Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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LA SARDEGNA
DI ANTONIO GIANGRANDE
TUTTO SULLA SARDEGNA E LE SUE CITTA'
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I SARDI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che i Sardi non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Sardi non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
I SARDI NON SONO ITALIANI?
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
FATTI UN AMICO SARDO, CONTRO GLI STEREOTIPI.
OMICIDI DI STATO. LA MORTE DI GIUSEPPE CASU.
SARDEGNA. 18 NOVEMBRE 2013. LA GRANDE TRAGEDIA.
VIOLENZA SESSUALE. ESSERE SARDI E’ UN’ATTENUANTE.
FONDI A SCROCCO. I CONSIGLIERI REGIONALI SARDI? COME GLI ALTRI!
GIGI RIVA E MASSIMO CELLINO. IL CALCIO A CAGLIARI? NO A BUONCAMMINO!
TUTTO SU CAGLIARI
LA PAROLA A MASSIMO CELLINO.
ARRESTATI IL PRESIDENTE DEL CAGLIARI, CELLINO ED IL SINDACO DI QUARTU
TRA MASSONERIA, POLITICA E NEPOTISMO.
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA. ALDO SCARDELLA.
IL CASO DEL MAGISTRATO SUICIDA.
I VELENI DIMENTICATI DEL PALAZZACCIO SARDO.
TANGENTOPOLI SARDA
CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI
TUTTO SU CARBONIA IGLESIAS
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI CANILI UMANI.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO.
TUTTO SU NUORO
DICI SARDEGNA: DICI GRAZIANO MESINA.
INGIUSTIZIOPOLI. ANDREA DESSENA.
INGIUSTIZIOPOLI. MELCHIORRE CONTENA.
TUTTO SU OGLIASTRA
INQUINAMENTO
TUTTO SU OLBIA E TEMPIO PAUSANIA
TUTTO SU OLBIA.
TUTTO SU TEMPIO PAUSANIA.
TUTTO SU ORISTANO
ISTITUZIONI INFEDELI.
TUTTO SU SASSARI
CONCORSI TRUCCATI.
IL POTERE DEGLI AVVOCATI.
SASSARI. FATTI E FATTACCI.
ECCO SASSARI MASSONA, LA CITTA' DEI PRESIDENTI E DELLE GRANDI FAMIGLIE.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
PARLIAMO DELLA SARDEGNA.
Doddore Meloni muore come Bobby Sands: di fame, scrive Damiano Aliprandi il 6 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’indipendentista sardo,74 anni, era in carcere dallo scorso 28 aprile per obiezione fiscale, da due mesi aveva smesso di nutrirsi. Si dichiarava «detenuto politico». È morto Doddore Meloni, dopo quasi due mesi di sciopero della fame intrapreso durante la sua detenzione. A fine giugno era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale Santissima Trinità di Cagliari. Le condizioni sempre più gravi, il diffuso stato soporoso e la lentezza generalizzata del paziente hanno spinto il coordinatore sanitario della Casa circondariale di Cagliari - Uta Antonio Piras a trasferire Meloni in ospedale. Il suo legale aveva messo in guardia le istituzioni che Meloni rischiava di morire. Francesca Meloni, la figlia di Doddore, si era incatenata sulle scale del Palazzo di Giustizia di Cagliari, per chiedere che al padre vengano riconosciuti gli arresti domiciliari. Accompagnata da Cristina Puddu, l’avvocato difensore di Doddore, Francesca si era incatenata alla ringhiera d’ingresso del tribunale, imbavagliata, mentre altri attivisti avevano avviato una raccolta di firme per solidarietà. Il legale aveva fatto istanza al tribunale di sorveglianza per chiedere i domiciliari, ma in seguito il magistrato la respinse. Poi si è aggravato sempre di più tanto da essere trasferito in ospedale: ma era troppo tardi e dopo due giorni di coma è morto. Meloni era l’ultimo degli indipendentisti sardi. Era stato arrestato il 28 aprile scorso autodichiarandosi subito “detenuto politico belligerante ai sensi dei trattati internazionali sui diritti umani ratificati anche dallo Stato italiano”. L’indipendentista sardo era un uomo di 74 anni controverso, visionario, protagonista di clamorose proteste e azioni. Si era dichiarato innocente per l’ultimo arresto per reati di natura fiscale. Si era sentito vittima di un accanimento giudiziario. L’indipendentista sardo, prima di essere fermato dai carabinieri, aveva detto: «Sono condanne ingiuste frutto della persecuzione giudiziaria scatenata nei miei confronti nel 2008, all’indomani della proclamazione della Repubblica indipendente di Malu Entu, per impedirmi di continuare a lottare per l’indipendenza di tutta la Sardegna». Doddore ha condotto una vita sempre in bilico che persegue un’idea politica propriamente sovversiva. Nato a Ittiri (Sassari), ma residente a Terralba (Oristano), autotrasportatore di professione con la passione politica dell’indipendentismo, Doddore è un personaggio molto noto in Sardegna, non solo perché anni fa, con un centinaio di militanti indipendentisti aderenti al Partito Indipendentista Sardo (Paris), ha occupato l’isola di Mal di Ventre, autoproclamandosi presidente della Repubblica di Malu Entu (il nome sardo di Mal di Ventre). Il suo nome balzò alle cronache per la prima volta più di 30 anni fa, per un presunto golpe separatista che costò a Meloni nove anni di carcere. Allora militava nel Partito sardo d’Azione, ed era stato accusato di aver compiuto un attentato alla sede di Cagliari della Tirrenia dopo che in casa gli avevano trovato dell’esplosivo. Con lui finì in carcere un noto indipendentista sardo, il professor Bainzu Piliu, considerato “la mente” del presunto complotto separatista per staccare la Sardegna dallo Stato italiano e altre 13 persone, tra cui un libico che, secondo l’accusa, aveva preso contatti con i separatisti sardi in Sicilia. E qui entra in scena perfino Gheddafi. Meloni raccontò che il colonnello libico addestrava i “patrioti sardì” nei campi paramilitari nel deserto africano, preparandoli all’ora x che sarebbe dovuta scattare una notte di Natale, con l’occupazione di una caserma militare e il blocco delle strade dell’Isola. Una rivoluzione in piena regola con proclama annunciato alla radio, raccontava Doddore. Dopo un lungo periodo di silenzio, una volta uscito dal carcere, Meloni era poi tornato alla carica con l’occupazione dell’isola di Mal di Ventre, dove aveva costituito un governo con tanto di invio al segretario generale delle Nazioni Unite della richiesta di ammissione della Repubblica di Malu Entu all’Onu. Viene creata la bandiera – rosso e blu in bande orizzontali con al centro sei figure che rappresentano la cultura sarda e la scritta Repubblica Malu Entu – e la moneta locale. Da allora Meloni è tornato spesso all’onore delle cronache con decine di iniziative (occupazioni, sciopero della fame davanti alla Regione Sardegna) anche contro Equitalia, e promuovendo, nel passato, anche un referendum sull’indipendenza della Sardegna. Meloni credeva nella sua lotta politica. Non a caso si era portato in cella la biografia di Bobby Sands, l’indipendentista irlandese di 27 anni che nel 1981 si è lasciato morire in carcere di fame e di sete. Doddore Meloni aveva annunciato l’intenzione di fare lo stesso. Infatti, non ha più mangiato, e per molto tempo non aveva bevuto. Alla fine gli è toccata l’amara e tragica sorte del suo punto di riferimento politico.
…DI CAGLIARI. "Non sequestrò la Licheri", Pietro Paolo Melis libero dopo 18 anni. L'uomo, condannato a 30 anni perché ritenuto la mente del rapimento nel '95 dell'imprenditrice, mai più tornata a casa, è stato assolto per non avere commesso il fatto. Si è sempre dichiarato innocente: "Il giorno più bello della mia vita", scrive Cristina Nadotti il 15 luglio 2016 su “La Repubblica”. Vanna Licheri, sequestrata in Sardegna nel '95 e mai tornata. Dopo 18 anni di carcere ritorna a casa, a Mamoiada, Pietro Paolo Melis, condannato a 30 anni per il sequestro e l'omicidio di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 vicino ad Abbasanta, nel centro Sardegna. È stata la Corte d'Appello di Perugia, che ha riaperto il processo nel marzo 2014, a stabilire l'immediata scarcerazione di Melis, indicato come la mente di uno degli ultimi sequestri della stagione dell'Anonima sarda, e ora assolto per non avere commesso il fatto. Melis era stato condannato sulla base di intercettazioni telefoniche nelle quali avrebbe discusso con Giovanni Gaddone, condannato a 30 anni per il sequestro della Licheri e ad altri 30 per quello dell'imprenditore romano Ferruccio Checchi, i particolari organizzativi per la prigionia dell'imprenditrice di Abbasanta, rapita e mai più tornata a casa. I nuovi software usati per analizzare le registrazioni hanno stabilito che a parlare con Gaddone, che si è sempre dichiarato soltanto un "emissario" dei sequestri, non era Melis, che in tutti questi anni si è sempre dichiarato innocente. Nel corso del processo d'appello del 1998, Melis scoppiò in lacrime in aula, professandosi incapace di compiere un crimine così efferato, anche perché, sosteneva, la sua famiglia era stata vittima di un sequestro. Fondamentale per stabilire l'innocenza di Melis, la perizia sulla sua voce e sul suo accento, che secondo i suoi legali non rispondeva a quello di un sardo di Mamoiada. E nel paese di Melis non appena si è diffusa la notizia dell'immediata scarcerazione una folla si è radunata intorno alla casa dove vive la madre 74enne dell'ex detenuto. "È il giorno più bello della mia vita", ha detto appena arrivato in paese dopo essere stato liberato dal non lontano carcere di Badu 'e Carros, a Nuoro. Il caso di Melis riporta alla cronaca uno dei periodi più drammatici della storia dei rapimenti in Sardegna. Il 14 maggio del 1995 un commando formato da quattro uomini armati e mascherati sequestra, nelle campagne vicino ad Abbasanta, Giovanna Maria Licheri, da tutti conosciuta semplicemente come Vanna, sposata con un pensionato e madre di quattro figli, mentre era a mungere il bestiame di prima mattina nell'azienda agro-zootecnica di famiglia. Il sequestro fa scalpore anche perché avviene a pochi chilometri di distanza dal centro di addestramento di Abbasanta, un distaccamento supermoderno e dotato di sofisticate apparecchiature di pronto intervento nel quale vengono preparati ad agire gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie antisequestri. Proprio da qui, spesso, partono i rastrellamenti e le battute sul Supramonte contro i rapitori. Nei mesi successivi al sequestro della donna le forze dell'ordine mettono a segno alcuni colpi e in ottobre riescono a liberare l'imprenditore turistico romano Ferruccio Checchi, sequestrato 4 giorni dopo la Licheri e Giuseppe Vinci, che era stato rapito un anno prima. Ma Vanna Licheri non torna mai a casa e durante il processo del 1997 si svelano i particolari delle lettere che i sequestratori le facevano scrivere per fare pressioni sulla famiglia, l'ultima delle quali cominciava con "Vi prego, fate presto". I Licheri cercarono di mettere insieme i soldi per un riscatto, ma la trattativa venne ostacolata dalla legge che prevede il blocco dei beni e impediva i contatti dei familiari con i banditi. Molti e numerosi gli interrogativi, i dubbi e i misteri sui motivi reali che, nonostante i cinquecento milioni messi insieme dalla famiglia in risposta all'ultima richiesta dei banditi, condussero i fuorilegge a non contattare l'emissario che aveva in consegna i soldi e a non rilasciare la donna. Nel corso degli anni nelle montagne del Supramonte e in altri luoghi sono stati trovati resti di cadaveri, ma la famiglia Licheri non ha mai avuto un corpo da seppellire.
Sequestro di Vanna Licheri: dopo 16 anni si riapre il processo. La decisione della Corte d’appello di Perugia riporta in aula Pietro Paolo Melis, condannato a 30 anni La famiglia della donna rapita è sotto choc: «Sono momenti difficili, abbiamo bisogno di riflettere», scrive Antioco Fois il 5 marzo 2014 su "La Nuova Sardegna". Se l’accento di due conversazioni può valere 30 anni di carcere lo deciderà la Corte d’appello di Perugia, che ha riaperto il processo a Pietro Paolo Melis, condannato per il sequestro di Vanna Licheri, rapita nel ’95 e mai tornata a casa. La chiave che, dopo 16 anni, potrebbe aprire la porta della cella del detenuto mamoiadino è una nuova consulenza fonica, che secondo gli avvocati Alessandro Ricci e Maria Antonietta Salis demolirebbe il pilastro portante della tesi accusatoria, che portò alla condanna di Melis. Alla luce di nuove tecnologie, le stesse in uso alle forze dell’ordine, i legali hanno fatto esaminare le due conversazioni che furono intercettate nell’auto dell’allevatore di Loculi, Giovanni Gaddone, nel corso delle indagini per il sequestro dell’imprenditrice agricola di Abbasanta. Nei dialoghi, rigorosamente in sardo, si affrontano questioni logistiche relative alla gestione del sequestro tra il proprietario del veicolo, poi condannato, e un altro uomo, indicato in Melis nel corso della lunga storia processuale. Adesso la consulenza di parte di Luciano Romito, docente dell’Università della Calabria, “stabilisce che l’inflessione dell’interlocutore di Gaddone non è tipica di Mamoiada, quindi non può essere del nostro assistito”, spiega l’avvocato Ricci. Dopo il rimpallo della corte d’appello di Roma e della Cassazione sull’istanza difensiva, i giudici di Perugia hanno accolto quindi l’istanza dei legali e riaperto una porzione di dibattimento, nel corso di un’udienza alla quale ha partecipato lo stesso Melis, ora detenuto nel carcere di Orvieto. L’agenda processuale adesso rimanda al 14 aprile, quando il collegio giudicante conferirà l’incarico a due periti, che saranno anche chiamati alla trascrizione dei dialoghi raccolti dalle microspie della polizia, come primo atto di un nuovo procedimento che non entrerà nel merito di tutta la vicenda, ma resterà nell’alveo delle intercettazioni e degli aspetti collegati, in base alle richieste delle parti. Dalla famiglia della vittima poche parole. «Abbiamo appena appreso la notizia – dice con voce tremante Paola Leone, figlia di Vanna Licheri – e abbiamo bisogno di riflettere». C’è da chiedersi se sia prevista la costituzione di parte civile, ora possibile nel nuovo capitolo processuale, ma per i congiunti della donna sequestrata si è riaperta una ferita. «Ora non sono in grado di una riflessione lucida. Sono momenti difficili, vanno affrontati con serenità», è il sofferto no comment della famiglia Licheri-Leone, rappresentata dall’avvocato Agostinangelo Marras. A giudicare sulle responsabilità dell’ex allevatore di Mamoiada, condannato a 30 anni dalla Corte d’assise d’appello di Cagliari, sarà il collegio di Perugia, presieduto da Giancarlo Massei, magistrato noto per essere stato il presidente della Corte d’assise che a dicembre del 2010 condannò in primo grado Amanda Knox e Raffaele Sollecito, rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, per l’omicidio di Meredith Kercher.
Assalto alla cronista che si “impiccia” nelle cose dei Pm. Blitz e perquisizioni nella sede della Nuova Sardegna. Proteste dei penalisti e dell’ordine dei giornalisti, scrive Giulia Merlo il 29 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Quattro carabinieri in borghese sono entrati nella redazione di Olbia del quotidiano La Nuova Sardegna, si sono diretti alla postazione della giornalista di cronaca giudiziaria Tiziana Simula e la hanno perquisita, sequestrando pc, tablet e telefoni cellulari. Poi, hanno perquisito anche la sua automobile e l’abitazione. Infine, la redattrice è stata portata in caserma, dove è stata trattenuta per alcune ore. A firmare il mandato di perquisizione personale, domiciliare e sul luogo di lavoro, la procura di Tempio Pausania, su ordine del procuratore facente funzione Andrea Garau, ex procuratore capo di Nuoro e fresco di nomina alla procura di Ferrara (dove prenderà servizio tra meno di un mese). Al momento del rilascio, la giornalista è stata informata di un procedimento d’indagine a suo carico. All’origine della perquisizione, secondo La Nuova Sardegna, ci sarebbe il lavoro d’inchiesta di Simula, in particolare sulle attività di alcuni magistrati del tribunale di Tempio Pausania, nell’ambito di un’asta sospetta legata alla vendita di una villa in Costa Smeralda. La giornalista, infatti, in un articolo pubblicato sabato scorso, ha raccontato il contenuto di un esposto trasmesso dalla procura di Tempio a quella di Perugia: «un dossier di 28 pagine in cui l’ex presidente del palazzo di giustizia Francesco Mazzaroppi accuserebbe l’allora procuratore Domenico Fiordalisi di aver “nascosto” un fascicolo dell’inchiesta per bancarotta fraudolenta», scrive il quotidiano. Ecco, proprio la pubblicazione di questo documento avrebbe dato il via all’indagine a carico di Tiziana Simula, che sarebbe indagata per rivelazione di segreto d’ufficio. Immediate sono arrivate le reazioni dei vertici del giornalismo e dell’avvocatura sarde. «La pubblicazione di un esposto presentato da un privato cittadino alla magistratura, un documento che tecnicamente non può essere considerato coperto da segreto istruttorio, oggi ha dato occasione per una inaudita intrusione delle forze dell’ordine e della magistratura nella redazione olbiese della Nuova Sardegna», hanno scritto Federazione nazionale della stampa italiana, l’Associazione della stampa sarda, il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti, l’Ordine dei giornalisti della Sardegna e l’Unione cronisti sardi. «Si tratta di un atto intimidatorio e gravissimo, senza precedenti rivolto a una collega che ha correttamente esercitato il suo diritto- dovere di informazione con professionalità e serietà» e «Noi la difendiamo e continueremo a difenderla. Non si bloccano i giornalisti con una misura repressiva, soprattutto per un caso come questo», hanno aggiunto i colleghi de La Nuova Sardegna. Sulla vicenda sono intervenute duramente anche le Camere penali della Sardegna: «Si tratta di un fatto senza precedenti, nonostante la pubblicazione di notizie riguardanti l’esistenza di indagini in corso sia pressochè quotidiana. Si è, però, sempre trattato di indagini concernenti “cittadini comuni” e non magistrati. Forse, in questo, lo si dice con sdegno e grande preoccupazione sta la differenza rispetto agli altri casi e la conseguente decisione di cercare la fonte della notizia con metodi intimidatori. Il sequestro degli strumenti di lavoro in uso esclusivo alla giornalista costituisce, infatti, un atto di inaccettabile intrusività ed una grave violazione delle disposizioni poste a tutela delle fonti e della libertà di espressione del giornalista». Inoltre, i penalisti hanno sottolineato come «consolidata giurisprudenza di legittimità, in tema di perquisizione e sequestro nei confronti del giornalista, impone il rispetto dei limiti di indispensabilità della rivelazione della fonte informativa ai fini della prova del reato per cui si procede, la impossibilità di accertare altrimenti la veridicità della notizia in possesso del perquisito e, soprattutto, la proporzione fra il contenuto del provvedimento di sequestro probatorio emesso dall’Autorità giudiziaria e le esigenze di accertamento dei fatti». Nella sostanza, denunciano gli avvocati, non viene garantito il diritto del giornalista alla riservatezza delle proprie fonti. Sull’isola è in corso un doppio braccio di ferro, dunque: uno, fino a poche settimane fa rimasto sommerso, all’interno della procura di Tempio e uno ora divenuto pubblico tra i vertici della stessa procura e la giornalista che ha scoperchiato pubblicamente il vaso di Pandora. E, per ora, a farne le spese è stata la giornalista.
Turbativa d'asta: indagati 3 magistrati. Vicenda relativa assegnazione villa in Costa Smeralda, scrive "L'Ansa" il 9 marzo 2017. Due magistrati di Cagliari, Chiara Mazzaroppi (Tribunale, sezione civile) e Andrea Schirra (Procura generale) ed un giudice dell'esecuzione di Tempio Pausania, Alessandro Di Giacomo, sono indagati dalla Procura di Roma per turbativa d'asta in relazione all'aggiudicazione di una villa a Baia Sardinia dell'imprenditore di Arzachena Sebastiano Ragnedda, titolare delle cantine Capichera, scomparso nel 2015. Indagati per la stessa ipotesi di reato anche due avvocati, Giuliano Frau e Tomasina Amadori, marito e moglie legali di Mazzaroppi e Schirra, la cui abitazione e lo studio legale sono stati perquisiti, su iniziativa del pm Stefano Rocco Fava, ad Arzachena ed Olbia dalla guardia di finanza e dalla polizia. Al centro della vicenda - si legge nel decreto di perquisizione - la procedura di vendita dell'immobile, di proprietà della società Rebus, presso il tribunale di Tempio Pausania. Secondo l'accusa la villa sarebbe stata assegnata nel gennaio 2016 a Mazzaroppi, quest'ultima figlia di Francesco, già presidente del tribunale di Tempio Pausania per otto anni, e Schirra a 472 mila euro, prezzo calcolato, rispetto a quello d'asta di 524 mila euro, con l'abbattimento del 25 percento per la presenza nell'immobile di un occupante che, in realtà, era morto nell'ottobre del 2015. Con la maggiorazione dovuta all'assenza dell'occupante il prezzo d'asta sarebbe lievitato a 655 mila euro.
Ville in Sardegna all’asta assegnate dai magistrati ai loro colleghi. Sospeso il giudice Alessandro Di Giacomo e un perito. Otto indagati in tutto. Il sospetto di altri affari pilotati, scrive Ilaria Sacchettoni il 15 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Magistrati che premiano altri magistrati nell’aggiudicazione di ville superlative. Avvocati che, in virtù dell’amicizia con presidenti del Tribunale locale, si prestano a dissuadere altri avvocati dall’eccepire. Colleghi degli uni e degli altri che, interpellati dagli ispettori del ministero della Giustizia, su possibili turbative d’asta oppongono un incrollabile mutismo. É lo scenario descritto nell’ordinanza che ha portato ieri alla sospensione del giudice Alessandro Di Giacomo, in servizio a Sassari. Il magistrato avrebbe contribuito a veicolare l’acquisto di una villa a Baja Sardinia, Porto Cervo, alla figlia del potente presidente della Corte d’Appello di Cagliari, Francesco Mazzaroppi, Chiara e al suo compagno Andrea Schirra. In soccorso il perito Ermanno Giua avrebbe attestato invalicabili limiti della proprietà fra cui un pignoramento inesistente. Tutto per consentire ai Mazzaroppi — Schirra di acquistare a una cifra ridicola (e senza concorrenti) il favoloso immobile. La villa ceduta a meno di 500mila euro potrebbe essere rivenduta per alcuni milioni. L’inchiesta dell’aggiunto Paolo Ielo e del pm Stefano Fava oltre a ricostruire le tecniche attraverso le quali, in barba ai creditori della proprietà (la Rebus srl) sarebbe stato pilotato l’affare, fa luce su altre dubbie acquisizioni di terreni e case. Buoni affari che avrebbero gratificato Mazzaroppi. Indagati anche Tomasina Amadori, Giuliano Frau e Francesca Debidda. Il provvedimento è della gip Giulia Proto.
Turbativa d’asta a Tempio, interdizione e sequestro per il giudice Alessandro Di Giacomo, scrive Edoardo Rizzo il 15/12/2017 su "La Stampa". Turbativa d’asta, falso e falsa perizia. Con queste accuse sono stati interdetti per un anno il magistrato Alessandro Di Giacomo e l’ingegnere Ermanno Giua. Al giudice è stata anche sequestrata una villa in località Baia Sardinia del valore di oltre 600 mila euro. L’inchiesta della procura di Roma ruota attorno a un giro di vendite giudiziarie sospette del Tribunale di Tempio. La procura di Roma aveva chiesto la misura del carcere per i due interdetti, ma il gip ha respinto le richieste accordando la sola interdizione dalla professione. Su mandato del procuratore aggiunto Paolo Ielo e del pm Stefano Rocco Fava, gli agenti del commissariato di Tempio Pausania, hanno anche perquisito alcuni uffici del palazzo di giustizia. Nel frattempo, la Guardia di Finanza ha eseguito il sequestro della villa appartenuta a Sebastiano Ragnedda, l’imprenditore vitivinicolo scomparso un paio d’anni fa. Nell’indagine sarebbero coinvolte in totale otto persone (tre magistrati e alcuni avvocati).
I SARDI NON SONO ITALIANI?
Uno sbocco sul mare per la Svizzera? La Sardegna si propone, scrive il 21 Febbraio 2014 Matteo Rigamonti su “Tempi”. «L’Italia ci mortifica con la sua inefficienza cronica, siamo l’alter-ego della Svizzera». Così, bevendo una birra tra amici, è nata l’idea del Canton Marittimo. E «non è una provocazione né una boutade». I sardi hanno certamente il senso dell’ironia e della provocazione. Almeno quei 1.800 che hanno preferito annullare la scheda elettorale esprimendo alle ultime votazioni regionali una singolarissima preferenza. E non si tratta del facile e già visto indipendentismo isolano, quello di chi col Continente non vuole avere nulla a che fare. Nient’affatto. Nemmeno si tratta di nuove spinte popolari per ottenere maggiore autonomia da un governo centrale sempre più sordo alle esigenze dell’Isola. No, no. Niente di tutto ciò. Questa volta 1.800 sardi si sono spinti oltre: non credendo più nell’Italia e nelle sue istituzioni, hanno chiesto di diventare un cantone svizzero. Punto e basta. Il Canton Marittimo, per la precisione, di cui hanno scritto il nome sulla scheda elettorale. Così che finalmente anche la Sardegna possa ottenere il governo che più si merita. A lanciare la balzana idea è stato Andrea Caruso, che nella vita di mestiere fa il dentista, dopo che, un giorno, bevendo un’Ichnusa tra amici, ha provato a immaginarsi un futuro migliore per la sua amata isola. E ha pensato alle Alpi svizzere. «Mentre l’Italia ci mortifica con la sua inefficienza cronica – ha spiegato in un’intervista alla Nuova Sardegna – e ci tratta come l’ultima ruota del carro, un paese come la Svizzera, efficiente, economicamente solido, con un forte senso comunitario e un’organizzazione politica di tipo federale, dove tutti i cantoni hanno una propria costituzione, un proprio parlamento e organi giurisdizionali autonomi, quindi molto più rispettoso delle autonomie territoriali di quanto non lo sia l’Italia, sarebbe la nazione ideale a cui appartenere per un’Isola come la Sardegna». Che, a questo punto, diventerebbe il 27° cantone svizzero. E il Canton Marittimo piace. Più di quanto si possa immaginare. Tanto che c’è già un sito, dove Caruso delinea l’idea di fondo, e una pagina Facebook dove gran parte dei commenti sono di svizzeri entusiasti alla sola idea di poter venire in vacanza e bagnarsi nei mari della Sardegna. C’è anche la bandiera, curiosa, con le teste dei quattro mori intorno alla tradizionale croce bianca su fondo rosso. Ma la vera “chicca”, segno che l’integrazione tra i due popoli è realmente possibile, è “sa leppa”, l’originalissimo coltello dei contadini sardi ricavato da corna di montone marocchino che per festeggiare le nozze tra il mare e le montagne è stato trasformato in una sorta di Victorinox isolano, sulla falsariga del classico temperino dell’Esercito elvetico. Chissà se ad Ibach, dove ha sede l’azienda, l’hanno già messo in produzione. Ma che l’intesa sia possibile, forse più che non quella sulla Macroregione Alpina o la riforma del Titolo V in Italia, non è uno scherzo. Non ci credete? Sentite cosa scrive Caruso sul suo sito: «Non si tratta di una provocazione né di una boutade. Si tratta di un progetto, di un’idea che scaturisce dall’attuale contingenza che vede l’Italia intrappolata in un vortice di crisi economico-politica apparentemente senza via d’uscita». E la Sardegna «è una perla rara, con un altissimo potenziale inespresso piagato da secoli di inettitudine amministrativa e disordinato colonialismo economico». La Sardegna «è, se vogliamo, l’alter-ego della Svizzera». Ma non è tutto. C’è anche un curioso precedente storico postato su Facebook da un iscritto al gruppo del Canton Marittimo: è una cartina del Regno di Sardegna i cui confini giungevano fino alla sponda sud del Lago di Costanza, che oggi si trova in Svizzera. Forse che i tempi siano maturi per un’imprevedibile nemesi geopolitica in salsa sardo-elvetica?
