma risulta incostituzionale in quanto le sanzioni fiscali non possono comprimere oltre ogni limite il diritto di proprietà attraverso misure che si presentano sproporzionate e limitative della autonomia contrattuale, per di più in assenza di un interesse pubblico, dal momento che dopo l'avvenuta registrazione tardiva del contratto, è già stato effettuato il pagamento della sovraimposta dovuta per il ritardo. In più si sarebbe dovuto mantenere in vita un contratto che il locatore non avrebbe mai sottoscritto a quelle condizioni, costringendolo a sopportare un canone irrisorio per la potenziale durata di otto anni (quattro più quattro). Il tutto in evidente contrasto con l'articolo 1419 del codice civile, a norma del quale la nullità parziale non travolge l'intero contratto solo se risulti che i contraenti lo avrebbero comunque concluso anche senza la parte nulla, cosa impossibile in questa situazione. Il governo si era difeso sostenendo che la norma impugnata conteneva, effettivamente, un meccanismo particolarmente severo, ma efficace, funzionale agli interessi del fisco, e non irragionevole. Un'obiezione, questa, la quale i giudici avevano replicato che l'importo eccessivamente limitato del canone calcolato sulla base di quanto previsto dalle norme in realtà aveva come effetto di ridurre la base imponibile del tributo persino nelle ipotesi in cui sia stato registrato un contratto di locazione per un canone inferiore a quello effettivo, ma pur sempre superiore a quello "sostitutivo". Insomma un vero e proprio autogol del fisco. Inoltre questa disposizione risultava in contrasto con lo statuto dei diritti del contribuente, testo che esclude espressamente che la violazione di norme tributarie possa determinare la nullità del contratto. Dubbi di costituzionalità, peraltro erano stati espressi anche da altri tribunali di fronte a situazioni analoghe e con identiche considerazioni. Una linea sposata in pieno dalla Corte costituzionale. Secondo la sentenza che ha bocciato le norme, inoltre, sarebbe anche irragionevole l'applicazione delle medesime sanzioni sia nel caso di omessa registrazione del contratto sia in caso di registrazione di un contratto con canone inferiore a quello effettivo. Quindi stop alle disposizioni e addio alle denunce. Il Fisco dovrà trovare armi più adatte per stanare gli evasori.
Denunciare all'Agenzia delle Entrate l'affitto in nero conviene e questo grazie al decreto legge 23 del marzo 2011. Lo dimostra il secondo caso avvenuto in tutta Italia quello di Salvo, un palermitano che vive con la moglie e un figlio piccolo nella zona del porto, che si ritrova con 366 euro in più al mese sul conto in banca, dopo aver denunciato all'Agenzia delle entrate il proprietario di casa che aveva registrato un contratto fittizio. Oggi paga 84 euro al mese anziché 450 per un appartamento di tre vani nel centro di Palermo. “Ho scoperto per caso – racconta il protagonista - che la proprietaria aveva registrato un contratto di locazione da 2700 euro, cioè 225 euro al mese, esattamente la metà". Dopo un po' di paura iniziale, il giovane ha deciso di denunciare. Il suo è il primo caso in Sicilia, il secondo in Italia. Il decreto legge in materia di affitti prevede che chi denuncia ottiene un contratto della durata di quattro anni, con possibilità di rinnovo per altri quattro, e un canone pari al triplo della rendita catastale, uno sconto dell'80 per cento rispetto al valore di mercato. I proprietari irregolari avevano tempo fino al 6 giugno 2011 per sanare la loro posizione. Da quella data l'inquilino può denunciare un contratto non registrato o fittizio, presentando le prove che attestino il suo domicilio nell'appartamento. Bastano una copia del bonifico del canone mensile e le bollette delle utenze intestate a suo nome.
Contratti non registrati a rischio: si passa a un regime imposto dall'alto su durata e canone. Questo vale anche nel caso di contratti di comodato simulati o di simulazione del canone (registrato in misura inferiore a quella effettiva). E basta la richiesta anche di uno solo dei contraenti e senza necessità di esibire particolare documentazione. È quanto prevede il decreto legislativo sulla cedolare secca (n. 23/2011). Anche se la registrazione entro il 6 giugno 2011 sbarra la strada al regime vincolistico. Quindi si regolarizza la situazione sottraendosi alle conseguenze descritte al comma 8 dell'articolo 3 del decreto legislativo n. 23/2011. Vediamo, dunque, a cosa si va incontro se non si provvede alla registrazione. Ai contratti di locazione degli immobili ad uso abitativo, comunque stipulati, che, ricorrendone i presupposti, non sono registrati, il decreto legislativo (all'articolo 8) prevede la seguente disciplina: 1) la durata della locazione è stabilita in quattro anni a decorrere dalla data della registrazione, volontaria o d'ufficio; 2) al rinnovo si applica la disciplina di cui all'articolo 2, comma 1, della citata legge n. 431 del 1998; 3) a decorrere dalla registrazione il canone annuo di locazione è fissato in misura pari al triplo della rendita catastale, oltre l'adeguamento, dal secondo anno, in base al 75% dell'aumento degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli impiegati e operai. Se il contratto prevede un canone inferiore, si applica comunque il canone stabilito dalle parti. In base all'articolo 2 della legge 431/1998 il rinnovo varrà per un periodo di quattro anni, tranne i casi in cui il locatore intende adibire l'immobile agli usi o effettuare sullo stesso le opere di ristrutturazioni o sopraelevazioni, oppure vendere l'immobile. Inoltre il decreto legislativo prevede che le disposizioni di cui all'articolo 1, comma 346, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (nullità del contratto non registrato), ed al comma 8 dell'articolo 3 del decreto legislativo si applicano anche ai casi in cui nel contratto di locazione registrato sia stato indicato un importo inferiore a quello effettivo e anche nel caso in cui sia stato registrato un contratto di comodato fittizio. Questo significa che con la registrazione si ottiene il risultato di assoggettare a un regime vincolistico il contratto in tutti i suoi elementi essenziali e quindi durata, compreso il rinnovo e quantificazione del canone. Chi va a registrare il contratto ha un grosso potere e valuterà caso per caso il proprio interesse a poter fruire delle condizioni di legge. Tra l'altro le modalità previste dalla circolare dell'agenzia delle entrate sono particolarmente facilitate, non richiedendo oneri formali e soprattutto non richiedendo la produzione di documenti.
Affitto in nero, ti denuncio di Roberta Carlini. Se siete inquilini con un contratto irregolare, potete autoridurvi il canone fino all'80 per cento. L'hanno già fatto in tanti. Ecco come.