Noi sardi non siamo Italiani, scrive Bruno Vacca lunedì 14 dicembre 2015. Noi Sardi apparteniamo ad una razza che geneticamente non solo è radicalmente diversa da quella italiana ma è anche più antica di essa di almeno 2400 anni. Siamo geneticamente diversi non solo per aspetto e costituzione fisica, ma soprattutto per il DNA, per longevità e per la nostra psiche che ci porta a concepire la vita e a comportarci in genere in modo non uguale a quello degli Italiani. Pertanto, anche il percorso della nostra storia non solo è molto più antico di quello del Popolo Italiano ma è anche sostanzialmente diverso poiché diversi sono gli eventi che lo hanno caratterizzato, come pure sono anche le manifestazioni Popolo Sardo ha che lo hanno caratterizzato in modo particolare. Infatti, ad esempio, poiché il mare che circonda la Sardegna è stato una valida difesa contro la maggior parte delle invasioni barbariche che ha subito la Penisola Italiana, il Popolo Sardo ha potuto meglio preservare la sua omogeneità della sua etnia e con essa la sua identità spirituale e culturale da quelle contaminazioni etniche e culturali che progressivamente hanno portato i diversi popoli barbari quando si sono via via fusi via via con le con le popolazioni latine e latinizzate dando così luogo alla formazione di quella variegata etnia che viene definita Popolo Italiano. Ciò spiega perché noi Sardi parlano una lingua che, anche se rivela una parziale latinizzazione risulta totalmente incomprensibile a tutti gli Italiani e perché manifestano tradizioni e un folklore completamente diverso ed anche notevolmente più ricco e diverso da quello degli Italiani e da quello di qualsiasi altro popolo europeo. Al tutto c'è da aggiungere che i Sardi, in linea di massima, sono dotati di una psiche che rivela un modo di vivere anticlassico perchè è umanamente orientato sull'essere e quindi opposto a quello classico degli Italiani che prevalentemente tende a quell' apparire o vivere ostentando una grande ricerca e cura della bellezza e della grandezza che pur avendo creato meravigliose opere d'arte n ogni campo attenute mediante lo sfruttamento che l'essere umano impunemente continua ad esercitare sui propri simili. Che noi Sardi non siamo Italiani è ben noto agli Italiani è ben noto agli Italiani sia perché spesso e volentieri non ci trattano come loro connazionali ma sopratutto perché per opportunismo ribadiscono l'altisonante menzogna che noi Sardi siamo una Minoranza etnico linguistica dell'Italia. Infatti, tale affermazione sarebbe validamente vera solo se il territorio popolato dai Sardi, analogamente a quello degli Altoatesini e dei Friulani, fosse parte integrale della Penisola Italiana. Ma poiché la Sardegna è geograficamente distante e completamente separata dall'Italia per mezzo del mare, come è controllabile in qualsiasi dizionario o enciclopedia, conformemente alla definizione della parola nazione, si deve scientificamente affermare che per le sue caratteristiche genetiche , linguistiche e per la sua particolare identità il Popolo Sardo costituisce una Nazione; anzi la più antica e famosa nazione che da oltre 3900 esiste nel Mediterraneo anni possedendo come patria e proprio spazio vitale tutta la Sardegna e le sue isole minori, ossia noi Sardi costituiamo una Nazione Sarda da ben circa 2700 anni prima della stessa formazione della Nazione Italiana. Tutto ciò è più che ben storicamente noto anche in campo internazionale perché la Dichiarazione Universale dei diritti degli esseri umani e dei Popoli proclamata nel 1948 dall'O.N.U. appunto lascia desumere che: il Popolo Sardo è Nazione e che, come tale, ha diritto alla sua Libertà e alla sua Indipendenza e quindi ha il diritto di esprimere un proprio governo ed a non sottostare a nessun genere di condizionamenti da parte di qualsiasi altra nazione. Tuttavia il Governo Italiano non ha mai voluto recepire il proclama dell'O.N.U. perché, come si chiarirà in seguito, è stato sempre mosso in modo estremamente biasimevole, da grandi e precisi interessi coloniali che lo hanno costantemente portato a condizionare negativamente, con ogni sorta di inganni politici, culturali ed economici, la vita e il destino di noi Sardi per asservirci e usurpare tutte le più ricche risorse e possibilità di progresso economico e civile della nostra Isola; risorse che appartengono esclusivamente a noi Sardi per inconfutabile diritto naturale. La Dichiarazione Universale dell'O.N.U. volutamente è stata ignorata e disattesa completamente anche dal Governo Americano e dagli altri suoi governi alleati quando hanno determinato il riassetto politico postbellico dell'Europa perché a tutti i nuovi governi europei inseriti nel Patto Atlantico faceva molto comodo avere nel centro del Mediterraneo una grande isola come la Sardegna a loro concessa dal Governo Italiano dietro laute compensazioni senza mai interpellare i Sardi e soprattutto senza mai risarcirli con il dovuto giusto indennizzo per tutti i gravissimi danni che ciò ha causato e causa tuttora al loro territorio, al loro mare, alla loro economia e soprattutto alla loro salute. Si può comunque constatare che tutti gli ingenti danni che queste servitù militari portano a una larga parte del territorio isolano e alla gente che ci vive sono ben poca cosa rispetto alla grande rovina che tutto il Popolo Sardo ha subito e tuttora subisce sottostando da oltre 153 anni alle iniquità del malgoverno italiano. Per tutte le risultanze storiche la grande rovina dall'Italia ha iniziato ad arrivare in Sardegna ben prima della nascita dello stato unitario italiano e del relativo governo; quando, dopo l'anno 1720 in cui l' Inghilterra consegnò il Regno di Sardegna al servizievole duca Amedeo di Savoia, una fatiscente galea ( anni prima requisita in Sicilia dal duca di Savoia) scortata dalla potente flotta inglese approdò' a Cagliari per sbarcarvi il primo vice re con la così detta Truppa Regia Piemontese ( costituita da appena mille armati (in prevalenza ergastolani graziati e soldati mercenari stranieri) per costituire per oltre un secolo il presidio militare dell'isola. Tramite questa Truppa Regia successivamente nell'Isola scatenarono un secolare e spaventoso terrorismo nella popolazione isolana. Con grande crudeltà hanno soffocato nel sangue ogni minima opposizione dei Sardi per poterli impunemente depredare di tutto impartendo per futili reati, come il furto di un sacco di grano o per minima reazione contro le violenze le ruberie e altri soprusi dei soldato della Truppa Reggia, impartivano condanne a morte attuate previe atroci e spaventose torture con forbici arroventate con amputazione delle mani che si concludevano con l'impiccagione del condannato e successiva decapitazione e squartamento del suo corpo per esporre per lasciare poi per numerosi giorni la testa infilata in una cima e i quarti del suo corpo appesi ai ganci dei macellai esposti nel palco a pubblico ammonimento. Tutto ciò non viene rivelato ai Sardi contemporanei dai testi ufficiali di storia sarda perché è meglio che essi ignorino del tutto il grande male che i Savoia hanno fatto ai loro ai loro antenati affinchè non abbiano la tentazione d rivendicare un giusto indennizzo. Con il terrorismo impunemente hanno oltremodo impoverito i Sardi con tributi e balzelli esosissimi, con monopoli e con tutto ciò che erano in grado di poter portare via dalla Sardegna traendo dall'Isola ingentissimi guadagni con i quali hanno posto fine alla secolare indigenza economica dei Piemontesi ed abbellire Torino ed altri loro centri urbani rendendo poverissima la città di Cagliari e tutta la popolazione isolana. In 153 annus asutta su Guvernu Italianu su Populu Sardu non scetti esti istetiu spollau de ognia beni dessa terra sua kemi ottenniri nudda ma esti Istetiu portau a una miseria aicci manna ki cunfinara Kun una sorti aicci m ki desti portendu ass'agonia. Ma la rovina e la rapina più distruttiva in Sardegna è arrivata dopo che Carlo Alberto mediante un disdicevole e vergognoso inganno politico , senza interpellare il Popolo Sardo, col favore della nobiltà e della nobiltà e della Chiesa isolane ( di cui prevalentemente facevano parte nobili ed alti prelati non sardi ) perdendo i la sua autonomia, la Sardegna è stata Annessa agli Stati Continentali Italiani dietro una mendace garanzia verbale che, dopo questo avvenimento gli Italiani avrebbero considerato i Sardi come loro fratelli e portato un grande progresso moderno e un grande benessere alla vita dei Sardi. Pertanto mediante questo disonesto atto biasimevole espediente politico, quando dopo qualche decennio, nel 1861 nacque lo Stato Italiano, a partire da Camillo Benso conte di Cavour (Eletto al Parlamento Italiano carpendo la buonafede dei Sardi nel collegio elettorale di Iglesias) sono iniziati i grossi guai per il Popolo Sardo e per la Sardegna. Infatti, questo grande personaggio storico con la sua ghenga politica che includeva i nobili conti, Baudi Vesme, Massimo d'Azzeglio, Alberto La Marmora e il cugino del Cavour) varando opportune leggi, si sono impadroniti, con concessioni governative opportunamente manovrate, delle più ricche risorse isolane per dare inizio alla grande spoliazione epocale subita dal Popolo Sardo il quale, per inconfutabile Diritto Naturale è l' unico indiscutibile vero ed esclusivo padrone di ogni risorsa esistente nella terra e nel mare della Sardegna. Così in maniera sempre più crescente, a partire dalla seconda metà dell'800' gli Italiani sino a tutto il secolo scorso sono state rapinate al Popolo Sardo circa 80 milioni di tonnellate di minerali pregiati di rame, ferro, argento, piombo che sono state trasferite in Italia per industrializzare e arricchire le regioni settentrionali a spese dei Sardi. E' calcolabile che il valore attuale del patrimonio minerario rapinato all'Isola è tanto ingente da poter sovvenzionare diversi Piani di Rinascita della Sardegna. All'ingentissimo quantitativo dei minerali sardi inviato in Italia va poi aggiunto quello abbastanza notevole che gli Italiani hanno venduto al Belgio, all' Inghilterra e alla Francia. La rapina delle ricchezze minerarie sarde in tua la seconda metà dell'800' è stata eseguita quasi in modo famelico per conseguire il massimo guadagno con una spesa del tutto irrisoria e pertanto, senza spendere capitali per una adeguata attrezzatura tecnica nelle miniere del Sulcis per una paga del tutto irrisoria i minatori sardi lavorando più di dieci ore al giorno in fondo alle miniere ed erano costretti a fare anche da animali da soma perche legati ai carrelli colmi di minerale con i finimenti dei buoi li dovevano trainarli sino alla superficie dove le loro donne e i loro bambini, lavorando faticosamente sotto il sole e le intemperie li frantumavano con pestelli per sottoporli poi a una prima rudimentale lavorazione con arsenico ricevere poi una paga di pochi soldi appena sufficienti per comprare il pane. Sono arrivati al punto di utilizzare i bambini sardi di cinque o sei anni per accendere le mine poiché per la loro piccola statura erano idonei ad attraversare gli stretti e lunghi cunicoli per accendere le micce dell'esplosivo. Ma poiché a questi ladri che con l'autorizzazione del Governo Italiano non bastava svuotare le miniere isolane, poiché per fondere i minerali era necessario il carbon fossile del Bacino della Ruhr, per risparmiare questa spesa, hanno inviato nell'Isola squadroni di carbonari toscani per trasformare in carbone necessario alle nascenti industrie italiane ben 120.000 ettari di boschi secolari. il Governo Italiano ha fatto quest'altro scempio nell' Isola impadronendosi di prepotenza dei così detti adenpriviri che erano una estesissima parte del territorio isolano che costituiva le proprietà feudali della nobiltà e della Chiesa che precedentemente erano state abolite mediante un alto indennizzo pagato dal Popolo Sardo. Tali avvenimenti palesemente pongono chiaramente in evidenza che il grande benessere ed il progresso moderno che i Sardi avrebbero dovuto migliorare la vita isolana dopo breve tempo dall'Annessione della Sardegna alla nascente Italia non erano altro che false promesse politiche fatte con vuote parole destinate ad essere disperse nel nulla perché erano prive di qualsivoglia grado di onesta politica. Attualmente nel Sulcis e nelle altre zone minerarie isolane, dopo che tutte le loro ricche risorse sono state prelevate per arricchire l' Italia senza dare alcun compenso ai Sardi, resta qualcosa che è di gran lunga ben peggiore di un bel nulla: restano solo vaste estensioni territoriali rese sterili dall'arsenico e altre sostanze velenose che nel tempo le piogge e il vento hanno sparso ovunque s grandi distanze, sotto le quali ci sono le profonde e buie e vuote cavità delle dismesse che secondo l'ennesima presa in giro dei politicanti italiani, i Sardi potrebbero usare come attrazioni turistiche di una archeologia industriale. Non tutti sanno che nello steso tempo in cui il Cavour iniziava a fare svuotare dal Baudi Vesme le miniere sarde dei loro preziosi contenuti, impedì che ka Sardegna venisse industrializzata modernamente proibendo ad alcuni imprenditori norvegesi di impiantare in Sardegna delle industrie atte alla lavorazione dei minerali sardi per la produzione finale di utensili e altri manufatti di uso quotidiano Cagliari di moderni cantieri navali e di un grande bacino di carenaggio per realizzarvi la principale stazione di servizi navali del Mediterraneo per dare assistenza ai nuovi intensi traffici navali che scorrevano innanzi al Golfo di Cagliari Conseguentemente alla recente apertura del Canale di Suez. Così il Governo Italiano, da allora in poi, contrassegnò negativamente il futuro della Sardegna impedendo che Cagliari attuando la sua più spontanea e proficua funzione nel Mediterraneo potesse dare traslare l'importanza dei Porti di Genova e di Napoli in secondo piano. Ciò spiega perché da allora in poi il Governo Italiano in Sardegna, contrariamente da quello che ha fatto in Sicilia, col pretesto della falsità storica che i Sardi sono geneticamente alieni al mare non ha mai incentivato nell' Isola alcuna attività marinara e pertanto, contrariamente da quel che è accaduto in Sicilia i Sardi sono rimasti privi di una facoltà d'ingegneria navale e di qualsiasi corso di istruzione professionale relativo alle attività marinare che includono persino la pesca con l'eccezione di due scadenti istituti nautici che diplomano solo ufficiali di macchia. Contemporaneamente il Governo Italiano per impedire che la Sardegna potesse avere delle attività marnare concorrenziali che sicuramente sarebbero state favorite dai suoi 1890 Km di coste dotate di vari porti naturali e di approdi riparati dalle furie del mare, ha favorito costantemente la monopolizzazione dei trasporti da parte delle compagnie navali italiane che con il ladrocinio di tariffe ultra esose hanno sempre condizionato negativamente i traffici civili e commerciali isolani col mondo extra insulare, le quali restano particolarmente famose dal passato ai giorni nostri la Rubatino, la Tirrenia e la Moby Line. Tramite tale monopolio dei trasporti marittimi Il governo Italiano ha mantenuti un vero apartaid dei Sardi che era stato instaurato dai Piemontesi imponendo ai contadini e ai pastori sardi di non pascolare a meno di cinque miglia dalle coste isolane e frapponendo fra essi ed il loro mare con comunità fatte arrivare non solo dall' Italia e persino dalla Grecia , ma lo ha anche notevolmente rinforzato privando i Sardi di tutte quegli organi culturali che potevano determinare il riappropriarsi del loro mare quali una facoltà d' Ingegneria Navale e scuole di istruzione professionale per qualsiasi attività marinara sarda soprattutto nel settore navale comunemente presenti nella Penisola Italiana e persino in Sicilia. Attività navali che con l'apertura di una facoltà d'Ingegneria navale né con altri centri di istruzione professionale marinara togliendo il falso pretesto che i Sardi sono geneticamente alieni al mare. A tutto l'operato negativo che nella seconda metà dell'800' il Governo Italiano ha svolto nei confronti dei Sardi e della Sardegna il più distruttivo danno sicuramente ha proibizione di esportare il bestiame in Francia nel corso della così detta Guerra delle Dogane, facendo mancare così ai Sardi quei guadagni necessari per tirare avanti. Drammatica fu la conseguenza che tale divieto italiano ebbe nella vita isolana poiché essa fu colpita da una miseria così grande che spinse molta gente a nutrirsi quasi esclusivamente col pane di ghiande e con erbe selvatiche. Inoltre, poiché allevatori e contadini non avevano più i soldi per pagare le tasse e contribuiti vari imposti dal Governo Italiano questo fece eseguire nella sola Isola ben il doppio dei sequestri giudiziari nell'intera Penisola Italiana, arrivando al punto vergognoso di numerosi casi in cui per qualche lira di tasse non pagate vennero smontati anche i tetti delle case per sequestrarne le tegole. Conseguentemente arrivarono dall'Italia numerosi tristi personaggi per acquistare in aste truccate per un prezzo irrisorio, case, fattorie, armenti e appezzamenti di terreno grandi e piccoli per cui alcuni così detti fratelli italiani sbarcavano nell'Isola per potere acquistare nelle aste opportunamente truccate notevoli estensioni territoriali per un prezzo irrisorio. Così in Sardegna in mano italiana sono tate costituite proprietà terriere gigantesche come quella che partiva dal paese di Gavoi sino a Nurallao mentre nelle stesse a zona migliaia di famiglie non avevano nemmeno pochi metri quadri di terreno per coltivarvi un patate e fagioli necessari per la loro sopravvivenza. Le più gravose conseguenze di tale miseria fu la nascita delle bardane e con esse quella del Banditismo Sardo e parallelamente quel grande flusso emigratorio dei Sardi che per non finire in galera abbandonarono l'Isola per cercare pane e lavoro prima persino in Tunisia e Algeria e poi nelle Americhe. Anche se manca una documentazione sull'entità di questo flusso emigratorio ottocentesco sardo appare verosimile che esso abbia decurtato la popolazione isolana di almeno 300.000 unità poiché essa all'inizio del 900' contava appena 900.000 abitanti. Il maggiore danno il Popolo Sardo da parte del Governo Italiano lo ha subito quando ha costretto dal 1915 al 1918 ben 220.000 Sardi a partire per combattere nella Prima Guerra Mondiale per cui l'Isola venne privata dell' intera generazione maschile lavorativa che costituiva il 22% dell'9ntera popolazione isolana che allora contava 1 milione di abitanti con gravissime conseguenza per la vita isolana e in particolare l'economia isolana dr quel periodo e per gli anni futuri perché essa quasi la metà dei richiamati sardi non fece più ritorno in Sardegna mentre la parte degli invalidi era scarsamente idonea al lavoro. Infatti dei 750.000 caduti che l'Italia ebbe in tale conflitto ben 100.000 erano Sardi, così come dei 454.000 invalidi italiani i Sardi erano circa 69.000; quindi i così detti Fratelli Italiani trattarono i Sardi come carne da macello mandandoli quasi costantemente in prima linea e arrivarono sino al punto di sottoporre alla decimazione quelli che facevano parte della Brigata Sassari anche se si erano resi famosi per il loro eccezionale eroismo, quando protestarono perché dovevano costantemente, senza alcun cambio o riposo fare da bersagli andando a combattere in prima linea. L'inganno più beffardo che il Governo Italiano ha fatto al Popolo Sardo ha avuto luogo nell'anno 1948 quando, passando dalla dittatura fascista ad una democrazia che risulta tale solo apparentemente ha con l'istituzione della Regione Sardegna gli ha concesso al un'autonomia scritta nell'acqua poiché è stata sempre regolata da uno Statuto Speciale che dopo essere stato elaborato da una Consulta Sarda molto sprovvedutamente è stato fatto decurtare e correggere opportunamente dallo stesso Governo italiano in modo che i rapporti dei Sardi con le ogni istituzione italiana permanessero confinati in un neocolonialismo. Si è fatto cioè on modo che il governo Italiano potesse continuare a comandare e a sfruttare la Sardegna come prima e peggio di prima liberamente senza alcuna opposizione e tutto ciò è stato vergognosamente possibile perché la maggior parte dei personaggi politici sardi, ieri come oggi, erano affiliati ai partiti politici italiani e pertanto per ignoranza o incapacità hanno sempre ignorato e trascurato i fondamentali problemi dei Sardi. Parimenti tutto ciò è stato possibile perché è mancata oltre che l'opposizione dei politica anche quella popolare perché astutamente, mediante un processo di dessardizzazione fondata su falsi storici hanno confinato 'identità sarda on un campo sub-culturale per cui la maggior parte dei Sardi meno erroneamente convinti di essere inferiori agli Italiani credendo di progredire sono stati indotti a lasciati acculturare e integrare nel sistema italiano con un ruolo oggettivo del tutto passivamente privo di ogni facoltà decisionale in tutto quel che accadeva nella loro vita e nella loro terra. E' quindi mancata e manca ancora una sana, giusta e forte opposizione a causa di questo astuto plagio che subiscono i Sardi poiché anche se mutilati della loro lingua parlano e vivono come gli Italiani credendo di progredire civilmente a tutti gli effetti legati da catene invisibili sono oggettivizzati insieme alla loro terra da ogni interesse neocoloniale italiano mentre risalta sua ceca e totale sottomissione all'Italia dettata da una umiliante svalutazione di se stessi e da una concomitante sopravalutare acritica dell'italianità. Si capisce, pertanto, perché anche in questo periodo per un eccessivo servilismo della classe politica isolana e per la sua noncuranza per la gravissima situazione in cui versa il Popolo Sardo impunemente continua a perdurare la rapina italiana di tutte le risorse e opportunità economiche isolane e con essa il monopolio dei trasporti marittimi isolani con un quasi totale condizionamento del commercio e del d' importazione e d'esportazione e del turismo della Sardegna col l'amaro risultato di annichilire l'economia isolana e con essa la possibilità di realizzare un sano, reale e duraturo progresso della vita civile sarda. Si capisce anche perché I Sardi quasi passivamente si lasciano integrare in maniera crescente in un sistema politico, economico e culturale che inibisce la loro naturali capacità evolutive in una strumentalizzazione in un servile ruolo passivo insieme alla loro terra. Successivamente la gravissima situazione della Sardegna e del suo popolo mutò più formalmente che sostanzialmente perchè i Sardi dal Governo italiano continuarono ad essere sfruttati e ingannati anche peggio di prima all'ombra della demagogia e della retorica pseudo democraticamente continuarono a svuotare le miniere con maggiore intensità mentre coll' aggravante delle numerose flottiglie di pescatori dalle coste liguri, toscani, campani e siciliani iniziarono a saccheggiare in modo sempre più crescente la rinomata e ricca pescosità del mare sardo e a fare sparire quasi completamente i banchi coralliferi delle sue coste traendo ingentissimi guadagni dalla lavorazione del rinomato corallo sardo denominato pelle d'angelo alla faccia del Popolo Sardo che continuava a rimanere in una specie di appartaid che non era soltanto sociale, economico e culturale ma anche amministrativo poiché in ogni settore le cariche dirigenziali erano prevalentemente occupate da personaggi che arrivavano dall'Italia o da isolani di origine italiana. Nel corso del ventennio fascista quindi la Sardegna non diversamente dal periodo precedente venne trattata dal Governo Italiano, peggio delle sue colonie africane, cioè come una terra dalla quale tutto si doveva prendere senza nulla o quasi nulla lasciare. Tale fatto palesemente dimostra la madornale beffa che i Sardi subirono con l'attuazione della tanto sbandierata Legge Miliardo che il Governo Fascista varò in favore della Sardegna poiché i terreni bonificati non vennero ceduti ai contadini isolani poiché vennero occupati da operatori agricoli e allevatori appositamente inviati in Sardegna per essere dotati di strutture e attrezzature moderna che includevano impianti di irrigazione, mungitrici automatiche, potenti trattori, mietitrici mentre, per contro, il povero contadino sardo invocando la pioggia continuava ad arare il suo misero campicello con un rudimentale aratro di duro legno tirato da un bue. Contemporaneamente anche nel Periodo Fascista si fece in modo che in Sardegna non sorgesse le anche industrie più elementari per la produzione di beni di prima necessità persino nel settore conserviero alimentare o per manufatti che potevano essere prodotti con materie prime abbondantemente presenti nel'Isola perché in Roma avevano stabilito che l'Isola doveva avere il ruolo di fonte di materie prime al più basso costo possibile e doveva dipendere integralmente per ogni sua necessità da importazioni italiane in modo che la maggior parte del suo modesto reddito venisse automaticamente incanalato verso Italia in modo da farla permanere in un perenne stato di indigenza economica atto a impedire ogni importante iniziativa imprenditoriale dei Sardi e a continuare la loro emigrazione. Comunque la beffa peggiore da parte italiana il Popolo Sardo l'ha subita dopo che la Regione sarda ha varato Il Piano D il detto italiano è stato reso cornuto e mazzato. E' stato fatto cornuto perché prevalentemente i fondi destinati ad un reale miglioramenti della grave situazione economica e sociale sarda sono stati astutamente deviati e incassati da imprenditori italiani che operano nel settore petrolchimico e derivati e fra i quali sono rimasti famosi nell'Isola Rovelli e Moratti e vari altri della medesima o simile categoria i quali prospettando una grande miriade di nuovi e ben remunerati posti di lavoro per i Sardi hanno fatto sorgere in diverse località isolame delle industrie di prima trasformazione che nessuno voleva in Italia perché pericolosamente inquinati le quali sono state era state propagandate dai politici isolani con la falsa promessa che avrebbero dato lavoro ad un notevole numero di Sardi mentre per contro me hanno occupato un numero molto limitato perché il personale tecnico e dirigente era quasi tutto continentale. E' lecito affermare che questo genere di industrializzazione ha reso il Popolo Sardo cornuto e mazzato perché l'inganno che ha portato nell'Isola è reso evidente dal fatto che bon ha risolto il problema della disoccupazione poiché dal 1950 al 1970 circa sono stati costretti ad emigrare non solo oltre 500.000 Sardi ma anche numerose migliaia di pecore con i loro pastori che sono state portate a pascolare in Toscana e nel Lazio, forse per porre rimedio alla bugia italiana secondo cui una larga parte formaggio prodotto in Sardegna veniva definita Pecorino Romano. Parimenti il Popolo Sardo, ha scoperto di essere anche mazziato solo quando queste neoindustrie isolane dopo alcuni decenni hanno iniziato a chiuso i battenti per fallimento o altra causa hanno lasciando il loro operai disoccupati ma e anche tutto l'ambiente circostante terrestre e marino si pesantemente inquinato e bonificabile solo a spese isolane. Una ulteriore beffa non di certo inferiore alla precedente il Popolo Sardo dal Governo Italiano la ha incassata quando nell'isola quasi contemporaneamente al Piano di Rinascita, è apparso ben il 60% delle Servitù Militari con la forzata occupazione di ben 40.000 ettari di territorio e centinaia di km di coste che sono stati sottratti all' agricoltura, al turismo e alla pesca senza ripagare le popolazioni locali con il giusto dovuto indennizzo. Per contro il Governo Italiano incassa un ingentissimo guadagno destinando ben 24.000 ettari di territorio sardo e relative coste con il mare prospiciente alla creazione di tre importantissime basi militari ubicate rispettivamente a Capo S. Lorenzo, Teluada e Capo Frasca che vengono affittate periodicamente a tutte le potenze militari della N.A.T.O. per svolgervi ogni sorta di esercitazioni militari terrestri, navali ed aree con un conseguente pericolosissimo inquinamento dell' ambiente terrestre e marino a causa dei numerosissimi proiettili e missili a base di uranio impoverito e altri materiali radioattivi che vengono sparati di cui alcuni spesso finiscono inesplosi i mezzo zllz vegetazione o nel fondo del mare. Queste pericolosissime basi militarti sono state realizzate annullando l'opposizione popolare diffondendo la menzogna che esse avrebbero dato numerosi posti di lavoro e un notevole benessere agli abitanti dei paesi vicini mentre invece hanno portato solo miseria morte inquinando mortalmente il territorio e gli abitati per cui molte donne hanno partorito neonati che presentavano orribili anomalie fisiche riscontrate anche negli agnelli appena nati e molti pastori sono morti a causa dei linfomi. Sono stati riscontrati nel mare dell’isola della Maddalena causati dalla presenza di una base navale dismessa che il Governo Italiano aveva affittato agli Americani. Lo stato negativo della vita isolana determinato dai menzionati avvenimenti si acutizza in maniera accentuata nell'ultimo ventennio del XX secolo quando gli Italiani finiscono di svuotare totalmente le miniere sarde e chiudono i battenti la maggior parte delle industrie fallimentari create