Come autoridursi l'affitto dell'80 per cento in una settimana. Non è una pubblicità per gonzi, né un rigurgito degli espropri anni Settanta, ma una piccola rivoluzione legale che, in giro per l'Italia, è già cominciata. Basta mettersi in coda all'Agenzia delle entrate, o fare un giro tra i sindacati degli inquilini, per trovare traccia della legge 23, battezzata col nome ostico di "cedolare secca". Legge che, oltre a fare uno sconto fiscale ai padroni di casa onesti, quelli in regola col fisco, ha dato un grimaldello potente agli inquilini in nero. Che da giugno possono denunciare i proprietari, ottenere la riduzione del canone e un contratto stabile per otto anni. All'inizio, della novità si sono accorti in pochi, e qualcuno ha parlato di fallimento della legge. Ma adesso il passaparola sta girando: complice la crisi che morde, e i vari movimenti degli "occupy" che, oltre a Wall Street, hanno preso di mira anche il caro-casa e gli affitti in nero degli studenti.
"Deboli sì, ma non ignoranti". Stella Liberato ha 33 anni, di mestiere fa la consulente aziendale, e da qualche mese respira. Invece dei soliti 850, adesso sborsa 250 euro al mese per la sua casa in affitto, nella semiperiferia romana. E non le sembra vero. Davanti a un'assemblea di studenti alla Sapienza, sotto lo striscione della campagna Fuori dal nero, racconta la sua storia. Simile a quella della maggior parte dei ragazzi che la ascoltano, studenti fuori sede a 3-400 euro per stanza. "Anche io da studentessa sono sempre stata al nero, ma adesso basta. C'è questa legge, usiamola. Non dobbiamo essere complici dell'evasione, né avere paura dei padroni di casa". Stella parla delle nuove regole e dei trucchi per aggirarle; spiega che se paghi con un bonifico o un assegno o anche se hai un paio di testimoni del pagamento in nero il gioco è fatto. Racconta che non c'è niente da temere: "Il proprietario, nel mio caso, si è trovato di fronte al fatto compiuto, quando ha visto che gli è arrivato un bonifico più basso del solito. Si è arrabbiato, ma non poteva fare niente". Ormai l'affitto è quello, e durerà per otto anni. Senza contare il pericolo concreto che il fisco poi bussi alla porta per recuperare tutta l'evasione passata. Mentre gli inquilini dal punto di vista legale sono in una botte di ferro: "Alcuni padroni di casa cercano di mandarti via con soldi; altri si infuriano, minacciano; altri ancora si rassegnano. Dovevano pensarci prima", dice Stella. Ma se è così, perché non lo fanno tutti?
"Finora a Roma abbiamo aiutato 450 famiglie, che in media vengono a spendere 700 euro in meno al mese". Walter De Cesaris, segretario dell'Unione inquilini, è contento come una Pasqua. "In un mese, l'insieme di queste famiglie risparmia 315 mila euro. In otto anni, risparmieranno più di 30 milioni". E a chi obietta che 450 case sono una goccia nel mare degli affitti in nero a Roma, De Cesaris risponde: "Finora abbiamo avuto poco tempo, ma adesso il passaparola corre. Solo il nostro sindacato in tutt'Italia ha fatto registrare 2 mila contratti". Il Sunia, sindacato inquilini della Cgil, parla di 5 mila regolarizzazioni totali e denuncia l'inerzia dei comuni e degli uffici fiscali. In effetti, non è che tutte le sedi dell'Agenzia delle entrate siano altrettanto chiare e solerti, quando gli inquilini si presentano allo sportello.
"Qui a Roma noi mandiamo gli inquilini all'Agenzia dell'Aurelio, sono i più corretti", dice Fabrizio Ragucci, soldato di prima linea della battaglia degli affitti in nero. Nella sede romana dell'Unione inquilini, riceve e smista lunghe file di persone in cerca di informazioni, aiuto, protezione. Poche ore alla sua scrivania danno uno spaccato vivido della questione casa nella capitale, e dell'intreccio di piccole e grandi evasioni, complicità e conflitti che regge l'impalcatura enorme degli affitti in nero in Italia. Che secondo il Sunia sono almeno 1,5 milioni e che l'Agenzia del territorio non riesce a censire, ma classifica dentro la generica categoria "altri utilizzi" nelle sue tabelle, confusi dentro uno stock di 5 milioni di abitazioni del quale non si sa la destinazione.
Arrivano alcuni studenti di piazza Bologna, con un contratto semifalso in mano. Pagano 1.400 euro al mese in quattro, sul contratto c'è scritto 600. La differenza è versata in contanti, "vale come testimone l'amico, la sorella, il parente?". Sguardi preoccupati. Tornano Alessio e Giovanna, la loro pratica è quasi chiusa: sono andati a vivere fuori Roma per cavarsela, ma pagavano comunque 450 euro al mese più il condominio. Adesso sono a 160 euro puliti, e il figlio che sta per nascere starà in quella casa almeno fino all'ottavo compleanno. Non hanno sensi di colpa, "il nostro padrone di casa ha 23 appartamenti".
Invece Mario, anche lui abbastanza giovane e con un affitto in nero nell'hinterland di Roma, la denuncia non l'avrebbe neanche voluta fare: "Ma per una sola volta che ho tardato un pagamento perché avevo difficoltà, la padrona mi ha fatto scrivere dall'avvocato, intimandomi di andare via". Quella lettera ingenua è diventata una fonte di prova schiacciante, e adesso Mario resta lì con affitto al minimo. "Vengono soprattutto giovani coppie, ma anche molti studenti", racconta Fabrizio, "immigrati di meno, si sentono più ricattabili". A Firenze, per esempio, ha fatto rumore la storia di Occresio Borges, venditore brasiliano che si è trovato messo fuori casa, con la serratura cambiata e tutte le sue cose sul pianerottolo. Ha chiamato i carabinieri e ha avuto ragione.
"Abbiamo il 56 per cento degli affitti in nero in città, e riguardano soprattutto immigrati e studenti", dice Simone Porzio, del Sunia fiorentino, "per questo abbiamo fatto un patto d'azione con le reti degli universitari". Per evitare le ritorsioni fisiche e le minacce, i sindacati danno consigli strategici: cambiare la serratura e le utenze prima di tutto, non parlarne con nessuno finché non si ha il contratto regolarizzato in mano. A quel punto, ai proprietari resta solo la strada di un'azione penale che però è spesso accidentata e pericolosa per loro. Ma più che le minacce fisiche e legali, spesso a frenare le denunce è un impasto di quieto vivere, inconscia complicità, vecchie relazioni. Come nel caso di Michela e Silvia, due ragazze romane che da settimane meditano sul da farsi. Si dividono una casa al Pigneto, hanno due lavori precari e portano a casa sì e no 2 mila euro al mese. Quasi la metà se ne va in affitto. "E' in nero. Però il padrone di casa è sempre stato gentile, interviene se qualcosa non va, fa le riparazioni. Non è uno molto ricco, ha questa casa in più che affitta... un po' ci dispiacerebbe dargli questa botta". E però: "Ci pensi, risparmiare 5-600 euro al mese? Soprattutto di questi tempi, con il lavoro che va e viene? Ci cambierebbe la vita".
PARLIAMO DELL’ITALIA DEI CONDONI.
Pornotax, archeocondono, condoni fiscali, edilizi, paesaggistici e ambientali, multe per eccesso di velocità. Fatti e norme fra loro in apparenza irrelati, ma sintomi di una tendenza comune.
L’Italia: Paese dei record per pressione fiscale o per numero di condoni? Probabilmente, tutte e due assieme, e non a caso. È proprio quando di tasse se ne pagano troppe, infatti, che la gente comincia a evaderle, e bisogna offrire allora qualche sconto per recuperarle. Comunque, sembra che sia stato proprio da noi che il condono fiscale sia stato inventato: con l’imperatore romano Adriano, che nel 118 cancellò tutti i debiti fiscali dei contribuenti per i 16 anni precedenti, facendo bruciare in una sola notte documenti contabili equivalenti a 900 milioni di sesterzi. Andando più vicino a noi, il primo “condono di pene pecuniarie” del XX secolo fu varato con il Regio Decreto numero 367 dell’11 novembre 1900. Se non ce ne siamo dimenticati qualcuno per strada, il che è peraltro probabile, fino allo scudo fiscale ne sono stati approvati dopo di quello altri 72. Cioè, 73 condoni in 109 anni, alla media di uno ogni ventina di mesi. Ventuno nei 46 anni dell’epoca monarchica, e 52 nei 63 anni di repubblica. Che poi ogni tanto si accelera pure: tra 1987 e 1992, sul finale della Prima Repubblica, si arrivò a uno ogni 18 mesi.
Il condono fiscale ha
una lunga storia, a partire dal quarto governo Rumor (1973), quando ministro
delle finanze era Emilio Colombo (poi senatore a vita), ma ha raggiunto il
culmine coi condoni del 2003 e del 2005 (governo Berlusconi, ministro Tremonti),
seguiti da un condono erariale (2006) che ridusse l’entità delle oblazioni
comminate da condanne di primo grado. Il principio è chiaro: cittadini e imprese
che hanno evaso le tasse (cioè violato la legge) vengono invitati a confessarlo,
e pagando una frazione di quello che avrebbero dovuto vengono assolti dal
peccato e dalle sue conseguenze. Il procuratore generale della Corte dei conti
Pasqualucci nella relazione inaugurale 2008 ha stigmatizzato queste e altre
sanatorie contabili come "incuranti dei loro effetti sui bilanci pubblici"; la
Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia (17 luglio 2008) per aver
favorito mediante il condono la frode fiscale, violando il principio di
eguaglianza fra i contribuenti degli Stati europei. Ma nulla assicura che altri
condoni, più o meno "tombali", non siano in agguato.
Analogo il meccanismo sanatorio dei condoni edilizi, ambientali e paesaggistici.
Cittadini che hanno violato la legge e sarebbero passibili di punizioni penali e
pecuniarie (nonché dell’abbattimento di edifici abusivi) vengono istantaneamente
assolti su pagamento di un’oblazione.
In tal modo si legittima l’abuso col sigillo della legge, incoraggiando ulteriori abusi, perpetrati in attesa del prossimo, immancabile condono. Piombate a proteggere e incoraggiare la cementificazione dell’Italia coi governi Craxi (1985) e Berlusconi (1994, 2003, 2004), queste sanatorie mostrano la loro logica in alcuni episodi illuminanti. Per esempio nel 2004, pochi mesi dopo l’approvazione del Codice Urbani che prescrive l’assoluto divieto di sanatorie paesaggistiche (art. 181), lo stesso governo Berlusconi approvava una legge (308/2004) con la totale sanatoria di ogni illecito ambientale e paesaggistico, anche i più gravi. Nessuno vorrà credere che (come scrissero alcuni giornali) questo voltafaccia fosse indirizzato a sancire abusi edilizi in una villa del presidente del Consiglio; ma nessuno ha mai spiegato come mai a distanza di pochi mesi lo stesso governo adottasse per legge due principi tra loro opposti, prima condannando l’abusivismo e poi premiandolo.
Il cosiddetto "archeocondono" è fratello (non tanto minore) di queste sanatorie, e può rispuntare a sorpresa come emendamento alla Finanziaria. Capovolgendo la legge secondo la quale il patrimonio archeologico è di proprietà pubblica, questa norma più volte presentata e finora mai approvata (un primo, timido tentativo si deve a Veltroni: Atti Camera 3216/97), prevede che chiunque illecitamente detenga materiali archeologici possa, anziché esser perseguito dalla magistratura o arrestato dai Carabinieri, autodenunciarsi pagando un’oblazione volontaria e restando in possesso dei materiali (secondo una versione più ipocrita, la proprietà sarebbe dello Stato, che li concederebbe al collezionista, tombarolo o trafficante, in deposito più o meno perpetuo, con facoltà di trasferirlo a pagamento ad altri). Anche i reati penali legati al traffico illecito di oggetti archeologici verrebbero estinti da questa "multa". Vanificato il lavoro di magistratura, Carabinieri, Guardia di Finanza. Ridicolizzata la nostra richiesta ai musei stranieri di restituire gli oggetti scavati illecitamente.
Una ratio comune lega queste norme e questi progetti: far cassa, ad ogni costo. Non ci sono soldi per l’opera lirica? Ricaviamoli dalla pornotax. Mancano finanziamenti per ridurre l’indebitamento pubblico? Ci aiuterà qualche sanatoria edilizia o ambientale, e se sarà al costo di disastri ecologici e paesaggistici, pazienza. Anche l’archeocondono, si sussurra, produrrebbe un gettito per ridurre (di poco) la voragine aperta dalla legge 133 nei conti del Ministero dei beni culturali. Stesso fine avrebbe il deposito ai privati di opere d’archeologia e d’arte su pagamento di canoni di concessione: il primo passo verso la vendita. Intanto qualcuno già corteggia emiri del Golfo Persico sperando in "depositi lunghi", pronto cassa, di qualche Botticelli o Caravaggio "minore" (?). Anche l’intensificarsi dei controlli sulla velocità nelle strade (lettori automatici, tutor, e così via) e il moltiplicarsi delle multe per assicurare introiti ai Comuni sempre più annaspanti ha, in piccolo, la stessa logica. Vuoi violare i limiti di velocità (o la legge sul patrimonio archeologico)? Tutto ok, purché sia a pagamento. Purché si inventino nuovi eufemismi: la pornotax diventa "tassa etica", le sanatorie vengono battezzate "programmazione fiscale", l’archeocondono pudicamente si traveste da "riemersione di materiali archeologici".