con i fondi del Piano di Rinascita, la gente si rende conto che nell'Isola è rimasto poco o nulla poiché sono scomparsi o sono in grande crisi anche i tradizionali supporti della tradizionale economia isolana quali il piccolo commercio interno, l'artigianato, la pastorizia, l'agricoltura poiché i persino condizionamenti e governativi favorendo la concorrenza esterna hanno sostanzialmente trasformato tutta la Sardegna in un'area passiva dei consumi che tutto importa e poco produce nella quale con la grande diffusione dei super markets la maggior parte dei Sardi mediante l'acculturazione dettata dal neocolonialismo perdendo la loro identità fondata su alti e antichi valori spirituali della propria identità, vengono strumentalizzati da un materialismo che è fine a se steso, per assumere un ruolo simile a quello di una massa di porci all'ingrasso di un consumismo dettato dal capitalismo multinazionale. Allora tutte le forze politiche italiane per mezzo dei mass media nazionali hanno fatto risuonare in tutta l'Isola l'ingannevole ritornello I Sardi Possono vivere solo di turismo il quale dopo essere stato prontamente recepito dagli asservito potere regionale isolano ha dettato Sardegna Fatti Bella….. che risuona quasi uguale a quello che impartisce alla prostituta prima di mandarla a battere che risuona quasi uguale a quello che impartisce alla prostituta prima di mandarla a battere. Senza rendersi conto che stavano intascando una ennesima fregata poiché il trattamento che il governo stava usando nei riguardi deu Sardu è molto simile a quello del gatto che giuoca col topo prima di ucciderlo e divorarlo. Infatti anche se molti Sardi, che per una ragione o l'altra che non potevano o non volevano emigrare per una ragione o l'altra, si sono subito dati da fare con grandi sacrifici per organizzare alcune centinaia di agriturismo prevalentemente ubicati nell'interno dell'Isola e per costruire presso le coste delle seconde case da affittare ai turisti, hanno conseguito poi dei risultati non di certo validi per risanare la pessima situazione socio-economica creata nell'isola per troppi anni di malgoverno sia italiano che regionale. Infatti malgrado la Sardegna risulta una delle più belle isole del mondo e più ricca di valori culturali, ha conseguito uno sviluppo turistico eccessivamente limitato per un'assurda incapacità delle istituzioni statali e soprattutto regionali preposte alla promozione del turismo in isolano. Questa affermazione risulta ampiamente confermata dal fatto che la Sardegna, malgrado il suo bellissimo mare e i grandi valori alti valori ambientali e cultuali registra costantemente un flusso turistico di gran lunga inferiore sia a quello delle Isole Baleari che delle Isole Canarie anche se queste sono molto meno dotate di attrazioni turistiche. Così ad esempio le Baleari e le Canarie nel 2013 hanno rispettivamente registrato 45 milioni e 52 milioni di presenze turistiche mentre per contro la Sardegna ne ha cintati appena 9,2 milioni. Parimenti mentre nello stesso anno il Complesso Nuragico è stato visitato da 300.000 stranieri mentre in Inghilterra Stone Henge ne ha avuti ben 1.500.000 anche se entrambi questi due diversi monumenti megalitici vengono considerati a livello internazionale beni preziosi dell'Umanità. Si deve quindi concludere che i politici italiani stanno dando un'altra fregatura ai Sardi quando sostengono che possono vivere solo di turismo perché p evidente che nel turismo isolano ci sono tante cose che non vanno proprio a causa di molti condizionamenti che il Governo Italiano impone all'Isola, come ad esempio, l'impossibilità di avere i propri trasporti marittime ed aerei. C'è inoltre da aggiungere la considerazione che sinora il turismo isolano porta ai Sardi ben briciole perchè i grandi introiti li hanno solo coloro che non sono sardi e sono i padroni dei trasporti aerei e marittimi e delle grandi strutture alberghiere e residences dove oltre tutto non è sardo la maggior parte del personale come ciò che in essi viene consumato. L'obiettivi finale di genocidiare il Popolo Sardo disperdendolo totalmente nel mondo col fine di lasciare l'intera Sardegna a libera disposizione degli Italiani. Tale dubbio appare confermato dal confronto dei dati demografici della Sardegna con quelli della Sicilia possiede un territorio di gran lunga meno favorevole poiché quello sardo ha un profilo costiero notevolmente più esteso, variegato e ricco di insenature e di approdi sicuri, è notevolmente meglio conformato, più fertile e ricco di fiumi e dotato di boschi e numerose altre risorse naturali. Malgrado questi vantaggi la Sardegna attualmente possiede una popolazione di appena popolazione di appena 1,6 milioni di abitanti mentre la Sicilia ne conta circa 7 milioni ossia più del quadruplo. Considerando poi il fatto che i Sardi sono famosi per la loro longevità e prolificità poiché In un passato non molto lontano erano tutt'altro che rare le famiglie sarde che contavano più di dieci figli e che attualmente del 1,6 milioni di abitanti della Sardegna, come chiaramente rivelano i loro cognomi, circa il 30% sono Italiani o di origine italiana risulta più che evidente che la Sardegna è stata sottoposta ad un processo premeditato di dessardizzazione che non è soltanto culturale ma soprattutto razziale; processo di dessardizzazione razziale che è ancora in corso e che attualmente sta subendo un' accelerazione che tende a concludersi con la scomparsa definitiva del Popolo Sardo dalla sua terra. Tutti gli avvenimenti e aspetti negativi che hanno caratterizzato la vita dei Sardi nel periodo che partendo dalla seconda metà dell'800' sino ai giorni nostri i quali inconfutabilmente possono essere considerati come conseguenza diretta o indiretta dei gravi condizionamenti coloniali e neocoloniali con il Governo Italiano ha imposto al Popolo Sardo e alla sua terra dimostrano palesemente, senza alcuna ombra di dubbio che il Popolo Sardo, dopo essere stato con palese frode storica in un sistema politico parassitario che risulta alieno alle sue naturali tendenze evolutive tende ad essere totalmente eliminato dalla propria terra con un genocidio in guanti bianchi dell'emigrazione. Pertanto e lecito affermare che il malgoverno italiano sta portando il Popolo Sardo in un vero e proprio stato di agonia dal quale puo' uscire e riprendere la sua vitalità solo se i Sardi prendendone conoscenza e coscienza del plagio a cui sono stati sottoposti, con ferma volontà vorranno opporsi e liberarsi dell'acculturante integrazione a cui sono stati sottoposti per riassumere tutti gli alti e superiori valori spirituali della loro antica identità per riaffermarsi nella loro terra e nel mondo ad essa esterno per dare un valido contributo ingiustizia e sfruttamento che gli esseri umani subiscono per opera dell'egoismo materiale dei propri simili ingiustizia e strumentalizzazione operata dal sistema politico ed economico italiano che è risultato perennemente avverso ad un sano dovuto possibile progresso. Poiché nel corso di 153 anni del suo dominio nell' Isola Governo Italiano, invece di p rendere seri provvedimenti per frenare l'emigrazione dei Sardi ha sempre determinato i presupposti per una sua incentivazione mantenendo l'Isola in uno stato di arretratezza economica e culturale che la ha favorito una notevole parte dei Sardi che hanno abbandonato la loro terra sono costantemente sostituiti nella medesima dall'arrivo di famiglie italiane che si sono sistemate in maniera ottima, sorge il ragionevole dubbio che esiste un piano premeditato che ha come obiettivo finale la distruzione totale del Popolo sardo per liberare la Sardegna dalla sua presenza. Si tratta quindi di un vero e proprio genocidio che viene attuato progressivamente nel tempo senza spargimento di sangue, cadaveri e fosse comuni ma per così dire in guanti bianchi negando cioè costantemente i posti di lavoro e quindi costringendoli progressivamente ad abbandonare la loro terra per cercarli altrove e lasciando quindi questa a liberà disposizione dell'Italia per qualsiasi uso lecito ed illecito. Questo astuto e quanto mai biasimevole intento che l'Italia sta progressivamente attuando a danno del Popolo Sardo appare chiaramente rimarcato oltre che dal fatto che il trattamento politico che essa ha svolto nei confronti della Sardegna dalla seconda metà dell' 800' sino al periodo contemporaneo sono stati costantemente da una discutibile benevolenza nei riguardi dei Sardi , soprattutto dal fatto che la demografia isolana è stata progressivamente condizionata negativamente di gran lunga peggio di qualsiasi altra regione italiana. Si deve infatti considerare il fatto che in Sardegna il movimento emigratorio verso la Tunisia ed altre regioni del Nord Africa e continenti americani che ha avuto luogo inizio in seguito al divieto imposto ai Sardi esportare bestiame in Francia fra il1871 e il 1914 depaupera la popolazione isolana di circa 390.000 abitanti per cui aggiungendo a questi i 130.000 sardi caduti i della prima e nella seconda guerra mondiale, i 900.000 che sono emigrati fra il 1920 il 1970 e di altri 450.000 che hanno parimenti abbandonato l'isola fra l 1918 e il 2014 si ha il risultato che il Popolo Sardo in nell'arco di meno di un secolo e mezzo è stato decurtato di circa 1.870.000 unita denotando quindi che nell'Isola sono di certo mancate le condizioni che nella Penisola Italiana dal 1940 al 2'000 hanno fatto aumentare la popolazione quasi del 50% passando tramite il così detto miracolo economico postbellico dam 40 milioni di abitanti a circa 60 milioni. a quanto mai drammatica e ben celata situazione in cui versa la continuità d'esistenza del Popolo Sardo è rivelata palesemente dal fatto che la Sicilia, pur avendo un territorio appena appena più esteso di quello sardo ma non meglio conformato e coltivabile perché meno piovoso e pianeggiante e di gran lunga meno dotato di risorse naturali e dotato di un contorno sardo e ripari di golfi e insenature e approdi sicuri riparati dalle furie del mare, conta attualmente circa ben 7 milioni di abitanti mentre la Sardegna ne conta appena 1,6 milioni. Poichè risulta certo che questa notevolissima differenza possa essere attribuita a una maggiore mortalità e inferiore potenza sessuale e a una minore fecondità delle loro donne perché è rinomata la loro longevità ed è risaputo che nel secolo scorso erano numerose le famiglie sarde che contavano dieci e più figli risulta evidente che essa deve essere attribuita a un quanto mai oltremodo e esagerato e continuo flusso emigratorio forzatamente determinato dalla nefanda politica economica che il Governo Italiano da oltre 153 anni impone alla Sardegna impunemente mediante la servile complicità di una classe di incapaci ma arrivisti politici regionali ed il plagio della maggior parte dei Sardi. La situazione in cui oggi il Popolo Sardo vive nella propria Isola, risulta ancora più grave e pericolosa considerando che circa il 30 % di 1,6 milioni degli attuali abitanti della Sardegna è costituito da Italiani e da isolani di origine italiana e che la crisi politica ed economica attuale del Sistema Italia sta dando luogo ad un nuovo flusso emigratorio più intenso del passato che oltretutto include la maggior parte della classe giovanile sarda per cui ù logico desumere che il popolo Sardo sta celermente avviandosi verso un vero e proprio stato di agonia che lo condurrà ad una totale scomparsa dalla sua terra. Non desta pertanto alcuna meraviglia che, per l'attuale disperata situazione in cui versano numerosissimi Sardi a causa del continuo plagio che subiscono da parte italiana, vengono incoscientemente costretti a non fare alcuna opposizione e ad emigrare con maggiore intensità rispetto agli abitanti di qualsiasi altra regione italiana, evidenzia che essi sono strumentalizzati senza poter capire che di questo passo in breve tempo determineranno l'annullamento dell'esistenza millenaria del loro popolo perché verrà inesorabilmente annullata nella massificazione informe di una umanità informe e globalizzata contro natura. Tutto ciò, oltre che comprovare che noi Sari non siamo Italiani e che gli Italiani nutrono nei nostri riguardi una egoistica e talvolta timorosa ostilità dovuta forse a causa della nostra diversità per la salvezza materiale culturale e spirituale deve naturalmente metterci in stato di allarme non per reagire prima che sia troppo tardi, non con la violenza ma a separarci pacificamente e democraticamente da un sistema che inesorabilmente sta determinando la nostra totale rovina. Ciò dobbiamo farlo cessando di fare finta di essere Italiani e riaffermando con tutta la forza della nostra anima ,on solo Innanzi a tutta l'Italia ma davanti a tutto il mondo il nostro diritto sacrosanto di essere liberamente Sardi così come ogni popolazione della Penisola Italiana e del mondo di essere liberamente se stessa affermando e vivendo conformemente alla propria identità senza essere amalgamata e strumentalizzata in sistemi politici, economici e culturali e persino religiosi che agli esseri umani vengono imposti con astuzia o prepotenza dalle forze arretrate ed egoistiche che frenano l' evoluzione dell'Umanità. Questa è l'unica via che il Popolo Sardo deve percorrere tenendo presente che qualsivoglia prezzo dovrà pagare per riaffermare la sua vera identità e la sua libertà sarà sicuramente mille volte inferiore i a quello che ha pagato sotto oltre un secolo e mezzo di distruttivo e amaro malgoverno italiano.
Un sardo su due è pronto all’addio. I movimenti sognano una Repubblica e attaccano le basi militari: «Sono il simbolo del colonialismo italiano», scrive Marco Sarti su “L’Inkiesta” il 27 Settembre 2015. Franciscu Sedda è il segretario del Partito dei Sardi. I genitori l’avevano chiamato Francesco, ma una ventina di anni fa ha deciso di cambiare nome. Un battesimo laico celebrato durante gli anni di università a Roma, quando ha scelto di legare la sua vita alla causa indipendentista. «È stata un’assunzione di identità - racconta - Un modo per prendere un impegno intimo e pubblico con la mia terra e la sua libertà». Professore di Semiotica a Tor Vergata, oggi Franciscu è il leader di uno dei principali movimenti indipendentisti dell’Isola. Una delle tante sigle che chiede l’autodeterminazione della Sardegna e sogna la nascita di un nuovo Stato. Visto dall’altra parte del Tirreno il fenomeno non è di facile comprensione. E a poco o nulla serve il ricorso a stereotipi e folclore, lontani anni luce da questi movimenti. È un sentimento radicato, diffuso, a tratti sorprendente. «Non siamo nemici degli italiani» spiega Gavino Sale, presidente di Indipendentzia Repubrica de Sardigna, altro storico movimento indipendentista. «Anzi, personalmente vi considero un popolo di tutto rispetto. Quando ero giovane ho persino studiato in Italia, mi sono laureato a Parma. È con il vostro Stato che abbiamo molti conti in sospeso». Oggi in Sardegna i partiti d’area raccolgono il 28 per cento dei consensi. Ma secondo alcune ricerche almeno un sardo su due è sensibile alle istanze indipendentiste. Sono aspirazioni che trovano giustificazione in un passato orgogliosamente condiviso. Sembra scritto nel destino di questa terra: «Nella nostra storia - continua Sedda - i momenti di maggior valore sono sempre stati riconducibili a fasi di indipendenza più o meno compiuta. Penso al periodo nuragico, all’unificazione medievale sotto il Giudicato d’Arborea, alla rivoluzione sarda di fine Settecento». È una questione di radici. Gavino Sale lo spiega con disarmante chiarezza: «Noi sardi non siamo discendenti di Muzio Scevola e la nostra storia non è quella romana». A rimarcare le differenze ci hanno pensato, nel recente passato, alcune clamorose forme di protesta del suo movimento. Come nel 2005, quando un centinaio di militanti occuparono il giardino di Villa Certosa, la residenza estiva di Silvio Berlusconi a Porto Rotondo. Senza dimenticare l’incursione nel 2001 alla sede del Banco di Sardegna di Sassari - nell’occasione venne murato l’ingresso principale - e a una rampa di lancio missilistica nel poligono militare di Perdasdefogu, nel Salto di Quirra. Gavino Sale torna a parlare delle millenarie differenze tra Italia e Sardegna. «Chiunque ha visitato l’Isola conosce i nuraghi - racconta - Strutture circolari, a più torri, senza punta. Sono la rappresentazione di una visione completamente opposta al potere piramidale. Nella civiltà nuragica c’era quasi la paura dello spigolo. Prevaleva una visione rotonda della società, espressione di una moderna democrazia orizzontale. Del resto qui non sono state costruite città, ma migliaia di villaggi. Lo dice la nostra storia: in Sardegna non ci sono mai stati re né schiavi». Un salto di parecchi secoli e si arriva alla Carta de Logu, il codice delle leggi del Giudicato d’Arborea. Altro primato sardo. «Già nel Trecento, mentre in tutta Europa si bruciavano le streghe, la legislazione sarda diceva: “Chi tocca una donna non consenziente o viola un bambino, che gli venga tagliato il piede». Sale fa una pausa, poi spiega: «Ecco un’altra differenza: noi le donne e i bambini li difendevamo già nel Medioevo». La cultura del popolo sardo nasce dalla sua storia. Lo sa bene Giovanni Columbu, nuorese, oggi segretario del Partito Sardo d’Azione (movimento fondato nel lontano 1921). Figlio di uno storico leader sardista, qualche mese fa è stato eletto ai vertici del partito. A dispetto dell’impegno politico, Columbu è un regista. Le sue opere cinematografiche sono caratterizzate da una particolarità: sono girate in lingua sarda. Lavori distribuiti e apprezzati in tutta Europa, come l’ultimo lungometraggio Su Reche racconta la passione di Cristo. Anche stavolta il folclore non c’entra. «La scelta di usare la lingua sarda - racconta il segretario - scaturisce da un’esigenza espressiva. Un’esigenza di autenticità. La lingua è un fattore determinante per connotare una storia, così come lo sono le figure umane e il paesaggio». Eppure negli ultimi decenni la strada dell'indipendentismo sardo ha finito per dividersi. In Consiglio regionale i tre esponenti del Partito Sardo d’Azione di Columbu sono all’opposizione. I rappresentanti del Partito dei Sardi, invece, appoggiano la giunta di centrosinistra guidata da Francesco Pigliaru. Il presidente del partito Paolo Maninchedda ne fa persino parte, in qualità di assessore ai Lavori Pubblici. Sulla stessa linea c’è Indipendentzia Repubrica de Sardigna. Perché tante sigle? «I motivi sono principalmente storici - spiega Columbu - E sono comuni a tutti i paesi che vivono una situazione di oppressione. In prima battuta il malessere non genera mai solidarietà, ma divisioni». Il segretario non nasconde il sogno di creare, in futuro, un fronte comune. «Ci stiamo adoperando per la convergenza di tutte le forze dell’area sardista e indipendentista. L’obiettivo, a mio parere raggiungibile, è mettere assieme un movimento abbastanza forte e credibile da porsi come alternativa ai partiti italiani». Non tutti sono d’accordo. Per Gavino Sale il frazionamento dell’area indipendentista sarda è quasi un fattore fisiologico. «Siamo movimenti con visioni differenti - spiega - ed è un bene che sia così. Pensare di unirci tutti insieme è pressoché impossibile». Inevitabile un confronto con le ideologie. «I valori sociali del sardismo sono in larga misura prossimi a quelli della sinistra - continua Columbu - Mi riferisco alla solidarietà, alla giustizia sociale, all’attenzione per i più deboli. Ma con la sinistra, in particolare quella comunista, ci sono sempre stati contrasti. La sinistra comunista si è storicamente battuta per un’omologazione delle lotte e delle rivendicazioni. Mai per quei valori identitari che invece caratterizzano il sardismo e che costituiscono il fondamento di qualsiasi percorso di rinascita». Intanto l’Italia si scopre un paese occupante. A sentire gli indipendentisti sardi l’ingerenza romana è costante e diffusa. Sale non ha difficoltà a parlare di vero e proprio colonialismo. In cosa si traduce? «Semplice, noi non decidiamo». L’aspetto più evidente della questione è legato alla presenza militare. Oggi il 60 per cento delle basi italiane sono in Sardegna. «Ecco perché - continua il leader di Irs - chiediamo di aprire una trattativa bilaterale tra Sardegna e Italia per conoscere tutti i dati relativi all’occupazione. Quanti ettari del nostro territorio interessa? Quanto costerà risanare i terreni inquinati dei poligoni? Quanto costano i bambini nati deformi? E gli aborti terapeutici a cui sono costrette le donne che vivono in quelle zone? Sono risposte precise che una nazione come la Sardegna ha il diritto di avere, visto che abitiamo questa terra da almeno 50 secoli». Alcuni anni fa l’ex sindaco de La Maddalena Pasqualino Serra aveva calcolato che ogni anno la presenza dei militari italiani e americani costava all’arcipelago, solo in termini di mancato sviluppo, un miliardo e quattrocento milioni di lire. Ma non ci sono solo le basi militari. «L’ingerenza italiana - prosegue Columbu - si attua in tutti i settori dell'economia: nell’imposizione di una gestione monopolista dei trasporti, nei maggiori costi dell’energia, nell’imposizione di un sistema fiscale inadeguato alle esigenze del territorio. Senza dimenticare la questione linguistica. La Costituzione italiana riconosce alle minoranze linguistiche alcuni diritti, contrastati dai partiti italiani rappresentati in Sardegna. La nostra comunità linguistica è la più numerosa, eppure in Sardegna il bilinguismo non è ancora riconosciuto». Anche da qui nasce il sogno dell’indipendenza. Franciscu Sedda immagina la creazione di una Repubblica sarda. Del resto, fa notare qualcuno, l’Europa riconosce già una decina di paesi ben più piccoli della Sardegna. Il percorso non è semplice, ma a detta di tutti è ineludibile. Le esperienze a cui guardare non mancano. «Il Kosovo e il Montenegro hanno proclamato la propria indipendenza in via unilaterale - ricorda Gavino Sale - Un precedente giuridico importante all’interno dell’Europa». Senza dimenticare la trattativa in Gran Bretagna che un anno fa ha permesso di celebrare il referendum in Scozia. Gli occhi di tutti sono ovviamente puntati in Catalogna, dove domenica 27 settembre gli elettori saranno chiamati alle urne. Una delegazione di Indipendentzia Repubrica de Sardigna è già partita per Barcellona. I contatti con gli indipendentisti catalani sono collaudati (come quelli con lo Scottish National Party). Lo scorso 11 settembre alcuni rappresentati di Irs avevano partecipato alla tradizionale festa della Diada de Catalunya, ospiti dei colleghi catalani. «Le strade verso l’indipendenza sono diverse - ammette Sedda - Ma l’importante è il principio di autodeterminazione». In attesa della nascita di uno stato sardo, gli indipendentisti si mettono alla prova. La presenza all’interno della giunta regionale ha già prodotto i primi successi. Franciscu Sedda racconta soddisfatto la creazione dell’agenzia sarda delle entrate. Un progetto che lui stesso aveva lanciato una decina di anni fa. Questa estate la giunta ha approvato il disegno di legge, che andrà presto in discussione in Consiglio regionale. L’obiettivo è dar vita al nuovo ente entro la fine dell’anno. «È una rivoluzione - dice il segretario del Partito dei Sardi - Finalmente cambia il rapporto dei sardi con la propria ricchezza. Potremo incassare direttamente i nostri soldi». L’indipendentismo alla prova di governo. Sedda parla di “responsabilità”, auspica la nascita di una nuova mentalità. È evidente che la credibilità di questi movimenti passa soprattutto da un progetto di governo. «In Sardegna c’è bisogno di un diverso modello di crescita e sviluppo - spiega Columbu - Siamo un’isola poco popolata, è vero, abbiamo poco più di un milione e mezzo di abitanti su un territorio relativamente esteso. Ma l’estensione del territorio se si cambia il modello di sviluppo è una risorsa, non un handicap. Occorre mettere a punto un progetto basato sulle risorse del territorio. Su questo potranno convergere le forze sardiste e indipendentiste. Sulla scorta di questo progetto sarà più facile rivendicare ulteriori forme di autonomia e indipendenza».
L'Ossimoro del Sardo Razzista, scrive il 24 aprile 2015 Niccolò Micheli. Dopo la strage in mare dei novecento migranti La Nuova Sardegna e l’Unione Sarda hanno dovuto ritirare gli articoli dalle loro edizioni on-line, perché strapieni di commenti offensivi e razzisti. I lupi da tastiera non aspettano altro. A volte si nascondono dietro eteronimi. Altri più coraggiosi, non esitano a firmare con i propri nomi. In questi ultimi anni, più volte è capitato di leggere o assistere a manifestazioni di intolleranza nei confronti di migranti o dei rom. Tutte le volte ci si è consolati con un “i sardi non sono razzisti.” Bisogna dire, ad onor del vero, che il razzismo biologico è ormai scomparso, seppellito con la Seconda Guerra Mondiale. Solo il professore irlandese Richard Lynn e qualche gruppo minoritario di “Supremazia Bianca” insistono su dottrine finite nell’immondezzaio della storia. Oggi prevalgono le teorie sulle diversità culturali e sulla inconciliabilità delle stesse. In un mondo così globalizzato trionfa la paura dell’altro e su questo si costruiscono fortune politiche. Il razzismo e la xenofobia non sono una caratteristica occidentale; ad esempio i turchi disprezzano gli arabi e si sentono superiori, gli arabi a loro volta considerano inferiori gli africani neri. Solo in Occidente però le teorie razziali spacciate come scientifiche, sono state fondanti di regimi, non solo quelli fascisti e nazisti, ma anche di quelli coloniali. Lo stereotipo del “fardello dell’uomo bianco” che “civilizza” il mondo, ha nella superiorità razziale e culturale il suo fondamento. Le decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre dei loro paesi o dalla povertà estrema, si riversano sulle rive del Mediterraneo provocando reazioni di paura e rifiuto. Anche in questi giorni di lutto le reti sociali e il web sono pieni di falsità e di gente che specula sul dolore degli altri. Gruppi di estrema destra e leghisti che in questa disgrazia colgono segni di fortune elettorali. Nessuna parte d’Italia è indenne. La stessa Sardegna non si differenzia. Vi sono gruppuscoli di destra che sotto il velo dell’autodeterminazione dei sardi mostrano gli stessi comportamenti xenofobi e razzisti di chi predica “prima gli italiani”. Applicano quanto Borghezio affermò in Francia, che in Italia la vera difesa delle identità era possibile solo con partiti localistici come la Lega e che questi sono il grimaldello per il diffondere politiche nazionalsocialiste. Naturalmente i sardo-leghisti e chi li segue sul web, non sanno che i sardi erano i barbari interni dell’Italia post unitaria. “La Sardegna così presenterebbe una zona doppiamente maledetta: maledetta nella terra, […] immodificabile, maledetta negli uomini, che non hanno facoltà di adattamento alla civiltà! La conclusione sarebbe addirittura dolorosa; e meno male se non si trattasse di applicarla che alla piccola zona delinquente della Sardegna. Ma la logica è fatale e suggerisce altrimenti: la razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità per le origini e pel suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco, condannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa dell’Australia ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre.” Scrive il deputato repubblicano Napolone Colajanni in un pamphlet del 1898 confutando gli scritti di Alfredo Niceforo, definiti “romanzo antropologico” di nessuna attendibilità scientifica. È interessante però che anche un progressista come lui non sfugga a quei cascami di positivismo considerando i non europei inferiori. Niceforo divideva l’Italia unita in due “razze” a nord gli ariani e a sud e nelle isole i mediterranei; lo faceva su basi fisiche, quali la forma del cranio, indici cefalici, circonferenza cranica, fronte, naso, faccia, zigomi, statura, perimetro toracico, peso, colorito, capelli, occhi e barba. Tratti da cui faceva discendere atteggiamenti culturali e psicologici considerati inferiori. Lino Businco, firmatario nel 1938 del Manifesto per la Razza, inserì i sardi tra gli ariani; c’era stata la Prima Guerra Mondiale e la Brigata Sassari, la razza criminale era diventata etnia combattente e il fascismo non poteva accettare di avere la Sardegna abitata da individui di razza inferiore. Nonostante ciò nei pregiudizi e negli stigmi degli italiani del nord, in maniera inconsapevole, sono rimaste le classificazioni niceforiane. Tutta la predicazione leghista anti meridionale ha qui le sue fondamenta. Oggi il sardo razzista accetta, alla fin fine, quelle suddivisioni di fine Ottocento. Si inserisce in una gerarchia, sarà sempre dipendente di una visione in cui lui non sarà alla pari dei Salvini e compagni. Loro la razza eletta, e lui l’ascaro buono per i lavori sporchi. Il 25 di aprile si festeggerà la Liberazione dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma razzismo e xenofobia sono più forti che mai. Una Italia che non si è mai defascistizzata, che negli ultimi trent’anni ha subito una esaltazione dell’odio per il diverso propagandata da Mediaset e anche dalla tv pubblica, ha fatto in modo che i fondamenti culturali del disprezzo si diffondessero fino a diventare sentire comune.