Si può ipotizzare l’estensione della medesima ratio ad altri ambiti. Pochi soldi per l’università dopo la legge 133? Semplice, vendiamo qualche esame e un po’ di lauree (magari ad honorem, rendono di più). Mancano i poliziotti, o la benzina nelle loro macchine? Facile, prendiamo i reati più comuni (furto, droga, violenze varie) e decretiamo che si estinguono sull’istante mediante autodenuncia e oblazione volontaria. E si potrebbe continuare. In tal modo, proprio come nel caso dell’archeocondono, il funzionamento della legge e delle istituzioni verrebbe garantito dai soldi di chi viola la legge e offende le istituzioni. Vi sarebbero da una parte gli impuniti che si arricchiscono violando la legge e si mettono al sicuro pagando oblazioni, dall’altra la massa dei cittadini tenuti (per mancanza di soldi) al rigoroso rispetto delle norme. Alle leggi ad personam che già offendono giustizia e diritto, si aggiungerebbe un pulviscolo di leggi a benificio di determinate categorie: ieri evasori fiscali, speculatori edilizi, distruttori del paesaggio, domani trafficanti di materiali archeologici, dopodomani chissà...
Fantapolitica? Forse. Ma fantasiose sarebbero apparse a chiunque, solo dieci anni fa, troppe cose che abbiamo visto accadere, incluse quelle di cui sopra. Se non è troppo tardi, fermiamoci a pensare. È proprio sicuro che la priorità assoluta debba essere far cassa, a costo di svuotare dall’interno le leggi che regolano la convivenza civile? È giusto che pagando si possa violare impunemente la legge? Che chi ha più soldi debba farla franca? Che, poiché la crisi economica impone di far cassa, nulla (ma proprio nulla) si debba fare per ridurre la gigantesca evasione fiscale, la più grande del mondo in valori assoluti (280 miliardi nel 2007 secondo l’Agenzia delle entrate)? È giusto che si rinunci ai maggiori introiti fiscali per poi tappare il buco tagliando gli investimenti sulla cultura? Siamo sicuri che invece di reprimere e punire chi non paga le tasse è giusto reprimere e punire, mediante tagli di bilancio sferrati alla cieca, chi fa ricerca, chi fa musica o teatro, chi insegna e chi studia, chi scava o vuol visitare in pace un piccolo museo? Dov’è finito il principio di eguaglianza sancito dalla Costituzione? Nella colpevole inerzia di troppe forze politiche (di maggioranza e "opposizione"), resta un soggetto che può e deve rispondere a queste domande.
Noi, i cittadini.
Esemplare, però, è la ipocrisia delle opposizioni. Prendiamo l’approvazione del cosiddetto “Scudo Fiscale”.
Il via libera al provvedimento arriva alla Camera il 2 ottobre 2009 a ora di pranzo con solo 20 voti di scarto (250 i no, 270 i sì e 2 astenuti, Paolo Guzzanti e Giorgio La Malfa). I ventinove assenti (22 del Pd, 6 dell’Udc e uno dell’Idv) in poche parole "graziano" il governo che ottiene il via libera al testo con soli 9 voti in più rispetti a quelli della maggioranza richiesta (261). E poi vanno in piazza ad aizzare il popolino travestendosi, come Di Pietro, da mafioso, per fare il verso a Berlusconi.
PARLIAMO DI EVASIONE FISCALE LEGALIZZATA.
Dieci finanziarie ogni anno. È l'ammontare dell'evasione fiscale in Italia: ogni anno circa 300 miliardi di euro di imponibile vengono sottratte all’erario. Di queste, l'evasione di imposte dirette è 115 miliardi di euro, l'economia sommersa sottrae 105 miliardi, la criminalità organizzata 40 miliardi e 25 miliardi chi ha il secondo o terzo lavoro. La stima è stata fatta da Krls Network of Business Ethics per conto di Contribuenti.it, Associazione contribuenti italiani, elaborando dati ministeriali e dell’Istat.
Le aree di evasione fiscale analizzate nello studio sono cinque: l’economia sommersa, l’economia criminale, l’evasione delle società di capitali, l’evasione delle big company e quella dei lavoratori autonomi e piccole imprese.
ECONOMIA SOMMERSA. I lavoratori in nero sono circa 2 milioni, di questi 800 mila sono dipendenti che fanno il secondo o il terzo lavoro (con un'evasione d’imposta di 25 miliardi di euro). L'Eurispes ha parlato di 6 milioni di doppiolavoristi, tra i soli lavoratori dipendenti: il 35 per cento. All'Istat, nella casa di tutti i numeri, ci vanno con i piedi di piombo. Però tutto conferma che siamo nell'ordine dei milioni e che in buona parte queste attività sono nascoste al fisco e sfuggono alle rilevazioni statistiche. Alcuni dati arrivano dalla Direzione centrale di Contabilità nazionale, che fornisce stime e analisi sull'economia sommersa e il lavoro irregolare. Un buon indicatore, spiega Antonella Baldassarini, che si occupa di tali tematiche all'Istat, è il rapporto tra posizioni lavorative e occupati: se in un settore ci sono più posizioni lavorative che occupati, è perché alcuni occupati svolgono doppio o triplo lavoro. Nella media italiana, nel 2007 a ogni 100 occupati corrispondevano 120 posizioni: in numeri assoluti, le doppie (o anche triple) posizioni sono più di cinque milioni, secondo i dati Istat. Che permettono anche di vedere dove è più diffuso il secondo lavoro. A partire dall'agricoltura, dove a 100 occupati corrispondono 188 'posti': un fenomeno antico, rivitalizzato però negli ultimi tempi con la partecipazione degli italiani alle campagne stagionali e anche con la diffusione degli orti per l'autoconsumo. Forte la presenza delle posizioni plurime anche negli alberghi e nei ristoranti, nei servizi domestici, e tra i padroncini dei trasporti e i nuovi lavori delle comunicazioni. Ma attenzione, precisano all'Istat: questi sono i settori dove si svolge il secondo lavoro, niente ci dicono sulla provenienza del lavoratore 'bioccupato' (per usare il termine coniato dal sociologo Luciano Gallino, che tempo fa mise sotto la lente il fenomeno): il quale può venire da tutti i settori, pubblici e privati. "In molti casi il secondo lavoro avviene solo un po' più in là, in un'altra azienda dello stesso comparto, in altri no", commenta Gallino. "E comunque, dai tempi di quelle antiche ricerche a oggi, una cosa è certa: il secondo lavoro continua a prosperare". Ma altri indizi dai dati dell'Istat ci dicono qualcosa di più. Nei complicati calcoli sulla produzione e il lavoro effettivi (comprensivi dunque di tutto il sommerso) l'Istat ha calcolato anche un forte aumento delle ore lavorate nella seconda attività: passate dal 5,6 al 6,9 per cento del monte ore lavorato complessivo in quindici anni. Non solo. Negli ultimi mesi, pare che ci sia stata una vera e propria corsa al secondo lavoro. Passando dalle stime aggregate dei contabili nazionali alle risposte date dal campione sul quale l'Istat fa la sua Indagine trimestrale sulle Forze di lavoro, si possono tirare fuori numeri interessanti: dal 2005 a oggi, la percentuale di coloro che dichiarano di svolgere una seconda attività cresce costantemente. In tre anni, si calcola un aumento del 39 per cento.
ECONOMIA CRIMINALE. La seconda area di evasione è quella dell’economia criminale realizzata dalle grandi organizzazioni mafiose che, in almeno tre regioni del Mezzogiorno, controllano buona parte del territorio. Il giro di affari della criminalità è di 120 miliardi di euro all’anno con un’imposta evasa di 40 miliardi di euro.
ECONOMIA PICCOLE SOCIETA’. La terza area è quella composta dalle società di capitali, escluso le grandi imprese: secondo i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze, il 78% circa delle società di capitali italiane dichiara redditi negativi (52%) o meno di 10 mila euro (26%). In pratica su un totale di circa 800 mila società di capitali il 78% non versa quanto dovuto di imposte dirette. Si stima un’evasione fiscale attorno ai 15 miliardi di euro l’anno.
ECONOMIA GRANDI SOCIETA’. La quarta area è quella composta delle big company. Una su tre chiude il bilancio in perdita e non paga le tasse. Inoltre il 92% delle big company abusano del «transfer pricing» per spostare costi e ricavi tra le società del gruppo trasferendo fittiziamente la tassazione nei Paesi dove di fatto non vi sono controlli fiscali sottraendo al fisco italiano 27 miliardi di euro.
ECONOMIA LAVORO AUTONOMO E PICCOLE IMPRESE. Infine c’è l’evasione dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese dovuta alla mancata emissione di scontrini, di ricevute e di fatture fiscali che sottrae all’erario circa 8 miliardi di euro l’anno.
Un altro studio evidenzia l’evasione fiscale per categoria. Ecco di seguito la classifica degli evasori fiscali, in base all'esperienza degli intervistati dall'Eures.
Insegnanti privati, architetti, negozianti di piastrelle e materiali edili. Sono queste le professioni al top dell'evasione fiscale nelle tre categorie di servizi, professionisti e commercianti.
Gli insegnanti evadono sulle ripetizioni private, mentre imbianchini e idraulici, elettricisti e falegnami non rilasciano ricevuta per i loro interventi nelle case.
Ma tra i super-evasori ci sono anche professionisti come gli avvocati e gli psicologi, gli architetti e i dentisti, i veterinari e i notai.
E le famiglie. Anche loro nel calderone. Affitti, i conti dell'evasione: 500mila contratti in nero.
Una metropoli in cui vivono un milione e 200mila persone, tutte in affitto esentasse. Anzi, intere Regioni: l'evasione fiscale sugli affitti è tale che corrisponde alle case locate in tutto il Triveneto, o se preferite in Campania, oppure nelle Marche e nel Lazio messi insieme. Mezzo milione di appartamenti, oltre il 15% dell'intero stock delle case affittate da privati, sfugge completamente al Fisco. Sono 2,8 milioni gli affitti regolarmente registrati e dichiarati da persone fisiche nel 730 o in Unico, cui si sommano 122mila immobili affittati da società o imprese e circa 850mila case di proprietà di Stato ed enti pubblici vari. In totale 3,8 milioni di unità immobiliari locate "in chiaro". Peccato che le famiglie in affitto siano 4,3 milioni: mezzo milione di abitazioni sono quindi locate con una stretta di mano e tanti saluti al Fisco, che ci perde almeno un miliardo all'anno. Il 3% delle entrate fiscali totali derivanti da immobili. E senza considerare i finti comodati, le locazioni estive e gli stranieri irregolari.
E questo è solo il dato più eclatante nel libro immobiliare dell'Italia, un'Italia di prime case e di immobili nascosti. Che emerge dai dati diffusi dall'agenzia del Territorio, in collaborazione con Sogei e dipartimento delle Finanze. Si tratta del primo tentativo ufficiale di mappatura completa del patrimonio immobiliare italiano. Il primo in cui le banche dati catastali e quelle sulle dichiarazioni dei redditi siano state incrociate, facendo emergere alcune certezze e parecchie incertezze.
Il nodo dei non dichiarati. I 55 milioni di fabbricati censiti (non dimentichiamo che ce ne sono altri due milioni di case fantasma) sono stati analizzati sotto il profilo dell'utilizzo, in base a quanto dichiarato da 19 milioni di contribuenti nei quadri B ed RB dei modelli 730 e Unico. I 31 milioni di abitazioni sono quindi risultati essere, per quasi la metà (14.596.735) abitazioni principali, mentre 4,14 milioni sono case tenute a disposizione e solo 2,8 milioni risultano locate. Per 732mila l'utilizzo non è stato ricostruito e ben 2,89 milioni di abitazioni regolarmente censite non sono state riscontrate in dichiarazione. E fin qui stiamo parlando di abitazioni di proprietà di persone fisiche. Ma considerando i dati complessivi, cioè i 55 milioni di fabbricati totali, le unità non riscontrate in dichiarazione sono ben 6,02 milioni, il 10,9% del totale.
Come si spiega questa massa di mattoni conosciuti al Catasto, ma non all'agenzia delle Entrate? In parte con la presenza di molti contribuenti "sotto soglia", che cioè incassano solo il proprio stipendio e sono proprietari della casa d'abitazione o poco più, che quindi non risultano (legittimamente) nella dichiarazione. In parte sono immobili strumentali di imprese o immobili di enti pubblici che (sempre legittimamente) non li devono dichiarare. Ma nel resto si annida altra evasione, ancora non quantificabile.
Le azioni di contrasto. Resta da chiedersi come arginare il malcostume. Mentre le associazioni di proprietari chiedono la cedolare secca, cioè un'aliquota fissa con cui tassare i proventi delle locazioni, la Guardia di Finanza si impegna sul territorio.
All'Aquila, racconta il
comandante provinciale Leonardo Matera, sono stati inviati speciali questionari
ai neolaureati residenti fuori città e fuori regione. E nel 25% dei casi si è
scoperto che gli studenti avevano abitato "in nero", spesso in cambio di uno
sconto sul canone. Anche a Siena si lavora sulle case per studenti, ma qui la
GdF segue un'altra via: controlli incrociati tra le banche dati (anagrafe
tributaria, Catasto, utenze domestiche, tassa rifiuti) seguiti da sopralluoghi
porta a porta. Ma non solo. Altro fronte delicato, spiega il colonnello Giovanni
Padula, sono i falsi prestiti: «Il contratto di comodato registrato è un indice
di grande rischio. Il più delle volte gli accertamenti bancari evidenziano
entrate che il proprietario non è in grado di giustificare».