Questa è la triste verità. L’onda migratoria non aiuta e il nostro è un paese di vecchi impauriti, con politiche che mirano alla distruzione della scuola pubblica favorendo l’ignoranza. Chi non è d’accordo con questa visione del mondo ha davanti a sé anni di duro impegno. “Vaste programme“, ebbe a dire il generale De Gaulle a chi gli urlava “mort aux cons”. Fonte: Sardegna Soprattutto.
“Sardi, andatevene”. Quando (trent’anni fa) gli stranieri eravamo noi, scrive il 27 agosto 2013 Francesca Mulas su “Sardinia Post”. Sardi razzisti? A leggere le cronache di questi giorni, e soprattutto la loro eco sui social network, sembra che una preoccupante percentuale di isolani sia sempre più insofferente verso immigrati e stranieri, come già abbiamo raccontato a proposito della prossima visita di Cecile Kyengea Cagliari. “Razzista lo sto diventando, le nostre donne sono minacciate da questi neri se non dai un soldo, le prendono a parolacce ho ti rovinano la macchina se vengono a casa tua e non compri la loro roba poi, per non parlare degli zingari…”, “noi mandiamo dei medici a fare volontariato in congo, questa parassita medico del congo è venuta a fare il ministro in italia”, “…ho letto in una pagina che la ministra vorrebbe riempire i paesi con pochi abitanti con i clandestini che arrivano in Italia…” sono alcuni dei commenti che qualcuno ha lasciato sulla pagina facebook di Sardinia Post. Razzisti chissà, parecchio smemorati di sicuro: sono passati solo pochi decenni da quando la Sardegna per l’opinione pubblica nazionale era sinonimo di omertà, faida, criminalità e soprattutto Anonima Sequestri. Il Corriere della Sera, nell’estate del 1980, dedicava diversi articoli all'”ondata razzista” contro gli emigrati isolani in Toscana: “Sardi, tornate a casa” era l’invito non proprio gentile che si leggeva sui muri fiorentini, e c’è chi parlava di riesumare le più severe leggi antimafia per controllare l’attività dei pregiudicati sardi e dei loro conterranei sparsi per la penisola. La “caccia ai sardi”, come la definiva Alberto Pinna nel Corriere del 27 luglio 1980, trovava le sue radici in alcuni fatti di cronaca e in particolare nel terribile sequestro di tre ragazzini tedeschi vicino a Firenze: il 25 luglio di quell’anno, a Barberino Val d’Elsa, una banda di criminali aveva rapito le sorelle Susanne e Sabine Kronzucker di 15 e 13 anni e il loro cugino Martin Wachtler, 15 anni, mentre trascorrevano le vacanze in casa del principe Filippo Corsini. Accusati del sequestro, che si concluderà solo due mesi dopo e dietro il pagamento di un consistente riscatto miliardario, alcuni esponenti della “filiale” toscana dell’anonima sequestri sarda. Tra questi Mario Saledetto “Bandideddu”, emigrato da Mamoiada e considerato il capo carismatico della banda, ancora oggi latitante, mentre l’unico condannato di questa vicenda sarà Bachisio Manca; i due miliardi e mezzo del riscatto non verranno mai ritrovati. Il pesante marchio lasciato dai banditi sardi che terrorizzavano la Toscana nei primi anni Ottanta offuscherà per anni l’immagine della Sardegna. “Sardi, tornate a casa”, scriveva qualcuno trent’anni fa: anche noi siamo stati immigrati non graditi in casa d’altri.
PERCHÉ I SARDI NON SONO MIGLIORI (O PEGGIORI) DEGLI ALTRI. Pubblicato da Anthony Muroni il 27 luglio 2013. Ben venga il dibattito sui sovranismi, gli indipendentismi, gli autonomismi, le ingiustizie di Roma-ladrona e matrigna, lo sfruttamento da parte delle lobby italianiste. Ma se c’è una cosa insopportabile, in noi sardi, è la tendenza ad appiccicare l’etichetta “Sardo è meglio” a tutto quel passa, nasce, vive o cresce sul perimetro terracqueo dell’antica terra di Ichnusa. Eppure sarebbe facile interrogarsi in maniera onesta su quel che ci circonda per capire davvero se la nostra natura sciovinista ha un qualche fondamento. Un paio d’anni fa, sul tema, si è esercitato con un arguto post sul suo blog uno scrittore emigrato (Alessandro Deroma), che ha ricordato quanto poco genuine siano le produzioni agricole (globalizzate) che ci fanno l’occhiolino nei banconi dei supermercati. E che non è nemmeno vero che ci sia rispetto per l’ambiente, né che ci sia stato negli anni ’70 e ’80. Basta girare per le nostre città e i nostri paesi per notare mostri di calcestruzzo e cemento (spesso non finiti), con serrande, infissi e facciate dei colori più disparati, dei materiali più deperibili, della bruttezza più invereconda. Avete mai poi fatto caso, sempre nei nostri paesi, all’altissima e disordinatissima concentrazione di auto affastellate alla bell’e meglio nei pressi dei bar? Un anziano, a Tresnuraghes, diceva che se fosse stato possibile entrarci dentro (con la macchina), i bar sarebbero stati trasformati in drive in. Oppure avete notato il comportamento di molti dei “cavalieri” degli anni Duemila, sempre nelle nostre sagre paesane? Ancora a Tresnuraghes (ohibò, dovrete abituarvi alle citazioni planargesi) un altro anziano, vedendoli passare, sentenziava: “Prima s’andiada a caddu ‘e s’ainu, como sos ainos andana a caddu”. Vogliamo parlare di ospitalità e cultura dell’accoglienza? Alzi la mano chi non ha provato, anche in Sardegna (esattamente come nel resto del mondo), l’esperienza di aver a che fare con operatori turistici o commerciali impreparati, sgarbati e poco propensi a fare sacrifici? C’è però un appiglio scientifico al quale i sostenitori (ma anche i denigratori) della teoria “Sardo è meglio” potrebbero attaccarsi. Una ricerca effettuata negli Usa ci racconta che possiamo studiare quanto vogliamo ma o nasciamo intelligenti o non lo diventeremo mai. Secondo questa teoria, infatti, l’intelligenza si eredita e non si acquisisce. Lo dice la genetica, scienza esatta nonostante la nostra ancora scarsa conoscenza dell’argomento. L’esperimento condotto sull’attività cerebrale di un campione di soggetti volontari ha rilevato infatti che lì dove nel cervello l’acqua potesse muoversi più facilmente senza ostacoli – essenzialmente grazie ad alte concentrazioni di mielina, rilevata in grandi quantità soprattutto nei figli di genitori muti – la trasmissione degli impulsi era più rapida e dunque migliore la risposta cerebrale agli stimoli. Dunque, se questo fosse vero, la scienza non esclude a priori la possibilità che i sardi siano geneticamente più intelligenti e migliori degli altri. Ma non esclude nemmeno l’esatto contrario. Sarà forse meglio tornare a “su connottu” e lasciare da parte le generalizzazioni.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
FATTI UN AMICO SARDO, CONTRO GLI STEREOTIPI.
Cicerone, gli scrittori latini, la Sardegna e i sardi. Scritto da Francesco Casula. I giudizi e le valutazioni degli scrittori classici latini nei confronti della Sardegna e dei Sardi non sono benevoli: sia quelli di Orazio che di Livio. Quelli di Cicerone sono anzi infamanti e insultanti.
Orazio (65-8 a.c.), il poeta latino famoso soprattutto per le Satire, parlando di Tigellio – musico e cantore sardo, amico di Cesare e di Ottaviano – nella Satira 1.3 scrive che tutti i cantanti hanno questo difetto: che se sono pregati non cantano ma quando cominciano spontaneamente non la smettono più. E questo è il difetto che aveva il sardo Tigellio che non riusciva a far cantare neppure Cesare….In un’altra satira 1.2 dice che per la morte di Tigellio Le suonatrici di flauto, i ciarlatani che vendono rimedi, i mendicanti, le ballerine e i buffoni, tutta questa gente è mesta e addolorata per la morte del cantante Tigellio; e ciò è naturale poiché egli fu generoso. A significare che il musico sardo era esagerato e stravagante.
Livio (59 a.c.-17 d. c.) autore della monumentale Storia di Roma Ab urbe condita libri parlando dei sardi sostiene che erano facile vinci (avvezzi ad essere battuti facilmente). Un giudizio senza alcun fondamento storico e anzi contraddetto dallo stesso Livio, in un altro passo della sua storia, in cui parla di gente ne nunc quidem omni parte pacata (popolazione non ancora del tutto pacificata). E siamo alla fine del 1° secolo a. c.! Dopo l’arrivo infatti delle legioni romane in Sardegna nel 237 a.c. la resistenza alla dominazione romana sarà lunghissima e dura. E’ lo stesso Livio – insieme ad altri storici – a scandire decine e decine di guerre contro la popolazione sarda da parte dei consoli romani: fin dal 236 un anno dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Per continuare nel 235, quando i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue da Manlio Torquato, lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora e che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini. Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233. Nel 232 sarà il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfo celebrandolo il 15 Marzo. Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone – la testimonianza è sempre dello storico Zonara – chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.
Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea lo storico sardo PietroMeloni (in La Sardegna romana ,Chiarelli editore) – Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.
Ci saranno infatti rivolte ancora nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma e i Romani non potevano opporre resistenza perché le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.
Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 – due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.
Commenta (in Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna)) lo storico sardo Salvatore Merche: La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere. Altro che Sardi facile vinci! Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove. Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio Sardi venales : da vendere a basso prezzo. Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo informazioni – perché andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo ex Sardinia di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.
Ma è Cicerone lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, di cui parla soprattutto in Pro M. Aemilio Scauro oratio. L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. Questi è accusato di tre “crimini”: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto che essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: i due reati (veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo, – sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi (in Storia della Sardegna, Mursia editore) – non erano tali da preoccupare un avvocato dell’abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo. Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni – laudatores – a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato. Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro. Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento, non ci sia pervenuta. Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes). Ma c’è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l’accusa più grave e insultante, oggi diremmo “razzistica”: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gentenemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?). Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere. A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d’accordo con il suo “compare” Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Ma si tratta – si chiede lo storico Carta-Raspi nell’opera già citata – di artificio oratorio o ignoranza? Probabilmente dell’uno e dell’altra insieme. Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua “origine”. Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i giudici che lo mandarono assolto. Ma uno degli accusatori, Publio ValerioTriario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone. E pochi anni dopo, come ricorda nella tragedia Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda, (Editziones de Sardigna) il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, Cicerone viene decapitato dal centurione di Marc’Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato, ipse dixit. Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: “Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d’ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri”. Difficile dare torto a Vivanet.
Lettura: Testo tratto da [PRO M. AEMILIO SCAURO ORATIO di M. Tulli Ciceronis, introduzione, testo critico, traduzione, note a cura di Alfredo Ghiselli, seconda edizione riveduta, Casa editrice Prof. Riccardo Pàtron, Bologna, pagine 82-85] “…At creditum est aliquando Sardis. Et fortasse credetur aliquando, si integri uenerint, si incorrupti, si sua sponte, si non alicuius impulsu, si soluti, si liberi. Quae si erunt, tamen sibi credi gaudeant et mirentur. Cum uero omnia absint, tamen se non respicient, non gentis suae famam perhorrescent? Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monumenta uetustatis atque omnes historiae nobis prodiderunt. Ab his orti Poeni multis Carthaginiensium rebellionibus, multis uiolatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi constituti, sed amandati et repudiati coloni. Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? Hic mihi ignoscet Cn. Domitius Sincaius, uir ornatissimus, hospes et familiaris meus, ignoscent de(nique omn)es ab eodem Cn. Pompeio ciuitate donati, quorum tamen omnium laudatione utimur, ignoscent alii uiri boni ex Sardinia; credo enim esse quosdam. Neque ego, cum de uitiis gentis loquor, neminem excipio; sed a me est de uniuerso genere dicendum, in quo fortasse aliqui suis moribus et humanitate stirpis ipsius et gentis uitia uicerunt. Magnam quidem esse partem sine fide, sine societate et coniunctione nominis nostri re(s) ipsa declarat. Quae est enim praeter Sardiniam prouincia quae nullam habeat amica(m) populo Romano ac liberam ciuitatem? Africa ipsa parens illa Sardiniae, quae plurima et acerbissima cum maioribus nostris bella gessit, non solum fidelissimis regnis sed etiam in ipsa prouincia se a societate Punicorum bellorum Vtica teste defendit. Hispania ulterior Scipionum int(eritu) ***…”.
Traduzione “…«Qualche volta – si dirà – si è pur voluto credere ai Sardi ».E forse qualche altra volta si crederà, se verranno qui da persone oneste, incorrotte, di loro iniziativa, non spinti da qualcuno, indipendenti, liberi. Se così sarà, potrebbero alla fine gioire della nostra fiducia e restarne ammirati. Ma siccome tutto ciò è lungi dall’essere, non vorranno una buona volta rivolgere gli occhi su se stessi, sentire orrore per la cattiva fama della loro gente? La stirpe più falsa è quella dei Fenici: tutti i documenti dell’antichità, tutta la storia ce lo tramanda. Discesi da questi, i Punici, per le molte insurrezioni dei Cartaginesi, per i patti tante volte violati e infranti, ci hanno mostrato che non sono affatto degeneri. Dai Punici, ai quali si è mescolato un ramo degli Africani, i Sardi non furono regolarmente mandati in Sardegna per fondare città e fissarvisi stabilmente, ma in qualità di coloni relegati ed esiliati. E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi? Qui vorrà perdonarmi Gn. Domizio Singaio, persona degnissima, ospite e amico mio; lo vorranno coloro (tutti) che come lui, da Gn. Pompeo sono stati gratificati della cittadinanza romana, gli elogi unanimi dei quali tornano a nostro favore; vorranno perdonarmi gli altri galantuomini della Sardegna; io credo che alcuni ve ne siano. E del resto, quando parlo dei difetti di un popolo, non è già che io non eccettui nessuno; ma io debbo parlare di una nazione in generale, ed è verosimile che in essa alcuni, in virtù dei loro costumi e della loro umanità, siano riusciti a trionfare dei difetti della gente e della stessa origine. Ma è evidente che la maggior parte è senza lealtà, senza possibilità di associarsi e di congiungersi col nostro popolo. Quale provincia c’è, eccetto la Sardegna, che non abbia nessuna città amica del popolo romano e libera? La stessa Africa, la madre della Sardegna, quella che condusse contro i nostri avi moltissime e accanitissime guerre, si è ben guardata dal partecipare, non solo coi regni più fedeli, ma nell’ambito della provincia stessa, alle guerre puniche, e Utica ne è testimone. La Spagna Ulteriore (alla morte) degli Scipioni ***…”
Gli stereotipi duri a morire sulla Sardegna, scrive di Marcello Fois su "La Repubblica", il 30 giugno 2012. Parlare oggi di banditismo in Sardegna è come aprire l’armadio di casa e provare a indossare, dopo vent’anni, l’abito del proprio matrimonio. Quella giacca che non si abbottona ci ricorda che non siamo più gli stessi, che ci siamo trasformati senza rendercene conto. Il nostro fisico si è espanso, gli assetti e le proporzioni sono cambiati. Così il corpo sociale di una Regione che si preferisce pensare immobile. I miti del balente, del bandito, dell’anonima sequestri, sembrano ancora vivi solo a chi non considera l’evoluzione della società sarda negli ultimi trent’anni. Tuttavia quello della delinquenza resistenziale è stato un mito esotico persino per molti sardi che dovevano subirlo come endemico in virtù di una tendenza generalizzante che vedeva, e spesso ancora vede, la Sardegna tutta uguale, tutta pastorale, tutta rivendicativa, tutta arcaica. Come guardarsi l’ennesimo film americano in cui tutta l’Italia è rappresentata da tovaglie a quadri, fisarmoniche, mandolini e gondolieri che cantano Santa Lucia. L’isola banditesca dunque è innanzitutto un luogo comune e ha rappresentato un modello storicamente funzionale a giustificare tentativi di lavanderia sociale e a sfumare le plateali deficienze dell’amministrazione locale e nazionale nei confronti di quella periferia. Ribadiamolo: equiparare quel modello territoriale alla Sardegna in toto significa affermare che i siciliani sono endemicamente mafiosi o che i genovesi sono tutti taccagni. Eppure il balente, il bandito, l’anonima sequestri sono state, sono e saranno cose serissime che hanno caratterizzato un disagio pesantissimo, una difficoltà precisa della Sardegna interna di trovare un tratto di convivenza partecipata nella nazione Italia. La crisi nelle Barbagie, periferiche, ignorate, trascurate, è più crisi; la disoccupazione, più disoccupazione; il ricatto del pane, più ricattatorio. Siamo quattro gatti che contano poco in una regione di quattro gatti che contano pochissimo. Siamo stati arruolati; siamo morti di leucemia fuori e dentro casa nostra; siamo stati deportati in fabbrica secondo un assurdo modello di industrializzazione coatta; siamo stati licenziati successivamente secondo uno schema di sacrifici ad personam. Nel mito, nei nostri sogni di gloria, a tutto questo ci siamo ribellati; nei fatti abbiamo semplicemente considerato cura una malattia peggiore: quella del livore sociale. A noi si dice continuamente che gli sforzi per affrancarsi da questo sentimento sono inutili, che noi siamo i figli cadetti di questa regione di figli cadetti. A noi si dice che sarebbe auspicabile un assetto in cui come operosi trogloditi dell’interno contribuiamo, in orbace, a soddisfare i desideri del turista che in Barbagia vuole brividi, sguardi torvi, donne con i baffi. Che vuole ospitalità incondizionata, un po’ fessacchiotta e amicizia sempiterna: si sa come son fatti sardi no? Quando ti sono amici, ti sono amici per tutta la vita. Per questo motivo il mitema facilone della primula rossa in questo preciso momento storico del Paese è quanto di peggio si possa offrire a tutta la massa di disoccupati che, gioco forza, affollano i bar dei paesi dell’interno in Sardegna. Perché la risposta retorica, la richiesta di folk, è letale esattamente come la solita, esclusiva, priva di argomenti, risposta repressiva. E ci si chiede fino a che punto, visto che comunque ci disegnerebbero così, noi sardi dell’interno per primi non ci siamo convinti che l’unica giacchetta che ci sta bene è quella del balente, del banditismo, dell’anomica sequestri. E così, pateticamente, cerchiamo di abbottonarla nonostante la pancetta.
Bandito italiano, giudice sardo, scrive Gianni Cilloco. Identità tra pregiudizio ed accoglienza dell’altro – lo stereotipo del banditismo sardo ha radici lontane – per la cultura dei pastori sardi, la giustizia era un valore più importante del pane quotidiano. Nei giorni scorsi i mass-media nazionali hanno annunciato nelle pagine di cronaca nera l’attribuzione di un efferata condotta criminale ad un noto individuo, dalla non certo limpida fedina penale, in quel di Olbia; in quasi ironica contemporaneità, nella sezione spettacoli e cultura, è stata data notizia della morte di un celebre giudice dalla carriera pubblica e televisiva sfolgoranti. Ovvie ed eque la stigma e la condanna per chi si rende autore di gravi reati; legittimi ed opportuni gli onori tributati e l’indicazione ad esempio di coloro che, nel corso della loro vita, hanno condotto un encomiabile esistenza al servizio della collettività, specie in un’epoca di crisi sociale e culturale come l’attuale. In queste notizie, tuttavia, si è assistito anche alla propugnazione di alcuni aspetti peculiari: nel primo caso, infatti, si è dato rilievo ad un epiteto identificativo, il bandito sardo; nel secondo caso, invece, l’esemplarità del soggetto non ha dato luogo all’evidenziazione dell’origine isolana, sebbene il noto magistrato fosse originario di Ghilarza (OR), centro abitato posto al centro della Sardegna. Tali elementi identitari citati, proprio in quanto trasmessi al grande pubblico, forniscono l’opportunità per alcune riflessioni. I dibattiti dei nostri giorni ruotano intorno al concetto d’identità e di relazione con l’altro, categorie meta-scientifiche e sociali tra di loro strettamente interconnesse. La produzione dell’altro, infatti, è un meccanismo nutrito di schemi di necessità, fenomeno che è verificabile in tutte le società umane della storia, nelle quali si assiste frequentemente alla creazione di un male che sta al di fuori della collettività maggioritaria, concezione generata dal fatto che l’altro, in quanto diverso, si delinea essere una domanda, un enigma, un’incognita capace di suscitare paura vicendevole tra le parti coinvolte ed, al contempo, una reciproca solitudine. L’automatismo relazionale descritto nasce in conformità a una convinzione presupposta per la quale nel proprio recinto si autodefinisce il bene, al fine di incanalare al di fuori tensioni e pulsioni a sostanziale effetto di autodifesa e di reazione alla paura, similmente al noto sistema dei “capri espiatori” di antica origine,come descritto nelle opere di René Girard. L’antropologo transalpino, in particolare, ha teorizzato tre particolari modelli a riguardo. Una prima forma è legata alla crisi delle regole e delle differenze gerarchiche e funzionali che definiscono gli ordini culturali, nei quali esiste una forte tendenza a spiegare il fenomeno attraverso cause sociali e morali, con conseguente messa in stato di accusa sia della società nel suo insieme sia di individui in apparenza particolarmente nocivi a prescindere dalla relativa concreta debolezza personale, ritenuti colpevoli di peculiari tipi di crimine a trasgressione dei locali tabù più rigorosi. Il secondo prototipo è quello delle accuse stereotipate, nel quale, prescindendo dalla reale commissione del misfatto, importa la credenza della reità senza necessità di stabilire la prova. Il terzo preconcetto, poi, inerisce l’appartenenza delle vittime della persecuzione a certe categorie già soggette alla vessazione, nel quale «…le minoranze etniche o religiose tendono a polarizzare contro di sé le maggioranze…». Accanto ai considerati criteri religiosi e culturali, esistono anche quelli puramente fisici, come le dissomiglianze etnico-somatiche, la malattia, le deformità e le infermità, e quelli di natura sociale, come la provenienza da un altro paese, la povertà o le diverse ulteriori forme di emarginazione nella collettività. Da tutto ciò si rivela evidente come l’identità sia una scelta, una decisione. Quando l’opinione pubblica di un Paese sceglie le sue vittime in una certa categoria sociale, etnica o religiosa, essa tende a focalizzarsi solo sulle diversità e ad attribuire a queste le infermità e le deformità che rafforzano la polarizzazione, ossia l’assolutizzazione di sé e la correlativa demonizzazione dell’altro, sfociando, talora, in un “noi” contrapposto, secondo uno schema filo-manicheo, ad un “voi” unitamente a caricature opportuniste e para-razziste, fenomeno nel quale la persecuzione e l’odio si scatenano quando nell’altro non si vede un altro nomos, un’altra norma, bensì un’anomalia, un’anormalità in ragione della quale l’infermo si muta in deforme e lo straniero in apolide. Detta concezione tende, anche in buona fede talora,all’omologazione ed alla generalizzazione dei soggetti in categorie spesso percepite come negative, in quanto non permette di poter distinguere l’altro come eterogeneo dal proprio sistema, mettendo così in crisi lo stesso impianto del contesto generale di riferimento, ormai incapace di caratterizzarsi. A reazione si genera oggi un razzismo paradossalmente senza razza, dove la cultura è concepita come sistema impermeabilizzato verso l’esterno e nel quale, nel caso entrino in circolo fattori estranei e nuovi,sussiste la percezione di un prossimo pericolo di contaminazione e di danno all’integrità originale. A tale proposito è anche curioso notare come in molte lingue i contrapposti concetti di familiarità e inimicizia abbiano frequenti comuni origini etimologiche, come nel caso dell’idioma latino in riferimento alle vocihostis, il nemico, ed hospes, l’ospite. In più circostanze, poi, è stato fatto notare come aspetti storici di certe nazionalità o di patrie di origine possano essere spesso presentati alla collettività in modo cristallizzato, rappresentazione di circostanze e condizioni ormai non più corrispondenti al presente, immutate e immobili come in una vecchia fotografia istantanea, sebbene sempre pronta a essere riesumata nel presente, con un certo opportunismo o una non tanto dissimulata malizia, alla prima occasione, come in occasione del fenomeno narrato in apertura del presente scritto. Lo stereotipo del “banditismo” sardo, infatti, ha radici lontane ed ha origine da un passato che ha visto un buon numero di paesi dell’Isola avere un proprio esponente alla ribalta. Il termine bandito deriva dallo spagnolo bandeado, “messo al bando” e perseguitato, escluso ed estraniato dal contesto sociale e culturale secondo aspetti propriamente identitari ed idealistici, fenomeno ai confini della non definibilità e configurabile come una sorta di “ribellismo” non certamente attinente a quella che è descritta come la criminalità comune o agli eventi evidenziati alla cronaca sugli attuali balenteddus, scimmiottamento di modelli ancestrali, privo di sostanza ed al più delineabile come disadattamento sociale. Alla base dei relativi fenomeni storici era l’ambiente agro-pastorale ed,in particolare, la condizione esistenziale del pastore, uomo solo come una fiera, dalla vita precaria e piena di paure, per il quale la vendetta era la norma regolativa della convivenza, secondo criteri di proporzionalità, gradualità e prudenza, unitamente all’ostentazione della personale balentìa, connubio di qualità come orgoglio e valore virile. Per la cultura dei pastori sardi la giustizia era un valore più importante del pane quotidiano, ma doveva avere origine dalla comunità locale,in quanto qualora imposta dall’esterno, da uno Stato non espressione della società originaria e senza tenere conto del contesto di applicazione, si sarebbe tramutata in un male portatore dei germi dell’arbitrio e dell’abuso. Tali considerazioni ben fanno comprendere perché si fosse o si diventasse banditi sull’Isola, ossia non perché esistesse il codice di vita barbaricino, del pastore, ma in quanto sussisteva l’ordinamento statuale fondato su valori altri, su strutture e principi terzi completamenti estranei a certe mentalità e culture dell’interno sardo. Un sistema di valori che, comunque, nella storia d’Italia ha visto i Sardi passare dalla figura di indiscriminati banditi, selvaggi facenti parte di una razza (inferiore) a parte, alla considerazione di eroi e “salvatori della Patria” nel corso del Primo Conflitto Mondiale attraverso le gesta della Brigata Sassari. Un atteggiamento ostile verso l’altro nella mentalità diffusa che pare avere un seguito, un continnum logico connesso al mondo della migrazione, ove il vocabolo “immigrati” risulta essere il termine generalizzante e semplificatorio verso i terzi, fenomeno storico che ha visto e che vede tuttora il coinvolgimento delle stesse genti di tutte le zone d’Italia, dal Piemonte alla Sicilia, dal Veneto alla Sardegna, come ben verificabile anche presso il Museo Nazionale dell’Immigrazione Italiana, inaugurato lo scorso mese di ottobre a Roma, presso il complesso del Vittoriano, simbolo per eccellenza dell’Unità Nazionale, a ricordo e monito di quello che si è stati e che attualmente si è. Guardando all’odierna ostilità, talora fobica, verso le nuove migrazioni si può parlare di memoria nazionale distorta, di oblio della storia e di false auto-rappresentazioni dell’identità del “Bel Paese”, comportamenti che rischiano di portare a conseguenti considerazioni errate sul senso delle cose e della vita e nelle quali prevale un rifiuto ed un timore per una condizione esistenziale che ha riguardato gli stessi italiani nel passato, oggetto loro stessi di stereotipi e pregiudizi nei luoghi di arrivo e, sebbene in condizioni differenti, anche oggi con la “fuga dei cervelli”. Oggi è osservabile una paradossale ed antitetica cultura negativa latente avversa verso l’immigrato, sebbene questi non sia altro che una sorta di sostanziale specchio riflettente della stessa identità di chi potrebbe o dovrebbe accogliere coloro che lasciano la propria patria di origine in cerca di fortuna. Ospitalità ed accoglienza, in fin dei conti, sono valori universali e possono essere quei ponti comuni intercorrenti tra popoli di diversa origine, ma di radici comuni,come si potrebbe dedurre da uno studio interdisciplinare e dalla stessa storia degli abitanti della penisola italica. Esiste, infatti, la xeniteía, la cosiddetta “stranierità” insita in ogni individuo,caratteristica di cui ognuno è più o meno consapevole, in grado di far riconoscere nell’altro un soggetto nella stessa condizione e capace di favorire l’incontro, evento che può determinare la conoscenza, la quale presuppone, a sua volta, la volontà di dare tempo all’altro, di ascoltare e di condividere con terzi e di creare potenzialmente il dialogo, sebbene esso sia a sua volta un rischio, un esistenziale “uscire dalla propria terra” verso l’ignoto (Genesi XII, 1 e ss.), rinunciando, percome è stato conosciuto sino al momento della “partenza”, al proprio sé. Un’opportunità per riprendere alcuni insegnamenti di saggezza del passato, come il motto dell’antico oracolo di Delfi ed il monito del filosofo greco Socrate, entrambi invitanti al “conosci te stesso“, cui la stessa moderna psicologia fa richiamo quando afferma che l’individuo non ha mai nozione completa di sé e fatica ad accettarsi, anche in relazione alla memoria, specie se connotata di sofferenza, condizione comunque in grado di creare spunti di condivisione e di comprensione se opportunamente canalizzata. Aspetti di rispetto e di riconoscimento di valore dell’altro che trovano espressa affermazione anche presso le grandi confessioni mondiali, come nel caso di un celebre apologo buddhista tibetano che, comprendendo la paura per lo sconosciuto, invita ognuno ad avvicinarsi allo stesso individuo per diventare prima uomini e poi fratelli, o in relazione ai tre grandi monoteismi vicinorientali che, prendendo origine da Abramo e dal celebre episodio biblico dell’ospitalità presso le querce di Mamre (Genesi XVIII, 1-15),hanno coniato con i precetti del Pentateuco, rispettosi dello straniero a memoria della schiavitù d’Israele in Egitto (Esodo XXIII, 9, e Levitico XIX, 18-34), dell’insegnamento cristiano (Luca X, 27, e Matteo XXV, 35, e Lettera agli Ebrei XIII, 2) e del Corano (V, 48, e XLIX, 13), un sistematico invito interculturale all’accoglienza ed alla condivisione del”forestiero” senza snaturare se stessi in un passivo remissivismo identitario.