A Bologna la GdF collabora con Comune e Università, ma gli ultimi controlli
hanno evidenziato anche altro: «Abbiamo individuato un patrimonio - commenta il
comandante provinciale Piero Burla - costituito anche da uffici e capannoni,
spesso affittati a extracomunitari e registrati dichiarando l'importo di un mese
anziché di un anno». E sugli affitti agli stranieri si è concentrata anche la
Gdf di Roma, come dice Massimiliano Mora, comandante del I Gruppo di Roma:
risalendo agli alloggi in cui vivono gli extracomunitari coinvolti in altre
indagini si è scoperto un tasso di affitti in nero del 90%, con canoni da 4mila
a 6mila euro per appartamento.
I dati di partenza. L'elaborazione del Sole 24 Ore è partita dai dati presentati dall'agenzia del Territorio, fra cui quelli relativi alle dichiarazioni dei redditi, cui sono stati aggiunti i dati sul Trentino Alto Adige, che il Territorio non aveva considerato.
Il confronto. Le abitazioni locate con contratto regolare (libero mercato, patti in deroga e convenzionati) da persone fisiche sono state confrontate con il numero di famiglie in affitto in base ai dati Istat. Considerando anche le famiglie alloggiate in case locate da imprese o enti pubblici (che si presumono regolarmente dichiarate), all'appello ne mancano 507mila, ed è ragionevole presumere che a ogni famiglia corrisponda un'abitazione.
Insomma, sono davvero molti i mestieri in cui compaiono gli artisti dell'evasione.
Nonostante i numeri, per pagare c’è sempre tempo, soprattutto se a batter cassa è lo Stato. Il quale insegue spesso invano i cittadini debitori, con ammende, multe, bollette e canoni scaduti che si accumulano e rischiano di finire nel dimenticatoio. Se l’assenteismo nella Pubblica Amministrazione costa quasi un punto annuo di PIL, i mancati incassi pesano ben di più. I dati sono sconfortanti: lo Stato incassa appena il 3-7 per cento delle spese di giustizia e delle pene pecuniarie inflitte ai cittadini condannati; si arriva a un modesto 10 per cento dei tributi iscritti a ruolo da Equitalia per Agenzia delle entrate, Dogane, Inps e Inail.
E ci sono 606 grandi morosi, con debiti di oltre mezzo miliardo di euro ciascuno, che frappongono ogni cavillo per evitare le incursioni dell’unità speciale creata per loro.
Ancora: 6,4 milioni di famiglie non pagano il canone Rai (una su quattro), equiparato a una tassa, con una perdita secca di oltre 550 milioni annui.
La lista è infinita. Con code tragicomiche persino su casa e acqua. In Puglia un popolo di clandestini fa sparire ogni anno 71 milioni di metri cubi d’acqua (tra contatori obsoleti e abusivi), mentre i morosi devono importi per bollette non pagate per 268 milioni. In altre regioni non cambia granché: in Sicilia ci sono acquedotti che vantano crediti dagli utenti per 200 milioni di euro.
L’odiata Ici: prima della cancellazione i comuni si dannavano nel recupero spiando gli italiani persino con l’ortofotogrammetria, cioè con fotografie aeree a rilievo matematico: in Liguria, così, sono spuntate ville censite come ruderi, nel Sud sono apparsi accatastati come campeggi. In tutto sfuggivano 2 milioni di case fantasma con un’evasione stimata intorno a 1,4 miliardi di euro.
Le cause sono diverse. Anzitutto c’è il mancato dialogo fra le banche dati delle varie amministrazioni a rendere lenti e faticosi gli accertamenti e a lasciare sfuocata l’identità dei responsabili. La scarsa riscossione, inoltre, sviluppa interessi, clientele, rapporti grigi tra politici, amministrazioni e territorio. Anche perché spesso a non pagare sono proprio gli enti pubblici. Per oltre il 50 per cento i debitori dell’Acquedotto Pugliese sono comuni e consorzi.
I grandi numeri arrivano dalle cartelle esattoriali della Equitalia.
Resta ancora il 90 per cento da incassare.
Un caso a parte sono i crediti di giustizia, per i quali l’Amministrazione fa sforzi enormi per ribaltare la situazione. Si è scoperto che del mezzo miliardo di euro da recuperare in un anno, lo Stato aveva incassato appena 12,6 milioni ovvero un misero 2,5 per cento.
Il tesoretto non incassato lievita di circa mezzo miliardo ogni anno. Con un residuo, comprensivo di multe amministrative, schizzato oltre i 4,4 miliardi. Questa somma rischia di rimanere virtuale perché diversi crediti diventano poi inesigibili in quanto cadono in prescrizione o sono imputati a persone irreperibili, a immigrati clandestini o senza domicilio certo.
Infine il canone Rai: lo Stato non lo dice ma su questo fronte ha di fatto rinunciato alla battaglia. È di oltre 6,5 milioni lo scarto tra le famiglie censite dall’Istat e quelle abbonate.
Qualche sforzo in più viene compiuto nelle indagini penali per truffa, falso ideologico e falso nell’autocertificazione, una prassi necessaria per ottenere agevolazioni come l’esonero dal pagamento del ticket sanitario, per ottenere l’assegno per famiglie numerose, per avere l’assegno di maternità, sino all’ottenimento dell’alloggio popolare. Ma i controlli vengono spesso vanificati dai tempi della giustizia e dalle prescrizioni. Le inchieste coinvolgono decine (se non centinaia) di cittadini per volta. Gli stessi cittadini che chiamano ladri gli altri !!
Ma anche lo Stato evade i tributi. Non pagano la tassa rifiuti da anni, a volte non concedono nemmeno risposte a richieste di saldi. Tutti morosi. Dai ministeri, alla polizia, alla Fao, alla Procura, fino alla Sovrintendenza dei Beni Ambientali: le grandi istituzioni a Roma «evadono» l’imposta sull’immondizia, alcune da quando è nata la tassa. Hanno un maxi debito con l’Ama, la Spa dei rifiuti del Campidoglio, per quasi 46 milioni di euro. Con questi soldi l’azienda che si occupa di raccolta e spazzatura nella prima città italiana potrebbe acquistare 250 compattatori o assumere 1.500 spazzini. In totale a Roma non si paga la tassa Tari, tra aziende grandi e piccole, per 700 milioni di euro. Le grandi istituzioni contribuiscono per quasi l’8% a questo debito stellare che, se saldato, potrebbe trasformare il servizio di raccolta nella Capitale. Venticinque enti hanno arretrati per più di 500mila euro.
Non versare la tassa sulla spazzatura è una consuetudine che a Roma sembra piuttosto diffusa nei palazzi dello Stato, una pratica che negli anni ha creato situazioni paradossali: fino a poco tempo fa era morosa persino l’Agenzia delle Entrate. L’ufficio che riscuote le tasse dei cittadini non pagava la tassa sull’immondizia per 3 milioni 200mila euro. Recentemente ha estinto il debito.
La lista nera di chi ignora la Tari parte con la Fao: l’agenzia delle Nazioni Unite, che ha una morosità di 5 milioni 337mila milioni di euro. Record. In genere si tratta di debiti accumulati nel corso dell’ultimo quinquennio: alcuni enti hanno mostrato spiragli di dialogo per un prossimo pagamento, altri, come l’organizzazione dell’Onu, non offrono segnali di trattativa.
Non si salva dall’evasione la giustizia, di nessun grado, non si salvano i Ministeri, tutti. Procura generale, Appello e Cassazione: nessuno paga la tassa rifiuti. La Suprema Corte ha un debito di 281mila euro, la Corte d’Appello di 805mila euro, la Procura di 139mila.
Non versano la Tari il Comando Generale dei Carabinieri del Lazio, la Guardia di Finanza, con la sua Scuola di Polizia Tributaria. Tra i palazzi governativi, è morosa anche la Presidenza del Consiglio: pagamenti scaduti per 158mila euro. La Camera dei Deputati deve più di 243mila euro secondo i dati dell’Ama, anche se a Montecitorio assicurano di aver saldato il dovuto per la spazzatura. Nell’elenco dei morosi ci sono poi la Motorizzazione, la Marina, la Pontificia Università Gregoriana. La Sovrintendenza dei Beni Ambientali, dove la cura della pulizia cittadina dovrebbe essere una priorità, ha un’inadempienza di 217.293 euro.
Dall’elenco si scopre che «evade» la tassa sull’immondizia anche il Ministero delle Finanze: gli arretrati superano i 2 milioni e 200mila euro per differenti immobili, anche se il dicastero è al momento «in trattativa». Risultano evasioni a parte per il Ministero del Tesoro, Ragioneria Generale: più di 383mila euro.
L’Ama ha ricevuto generiche garanzie di pagamento (meglio del silenzio di altri) dalla Farnesina, che ha una morosità superiore al milione e 700mila euro, e dal Ministero della Difesa, dove non si versa la tassa per quasi 2 milioni di euro. I debiti più alti tra i Ministeri vanno al Viminale, Dipartimento di Pubblica sicurezza (quasi 2 milioni e mezzo) e al dicastero delle Comunicazioni (più di 3 milioni).
Nel corso degli anni alcuni Ministeri hanno cambiato nome, si sono accorpati o spacchettati, ma senza perdere la morosità. Come il Ministero dei Beni Culturali, che oltre a debiti più recenti intorno ai 350mila euro, ne ha per altri 155mila di quando deteneva anche le competenze ambientali. Ma non pagava la tassa sui rifiuti.
L’evasione colpisce anche il volontariato. Entri in un locale, ha tutta l'aria di un normalissimo pub, e ti portano una tesserina da riempire coi tuoi dati. Una firmetta et voilà: ne sei diventato socio e nemmeno te ne accorgi, perché bevi e mangi spendendo più o meno lo stesso degli altri locali in zona. Ma ad accorgersene è il proprietario, che sui tuoi soldi non paga le tasse perché in realtà ha travestito il suo pub da Onlus, ossia Organizzazione non lucrativa di utilità sociale. È solo un esempio, come ce ne sono tanti, di associazioni che fanno da paravento ad attività assolutamente profit, spaziando da palestre a prezzi vantaggiosi mimetizzate come circoli sportivi; a cinema che si presentano come centri culturali o circoli ricreativi per persone sole, anziani o stranieri che lucrano sul bar. Altri mascherano l'assistenza prezzolata alla terza età, le agenzie matrimoniali e persino case d'appuntamenti.
Insomma, benvenuti nel lato oscuro del Terzo Settore, un sottobosco dove le eccezioni viziose abbondano. Vere truffe ai danni dello Stato o ai danni degli ignari cittadini, che fanno loro donazioni. Oppure organizzazioni che l'etichetta Onlus la sfruttano semplicemente a fini elusivi. Perché il riconoscimento permette di godere di notevoli agevolazioni fiscali: una concessione che premia le tante associazioni sane, punto di forza del volontariato nel nostro Paese. Le Onlus infatti non pagano l'imposta sul reddito, perché i proventi non sono soggetti all'Ires. Poi ci sono molte operazioni senza Iva e l'esenzione da altre tasse, minori ma ugualmente onerose. Insomma, un bouquet di vantaggi per sostenere chi ha un reale impegno sociale. Ma che diventa un'occasione prelibata per i malintenzionati. Un ristorantino travestito da Onlus può battere sul prezzo qualunque concorrente in regola, oppure (a listino invariato) far più profitti. Per non parlare, infine, del 5 per mille cui queste associazioni hanno titolo, e c'è il rischio che finiscano per attingervi, nonostante i controlli. Aggiungendo al danno la beffa.
Ma quello delle Onlus che nascondono un'attività puramente commerciale è solamente una delle tipologie fraudolente. Altre truffe, grandi e piccole, vengono ordite attraverso la raccolta di donazioni, che è più informale e lascia meno tracce, da parte di finti enti solidaristici.
PARLIAMO DI TASSE NON RISCOSSE.
«Guardi che sono problemi che risalgono a ben prima del mio Governo»: esordisce così, il premier Romano Prodi, incalzato da Moreno Morello, inviato di “Striscia la Notizia”, che gli chiede ragguagli sugli ormai famosi 98 miliardi di euro.
Di quel tesoro, insomma, che - secondo i calcoli della Corte dei Conti - le società concessionarie delle slot-machine, tra tasse non riscosse e multe non pagate, dovrebbero allo Stato.
Così l’inchiesta del Secolo XIX arriva sino all’inquilino di Palazzo Chigi: dopo mesi di insistenze, dopo che anche il blog di Beppe Grillo aveva sposato la causa del giornale, “Striscia” ha deciso di andare fino in fondo.
Determinanti sono state soprattutto le migliaia di e-mail che i lettori del Secolo XIX e i frequentatori del blog di Grillo hanno mandato all’inquilino di Palazzo Chigi; lo ammette lo stesso Prodi: «Ho ricevuto un sacco di e-mail su questo problema».
Certo, la risposta di Prodi arriva dopo molte insistenze. E, come hanno mostrato le immagini di “Striscia”, non è stata esattamente spontanea: Moreno Morello, tipico smoking bianco ed espressione vagamente beffarda, si è prima appostato per giorni davanti a Palazzo Chigi, inseguendo il premier, che filava via a bordo della sua Lancia Thesis.
PARLIAMO DI BALZELLI NON DOVUTI.