LEGGENDE SARDE: CHI FURONO VERAMENTE I BANDITI? DA OMICIDA SANGUINARI A EROI ROMANTICI scrive Valentina Vanzini. “Belli, feroci, prodi” così lo scrittore Sebastiano Satta descriveva, in una delle sue opere di fine Ottocento, i banditi sardi, figure mitiche e avvolte dal mistero. Sconosciuto a molti, e poco esplorato, per lungo tempo il fenomeno del banditismo sardo è stato bollato come semplice manifestazione di una criminalità rurale figlia della povertà e dell’ignoranza. Scuri, sporchi, cattivi, i briganti venivano paragonati ad animali, uomini che non erano uomini, ma bestie, capaci di compiere ogni efferatezza ed omicidio solo per il gusto di veder scorrere il sangue. Solo oggi, a distanza di tempo, e nella giusta prospettiva storica, è possibile iniziare a comprendere e a studiare il banditismo sardo andando al di là dei classici stereotipi cercando le risposte e soprattutto ponendosi le domande giuste. Chi furono dunque questi uomini e queste donne che decisero di darsi alla macchia? Quali erano le loro storie personali? Perché fecero una scelta così radicale sapendo di mettere in pericolo la loro vita? Dare una risposta non è facile soprattutto di fronte ad un evento così intricato e complesso come quello del banditismo. Un fenomeno antico almeno quanto la Sardegna perché questo popolo, vessato e conquistato da forze straniere per secoli, la ribellione l’ha sempre avuta nel sangue. Basti pensare che le prime tracce di banditismo risalgono addirittura alla fine del Duecento e all’inizio del Trecento, sono presenti infatti accenni ad alcune ribellioni e atti criminali contro le autorità in due documenti molto antichi risalenti a quel periodo, ossia gli Statuti Sassaresi e la Carta De Logu. A partire da questo momento il fenomeno del banditismo si sarebbe consolidato sempre più, sia nel periodo medievale che in quello della dominazione spagnola. In una terra abbandonata a se stessa, dove vigeva la legge del più forte e quella del sopruso, la ribellione sembrava, per le classi più povere, l’unico modo per salvarsi da una fine ormai scritta. “Il banditismo” scriveva l’avvocato Gonario Pinna all’epoca analizzando il problema “nasce come degenerazione della latitanza o come forma diretta di ribellione, era la sola possibilità” conclude nei suoi scritti “di reazioni ad angherie economiche o la disperata risposta ad atti di denegata giustizia” Già da queste parole sembra emergere un particolare interessante, ecco dunque per cosa si ribellavano questi uomini e queste donne: la mancanza di giustizia. Tanto che qualche secolo dopo, fra il Seicento e il Settecento, il banditismo era ormai diffuso a macchia d’olio su tutta l’isola. La Sardegna divenne negli anni aragonese, spagnola e piemontese, senza che nulla cambiasse di fatto: sfruttata e derubata delle sue risorse fino a quando il conquistatore ne aveva bisogno, per il resto lasciata poi a se stessa, soggetta alla legge della sopravvivenza e controllata dalla prepotenza e dai soprusi dei singoli e dei gruppi locali più forti. Ma la vera svolta avvenne tra il 1820 e il 1840, fu in quell’epoca che fu emanato l’Editto delle Chiudende e quando i sardi videro scomparire per sempre su connottu (il conosciuto). Le riforme dei re piemontesi infatti mettevano fine all’antico sistema di vita fino ad allora conosciuto e spazzavano via l’orientamento sociale dei sardi. Fino a quel momento tutte le terre che si trovavano intorno ai villaggi erano considerate di comune proprietà, non esisteva un singolo proprietario dei possedimenti e le terre venivano condivisi dagli abitanti del paese che le utilizzavano per i loro bisogni. Il 6 ottobre 1820 questo sistema di vita venne eliminato completamente generando una lotta per il possesso che avrebbe scatenato l’inferno. L’editto infatti stabiliva che chi “chiudeva” un determinato territorio ne diveniva proprietario, da qui una corsa all’accumulazione senza controllo con violenze, chiusure abusive e soprusi messi in atto da chi possedeva abbastanza mezzi ed era abbastanza forte da potersi accaparrare tutta la terra che voleva. Innalzare muri, sbarrare le entrate, difendere il terreno conquistato da chi voleva invaderlo, divennero gli imperativi. La solidarietà paesana e l’idea di condivisione scomparvero lasciando spazio a sanguinose faide e lotte che bagnarono di sangue l’intera isola. La legge escluse tutti coloro che non erano riusciti a divenire padroni della terra e creò un’enorme abisso fra i ricchi possidenti, pochissimi, che costringevano gli altri cittadini a pagare per utilizzare i terreni, e i tanti pastori e agricoltori rimasti senza nulla. La prima rivolta scoppiò nel 1932 quando a Nuoro i pastori, affamati e disperati, abbandonati al loro destino, iniziarono a distruggere le chiusure. I soldati del re intervennero per sedare la rivolta portando con sé una scia di arresti, torture e uccisioni sommarie, ed acuendo sempre più l’idea di una vera e propria aggressione da parte degli abitanti del “Continente” contro il modo di vivere e di lavorare dei Sardi. Fra il 1835 e il 1840 un altro trauma investì la Sardegna, questa volta ancora più forte e violento: l’abolizione del feudalesimo. Un’operazione che avrebbe dovuto portare libertà ed eguaglianza non fece altro che sostituire i vecchi padroni con altri nuovi padroni forse ancora più crudeli ed esigenti. Lo Stato, che poteva difendere la popolazione ed aiutare quelle terre a crescere, non fece altro che impoverire ancora di più coloro che erano già poveri, mentre dall’altra parte conferì nuovo potere “alle grandi famiglie” che in ogni paese assunsero il controllo arricchendosi e divenendo sempre più potenti. Disperate rivolte scoppiarono in tutto il paese senza ottenere nessun risultato se non nuove sanguinose repressioni. Fra il 1820 e il 1870 il sistema di vita della Sardegna fu allineato a quello del resto del Continente con una serie di misure in cui i Sardi, e soprattutto la gente semplice, pagarono il prezzo più alto. Si iniziava a delineare allora un distacco, sempre più forte e drammatico, fra l’isola e il resto dell’Italia, uno Stato che sembrava in grado solo di dettare leggi che affamavano e depredavano la popolazione. Il rifiuto orgoglioso di una situazione di miseria, abbandono e sfruttamento, avrebbero portato centinaia di uomini e donne a ribellarsi in un modo disperato e feroce ad un sistema che non volevano né potevano accettare. Il resto è storia: la Caccia Grossa, con migliaia di soldati impegnati a ricercare con ogni mezzo e a giustiziare i banditi, una vera e propria “caccia” in cui le bestie da ammazzare erano i banditi e i cacciatori i soldati inviati dal Continente, spietati e pronti a tutto. Ma anche i primi processi, le rivolte delle città e la Disamistade di Orgosolo, fino a forme più estreme di criminalità e violenza. Giudicare nel modo esatto il banditismo sardo, e soprattutto i banditi, ancora oggi appare difficile. Non solo per la situazione sociale ed economica in cui si trovarono a vivere e in cui, di conseguenza, nacque questo fenomeno, ma soprattutto perché prima di essere banditi queste persone furono uomini e donne, ognuno con la sua storia di povertà e di soprusi, ognuno con la volontà disperata di trovare un riscatto di fronte a qualcosa che sentivano di aver perduto per sempre. Belli, feroci, prodi, ma anche coraggiosi e sanguinari, eppure così umani, spogliati del mito e della fantasia questi banditi ci appaiono oggi per quello che erano: dei ribelli, a tratti violenti, a tratti quasi romantici, eppure mai così vicini a noi.
Sardegna, non ci salverà una canzone di Mogol, scrive Francesca Petretto su “Il fatto Quotidiano”. Quando ho saputo che Mogol, eccelso artista e poeta – l’uomo che insieme a Battisti ha lasciato un segno indelebile nella musica non solo italiana, ma mondiale – aveva deciso di omaggiare la mia isola con una sua canzone, non riuscivo a crederci. La Sardegna ha ispirato, nel corso dei secoli, tantissimi artisti, scrittori, poeti: Lawrence, Carlo Levi, Grazia Deledda, fino a Fabrizio De Andrè che ne ha fatto la sua seconda casa. Ora anche Mogol e – mi sono detta- chissà con quale maestria sceglierà le parole più adatte per descrivere la meraviglia della mia terra, lui che di parole se ne intende più di chiunque altro? Poi ho ascoltato la canzone e allora si, che non riuscivo a crederci per davvero! S’intitola Sardinia, Sardinia: parole di Mogol, musica di Gino Marielli dei Tazenda, interpretata da Pago accompagnato dal coro delle Balentes. La melodia è un incrocio tra un jingle pubblicitario per la Costa Crociere e il pezzo “In fondo al mar” tratto dal film Disney La Sirenetta; tanto che, ad un certo punto, mi aspettavo di veder spuntare fuori, nel video, il granchio Sebastian che cantava a squarciagola circondato da tutti i pesci del mare. Le parole, sulle quali tanta speranza avevo riposto, sono tutt’altro che ricercate, a meno che non immaginiamo che a scriverle sia stato un bimbo di quarta elementare, che parla della sua appena trascorsa vacanza in Sardegna e non Mogol in persona. «Questa canzone è nata da un dispiacere. Ero preoccupato dalle tante brutte notizie che sentivo sulla crisi dell’economia sarda. Mi ha colpito in modo particolare il gran numero di disoccupati» ha spiegato Mogol «E mi sono chiesto cosa potessi fare per la Sardegna. Ben poco, ma io scrivo canzoni e così ho chiamato i Tazenda. Abbiamo pensato a una canzone festosa, una cartolina amorosa che deve accogliere chi arriva qui». Il gesto del poeta Mogol è lodevole e nobile negli intenti, purtroppo dispiace e delude non poco la superficialità – per non dire banalità – con la quale viene descritta una terra come la Sardegna; “la gente che viene e va”, “un tuffo nel blu”, “ le vele sul mare rallegrano il cuore”, tutto è visto in un’ottica di eterna vacanza, una specie di “isola che non c’è” che vive attraverso gli occhi di un turista distratto che passa una decina di giorni in paradiso, per poi ritornare al grigiore della sua città, in continente. A questo proposito, l’assessore regionale al turismo Francesco Morandi, sente la necessità di sottolineare che “per noi, questa canzone è uno straordinario spot per la promozione turistica”. Una canzone ci salverà. Questo è lo slogan e l’assessore ne è convinto. Il problema qui non è Mogol che, preso da un comprensibile innamoramento per una terra magica come la Sardegna, decide di scrivere una canzone low profile e di farne dono alla Regione, semmai il vero problema è che si creda di poter usare una canzoncina estiva come incentivo al turismo di massa, di cui peraltro la Sardegna non ha affatto bisogno, rinunciando ancora una volta a puntare su altre ricchezze del territorio sardo, su un altro tipo di turismo, che possa realmente aiutare a risolvere il terribile problema della disoccupazione, ad esempio attraverso una riqualificazione delle zone interne dell’isola; non solo “tuffi nel blu”, ma riscoperta delle tradizioni, della storia di una terra antica e affascinante, dell’arte e della poesia sarda, cercare di creare un turismo che non sia solo legato alla stagione estiva, ma che sia presente tutto l’anno. Riflettendo su questo punto, mi sono imbattuta in un blog davvero singolare: quello di Roberto Carta. La sua particolarità sta nel fatto di essere scritto interamente in lingua sarda. Chi è “diversamente sardo” dovrà ricorrere ad un traduttore, ma ne varrà di sicuro la pena. L’importanza della lingua sarda e della sua storia, potrebbe essere un altro punto da approfondire nell’ottica di un nuovo modo di intendere il turismo in Sardegna. Il post che ha catturato la mia attenzione parlava, per l’appunto, della canzone ‘incriminata’ e sposava per intero il mio punto di vista sulla questione.
Riporto solo alcuni passi, quelli a mio avviso più importanti: “Giai su printzìpiu de sa cantone, «isula biaita», nos narat ite? Forsis de unu logu chi est mare ebbia, cun sa «zente chi andat e torrat» e chi est in chirca «de libertade». Chie la chircat custa libertade? Su turista de passazu chi nche barigat 15 dies chena ischire nudda de su logu chi lu faghet istranzare e chi bidet su mare biaitu ebbia? […….] B’at de narrere una cosa, nois sardos amus apretadu meda pro unu turismu crabarzu (bortulamus su cuntzetu, diat essere ora), chi non at idea peruna de fungudumine ma si presentat ladu che limba imbreaga. Unu turismu istracu oramai, e custa cantone, si est a la narrere tota, nos torrat meda s’istrachidudine de s’idea turìstica chi gighimus in conca”.
“ Già l’inizio della canzone, “isola azzurra”, che cosa ci dice? Forse ci racconta di un luogo che è solo mare, con la “gente che va e viene” in cerca “di libertà”. Chi la cerca questa libertà? Il turista di passaggio che rimane 15 giorni senza sapere nulla del luogo che lo ha ospitato e che vede il mare blu e basta? […..] C’è da dire una cosa, noi sardi siamo stati troppo frettolosi nell’accettare un turismo di poco spessore (sarebbe ora di rovesciare la situazione), che non ha nessuna idea di profondità, ma si presenta piatto come una lingua ubriaca. Un turismo stanco ormai, e questa canzone, se devo dirla tutta, ci restituisce parecchio la stanchezza dell’idea di turismo che abbiamo in testa”.
Il carattere dei Sardi. La fiducia di noi sardi, va conquistata col tempo, non diamo mai tanta fiducia a chi non conosciamo, non rientra nella nostra mentalità. Siamo diffidenti verso gli estranei e sinceri e leali verso gli amici ed ancora, gli ospiti desiderati sono "sacri", per il sardo, scrive “Giurtalia”. Detti pregi e difetti, sono tanto più accentuati, tanto più ci si avvicina all'entroterra, al cuore dell'isola. Nonostante la globalizzazione, è certo che fra cent'anni, un sardo terrà ancora dentro sé, una buona...........porzione di diffidenza e di orgoglio. Guai ad urtare la suscettibilità di un sardo, e se ciò accadrà, per ricucire il rapporto, occorreranno tutti e cinque i sentimenti. Avere un amico od un collega sardo, è quanto di più bello e prezioso si possa avere, egli metterà a nudo tutte le sue doti di coraggio e di lealtà; i sardi sono inoltre persone affidabili e molto generose con i loro amici, essi hanno un animo genuino e tengono molto alla tradizione ma anche alla buona cucina. Essi sono poco inclini allo scherzo, ed essere permalosi e testardi, per noi vuol dire avere dignità quindi non ci prostriamo mai ai piedi di alcuno. Siamo fieri di essere noi stessi, sia come persone che come sardi. Noi conosciamo bene quali siano le nostre debolezze e le sappiamo accettare, ma non amiamo che gli estranei le facciano proprie e ce le rinfaccino. Il fatto che la nostra regione abbia una scarsa densità di popolazione, dato che la malaria ha predominato per centinaia di anni, mietendo come sappiamo, tantissime vittime e lasciando ampi vuoti generazionali, ha influito sul nostro carattere e sulla nostra psicologia. Una cosa che è sempre mancata ai sardi, è l'unità, infatti un antico proverbio recita: "Centu concas, centus berritas", ossia cento teste, cento capelli, e poi ancora "Pocos, lojos y mal unidos" pochi, pazzi e disuniti, come ci appellavano i nostri cugini aragonesi; in passato siamo stati spesso divisi ed antagonisti, ed ancora oggi è così, ascoltiamo in proposito, ciò che si dicono i cagliaritani ed i sassaresi. Le donne sarde, di solito sono oneste senza sfoderare la timidezza ipocrita, sopratutto quelle del centro Sardegna, meno smaliziate, delle signorine di città. Esse nascondono ancora il fascino della loro bellezza, dietro le lunghe gonne scure plissettate. E poi c'è la musica sarda, che meglio di ogni altra cosa, esprime l'animo del nostro popolo e forse è proprio nella musica che riusciamo ad individuare meglio il carattere dei sardi. Sia la lingua che la musica sarda, hanno esercitato da sempre un grande fascino sugli studiosi della nostra terra. Altissimo è inoltre, in Sardegna, il senso di giustizia, più che in ogni altro popolo, sia tra gli umili che tra gli studiosi e si noti il grande numero di giuristi sfornato dalla nostra Sardegna, di gran lunga più ampio rispetto alle altre regioni d'Italia. Recita un antico proverbio sardo:"Giustisia chi falta, giustisia di balla" , ossia, la giustizia che sbaglia, è una giustizia da palla da fucile.
I sardi dell'identità al giorno d'oggi, scrive Tolu. Vivo in Sardegna da 20 anni e faccio un mestiere, l'antropologa culturale, per cui mi capita quasi quotidianamente di girare per l'isola e parlare con tante persone. Parlerò degli uomini sardi, riservando alle donne sarde magari un altro articolo, in futuro. Naturalmente il mio sarà un articolo venato di ironia ed autoironia, ergo stereotipi e pregiudizi presenti vanno presi per quello che sono appunto, ossia luoghi comuni e giudizi superficiali. Iniziamo dalle barzellette sulla sardità. Me ne raccontano sempre due sui sardi, e la cosa spettacolare è che le raccontano i sardi stessi. Credo siano gli unici, tra tutti gli Italiani, a darsi virtualmente la zappa sui piedi, come si suol dire. É vero che chi si loda si imbroda, ma anche attribuirsi i difetti peggiori …
La prima barzelletta narra che un contadino arando in un campo trovò una lampada magica, stile quella di Aladino, la sfregò e ne uscì un genio, con tanto di turbante. Gli disse che avrebbe esaudito un suo desiderio, ma, essendo quel contadino mezzadro, al padrone del campo spettava il doppio di quanto riservato a lui. Così, continuò il genio, se ti do 1000 pecore al padrone del campo (che era anche vicino di casa e compare del contadino) ne darò 2000, se tu vorrai 500 monete d'oro a lui ne dovrò dare 1000 e via dicendo. Il contadino ci pensò bene e disse: “Cavami un occhio”. Questa barzelletta viene raccontata per mostrare l'invidia tra i sardi.
La seconda barzelletta mi è stata raccontata più di una volta di rimando quando io racconto la leggenda della ricotta: la leggenda, da me raccolta in Ogliastra, narra che Gesù viaggiando in incognito tra i pastori cercò ospitalità in vari ovili, venendo trattato malamente e mandato via. Finalmente venne ben accolto da un pastore che gli diede pane, latte, formaggio, lo mise accanto al fuoco, mentre preparava il formaggio... Gesù osservò tutto e alla fine disse a quel buon pastore: “Non buttare via il siero, riscaldalo, e ti insegnerò a fare una cosa buona”. Così nacque la ricotta.
Alcuni sardi aggiungono un finale meno edificante. Pare che Gesù dopo avergli insegnato a fare la ricotta volesse insegnargli a ricavare la cera dalla scotta (il siero rimasto dopo la preparazione della ricotta), ma il pastore gli rispose che gli amici lo aspettavano al bar, e lasciò solo Gesù nell'ovile davanti al fuoco. Sin qui i luoghi comuni sui sardi, in primis invidiosi e indolenti secondo l'autorappresentazione che alcuni di loro danno di se stessi anche con gli estranei, o s'istranza, come mi è capitato di sentirmi apostrofare in qualche paese dagli anziani seduti in piazza. Anni fa venne pubblicato un libricino godibilissimo in una collana intitolata “Le guide Xenofobe” sugli abitanti delle regioni italiane. L'edizione dedicata ai sardi era curata da Bepi Vigna e Gianfranco Liori. Molto divertente e piena di stereotipi. Cito dal libro: «Se quando sentite parlare dei 'colpi di testa dei sardi' pensate a gente che prende decisioni improvvise e sconsiderate, siete fuori strada. I sardi, oltre ad essere testardi, hanno la testa dura, ma nel vero senso della parola. Infatti quando scoppia un diverbio una delle minacce più classiche che si sente è: La' ca ti partu de conca! (traduzione per il lettore continentale: Attento che parto con la testa). Sì, perché i sardi, in genere, non picchiano con le mani, non danno calci, loro assestano poderose testate».
Da continentale posso dire che quando un sardo ti adotta è 'per sempre' e diventare sardi honoris causa fa molto piacere, anche se il percorso iniziatico è accidentato e i riti di passaggio da superare sono irti di difficoltà.
Il primo ostacolo è la lingua. Se non capisci le parolacce e i doppi sensi sei fuori. Il mio consiglio ai neofiti è ridere o almeno sorridere anche quando il senso delle battute non è chiarissimo, tanto certi gesti che accompagnano le parole sono più che didascalici.
Il secondo ostacolo sono le bevute. Se non reggi l'alcool sei fuori. Qui non c'è consiglio che tenga, bisogna buffai (trad.it. bere) e basta.
Il terzo ostacolo sono le mangiate a cui si viene sottoposti. Non si lascia nulla nel piatto, o sei fuori: facile fare una scorpacciata di zeppole, pane, salsiccia, pomodorini, meno facile ingoiare casu marzu, lumache, cordula, trattalia. Vegetariani e vegani sono esclusi a priori, gli altri devono rimboccarsi le maniche e ingoiare.
I sardi quando adottano un continentale, dicevo, gli vogliono più bene che se fosse nato in Sardegna, e anche questo magnifico atteggiamento non l'ho mai riscontrato in nessuna altra cultura regionale italiana. Faccio solo due esempi celebri: il calciatore Gigi Riva e il cantautore Fabrizio De Andrè. Gigi Riva si sa, nasce in provincia di Varese, approda al Cagliari e contribuisce notevolmente allo scudetto che il Cagliari vince nel 1970. Da allora non se ne è più andato da Cagliari, rinunciando a ingaggi più alti e opportunità di carriera in altri club; ancora oggi ha un tavolo riservato ad un ristorante della Marina, storico quartiere della città. Il proprietario lascia il tavolo vuoto, nella speranza, a volte esaudita, che Rombodituono si sieda lì per un piatto di fregula con arselle. Il secondo personaggio è Faber. Nato a Genova ha sempre amato l'Isola, comprando casa e trascorrendo tanto tempo qui, componendo anche canzoni su personaggi, atteggiamenti, modi sardi. I genovesi hanno sempre avuto un'attrazione fatale per la Sardegna, si sa. Ma quello che colpì, credo, di più i sardi, fu che dopo l'incredibile e burrascoso rapimento subito Faber continuò a vivere periodicamente in Sardegna, con lo stesso amore di prima, a cantarne personaggi e storie popolari, arrivando anche a cantare in gallurese. Anche De Andrè è stato adottato dai sardi, che sono fan dei suoi testi e delle sue canzoni e dedicano periodicamente convegni e tributi musicali e non.
Come sono i sardi del III millennio? Alla fine non c'è una risposta, ce ne sono cento, mille, tante quante le impressioni che si ricavano dalla vita quotidiana, dalla lettura dei giornali, dalle frequentazioni sui social come twitter e facebook. Sarà che i sardi hanno poli di ricerca avanzati come Sardegna Ricerche a Pula e Alghero; sarà che l'Unione sarda fu il primo quotidiano online in Europa; sarà la presenza di Tiscali e di altre compagnie di telecomunicazioni; sarà la presenza del sempre ottimo CRS4, ma è proprio su Internet che si trovano secondo me i sardi che meglio rappresentano un'identità ormai sfaccettata, molteplice, sfuggente e contraddittoria.
Penso ad esempio al riservato @insopportabile, ingegnere sassarese, twitstar acclarata, con oltre 60.000 followers, o al nostro Francesco Abate, giornalista, scrittore e mattatore di Facebook, i cui pensieri sparsi sono 'linkati' sempre da centinaia di amici. Ironici e a volte caustici, caratteristiche dello humour in salsa sarda.
Abate scrive sulla sua bacheca il 3/2/214: «J. K. Rowling: “Ho commesso un errore. Hermione doveva sposare Harry Potter, non Ron”. Harry doveva sposare Ron. Questo sì che era un finale».
E Insopportabile su Twitter commenta sull'hashtag #seiItalianose: «#seiItalianose se ti indigni profondamente per una politica ingiusta e vessatoria ma poi voti sempre chi ti promette una piccola briciola».
Per concludere ci sono gli uomini del mistero, i Donkey Challenge bros, che recensione di ristorante dopo recensione, con il simbolo dei burricchi al posto delle stelle a significare il gradimento delle pietanze, hanno mappato i ristoranti dell'Isola nel loro blog, sostenuto da un profilo twitter e facebook costantemente aggiornati e sempre divertenti.
E gli esempi potrebbero continuare....Insomma se volete sapere come sono i sardi di oggi bussate al portone di Internet e non rimarrete delusi.
LA SARDITA’ PUO’ UCCIDERE CON TRASPORTO? Scritto da Gabriele Ainis. “[…] l’identità può uccidere, uccidere con trasporto.” Amartya Sen (Identità e violenza, Laterza 2006). Che diamine sarebbe la “sardità”? Non lo sa nessuno, forse perché non esiste, come non esistono tutti gli stereotipi creati ad arte per riunire ed escludere ad un tempo: riunire attorno ad una bandiera, escludere dal recinto, il nostro! Del resto, la definizione di questa bizzarra categoria antropologica si scontra anche contro il sentire comune di coloro che potremmo, forse, chiamare davvero “sardi” e precisamente chi tale si ritiene. Non essendo un addetto ai lavori, pertanto privo dei vincoli imposti da una ricerca scientifica, mi limito a segnalare due link relativi ad un forum di “cose sarde”, paradisola.it, cui fanno riferimento parecchi “isolani”, residenti e non, che condividono un forte senso di appartenenza – interpretato, probabilmente, come “sardità” – discorrendo di tutto un po’, dalla cucina alla storia, dalla lingua al folklore. Sebbene sia doveroso ripetere che non è certamente compulsando i post frettolosi affidati alla rete da un piccolo insieme di dubbia validità statistica, che si potrà pretendere di descrivere il sentire di tutti coloro che si ritengono “portatori di sardità” (ma ho ben specificato come non si abbia alcuna velleità scientifica) ne suggerisco la lettura perché rappresentano un esempio di ciò che si potrebbe ascoltare salendo su un autobus o rubando le altrui conversazioni al bar, insomma una curiosità dalla quale ci illudiamo di ottenere una rappresentazione di ciò che le persone come noi (dunque non intellettuali in possesso di un lessico raffinato) pensano del sentirsi sardi.
Il primo link è relativo ad una discussione dal titolo: Cagliaritani: sardi veri oppure no?
Il nick Jolao si domanda: «[…]i Cagliaritani sono sardi veri oppure no?» e si risponde (dopo un abbozzo di argomentazione simil-archeologica – ha sentito dire che attorno a Cagliari ci sono insediamenti precedenti l’epoca nuragica, sempre lei): «[…] i cagliaritani sono sardi esattamente come tutti gli altri abitanti della sardegna.» Bene!
Neppure Jolao è un addetto ai lavori, né uno scienziato (e si vede!); se lo fosse, si porrebbe prima di tutto il problema di definire cosa sia un sardo, poi cosa sia un cagliaritano ed infine si domanderebbe se il cagliaritano risponda o meno alle caratteristiche minime necessarie per appartenere alla categoria dei sardi.
Per lui ci pensa un altro nick, tal trifola (nick chiaramente sardissimo!) che informa: «I Sardi Veri sono coloro che portano un cognome Sardo anche se il destino ha voluto che nascessero in terra “strangia”[…]»
Si scopre così che trifola è nato in continente, ma rivendica la propria sardità definendola in modo inequivoco: il cognome! Peccato che non ci dica cosa sia un “cognome sardo”, tuttavia cala un asso: «I Sardi isolani non pensino di avere un DNA diverso da chi è nato fuori dall’ISOLA […]». (Ho conservato minuscole e maiuscole come nell’originale). A questo punto, tutto si chiarisce: essere sardi è prima di tutto un fatto genetico!
C’è chi dubita (Antonellocor): «[…]chi è più sardo? Uno nato in terra “strangia”, per citare trifola, od uno nato in Sardegna da genitori “strangiusu”? […]Mi torna in mente […]mi trovavo in Francia per lavoro ed ho incontrato un ragazzo italiano. Lui sentendo il mio accento mi ha chiesto se fossi sardo ed alla mia risposta affermativa ha detto di esserlo anche lui, e per la precisione di Mores, nonostante parlasse con un fortissimo accento ligure […] ho scoperto che i suoi nonni paterni erano sardi, i suoi genitori nati in Liguria, e che lui in tutta la sua vita era stato in Sardegna due volte… Sinceramente il fatto che dicesse “sono sardo” mi faceva un po’ sorridere…»
Chi non ha dubbi è Turritano: «Cognomi a parte […] quello che non si può ignorare è il DNA che […] in Sardegna ha delle particolarità rispetto a tutte le regioni europee: studi recenti hanno dimostrato che c’è ancora, nei sardi attuali, una abbondante quota di DNA nuragico, estrapolato da resti umani dell’epoca prelevati in varie zone della Sardegna.» Non solo c’è un DNA “sardo” ma questo è pure nuragico!
Mentre trakadda, argomenta: «[…] Per quanto riguarda la sardità io ho alcuni amici che hanno uno dei genitori che nn è sardo ma che sono in tutto e per tutto sardi come tutti gli altri che conosco. […] Essere sardo significa essere legato da un legame indissolubile al proprio territorio, città o paese […]»
Jolao risponde a Turritano: «[…] hai ragione […] per quanto riguarda la “purezza” dei sardi, ma permettimi di allontanarmi da questo tipo di concetti.» Commovente il palese sconcerto per essere andati a parare su categorie (la purezza) il cui suono appare decisamente sgradevole.
babborcu (nick di persona dotata di ottima scolarità) interviene: «[…] direi che questo discorso parrebbe presupporre un-dei modelli di “vero sardo-vera sardita” difficili da delineare e con pericolo di cadere in ridicoli luoghi comuni e cliche’ di cui mi meraviglio non si abbiano le p..lle piene( scusate!) di questo passo : alla fin fine il Tonteddu o la signora Desolina di benito Urgu sarebbero i veri sardi..ajo’
quanto alla questione di “razza sarda” ( discorso pericolosissimo e che richiama esperienze scioccanti dell’umanità) e’ ovvi, stradimostrato che simo un “crogiulo di apporti” »
Finalmente qualcuno si accorge che il discorso è scaduto su tematiche esplicitamente razziste (esemplare quella del DNA sardo) e tenta di metterci una pezza.
Ciò che avanza della discussione è probabilmente il residuo di un lavoro di taglia/cuci dei moderatori ed appare vagamente slegato; è probabile che l’uso delle forbici sia stato necessario per eliminare commenti inguardabili, ma infine trakadda sbotta (rispondendo ad un commento moderato e non più visibile): «A parte che io nn bevo filu e ferru, semmai bevo acquavite o abbardente…odio quando lo chiamano filu e ferru è la stessa cosa se si chiamasse la birra ichnusa e basta… Identificare con questi stereotipi la sardità è stupido e dannoso. ps questa parola sardità proprio nn mi suona…» (grassetto mio).
Poi la discussione viene chiusa dai moderatori!
Il secondo link è relativo ad una discussione nata dalla prima (chiusa dai moderatori) perché evidentemente il tema intriga; si intitola: Sardi veri o no?
L’esordio scherzoso di Nevathrad è proprio: «Come deve essere un sardo vero?»
Memori dei disastri provocati nella discussine precedente, si susseguono dapprima battute scherzose, ma si ricade in breve nello stereotipo (Tzinnigas): «sei sardo soprattutto quando non ti vergogni della tua terra e ricordi sempre il luogo dove sei nato. Quando esalti la tua Sardegna per il suo mare e la buona cucina, il sole caldo anche d’inverno, per l’ospitalità della gente e per tutte le bellezze che la rendono una terra splendida!!!»
A cui si risponde con parole sagge (Nevathrad): «Quelli che la reclamano così tanto, dove è la loro definizione di vera sardità?»
Lore non ha esitazioni: «il vero sardo è colui che porta la Sardegna sempre nel cuore e la difende da chiunque con l’orgoglio che ci contraddistingue.»
Anche Anto: «…un sardo non ha bisogno di dire che è sardo…e’ solo un uomo come tanti che ha radici in una terra antica e ricca di storia….nel momento che dimostrerà di essere figlio di questa terra STUDIANDO le proprie origini e RISPETTANDO la propria cultura in tutte le sue forme, si potrebbe ritenere sardo…e orgoglioso di esserlo. Non dimenticando di rispettare le origini e la cultura degli altri (straordinarie in ugual misura.)»
È curioso che, forse memori dei litigi avvenuti nel topic precedente, i partecipanti si sforzino di cercare un piano di discussione il più possibile neutrale nel quale tuttavia, si insinuano nuovamente elementi scivolosi. Ad esempio il nick Nugoresu: «[…] infatti ho anche scritto che tutta la sardegna è piena di nuraghi quindi tutti chi piu chi meno ha il DNA dei nostri antichi avi….». Insomma i “sardi veri” sono quelli che hanno a che fare con i nuraghi e naturalmente si contraddistinguono per un DNA “speciale”.
Infine tutti sembrano essere d’accordo su questo (nube che corre, nick con echi da nativo americano): «Un vero sardo : Ama la sua Terra , sa riconoscere i suoi profumi, ammira i suoi bellissimi tramonti, ha lacrime quando si allontana da Lei e quando torna da Lei , sa riconoscere i suoi difetti e le ingiustizie e ammette che a volte non è proprio un paradiso, un sardo vero ama la sua Terra con pregi e difetti, un sardo vero può avere un accento diverso ma dentro il cuore ha 4 mori che lo rendono vivo.»
Che però la ricerca del vero sardo possa portare verso tematiche razziste, viene ventilato esplicitamente (robur g, nock di un frequentatore dichiaratosi cagliaritano): «L’ideale del “vero sardo” non è sostanzialmente molto lontano da quello dell’”ariano puro”!!! Chiamiamo le cose col loro vero nome: è un’idea fondamentalmente razzista!!!!» (grassetto originale).
Gli risponde Perdixeddu: «per me il VERO SARDO è semplicemente chi ama, rispetta la propria terra, la propria storia, la propria lingua…nato qui o no, figlio di sardi o no…»
C’è chi lega la “sardità” ad un ideale mitico di “vita d’altri tempi” (forzacommo): «La modernità che è arrivata a velocità sostenuta, in mezzo secolo si è avuto un cambiamento profondo forse mai avvenuto nella storia dell’umanità, ha distrutto e stà finendo di eliminare quelli che sono le caratteristiche che ci possono distinguere da altre “genti”. Arriveremo al punto che nell’Universo saremo tutti omologati ad un’unico standard e così non ci saranno più “veri Sardi”. Per finire vi porto l’esempio di mia nonna, come “vera Sarda”, che logicamente era bassa e che: mungeva la capra, accudiva i maiali, zappava la terra, in particolare le fave, le patate, il grano ecc, raccoglieva le fichidindie, lavorava al telaio,e ovvio poi che filasse la lana, il lino,faceva il pistoccu, andava a legna, a raccogliere le ghiande, e in mezzo ad altre specializzazioni accudiva i figli e la casa».
Non mancano i veri e propri imbecilli (Dedalonur): «[…] sardi, uno tra i più antichi popoli d’Europa, sono di conseguenza i custodi della più remota storia dell’Europa occidentale, […]» coloro che cadono nel razzismo per ignoranza, i peggiori.
Naturalmente il palesarsi del razzismo conclamato chiude la discussione, che si esaurisce in breve.
È possibile trarre qualche indicazione (del tutto discorsiva, è bene non dimenticarlo, assimilabile ad una discussione in casa di conoscenti)? Sì: la “sardità” si trascina dietro un’idea viziata, fondamentalmente razzista: che i sardi, in un certo qual modo, peraltro impossibile da definire con accuratezza, possiedano qualcosa di speciale che li differenzia dagli altri. A poco vale l’evidente assurdità di definire cosa sia il “vero sardo” o la “sardità”, concetti del tutto aleatori e privi di senso; resta, soprattutto da parte di coloro culturalmente più deboli, un senso di urgenza relativo al sentirsi parte di una comunità forte, e poco importa se essa sia priva di esistenza reale: basta e avanza la speranza che esista e la convinzione, non si capisce quanto giustificata, di aver diritto a farne parte. Insomma un sintomo di debolezza, che si manifesta a maggior ragione in tempi di crisi e instabilità e in cui il razzismo, l’intolleranza, trovano terreno fertile (e spesso, almeno all’inizio, inconsapevole). Per fortuna ci sono gli Amartya Sen, ma ci vorrebbe anche l’apporto di qualcuno più vicino, che invece manca perché impegnato a discettare del sesso degli angeli (sherdanu).
OMICIDI DI STATO. LA MORTE DI GIUSEPPE CASU.
La morte dell'ambulante Giuseppe Casu è stata provocata "dalla condotta gravemente colposa degli imputati Giampaolo Turri e Maria Cantone, ma l'impossibilità di stabilire le cause della morte per la sopravvenuta sparizione dei reperti non consente di fare un collegamento di causa effetto tra la condotta colposa dei medici e l'evento", scrive M. L. su “La Nuova Sardegna”. E' questa la motivazione per la quale i giudici della Corte d'Appello hanno assolto i due medici del reparto di psichiatria del Santissima Trinità, a Cagliari, con la formula che corrisponde all'insufficienza di prove. A salvarli da una condanna per omicidio colposo, richiesta con forza dalla Procura nei due gradi del giudizio, non è stata dunque la loro estraneità a quella fine così assurda, ma soltanto l'aiuto arrivato dal collega anatomopatologo Antonio Maccioni, condannato in appello per aver fatto sparire i reperti anatomici dell'ambulante in modo che la Procura e in fin dei conti i giudici non potessero stabilire la vera causa della morte. Durissima, malgrado l'assoluzione, la tesi sostenuta dai giudici Antonio Onni, Giovanni Lavena e Maria Angioni in venticinque pagine di motivazione che faranno certamente discutere. Per la Corte quello avvenuto all'ospedale di Is Mirrionis - dove Giuseppe Casu è morto nel 2006 dopo una settimana di ricovero in cui venne sedato e legato al letto senza alcun motivo reale, dopo una sfuriata avvenuta in una strada di Quartu - é stato un caso "macroscopico di mala sanità". Per i tre magistrati "gli imputati hanno manifestato e rivelato evidenti profili di colpa per negligenza e imperizia, potendo conclusivamente affermarsi che il trattamento sanitario riservato al Casu è stato caratterizzato da un'eccessiva e prolungata contenzione, da un'altrettanto invasiva sedazione e da un prolungato accanimento farmacologico, il tutto attuato senza curarsi minimamente di monitorare le sue condizioni, così integrando un caso macroscopico di malasanità". Ma "una sentenza di condanna - osservano i giudici - sarebbe palesemente priva di rigore scientifico". Mancano infatti per la Corte d'Appello "leggi scientifiche che sul piano causale collegassero in modo apprezzabile e in ogni caso statisticamente rilevante l'assunzione del farmaco Aloperidolo con la verificazione di eventi cardiaci acuti come quelli che determinarono la morte del Casu". In sostanza non c'è la prova certa e inoppugnabile che la causa di morte indicata dall'accusa sia l'assunzione di quel farmaco. Eppure - scrivono i giudici nella motivazione - si può affermare con certezza che se il ricovero non fosse mai avvenuto Casu sarebbe ancora vivo". I medici della psichiatria l'hanno invece trattato come un alcolista malgrado non lo fosse, non l'hanno sottoposto a un elettrocardiogramma e neppure a un esame ecografico. Resta invece la condanna per Antonio Maccioni, primario di Anatomia patologica del Santissima trinità, colpevole in secondo grado di soppressione di parti di cadavere, frode processuale, favoreggiamento e falso. Con il medico è stato riconosciuto colpevole anche il tecnico di laboratorio Stefano Esu. Nel gennaio 2007 il primario avrebbe fatto sparire i reperti dell'ambulante per poi sostituirli con quelli di un altro paziente, per evitare che venisse sconfessata la diagnosi con cui i colleghi della psichiatria avevano chiuso la pratica.
Tutti assolti anche in appello i sette medici del reparto di psichiatria del Santissima Trinità che mantennero l’ambulante quartese Giuseppe Casu legato a un letto del reparto per una settimana prima che il paziente morisse per cause mai del tutto accertate il 22 giugno 2006, scrive ancora “La Nuova Sardegna”. Erano accusati di sequestro di persona. Il primario Giampaolo Turri, l’aiuto Maria Cantone e gli altri cinque psichiatri – Antonella Baita, Maria Rosa Murgia, Marco Murtas, Marisa Coni e Luciana Scamonatti – che si erano in sostanza autoaccusati del reato quando nel corso del processo pubblico al primario - accusato di omicidio colposo e assolto - hanno spiegato che l’uso della contenzione era stato approvato e rientra nelle pratiche terapeutiche del reparto, i primi quattro sono imputati di sequestro e omicidio colposo, la Scamonatti solo del sequestro. Erano difesi da Luigi Porcella, Massimo Ledda, Massimiliano Ravenna, Carlo Pilia e Leonardo Filippi.
E’ stato il primario di anatomia patologica del Santissima Trinità Antonio Maccioni a far sparire i resti dell’autopsia condotta sull’ambulante Giuseppe Casu scambiandoli con quelli di un altro paziente deceduto in quelle ore di giugno del 2006, scrive infine “La Nuova Sardegna”. «L’ha fatto e non certo a caso - come ha sostenuto il pg Michele Incani nella sua requisitoria - perché c’era un disegno preciso». Il disegno per la Procura generale era quello proposto dal pm Giangiacomo Pilia al primo giudizio: coprire il collega primario di psichiatria Giampaolo Turri, finito sotto inchiesta con l’accusa di aver provocato la morte dell’ambulante, sedato e legato a un lettino del reparto per una settimana. Sono queste le conclusioni della Corte d’Appello presieduta da Grazia Corradini, che ribaltando la sentenza di assoluzione del 16 luglio 2011 emessa dal giudice Giampiero Sanna ha condannato Maccioni a tre anni e tre mesi di carcere. Il medico è colpevole di soppressione di parti di cadavere, frode processuale e falso ma soprattutto di favoreggiamento. Ed è questo il punto focale del verdetto: se c’è il favoreggiamento c’è qualcuno che ne ha beneficiato. Ed è chiaramente Turri, assolto in primo grado, la cui posizione rischia ora di essere rivista in appello insieme a quella della collega Maria Cantone alla luce delle nuove valutazioni sui fatti, finora contenute solo nel dispositivo. Il 21 maggio si aprirà il processo-bis anche per loro ed è davanti alla corte presieduta da Antonio Onni che si dovrà stabilire se Casu è morto per colpa dei medici e poi Turri ha cercato di sfuggire alle conseguenze del suo errore concordando con Maccioni prima un’autopsia di comodo e poi la distruzione dei resti anatomici che la Procura s’apprestava a sequestrare, per affidarli a un consulente d’ufficio e accertare le cause reali del decesso. La sentenza di secondo grado - il pg aveva chiesto sei anni, sostenendo anche le aggravanti dell’atto di fede privilegiata - certifica che l’annotazione sul contenitore di reperti anatomici trovato dalla polizia giudiziaria nell’ufficio di Maccioni è falsa: indicava il nome di Casu ma i resti non erano i suoi. A usare il pennarello è stato il primario, lo dice la perizia grafica. Ma l’infermiere Stefano Esu l’avrebbe aiutato a realizzare la falsificazione. Per questo, malgrado la richiesta di assoluzione per non aver commesso il fatto avanzata dal procuratore generale, Esu si è liberato dell’accusa di falso per soppressione, rimasta tutta in capo a Maccioni, ma non di quella di falso ideologico, che gli garantisce solo uno sconto sulla pena: da un anno e otto mesi a un anno secco. A nulla sono valse le conclusioni del pg Incani: Esu non aveva alcun interesse a far sparire i reperti e a partecipare alla frode processuale. Però paga lo stesso. I giudici hanno stabilito anticipazioni per ventimila euro alle parti civili patroncinate da Mario Canessa e Dario Sarigu, per quanto sia certo che il processo andrà avanti in Cassazione: i difensori Luigi Concas e Antonio De Toni per Maccioni, Sandro Dedoni per Esu, attenderanno le motivazioni per elaborarlo.
Legato, sedato e infine ucciso. L'assurda morte di Giuseppe Casu per trattamento sanitario obbligatorio. Un uomo è morto dopo sette giorni di ricovero nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Cagliari. Ora i giudici d'appello hanno confermato l'assoluzione dei medici. Scrivendo però che si tratta di un "macroscopico caso di malasanità". E la figlia chiede: "Diventi un esempio". Perché non si ripetano vicende come questa, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Si chiamava Giuseppe Casu. Faceva l'ambulante. Ed è morto dopo essere rimasto per sette giorni legato a un letto d'ospedale. I medici che lo hanno tenuto in queste condizioni sono stati assolti, anche in secondo grado. Ora però i giudici della corte d'appello di Cagliari hanno chiarito le motivazioni della sentenza. Di una assoluzione che, dicono, ha molti “ma”. Perché si tratta, scrivono i magistrati, di un «macroscopico caso di malasanità». Di una vicenda «dall'evoluzione incredibile» che deve essere conosciuta. Anche perché non è poi così “anormale” come sembra. La morte di Giuseppe Casu inizia il 15 giugno del 2006, quando viene ricoverato contro la sua volontà nel reparto di psichiatria dell'ospedale Santissima Trinità di Cagliari: un Tso (trattamento sanitario obbligatorio) attivato d'ufficio di fronte alla sua agitazione contro le forze dell'ordine a causa dell'ennesima multa per abusivismo. Arrivato in corsia viene sedato, legato al petto, alle mani e ai piedi, e portato in una stanza. Quel giorno può vederlo solo la moglie. «Io l'ho visto dopo», racconta la figlia, Natascia : «Era addormentato, faceva fatica a parlare». Le “cure” (il virgolettato è dei giudici) continuano: psicofarmaci, controlli, visite. Nessun elettrocardiogramma. Nessun colloquio verbale: il 20 giugno il primario vorrebbe parlare con lui ma non riesce, è troppo sedato. Nonostante questo stabilisce una diagnosi: disturbo bipolare maniacale. L'unica patologia riconosciuta negli anni al venditore ambulante era stata un disturbo di personalità non meglio identificato e una leggera epilessia giovanile tenuta sotto controllo dai farmaci. Ma nelle mani dei medici arriva col fiato che puzza d'alcol (i parenti e il medico di famiglia informano il giorno stesso del fatto che non era mai stato un alcolizzato - quella mattina sì, aveva una bottiglia di moscato), e in stato di “evidente agitazione”. Fra i fratelli poi ci sono persone con disturbi mentali. Così per il dottor Gianpaolo Turri, la dottoressa Maria Rosaria Cantone e la loro équipe la diagnosi è fatta. E nonostante i dubbi, senza altri esami clinici, inseriscono fra i farmaci una sostanza indicata per gli alcolisti a rischio crisi d'astinenza. «Mi hanno preso per pazzo, chiamate i carabinieri», dice un giorno Giuseppe ai parenti in visita. «Non ero mai stata di fronte a uno psichiatra, non sapevo nemmeno cosa fosse un Tso», racconta Natascia: «Non avevo pregiudizi, motivi di temere. Mi son fidata dei medici e basta». Sui farmaci, le costrizioni, i lamenti, lei e i fratelli non sanno cosa dire. Chiedendo quando sarebbe stato slegato, accettano. Aspettano. Fino a che il 22 giugno non arriva la notizia: è morto. La prima autopsia parla di una tromboembolia all'arteria polmonare. Da questo partono gli avvocati ingaggiati da Natascia, accompagnata da Francesca Ziccheddu, fondatrice del comitato "Verità e giustizia per Giuseppe Casu ", e Gisella Trincas, portavoce di molte associazioni di familiari, per sostenere l'accusa di omicidio contro i responsabili di reparto: la costrizione fisica sarebbe stata, per loro, all'origine di quell'embolia. Ma qui inizia “l'incredibile evoluzione della vicenda” di cui scrivono i giudici della corte d'appello di Cagliari. Perché parallelente al processo che si avvia contro i camici bianchi del servizio di psichiatria, iniziano le udienze per il primario di anatomopatologia dello stesso ospedale, Antonio Maccioni, e di un suo tecnico. L'accusa è di aver occultato parti del cadavere di Giuseppe Casu e di averle sostituite con quelle di un altro paziente deceduto. I giudici di primo e di secondo grado confermano: colpevoli, e condannano il primario a tre anni di carcere. Ma poiché la sentenza non è ancora definitiva, non ha ancora superato l'ultimo grado della corte di Cassazione, il processo sulla morte di Casu non può tenere conto degli esiti. Il dibattimento su cosa (e chi) ha ucciso quindi Giuseppe Casu continua, tralasciando il fatto che i reperti dell'autopsia siano tutti potenzialmente scorretti. La tromboembolia diventa difficile da dimostrare, e i tecnici della difesa convincono i togati che si tratti di "morte improvvisa", una crisi cardiaca di cui è impossibile tracciare sicure fasi e origini certe. In mancanza di prove e di un nesso fra cause ed effetti, i medici responsabili del servizio di psichiatria vengono assolti, anche in appello. Così termina la parte che riguarda condanne e assoluzioni. Ma comincia il resto, inizia «quella morte che sembra non finire mai», come cerca di spiegare Natascia, che continua a vivere e lavorare a Cagliari, e mentre aspetta la Cassazione si dice pronta a fare ricorso anche alla Corte Europea. Perché intorno alla sentenza, e lo si capisce dalle motivazioni dei giudici, dalle testimonianze, dal racconto della figlia, emerge come sia stata tolta la dignità, oltre che la vita, a una persona che era stata ricoverata «per proteggere gli altri e sé stessa dal male» ed è morta nelle mani di chi la doveva curare. Perché, scrive il tribunale cagliaritano, una cosa è certa: «se detto ricovero non fosse mai avvenuto, il Casu sarebbe ancora vivo». «Il primo addebito di colpa è rappresentato dallo stato di contenzione fisica adottato per tutto l'arco di tempo», scrive la corte d'appello: «in contrasto con le più elementari regole di esperienza, che consigliano di mantenere la contenzione il minor tempo possibile e non certamente per giorni». «Mentre nel caso di specie», continuano le motivazioni: «a parte la necessità di applicare la contenzione nel primo periodo, nel rispetto del trattamento sanitario obbligatorio, essendo certo lo stato di agitazione psicomotoria, la fascia pettorale fu rimossa il secondo giorno, mentre quelle impiegate per immobilizzare polsi e caviglie non furono mai rimosse». È normale? Esser legati così, senza poter parlare, spiegare, senza poter intervenire? Quasi. Nella sua testimonianza, resa durante le udienze del processo di primo grado, Maria Rosaria Cantone, il medico di guardia il giorno del ricovero: «dichiarò che la pratica della “contenzione fisica” anche oltre le 48 ore era frequente in quel reparto che presentava dei problemi legati al sovraffollamento», scrivono i giudici: «atteso che il numero dei pazienti ricoverati era di gran lunga eccedente quello massimo stabilito dai regolamenti mentre quello del personale infermieristico era inferiore a quello necessario». «Eravamo costantemente sotto organico dal punto di vista del personale infermieristico», dichiara la dottoressa: «la mancanza di personale per noi è una costante». Oltre i lacci, ci sono i farmaci. In dosi normali ma sufficienti ad addormentare il paziente per giorni: «il Casu non fu mai in condizioni di potersi esprimere a riguardo», scrivono i giudici discutendo la scelta di somministrare un farmaco indicato particolarmente per gli alcolisti in crisi d'astinenza: «perché perennemente sedato o semi sedato». «Io mi son sentita ignorante. Mi sono fidata. Non potevo temere. Non potevo immaginare cosa sarebbe successo», conclude Natascia: «Ora so, però. E voglio fare di tutto, col comitato per la verità su mio padre, le associazioni e un documentario che stiamo per chiudere, per rendere quello ci è successo un esempio. Per informare le persone. Perché la gente sappia». Che, se anche «Non ci sono gli addebiti di colpa, il necessario nesso causale, idoneo ad integrare il reato di omicidio colposo», come scrivono i giudici, nei reparti di psichiatria degli ospedali, ancora oggi, a 36 anni dalla legge Basaglia, può succedere tutto questo. Per "mancanza di personale".