Le compagnie fornitrici (telefoniche, del gas, dell'acqua e via dicendo) pretendono il pagamento delle spese di spedizione della bolletta. Ma non è vietato?
Pretendere il pagamento delle spese di spedizione delle bollette è assolutamente vietato dall'art. 21 comma 8 del DPR del 26 ottobre 1972 n. 633; quindi tutti gli utenti che hanno pagato tali imposte, possono richiederne il risarcimento delle spese sostenute negli ultimi 10 anni.
La Telecom Italia SpA, è già stata sottoposta a giudizio dal Giudice di Pace di Bologna, con sentenza del 21 febbraio 2003.
PARLIAMO DI PARLAMENTARI BARBONI O EVASORI.
Il mistero delle dichiarazioni dei redditi dei nostri Parlamentari. Alcuni sono vicini allo zero, altri sono da fame. E allora viene un dubbio...
Piangono gli imprenditori, piccoli medi e grandi. Nessuno li aiuta, nessuno li incoraggia, nessuno provvede a rilanciare l'economia con incentivi adeguati. Piangono i cinesi perché obbligati a sottostare a regole, che non conoscono o conoscono approssimativamente. Piangono i commercianti schiacciati dalla macrodistribuzione. Piangono i benzinai liberalizzati e incazzati. Piangono i patrioti perché temono di perdere aziende su cui sventola il tricolore. Piangono tassisti, farmacisti, commercialisti, avvocati. Ma il quadro più struggente dell'indigenza nazionale ci viene fornito dall'elenco dei redditi denunciati dai parlamentari, 630 deputati e 315 senatori (esclusi quelli a vita che annegano nelle pensioni da pascià). Scorri la lista e sei colto da profonda malinconia. Eccetto alcuni signoroni che fan rima con Berlusconi, tutti gli altri son barboni. Mamma mia che desolazione. C'è gente che ha denunciato zero euro all'anno, gente che prima di essere eletta non possedeva nulla e ci si chiede come abbia potuto sopravvivere fino all'ingresso nel Palazzo.
A giudicare dalla media delle cifre dichiarate dai nostri rappresentanti politici, siamo di fronte a una categoria di sfigati che non si capisce come abbia sostenuto le spese folli della campagna elettorale. La maggioranza dei candidati al seggio sarà stata costretta a dedicarsi alla questua per saldare le fatture dei manifesti, dei santini, dei comizi eccetera.
PARLIAMO DI PENSIONI DI INVALIDITA’.
L’Inps ha revocato il 13% delle pensioni d’invalidità e delle indennità di accompagnamento, con punte di quasi il 22% in Sardegna e Sicilia, del 19% in Calabria e del 15,5% in Campania e Puglia. Le prestazioni sono state annullate per il venir meno o per l’insussistenza dell’invalidità, accertata in seguito a una visita effettuata dai medici dell’Inps. Si tratta, dice il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua, di «una campagna senza precedenti».
Come prevede l’articolo 80 della legge 133 del 2008, tutti e 200 mila i controlli previsti saranno conclusi, assicura il presidente. E si può stimare che, con una percentuale di revoche del 12-13%, si potranno risparmiare più di 100 milioni di euro all’anno. Le pensioni d’invalidità sono in tutto 2,6 milioni, per una spesa totale di circa 13 miliardi di euro. Se tutte fossero sottoposte a verifica, e pur scontando una percentuale complessiva di revoche inferiore (visto che il campione sottoposto a controlli e stato selezionato tra le situazioni più a rischio), si potrebbe tranquillamente arrivare a un risparmio di almeno un miliardo di euro all’anno, dicono i tecnici dell’Inps.
Anche alla luce dell’esperienza in corso, annuncia Mastrapasqua, l’Inps presenterà al governo una serie di proposte per migliorare la situazione. «A partire dal contenzioso: oggi ci sono più di 400 mila cause pendenti tra cittadini che rivendicano la pensione d’invalidità e l’amministrazione. E nella maggioranza dei casi noi perdiamo per semplice inefficienza. Per esempio, perché i fascicoli presso le Asl sono ancora cartacei e spesso non si trovano più o perché l’ente in questione non si presenta durante la causa».
PARLIAMO DI DIRITTI D’AUTORE.
Non tutti sanno che, in tema di intrattenimento musicale, le direttive dell’Unione Europea e la legge sul diritto d’autore (vedi gli articoli 72, 73 e 73 bis, Legge n. 633/1941) riconoscono e tutelano sia i diritti degli autori, che compongono i brani (gestiti dalla Società Italiana Autori ed Editori), sia i diritti dei discografici, che realizzano le registrazioni musicali (gestiti in maggior parte dalla Società Consortile Fonografici).
Il consorzio SCF è oggi composto da case discografiche major e indipendenti ed attualmente tutela i diritti discografici di oltre 280 imprese, rappresentative di larga parte del repertorio discografico nazionale e internazionale pubblicato in Italia.
Ciò significa, che per sentire un brano musicale registrato, in qualunque modo e forma, è necessario riconoscere anche un compenso al SCF, diritto autonomo rispetto a quanto dovuto alla SIAE.
Ciò, per entrambi, avviene comunemente nei seguenti contesti:
trasmissioni radiofoniche e televisive;
trasmissioni via satellite;
attività che utilizzano musica a scopo di lucro (es. discoteche, sfilate di moda, corsi di fitness);
attività per le quali la musica in diffusione di sottofondo costituisce un elemento di valore aggiunto al business (es. bar, ristoranti, alberghi, esercizi commerciali, studi od esercizi professionali, oratori parrocchiali, circoli privati, feste patronali, ecc).
Il compenso è dovuto anche nel caso in cui la diffusione dell’opera avvenga senza fine di lucro (in auto o in casa).
Ai sensi della legge sul diritto d’autore, non pagare i diritti alla SIAE o alla SCF comporta l’applicazione della sanzione penale, oltre che amministrativa.
Per la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 00626/2007 resa l'8 giugno 2007 dalla terza sezione penale, la diffusione di musica registrata senza aver versato i diritti connessi alle imprese discografiche per la riproduzione dei brani musicali, in questo caso rappresentate da SCF, Società Consortile Fonografici, viola la legge sul diritto d’autore e assume rilevanza penale.
Solo che il Conna, ente rappresentativo degli interessi di molte emittenti radiotelevisive, disconosce tale sentenza rilevando che l'articolo 180 della legge 633 del 22 aprile del 1941 dice che l'attività di intermediario è riservata in via esclusiva alla Siae e al punto 3 aggiunge che essa curerà la "ripartizione dei proventi medesimi fra gli aventi diritto".
Un brutto colpo per i cittadini italiani, che dell’intrattenimento musicale, fanno il loro stile di vita, salvo far finta di niente, fino a quando non si presenta qualcuno alla porta, che ce lo ricordi.