Si chiamava Giuseppe Casu e faceva il venditore ambulante abusivo a Quartu S. Elena, un grosso comune nella cintura urbana di Cagliari, scrive Massimo Coraddu (Articolo pubblicato su Umanità Nova, n 33 del 22 ottobre 2006, anno 86) su “No Censura”. È l'ennesima vittima delle politiche "securtarie" tanto di moda tra le amministrazioni di ogni orientamento politico. La metafora della guerra torna di moda, anche per colpire quelli che di volta in volta vengono individuati come i nemici interni. Guerre agli "ambulanti", ai "clandestini", ai "drogati", agli "imbrattatori", e via discorrendo. Che si tratti poi di guerre reali, e non metaforiche, condotte con lo spirito e i metodi della guerra, ce lo dicono le vittime che queste piccole guerre interne disseminano nelle nostre strade. Giuseppe Casu è una vittima della "guerra agli ambulanti abusivi" proclamata dagli amministratori del suo comune per il ripristino della legalità. Inizialmente è stato perseguitato dalle guardie municipali che lo hanno tempestato di multe per più di un anno. Per motivi non chiari multavano quasi esclusivamente lui. Questa strana circostanza l'ha ammessa anche il vicesindaco, Tonio Lai, rispondendo in consiglio ad una interrogazione sulla vicenda. Poi però afferma che tutto è chiaro e non è necessario aprire alcuna inchiesta interna. Quasi un'aperta rivendicazione di quello che è successo. Giuseppe Casu, benché preoccupato, tutte le multe che riceveva le ha pagate regolarmente e ha continuato a scendere in piazza a vendere verdura. Il 14 Giugno 2006 le guardie gli hanno contestano un verbale per la cifra stratosferica di 5.000 euro, una cifra che Casu non può a quel punto pagare. Il giorno successivo ad aspettarlo in piazza, oltre ai municipali, ci sono anche i carabinieri e persino la stampa, avvisata evidentemente dal comune. Tutto avviene molto rapidamente, le guardie municipali si avvicinano a Casu e gli notificano un altra multa, ancora 5000 euro, poi Casu viene aggredito davanti a tutti, buttato a terra e ammanettato dalle guardie. A questo punto spunta fuori un'ambulanza e un incartamento, firmato dal sindaco e da alcuni medici che Giuseppe Casu non lo conoscevano e non lo avevano mai visto prima. Le carte dispongono il Trattamento Sanitario Obbligatorio (ricovero coatto) di quest'uomo, giustificato con la sua "agitazione psicomotoria". Magia delle parole, un'aggressione in pieno giorno diventa un "trattamento sanitario", la naturale e logica reazione dell'aggredito è definita "agitazione psicomotoria" e la violenza ci viene ancora una volta goffamente spacciata per "cura". Il contenzioso tra il venditore abusivo ed il comune si incaricano di risolverlo gli psichiatri. "Sgombero forzato, se ne va anche l'ultimo ambulante", titola trionfalmente il giorno dopo L'Unione Sarda (il fogliaccio reazionario locale), in un pezzo chiaramente ispirato dall'amministrazione comunale. È vero il contrario, Casu non è l'ultimo ambulante di piazza IV Novembre, ma tutti gli altri, il giorno dopo la sua aggressione, preferiscono spostarsi nelle vie limitrofe. Colpirne Uno per educarne cento. Nell'aggressione probabilmente Giuseppe Casu è stato ferito, ha una mano gonfia e tumefatta, probabilmente una frattura, tracce di sangue nelle urine. Nessuno si preoccupa però delle sue ferite nel reparto psichiatrico nel quale viene condotto, nessun accertamento, nessuna cura. Questi aguzzini che si spacciano per medici hanno un'unica preoccupazione: i "trattamenti di contenzione", come li chiamano loro. I familiari, avvisati con grande ritardo di quanto era accaduto, trovano Giuseppe Casu legato mani e piedi a un letto e imbottito di psicofarmaci, rimarrà in questo stato, ininterrottamente per sette giorni, fino alla sua morte, avvenuta il 22 giugno per "tromboembolia-venosa". Lo hanno ammazzato loro. Come descrivere il "trattamento" che ha dovuto subire quest'uomo? Non si trovano le parole, forse tortura è l'espressione più adatta. Mi viene in mente quel passo di Marcuse: "Coloro la cui vita rappresenta l'inferno della Società Opulenta sono tenuti a bada con una brutalità che fa rivivere pratiche in atto nel medioevo e all'inizio dell'età moderna" (da "L'uomo ad una dimensione"). Oltretutto ciò che Giuseppe Casu ha subito non è eccezionale né raro, è la normalità, la pratica quotidiana in un reparto di psichiatria come quello di Is Mirrionis a Cagliari. Come in innumerevoli altri casi la sua fine sarebbe passata inosservata, nessuno indaga su casi come questi. Una serie di fortunate circostanze l'ha impedito: la famiglia non si è voluta rassegnare, il caso è stato conosciuto, sollevato pubblicamente, ora si è anche formato un comitato, tutte cose che gli assassini di Giuseppe Casu non si aspettavano, abituati come sono ad agire nella totale indifferenza e nell'impunità. In seguito a queste denunce la Asl competente ha persino aperto una inchiesta interna scoprendo l'ovvio, e cioè che quest'uomo non è stato curato e anzi ha subito quelle che loro definiscono pudicamente come "pratiche inaccettabili". L'inchiesta accerta anche che queste stesse "pratiche" vengono utilizzate sistematicamente nel reparto e si conclude però, naturalmente, senza che sia individuata nessuna responsabilità né richiesto nessun provvedimento concreto. C'è però, per il futuro, il proponimento di riformare il reparto e cambiare i "protocolli". Come dire: "si, è vero, siamo stati noi, però, credeteci, d'ora in poi saremo più bravi e non lo faremo più". Ci tengo a raccontare questa terribile storia anche perché non penso si tratti di un caso singolare e raro, ma, al contrario, mi sembra una vicenda suo malgrado esemplare. Veniamo educati all'idea che al mondo ci siano competenze e responsabilità differenziate, garanzie, separazioni di poteri, etc. Che ci siano politici che si occupano dell'amministrazione pubblica, guardie che tutelano "l'ordine pubblico", medici che curano, magistrati che giudicano il cittadino e che lo tutelano anche dagli "abusi di potere", e così via discorrendo. Poi ti affacci nel mondo reale e ti accorgi che la realtà e ben diversa e che tutti i poteri collaborano a individuare il nemico e a colpirlo con i mezzi più diversi. Un meccanismo ben oliato, una logica di Guerra. Guerre condotte in nome di un principio astratto di "legalità", per sostenere il quale si calpestano le più elementari esigenze di giustizia sociale e di solidarietà umana. Guerre condotte nel nome della "sicurezza", ma sicurezza per chi? A questa domanda ha dato una risposta esemplare l'assessore alle politiche sociali di Quartu, tale De Lunas. In un'assemblea popolare, per giustificarsi delle politiche di guerra all'abusivismo, costata la vita a Giuseppe Casu, così si esprime:"La gente si lamenta, non si trova parcheggio, i bottegai che vendono la verdura in negozio si lamentano della concorrenza...". Mostri. Nel nome della loro legalità bottegaia non abbassano lo sguardo nemmeno di fronte all'omicidio, convinti come sono che le loro politiche securitarie, alla fine, da un punto di vista elettorale, paghino. Cosa dire infine della psichiatria? Cosa dire di questa pratica che pretende ancora di essere considerata scienza medica, ma che poi viene utilizzata dal potere come un brutale strumento di repressione? La sua è una storia tragica e criminale, ha ammesso nel passato metodi di "cura" quali le mutilazioni cerebrali (lobotomia), lo shock insulinico (stato di coma indotto da iniezioni di insulina), la distruzione psicofisica dei pazienti attraverso la segregazione a vita nei manicomi. Tutte pratiche attuate contro la volontà dei pazienti e definite a suo tempo innocue. In ogni epoca poi la psichiatria ha rinnegato se stessa, ha abbandonato con orrore quello che qualche decennio prima veniva spacciato come "cura", ha adottato nuove pratiche definite a loro volta "innocue" (oggi vanno di gran moda elettroshock e psicofarmaci) e che in realtà comportano sempre gravi rischi per la salute. Sono cambiati gli strumenti e le pratiche ma la psichiatria non ha mai abbandonato, unica tra le discipline mediche, la pretesa di curare i suoi "pazienti" con la forza e contro la loro volontà. Pseudo-medici che svolgono una funzione disciplinare e di controllo, più che di "cura". Tutto questo si legge con una evidenza abbagliante nella tragica vicenda di Giuseppe Casu. Ora nel nome di quest'uomo e per tutte le altre vittime senza nome di simili nefandezze, si è formato un comitato. Gli assassini di Giuseppe Casu non devono dormire sonni tranquilli.
SARDEGNA. 18 NOVEMBRE 2013. LA GRANDE TRAGEDIA.
In casa, in strada, al lavoro: così hanno perso la vita le vittime di Cleopatra. L'isola conta già 18 morti e a Cagliari si apre il processo per la tragedia analoga del 2008 di Capoterra, scrive “Libero Quotidiano”. Non è ancora finita la conta delle vittime del ciclone “Cleopatra” che si è abbattuto sul Sardegna. A metà mattina il governatore dell'isola, Ugo Cappellacci, ha dato un secondo bilancio purtroppo ancora provvisorio che aggiorna in maniera drammatica le notizie di questa notte quando i morti accertati erano nove. Di queste prime nove vittime sei erano donne. Una mamma con la figlia sono state sommerse dall'acqua in una Smart a Olbia, una anziana è annegata a Torpé sorpresa nello scantinato di casa: intrappolata non è riuscita a salvarsi. Poi c'è un uomo con la moglie e la suocera che sono morti precipitando con il furgone a causa del crollo del ponte sulla provinciale 38 Olbia-Tempio. Un uomo poi è morto a Telti e un poliziotto della questura di Nuoro ha perso la vita in un incidente sulla strada provinciale per Dorgali, quando l'auto su cui viaggiava con tre colleghi, mentre la pattuglia scortava un'ambulanza, è precipitata per alcune decine di metri da un ponte, per il cedimento di una delle campate. Il poliziotto, un assistente capo e capopattuglia, 44 anni, lascia la moglie e due figli. I tre colleghi sono ricoverati in ospedale. Poi il bilancio si è aggravato: a metà mattina le vittime erano 17. All'alba è stato recuperato anche il corpo del bambino disperso in Gallura, dichiarato disperso con il padre il cui cadavere era stato già ritrovato. Le ultime quattro vittime accertate sono tutte di una stessa famiglia di brasiliani. I corpi sono stati trovati all'interno della loro abitazione ad Arzachena, sommersa da tre metri d'acqua. I soccorsi sono arrivati all'alba in località Mulinu Vecchiu, alle spalle della circonvallazione all'ingresso della cittadina. Un seminterrato trasformato in un appartamento che ieri sera, dopo la piena del Rio Mannu e San Pietro, è stato completamente allagato. Paura, per la stessa piena, anche per 13 persone a bordo di diverse auto trascinate via dalla forza dell'acqua mentre percorrevano la circonvallazione di Arzachena. Tutti si sono messi in salvo uscendo dalle vetture e arrampicandosi su piante e alberi circostanti. Tra questi due ragazzi di 13 anni e una donna incinta. Le vittime dell'inondazione che ha funestato la Sardegna alle ore 15 sono salite a 18. Lo ha confermato in aula a Montecitorio, il ministro dell'Ambiente Andrea Orlando, citando un report della Protezione Civile. Ad Olbia si registrano almeno 13 decessi: tre nel crollo del ponte tra Olbia e Tempio, in località Monte Pino, due in località Raica nella strada che porta a Telti, dove le vittime sono un padre 35enne e il figlio; quindi Patrizia Corona, 42enne, e la figlioletta di 2 Morgana Giaconi, in località Bandinu, ad Olbia, vicino allo stadio Nespoli, mentre in via Lazio è morta Anna Ragnedda, 83enne e un'altra donna è stata trovata morta in casa. Ad Arzachena, in località Vecchio Mulino, i 4 membri di una famiglia di origine brasiliana, madre, padre e due ragazzi di 20 e 16 anni, sono morti nel seminterrato, sommerso da tre metri d'acqua. In provincia di Nuoro è morto ieri notte Luca Tanzi, 44enne poliziotto in servizio alla squadra mobile, mentre scortava con tre colleghi un'ambulanza, nella strada tra Oliena e Dorgali, a Torpè è morta Giuseppina Franco, a Onani è stato ritrovato il corpo di Giuseppe Farre, scomparso da ieri trascinato dalla furia di un torrente. Vannina Figus, 64enne è invece morta a Uras nello scantinato allagato della sua casa. Mentre proseguono i soccorsi e si cercano i dispersi, per ironia della sorte, a Cagliari si celebra il processo per le 4 vittime di Capoterra: era il 22 ottobre del 2008 quando una pioggia torrenziale cadde sui monti di Capoterra, grosso centro dell'hinterland di Cagliari, costruito alle falde dei monti del Sulcis che sia affacciano sul golfo degli Angeli. Una bomba d'acqua venne giù dalla montagna e neppure il mare riuscì a smaltirla, ingrossato, come ieri, dallo scirocco, tanto che furono trovati dei pesci a centinaia di metri dalla spiaggia, nell'entroterra. In quell'occasione persero la vita Antonello Porcu e la suocera Licia Zucca, travolti dalla piena mentre scappavano con la loro auto a valle e Anna Rita Lepori, trascinata in macchina dalla furia del rio San Girolamo che si era ingrossato per le piogge. Speranza Sollai, che fu trovata annegata nel garage della sua abitazione. Un'altra persona, Mariano Spiga di 66 anni, mori invece nelle stessa occasione a Sestu. sono oltre 160 le parti civili ammesse e otto imputati a vario titolo per omicidio colposo, inondazione colposa e rifiuto d'atti d'ufficio.
Sono 16 i morti - fra i quali 4 bambini - per il ciclone «Cleopatra», che ha messo la Sardegna in ginocchio, scrive “Il Corriere della Sera”. Una persona risulta ancora dispersa. L’altro di cui non si avevano notizie, un allevatore di Torpè, è stato trovato nel pomeriggio. Gli evacuati sono 2.737. La parte più colpita dell’isola è quella centrale e settentrionale, in particolare la zona di Olbia, dove le vittime sono 13. Due i morti accertati a Nuoro e uno a Oristano. Ci sono ancora situazioni a rischio. Le criticità principali a Torpè, dove sono state evacuate 500 persone e nel centro di Olbia. Monitorate due dighe: Maccheronis e fiume Cedrino. Grande dispiegamento di soccorsi, con vigili del fuoco, forze dell’ordine, militari e volontari. Il Consiglio dei ministri, convocato d’urgenza, ha «dichiarato lo stato di emergenza. Il capo della Protezione civile Franco Gabrielli, arrivato sull’isola, ha detto che «sulla Sardegna sono caduti 440 millimetri in 24 ore, la quantità di pioggia che nel nostro Paese arriva in sei mesi». Il premier Enrico Letta ha parlato di «tragedia nazionale» annunciando uno «stanziamento immediato per l’emergenza di 20 milioni di euro». All’una di oggi verrà convocato il comitato operativo della Protezione civile, per fare il punto sulla situazione. Intanto il Corriere della Sera, insieme al Tg di La7, ha avviato una raccolta di fondi «Un aiuto subito». Ecco un elenco delle vittime, località per località, in base alle informazioni finora disponibili. E’ ad Olbia che si registrano i numeri più pesanti. Tre le vittime in seguito al crollo di un argine sulla Provinciale 38 tra Olbia e Tempio, a Monte Pino. Si tratta di Bruno Fiore, 68 anni, della moglie Sebastiana Brundu, di 61, e della consuocera Maria Loriga, di 54. Un uomo di 35 anni, Francesco Mazzoccu, ed il figlio Enrico, un bambino di tre, hanno perso la vita a Raica, nella strada che porta a Telti. Patrizia Corona, 42 anni, e la figlia Morgana Giaconi di 2, a bordo di una Smart, sono morte dopo che l’auto è stata travolta da acqua e fango . Il compagno della donna, un poliziotto, con loro, è invece riuscito a salvarsi. Anna Ragnedda, 83 anni, è affogata nella sua abitazione in via Lazio. Un’altra donna, Maria Massa, di 88 anni, è morta nel suo appartamento di via Romania, sembra per essere caduta dal balcone: è stata trovata in un canale. La violenza dell’acqua ha cancellato un’intera famiglia di brasiliani residente ad Arzachena: il seminterrato nel quale abitavano è stato sommerso da tre metri di fanghiglia e tutti gli occupanti - Isael Passoni e la moglie Cleide, entrambi di 42 anni, e i due figli, Weriston di 20 e Laine Kellen di 16 - sono rimasti intrappolati morendo annegati. A Nuoro, sulla strada Oliena-Dorgali è morto un poliziotto di 44 anni, Luca Tanzi, assistente capo della Squadra mobile di Nuoro, finito fuori strada con l’auto di servizio mentre scortava un’ambulanza. Due degli altri agenti a bordo sono stati dimessi. Un terzo è ricoverato, ma non in pericolo di vita. Una donna di 87 anni, Giuseppina Franco, costretta su una sedia a rotelle, è morta nella sua casa allagata a Torpè, sembra per un attacco di cuore. A Onanì un allevatore di 61 anni, Giovanni Farrè, è stato trascinato via dalla corrente mentre stava custodendo del bestiame. Il corpo non è stato ancora trovato. Sono oltre 600 gli interventi di soccorso dei vigili del fuoco. Quattro sezioni operative di vigili del fuoco sono partite dal Lazio e dalla Toscana per aiutare nelle operazioni di soccorso. L’Esercito, su richiesta delle prefetture competenti, ha messo in campo uomini e mezzi per concorrere alle operazioni di soccorso in Sardegna. La Tirrenia messo a disposizione le proprie navi per il trasporto di uomini e mezzi del 115 e della Protezione civile. Intanto sono numerose le strade che l’Anas fin da ieri ha dovuto chiudere al traffico a causa di allagamenti, crolli e frane. Secondo l’ultimo bollettino restano bloccati tratti della strada statale 125 Orientale sarda, della 131 Dcn Abbasanta-Olbia e della 389 Nuoro-Lanusei. Diversi i disagi anche alla circolazione ferroviaria. Intanto è arrivata anche la solidarietà del presidente del Parlamento europeo Schulz che ha scritto su Twitter: «Solidarietà #PE alla #Sardegna e alle vittime del maltempo in queste ore difficili». Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, «sta seguendo l’evolversi della situazione determinatasi a seguito della tragica alluvione in Sardegna, attraverso il Dipartimento della Protezione Civile e le Prefetture interessate». Il Capo dello Stato esprime «solidarietà alle comunità» e «commossa partecipazione».
Anna Ragnedda, Maria Massa, Vannina Figus, Maria Frigiolini. Le donne che fanno meno notizia. Anziane, scrive Andrea Pasqualetto su “Il Corriere della Sera”. Impotenti di fronte alla furia della bomba d’acqua che si è scagliata sulla Sardegna. Morte nelle loro case, intrappolate dall’acqua.
Anna Ragnedda aveva 83 anni. È morta nella sua abitazione di via Lazio, a Olbia. Aveva sei figli e viveva da sola, con l’aiuto di una badante. I poliziotti l’hanno trovata dentro il letto, da sola. Una figlia ieri era andata a trovarla, ma dopo un po’ era andata via perché sarebbe dovuta arrivare la badante a darle il cambio: quest’ultima forse non è riuscita a raggiungere l’anziana, per via del diluvio. Anna è morta annegata, inferma, senza l’aiuto di nessuno.
Anche Maria Massa è deceduta nel suo appartamento di via Romania, sempre a Olbia, nel centro della città: quando si è accorta che la pioggia stava invadendo la sua casa, è scesa nel seminterrato per valutare l’entità dei danni. È stato il suo errore: lì è scivolata e ha battuto la testa, senza riuscire a riprendere i sensi. È morta annegata.
Vannina Figus aveva 64 anni. Era insieme con il marito Piero quando la furia dell’acqua ha inondato la loro abitazione. Bastavano pochi gradini per mettersi in salvo. Piero ce l’ha fatta, lei no: è stata travolta e inghiottita dall’acqua e dal fango, nello scantinato allagato di casa, a Uras.
Maria Frigiolini, 88 anni, è rimasta intrappolata dall’acqua nella sua casa di Torpè: era invalida.
C’è ancora un disperso, Giovanni Farre, 62 anni, allevatore di Bitti, che nessuno ieri voleva dare per morto. Non i soccorritori, che hanno sorvolato il suo podere nelle campagne di Onanì anche con un elicottero dell’Aeronautica militare. Non il figlio Marco, che è stato issato su un albero proprio dal padre e che ieri sera, quando è tornato dopo essere stato al pronto soccorso San Francesco di Nuoro era ancora in stato di choc. È stato lui a chiamare aiuto, prima di perdere di vista completamente il padre.
Vite spazzate dall'alluvione. Anche 2 bimbi tra le vittime, scrive “L’Unione Sarda”. Sono 16 le persone che hanno pagato con la vita la furia dell'alluvione. Un bilancio terribile che lascia sgomenti davanti a una simile tragedia. Sedici persone, tra cui anche due bambini, hanno perso la vita a causa dell'alluvione che ha messo in ginocchio la Sardegna. La storia di ognuna di queste morti riporta la catastrofe a una dimensione umana, lasciando da parte per un momento i numeri. Vite spezzate dalla violenza della natura, persone che non ce l'hanno fatta e alle quali il destino ha riservato un epilogo doloroso.
PROVINCIA DI OLBIA, 13 MORTI
Tre persone sono morte in seguito al crollo di un argine sulla Provinciale 38 tra Olbia e Tempio, in località Monte Pino. Si tratta di Bruno Fiore, 68 anni, della moglie Sebastiana Brundu, di 61, e della consuocera Maria Loriga, di 54.
- Un uomo di 35 anni, Francesco Mazzoccu, e il figlio Enrico, un bambino di tre, sono morti in località Raica, nella strada che porta a Telti.
- Una donna di 42 anni, Patrizia Corona, e la figlia Morgana Giagoni di 2, che si trovavano a bordo di una Smart, sono morte dopo che l'auto è stata travolta da acqua e fango in località Bandinu, in via Cina. Il compagno della donna, un poliziotto, che si trovava con loro, è invece riuscito a salvarsi.
- Una donna di 83 anni, Anna Ragnedda, è morta nella sua abitazione in via Lazio. - Un'altra donna, Maria Massa, di 88 anni, è deceduta nel suo appartamento di via Romania, sembra per essere caduta dal balcone: è stata trovata in un canale.
- Sterminata un'intera famiglia di brasiliani residente ad Arzachena: il seminterrato nel quale abitavano è stato sommerso da tre metri d'acqua e tutti gli occupanti - Isael Passoni e la moglie Cleide, entrambi di 42 anni, e i due figli, Weriston di 20 e Laine Kellen di 16 - sono rimasti intrappolati morendo annegati.
PROVINCIA DI NUORO, 2 MORTI E UN DISPERSO
Sulla strada Oliena-Dorgali è morto un poliziotto di 44 anni, Luca Tanzi, assistente capo della Squadra mobile di Nuoro, finito fuori strada con l'auto di servizio mentre scortava un'ambulanza. Gli altri tre agenti a bordo sono gravi.
- Una donna di 88 anni, Maria Frigiolini, invalida, è morta nella sua casa di Torpè, intrappolata nell'acqua. E' tra gli sfollati, invece, Giuseppina Puggioni, nota come Giuseppina Franco, che nella concitazione dovuta all'emergenza era stata data prima per dispersa e poi tra le vittime.
- A Onanì un allevatore di 61 anni, Giovanni Farre, è stato trascinato via dalla corrente mentre stava custodendo del bestiame. Il corpo non è stato ancora trovato.
PROVINCIA DI ORISTANO, 1 MORTO
Una donna di 64 anni, Vannina Figus, è stata trovata morta nella sua casa allagata a Uras.
Vede annegare moglie e figlia di 2 anni. Poliziotto ricoverato in stato di shock, scrive “L’Unione Sarda”. La tragedia in località Bandinu. Il marito, che ha tentato disperatamente di salvare moglie e figlia, è salvo ma è in stato di choc all'ospedale. Ha visto la Smart sulla quale viaggiavano la moglie e la figlia travolte dall'ondata di piena che ha sbarrato loro la strada all'improvviso. Lui le seguiva, è subito sceso dalla sua auto e ha tentato un disperato soccorso buttandosi nella marea di fango, acqua e detriti, rischiando a sua volta la vita. Poi - il racconto è dell'Ansa - è stato salvato da alcune persone che hanno assistito alla scena. Da allora, Innocenzo Giagoni, il poliziotto che ieri ha perso l'intera famiglia a Olbia a causa del devastante passaggio del ciclone Cleopatra, è ricoverato in stato di choc. Le auto erano lontane dalla casa di famiglia in via Veronese, nella zona alta della città, una strada parallela a via Aldo Moro, la passeggiata del capoluogo della Gallura. Secondo le prime ricostruzioni dei colleghi, Giagoni, assistente della Polizia di Stato di 48 anni, originario di Roma, stava seguendo con la propria auto la Smart con a bordo la moglie Patrizia Corona, 42 anni, imprenditrice e gestore di una serigrafia, e la figlia Morgana, di 2, quando, all'altezza di via Cina, dove sorge un piccolo campo da calcio chiamato Nespolino, perché vicinissimo allo stadio Bruno Nespoli, le due vetture si sono trovate in mezzo ad un'ondata di piena. In quella parte della città, nel quartiere Bandinu, l'acqua ha trascinato via tutto. L'uomo ha fatto appena in tempo a vedere la Smart trascinata via da detriti e fango e si è lanciato fuori dalla macchina rischiando a sua volta di annegare. Ha urlato e nuotato sino allo sfinimento e solo l'intervento di alcune persone che si trovavano sul posto ha evitato che anche lui finisse soffocato dal fango. Una volta in salvo non si è arreso e ha continuato a cercare sua moglie e la figlia, chiamando a gran voce i loro nomi come fosse in trance. Per calmarlo ed evitare qualche gesto disperato, sono intervenuti gli operatori di soccorso che lo hanno subito trasportato all'ospedale di Olbia dove si trova tuttora ricoverato. I colleghi della Polizia, che descrivono Giagoni come una persona molto disponibile che non si tira mai indietro, stanno cercando di stargli accanto: sia quelli della Polizia di frontiera, dove l'agente sopravvissuto è in servizio dal 14 gennaio di quest'anno, sia quelli della Polstrada, dove ha lavorato sino alla fine del 2012. Oggi anche il questore di Sassari Antonello Pagliei ha fatto visita al poliziotto, che è tenuto costantemente sotto stretta osservazione.
Padre e figlio abbracciati sino alla fine. La tragedia dopo la corsa disperata, scrive “L’Unione Sarda”. Sono rimasti insieme sino alla fine, Francesco Mazzoccu, 35 anni, e il figlio Enrico, che di anni ne aveva appena tre. Stretti in un abbraccio paterno - racconta l'Ansa - che però è stato sciolto dalla forza distruttrice dell'acqua. Ieri nel primo pomeriggio il padre, un operaio di Olbia, è andato all'asilo in macchina a prendere il piccolo: lo voleva portare al sicuro, a casa, in via Monte a Telti, in località Raica, lungo la strada che da Olbia porta al paese. Una corsa disperata con un epilogo tragico. All'improvviso il torrente che costeggiava la strada si è ingrossato a causa del violento nubifragio, invadendo la carreggiata. Francesco ha quindi deciso di scendere dall'auto, ormai sommersa dall'acqua, e mettersi al sicuro sopra un muro di recinzione di un terreno. Nel tentativo di proteggere il figlioletto, ha aperto il giubbotto e, usandolo come un marsupio, ha sistemato il piccolo all'interno. Nel frattempo alcuni parenti, compreso il padre di Francesco, al riparo nella zona alta residenziale, hanno lanciato delle corde con l'intento di agganciarli e portarli al sicuro. Ma tutti i tentativi sono stati vani: i lanci delle cime non hanno raggiunto né il padre né il figlio. Dopo tre quarti d'ora, mentre l'uomo, in bilico sul muro, ha cercato i tutti i modi di tenere duro e resistere alla forza dell'acqua, il muro è crollato, trascinando a valle i due corpi. Francesco è stato recuperato nella tarda serata di martedì, denudato dalla furia dell'ondata di piena, bloccato da un palo della corrente elettrica. Il figlio Enrico, invece, è stato ritrovato solo stamattina, cinquanta metri ancora più a valle, all'interno di quello che era un aranceto. Per loro non c'è stato nulla da fare. La mamma del piccolo è in preda alla disperazione: con lei tutto il quartiere, che si è stretto intorno allo sconforto della giovane donna. Questo pomeriggio a Olbia, alle 15.30, al Geovillage, il vescovo Sebastiano Sanguinetti celebrerà i funerali per tutte e sei le vittime olbiesi del ciclone Cleopatra.
Il codardo che non ha salvato bimbo e papà. Un testimone racconta: "Ho chiesto aiuto a un operaio dell'Anas, ma si è rifiutato e mi ha minacciato", scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano”. Contro la furia di un nubifragio come quello abbattutosi in Sardegna è stolto andare alla ricerca di colpe e capri espiatori. Chissà quanti ora, di fronte ai loro morti, si staranno domandando: se avessi agito diversamente? Se avessi fatto questa cosa anziché quell’altra? Ma tutti, nella loro coscienza, troveranno un po’ di pace sapendo che di fronte a questi disastri imponderabili, improvvisi, in cui mille sono le possibilità di sbagliare e una sola la cosa giusta da fare, l’errore deve essere seguito dal perdono, dalla comprensione. Ma non sempre. Non tutti erano con le spalle al muro, di fronte a scelte obbligate e perdenti. C’era chi, salvo, poteva fare qualcosa per chi stava sul punto di essere spazzato via, e non l’ha fatto. Lo raccontava ieri sulla Stampa il cronista Nicola Pinna, raccogliendo la testimonianza addolorata di Piero Mariano. Mariano si trovava a Putzolu, frazione di Olbia, lunedì sera, quando si stava scatenando l’apocalisse. Aveva prestato soccorso a un’amica e al suo bambino di undici mesi e, accingendosi a mettersi al sicuro lontano da lì, passando con la macchina su un ponte, aveva udito grida d’aiuto. Venivano da via Canaglia, dove un canale d’acqua impetuosa si gonfiava di minuto in minuto. Mariano scende e accorre: scorge un uomo aggrappato a un palo, e che stringe a sé il figlio. L’uomo non ce la fa più, l’acqua sale rapidamente, da un momento all’altro lui e il figlio saranno travolti. Mariano lo riconosce, è Francesco Mazzoccu, un suo amico. Prova a afferrarlo, tirarlo via da lì, ma da solo non ce la fa. Corre alla ricerca di aiuti e s’imbatte nel padre di Mazzoccu, col quale torna al ponte ma l’acqua è salita tanto che non riescono a avvicinarsi. Mariano non si perde d’animo e di nuovo cerca soccorsi. La fortuna sembra assisterlo: intravede un’auto dell’Anas, la raggiunge, chiede all’operaio che è seduto al posto di guida di aiutarlo, c’è un uomo e il suo bambino che stanno per essere trascinati via dall’acqua. Ma riceve un rifiuto. Non crede alle sue orecchie, come si può negare aiuto? Insiste. E l’operaio: no. Cosa no? Scenda, venga a aiutarmi! L’operaio gli dice di andarsene, che non c’è più niente da fare, che là fuori è pericoloso, moriranno tutti se si azzardano a fare qualcosa. Potete immaginare lo stato d’animo di Mariano, a poche centinaia di metri il suo amico e il figlio piccolo aggrappati a un palo, lambiti dalla morte, e qui a scontrarsi con l’ostinata viltà di un uomo che non intende nemmeno scendere dalla sua auto, e non importa che sia un operaio dell’Anas, uno che dovrebbe prestare soccorso perché incaricato a farlo, no, in effetti qualunque uomo con un po’ di orgoglio, di fibra, avrebbe subito aperto la portiera e sarebbe sceso. Invece l’operaio era inchiodato dal terrore. Non gliene importava niente di passare per vigliacco, gli eroi fanno una brutta fine, si sa. Se ne leggono tante di storie, quello che si butta in mare per salvare quell’altro che sta annegando, e ci restano secchi tutti e due. Piero Mariano lascia perdere l’operaio e torna al ponte: Mazzoccu e il bambino adesso hanno proprio l’acqua alla gola, allora prova a tirarli via con una corda ma non ci riesce, e l’acqua sta trascinando via anche lui. «Pensavo al bambino e ripetevo a me stesso che non dovevo arrendermi», racconta, e senza più alternative torna alla macchina dell’Anas. Di nuovo tenta di convincere l’operaio a scendere. E adesso la vigliaccheria diventa frustrazione impotente, forse rabbiosa vergogna: «Se non te ne vai ti spacco la faccia!», si sente rispondere. Sono le parole che contribuiscono a segnare la condanna a morte di Mazzoccu e del figlioletto. Piero Mariano si allontana, scioccato, continua a cercare aiuto, lo trova in un ragazzo, accorre per l’ennesima volta sul ponte e fa arrivare anche un trattore, ma il canale è altissimo, è troppo tardi. Del suo amico e del bambino non c’è più traccia. Tutto è stato vano. «Li potevo salvare», si ripete anche oggi Piero. E non può accettare che il suo amico, di cui aveva provvidenzialmente sentito le grida proprio mentre se ne stava andando, sia morto anche per la vigliaccheria di quell’operaio dell’Anas. Così, mercoledì, ha presentato una denuncia ai carabinieri di Olbia. Lui e la sua amica, testimone di quei terribili momenti. «Se quell’operaio fosse sceso dall’auto il bilancio di questa tragedia sarebbe stato meno drammatico. Non può passarla liscia, spero che i carabinieri lo trovino al più presto», dice con amarezza. Ma se anche lo trovassero, e lo punissero, non riporterà in vita Mazzoccu e il suo bambino. Ma forse un’altra volta, l’uomo imparerà la differenza cruciale tra stare chiusi in macchina e scendere, lì fuori, nel mondo in tempesta.
“Potevamo salvare il piccolo Enrico, ma l’autista dell’Anas è scappato”, scrive Nicola Pinna su “La Stampa”
«Li potevo salvare, ci ero quasi riuscito ma nessuno mi ha aiutato. Anzi, chi poteva fare qualcosa si è rifiutato. Sembra difficile da credere ma è successo davvero in quel momento d’inferno. C’era un operaio dell’Anas, rinchiuso dentro una macchina, quando Francesco Mazzoccu e il suo figlio Enrico erano appesi a un palo, sull’orlo del canale che ha invaso via Canaglia e che diventava più grande e più aggressivo. Lui, Francesco, urlava come un disperato e chiedeva aiuto. Io ci ho provato in ogni modo ma da solo non sono stato in grado di strapparlo alla furia della corrente. Se quell’operaio fosse sceso dalla macchina il bilancio di questa tragedia sarebbe stato meno drammatico. Non può passarla liscia, spero che i carabinieri lo trovino al più presto». E proprio per questo Piero Mariano ha presentato una denuncia ai militari del reparto territoriale di Olbia. Con lui, che è titolare di un’officina meccanica in città, c’era anche una donna che a quella scena da brivido ha assistito dall’inizio alla fine. «Nella zona di Putzolu, lunedì sera, io non sono capitato per caso: sono corso per aiutare un’amica che era in difficoltà insieme al figlio di undici mesi – racconta Piero Mariano –. L’ho portata al sicuro ma mentre tentavamo di andar via ho sentito qualcuno che urlava. Ho rallentato e visto un ragazzo agganciato a un palo. All’inizio non l’avevo riconosciuto, poco dopo ho capito che si trattava di Francesco Mazzoccu, lo conoscevo bene. In un attimo sono sceso e ho cercato di dargli una mano. Da solo però non potevo far nulla. E allora sono andato in giro a cercare rinforzi. Poco distante ho incontrato un anziano e gli ho chiesto di venire con me: in quel momento ho scoperto che era il padre di Francesco. Ci siamo avvicinati di nuovo al ponte ma raggiungere Francesco e il suo bambino era impossibile. Il livello dell’acqua cresceva continuamente. Era sempre più critica la situazione, ma c’era il tempo per fare qualcosa di utile. Senza perdere secondi preziosi ho fatto un giro per cercare qualcun altro. Ho trovato l’auto dell’Anas e all’operaio che era seduto al posto di guida ho chiesto subito di scendere. Rispondeva di andar via, che non si poteva far nulla e che non sarebbe sceso. Mi ha persino minacciato». Piero Mariano non si è arreso. Si è avvicinato di nuovo al ponte quasi sommerso e con una corda ha cercato di tirare a sé il bambino e il suo papà che oramai avevano l’acqua alla gola. «Niente, era impossibile, perché la corrente stava portando via anche me. Pensavo al bambino e ripetevo a me stesso che non dovevo arrendermi. Sono tornato dall’operaio dell’Anas, ma non c’è stato niente da fare per convincerlo. Mi ha detto che mi avrebbe spaccato la faccia». Dopo interminabili momenti di angoscia, Piero Mariano ha incontrato qualcuno pronto a intervenire. «Ho trovato un ragazzo e insieme abbiamo fatto arrivare un trattore. Ma era troppo tardi».
Enrico Mazzoccu era un bambino di appena 3 anni. Francesco, suo padre, lo aveva chiuso nel giaccone per proteggerlo dalla furia dell’acqua che li ha uccisi entrambi. Colpa “dell’evento eccezionale”, e colpa anche della mancata cura del territorio. Ma non solo, scrive Alessandro Camilli su “Blitz Quotidiano”. Padre e figlio sono morti anche per colpa dell’indifferenza. Nessuno ha voluto aiutarli. Francesco, un omone istruttore di kickboxing, è stato per un’ora appeso ad un muretto a lottare con l’acqua. Enrico era tra le sue braccia, protetto dalla giacca. Chiedevano aiuto ma né “le istituzioni” né le persone del posto hanno mosso un dito. Eccezion fatta per un meccanico che ha raccontato il suo dolore, la sua frustrazione e il suo sdegno al Tg di Enrico Mentana. “Stavo portando in salvo una signora con la mia macchina – ha raccontato Pietro Mariano a La7 – quando ho sentito delle grida di aiuto. Ho visto una mano che spuntava dall’acqua, apparteneva ad un uomo che aveva con sè un bambino. Gli ho detto di stare calmi e sono andato all’Anas a chiedere soccorso, ma mi hanno detto che non potevano fare nulla. Allora sono tornato lì e con delle funi, e con il padre del ragazzo in acqua che nel frattempo era arrivato, abbiamo provato a fare qualcosa, ma non ci siamo riusciti. Ho buttato quindi giù un cancello con la mia macchina, per cercare di avvicinarmi, ma le ruote sprofondavano. Sono tornato all’Anas e questa volta mi hanno minacciato dicendomi che mi avrebbero spaccato la faccia”. “Mi sono fermato – continua Mariano – al primo bar che ho trovato, chiedendo aiuto ai ragazzi che erano lì. Ma nessuno ha mosso un dito. Ho provato anche a fermare delle auto che passavano. Sarebbe bastato un trattore, un furgoncino per salvare quel padre e il suo bambino. Sono stati nell’acqua un’ora, e nessuno ha fatto nulla. Nessuno ha mosso un dito per un bambino di 3 anni che chiedeva aiuto”. All’indomani della tragedia, finita, forse, la conta delle vittime, veloci sono iniziate le polemiche: nessuno ci ha avvertito, la colpa è della cementificazione indiscriminata, un evento simile non si poteva prevedere… Polemiche, le solite, stantie per quanto vere, che si ripetono ad ogni tragedia. Allarmi forse intempestivi e spesso praticamente ignorati. Gestione del territorio dissennata e fondi che costantemente non ci sono per la manutenzione del territorio. Tutte cose vere, e note. Così note che ci siamo ormai abituati. Quello a cui non siamo però abituati, o almeno a cui fatichiamo di più ad abituarci, è l’indifferenza che pervade la nostra società. La storia di Enrico e Francesco, lasciati morire in mezzo all’acqua, viene oggi dalla Sardegna. E lì, prendendo per buona la ricostruzione fornita da Mariano, e non si vede perché buona non dovrebbe essere, ci sono persone che hanno sulla coscienza quelle due vite. Gli addetti dell’Anas in primis che avrebbero anche un briciolo di dovere nel prestare soccorso, ma anche i ragazzi del bar e gli automobilisti di passaggio. Viene dalla Sardegna ma non è detto che domani non possa ripetersi altrove. Prestare soccorso ad una persona in difficoltà, aiutare un bambino di 3 anni spaventato, che con le lacrime invoca aiuto da dentro il giaccone del padre che tenta di proteggerlo, non è infatti compito di polizia e vigili del fuoco. Non è un lavoro ma è un obbligo morale e civile. Non è una società quella fatta di persone che non aiutano nemmeno un bambino in mezzo all’acqua. Oggi pomeriggio (20 novembre 2013) ci saranno i funerali di Enrico e Francesco. La mamma, Carolina, li ha voluti tenere vicini, mettendoli nella stessa bara. Alle esequie ci sarà anche Paolo, il nonno, che ieri notte non è riuscito a salvare figlio e nipote. Come ci saranno anche alcuni di quelli che ieri avrebbero potuto fare qualcosa, avrebbero potuto tentare e che invece non hanno alzato un dito, forse per paura, probabilmente per indifferenza.
Mamma e papà muoiono coi loro ragazzi, Arzachena, un'intera famiglia sterminata, scrive “L’Unione Sarda”. I corpi della famiglia di brasiliani sono stati trovati all'interno della loro abitazione ad Arzachena, sommersa da tre metri d'acqua. Le vittime sono Isael Passoni, 42 anni, e i figli Weriston di 20 anni e Laine Kellen, di 16, deceduta anche la madre di cui però non si sono ancora apprese le generalità. I soccorsi sono arrivati all'alba in località Mulinu Vecchiu, alle spalle della circonvallazione all'ingresso della cittadina. Un seminterrato trasformato in un appartamento che ieri sera, dopo la piena del Rio Mannu e San Pietro, è stato completamente allagato. Paura, per la stessa piena, anche per 13 persone a bordo di diverse auto trascinate via dalla forza dell'acqua mentre percorrevano la circonvallazione di Arzachena. Tutti si sono messi in salvo uscendo dalle vetture e arrampicandosi su piante e alberi circostanti. Tra questi due ragazzi di 13 anni e una donna incinta.
Luca Tanzi, il destino l'ha reso un eroe. Morto mentre scortava l'ambulanza, scrive “L’Unione Sarda”. La tragica fine del poliziotto, morto mentre prestava soccorso durante l'alluvione. Doveva essere a camminare tra i sentieri della Barbagia con i colleghi della 'Squadriglia, per dar la caccia ai latitanti nascosti sulle montagne, come tutti i giorni. Ma l'alluvione che ha colpito la provincia di Nuoro ha cambiato le carte in tavola e il suo destino: "vado in giro a vedere se qualcuno ha bisogno d'aiuto".E' Matteo Guidelli dell'Ansa, a raccontare la storia di Luca Tanzi, l'assistente capo della polizia che è morto così: per aiutare qualcuno. Originario di Urzulei, un paesino dell'Ogliastra, Tanzi era in polizia da una quindicina d'anni, buona parte dei quali passati nella questura di Nuoro: prima alle volanti, poi all'ufficio informatico e da tre anni nella Squadriglia, la Catturandi di Nuoro, un'unità operativa unica in Italia. "E' un corpo d'elite - raccontano i colleghi di Luca, affranti per la sua morte - gente esperta e specializzata, capace di passare giorni in mezzo a boschi e sentieri impervi". Dodici uomini abituati a vivere in campagna, divise mimetiche e un unico obiettivo, scovare i latitanti che si nascondono in quello che Fabrizio De Andrè, dopo aver vissuto quattro mesi in mano all'anonima sarda, chiamò in una canzone memorabile l' 'Hotel Supramontè: "E se vai, all'hotel Supramonte, e guardi il cielo, tu vedrai una donna in fiamme e un uomo solo, e una lettera vera di notte falsa di giorno, poi scuse accuse e scuse senza ritorno, e ora viaggi vivi ridi o sei perduta, col suo ordine discreto dentro il cuore, ma dove dov'è il tuo amore, ma dove è finito il tuo amore". Luca su quelle montagne ha passato i suoi ultimi tre anni, tutti i giorni, prima di tornare a casa dalla moglie e dai suoi due ragazzi di 11 e 7 anni. Un periodo che gli ha riservato anche diverse soddisfazioni, come l'arresto, nell'aprile del 2011, di Angelo Balzano, un latitante accusato di aver ammazzato due anni prima a Barisardo il meccanico Antonio Cannas con tre colpi di pistola. Quando la Squadriglia lo scovò, Balzano viveva in una tenda nascosta in una macchia di ginestre nei boschi sopra il suo paese, Arzana. "Esci da lì, sei circondato", gli urlarono i poliziotti e lui, disarmato, non oppose resistenza. "Eccomi - rispose lui - Ma a Barisardo ho sparato solo per difendermi". All'una di ieri, quando era ormai chiaro a tutti che le condizioni meteo non avrebbero consentito alla Squadriglia di salire in montagna per il servizio previsto e pianificato da giorni, Luca Tanzi e i suoi colleghi avrebbero forse potuto restare in ufficio. Ma senza pensarci un attimo sono andati dal loro dirigente e gli hanno chiesto il permesso di rendersi utili: "facciamo un giro - sono le ultime parole che in questura ricordano di Luca - andiamo a vedere se qualcuno ha bisogno d'aiuto". I quattro sono così saliti sul loro fuoristrada e hanno iniziato a pattugliare le vie di Nuoro e della provincia quando sulla strada tra Oliena e Dorgali hanno incrociato un'ambulanza con a bordo una ragazza ferita, una venticinquenne che era in ipotermia. "Vi scortiamo noi, seguiteci" hanno detto i poliziotti. "In gergo tecnico - raccontano in questura - la pattuglia fa da apripista. Significa che garantisce la sicurezza per l'auto che segue e, se succede qualcosa, è lei che ne paga le conseguenze. E' quello che è accaduto ieri". Luca e gli altri poliziotti arrivano all'altezza del ponte, lo imboccano e quando ci sono sopra cede una campata: un volo di quattro metri e poi lo schianto. L'allarme scatta subito e i tre colleghi di Tanzi vengono estratti vivi: feriti, ma vivi. Uno dei tre è in rianimazione, ha riportato diverse fratture ma ce la farà, come gli altri due. Luca no.
A nuoto per salvare la vita alla vicina. Una giovane tedesca "eroina" a Olbia, scrive “L’Unione Sarda”. La giovane tedesca ieri verso le 18 ha salvato la vita a un'anziana e al suo cane. Non ha esitato a sfidare la furia dell'acqua per attraversare la strada a nuoto e salvare la dirimpettaia, un'anziana che rischiava di morire annegata nella sua casa a Olbia. Protagonista una giovane tedesca che ieri sera intorno alle 18 ha salvato la vita all'anziana e al suo cane, portandoli al riparo nella sua casa, dove l'anziana, poi raggiunta dalla figlia, ha trascorso la notte. Nella stessa via salvata anche un'anziana disabile costretta a letto, grazie all'intervento di un vicino all'una di notte. Si chiama Martina Feick, la giovane tedesca che ieri sera ha salvato la vita ad un'anziana vicina di casa. Per gli abitanti del quartiere S.Antonio, la ragazza, che vive qui da sette anni, è l'eroina del giorno. Tutti si avvicinano per ringraziarla e farle i complimenti per il suo coraggio. "E' successo tutto intorno alle 18 - racconta Martina all'Ansa - mi sono vestita e sono uscita di corsa per aiutare i miei vicini. L'acqua era alta, arrivava fino al cancello, sono riuscita a traversare la strada, saltare il cancello ed entrare in casa della signora Biddau. In quel momento era da sola, con il suo cane - continua la giovane tedesca - l'ho presa in braccio e l'ho portata dentro casa mia. Poi ho preso anche il cane. Più tardi è arrivata la figlia e sono restati tutti a dormire a casa mia. Anche noi abbiamo subito gravi danni - conclude Martina - l'auto è distrutta, il garage allagato da un mare di fango, è stata una tragedia che ha sorpreso tutto il quartiere, non siamo stati avvertiti. Siamo senza luce, senza acqua e senza telefono, isolati, ma nessuno è venuto ad avvisarci prima che il fiume straripasse".
Il dramma nelle telefonate al 113. "Aiuto, l'acqua ci ha divelto la porta", scrive “L’Unione Sarda”. Nelle telefonate registrate dalla polizia di Nuoro le richieste di aiuto delle persone terrorizzate durante l'alluvione. Il Centro operativo della polizia risponde alle telefonate allarmate dei cittadini che segnalano macchine e persone bloccate dalla devastante furia dell'acqua. "Se lei sta parlando di casa sua a Bitti - dice il poliziotto - l'indicazione é di salire ai piani alti. A Bitti abbiamo un sacco di problemi a livello strada con macchine bloccate con 40-50 centimetri d'acqua. Dovete darci una mano anche voi, cercate di salire ai piani alti". "La potenza dell'acqua ci ha divelto anche la porta, ha rovesciato anche dei mobili, abbiamo tutto in giro e non sappiamo più dove farla uscire quest'acqua..", grida una donna terrorizzata al telefono. Il poliziotto cerca di tranquillizzarla assicurando l'intervento. E ancora segnalazioni di macchine bloccate dall'acqua e di vetture inghiottite dalle voragini aperte nelle strade della Sardegna. Anche una donna autista di bus chiama allarmata da Siniscola perché non riesce a proseguire. Il poliziotto taglia corto. "Ecco non si muova da Siniscola, rimanga lì...". E ancora un'altra telefonata, molto concitata: "Traliccio dell'Enel in carreggiata al km 67 della SS131 e più avanti a 700 metri é crollata la carreggiata e ci sono veicoli bloccati".
Olbia, città diventata un fiume: "Non è colpa solo della pioggia". I dubbi degli abitanti della cittadina alle porte della Costa Smeralda. "Quella massa d'acqua tutta insieme non è arrivata soltanto perché c'era un nubifragio", scrive Corrado Zunino su “La Repubblica”. Olbia è grande come un quartiere di Roma. Poco meno di 56 mila residenti, dice l'ultimo censimento. Prima, seconda, terza, quarta e sei già in periferia. Via Aldo Moro, la sede della Nuova Sardegna, il ristorante By Night che serve fino alle due di notte. La titolare racconta come giù allo stadio, lunedì sera, tra le sei e venti e le sette e mezzo l'acqua per le strade si è gonfiata. In modo anomalo. I rivoli sono diventati fiumi, i canali che squadrano i quartieri sono tracimati. "Pioveva tanto, pioveva da molto tempo, ma quella massa d'acqua tutta insieme non si può giustificare con l'intensità della pioggia". È accaduto qualcos'altro, e i clienti attorno alla titolare annuiscono, confermano. Sospettano. La notte di Olbia è uno spettro, con via Figone e via Schubert chiuse, con troppe strade chiuse, alcune per voragine. In via Lazio, un morto, lavorano ancora le idrovore dei vigili del fuoco. Le traverse attorno allo stadio sono ancora laghetti, e i vigili aspirano manovrando dai gommoni. La città, le sue strade, continuano a espellere acqua da dentro, c'è sempre un rivolo che prima emerge e poi scende verso il mare, un fiumiciattolo che corre, diventa carsico, riappare dopo trenta metri più minaccioso. Sono trascorse trenta ore dalle grandi piogge. Sacchetti della spazzatura per strada, e per strada ruspe e caterpillar. Continueranno domani a spostare fango. Davanti alla Conad due vigilantes della Mondialpol, una è donna. Li hanno chiamati ieri: al supermercato squassato dalle piogge sono entrati due ladri, due sciacalli. Le luci accese mostrano i vetri dell'ingresso venati e all'interno la striscia nera sul muro, a sessanta centimetri d'altezza.È l'acqua del canale a fianco, "sempre sporco, sempre intasato", si è portata via la merce dei primi due scaffali, quella sopra è rimasta a vista. Gli sciacalli si sono visti ieri pomeriggio a Isticcadeddu, uno dei quartieri più colpiti. Hanno lasciato in giro falsi volantini con i quali si invitavano gli abitanti a lasciare le proprie case. La polizia municipale ha inviato pattuglie. I carabinieri del comando di Sassari, d'altronde, hanno segnalato cinque episodi di sciacallaggio a Olbia, tutti nelle zone più colpite da Cleopatra. Alcune persone si sono presentate in via Ambalagi e in via Correggio come dipendenti del Comune e della Protezione civile invitando la popolazione ad abbandonare le abitazioni per un pericolo imminente. Poco dopo, le stesse persone sono state sorprese mentre cercavano di introdursi nelle abitazioni abbandonate. Uno sciacallo è stato messo in fuga dai padroni di casa. Via Roma, via Vittorio Veneto, poi Pasada e Putzolu con la voragine sulla statale. Cartelli, barriere, lavori in corso nella seconda notte di Olbia. Anche in una piccola città senza crisi abitative la periferia porta il segno della sregolatezza urbanistica, dell'asfalto di troppo, delle strade costrette, dei palazzi irregolari, delle concessioni affrettate. Sul Monte Pinu si è aperta una voragine di trenta metri là dove la Provincia ha costruito da poco un terrapieno che insacca il torrente: il torrente, gonfiato dalle piogge, si è ripreso il suo spazio. E la voragine ha inghiottito almeno quattro auto uccidendo madre e figlia in una Smart. A Raica è stato ritrovato il corpo di un uomo. E Raica è una campagna trasformata in città senza controlli né previsioni.
Urla Inascoltate dalla terra ferita, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Ma chi doveva intervenire, la cavalleria delle giubbe blu?», si è sfogato il capo della Protezione civile, Franco Gabrielli. C’è da capirlo. Centinaia di uomini che hanno lavorato giorno e notte, bagnati fradici nel fango, il fiato rotto e gli occhi gonfi di fatica per salvare più persone possibili dal diluvio che ha sconvolto la Sardegna, non meritano tutti i dubbi, le polemiche e i veleni sulla tempestività degli allarmi e dei soccorsi. Niente giubbe blu. E onore a quei soccorritori che hanno speso ogni energia nel pantano sardo. Quando la terra avrà riassorbito le acque e le lacrime per tutti quei morti, però, si dovrà fare un bilancio. Non ne possiamo più di queste tragedie. Certo, non è colpa del governo se piove a dirotto. Men che meno se vengono giù «440 millilitri di pioggia in 24 ore». Ma un mese fa, alla Commissione Ambiente della Camera, lo stesso Gabrielli aveva denunciato che sei Regioni non avevano neppure avviato i Cdf (Centri Funzionali Decentrati) destinati a coordinare i soccorsi in caso di bisogno. Tra queste, la Sardegna. Che dal ciclone Cleopatra ha ricevuto, dopo anni di crisi nera, una botta durissima. Nel periodo 1900-2002, scrive il geologo Claudio Margottini nel volume in uscita su L’Italia dei disastri curato da Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, «si sono verificati 4.016 eventi con gravi danni e ci sono state 5.202 vittime per frane e 2.640 per alluvioni». Cioè 39 frane e inondazioni gravi con 77 morti l’anno. Ai quali bisogna aggiungere i disastri successivi a Ischia, Giampilieri, Borca di Cadore, Vicenza, Genova...
Dice l’ultima risoluzione
votata alla Camera poche settimane fa da tutti (tutti) i gruppi della
Commissione Ambiente che «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio
frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10% della superficie del territorio
nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’89% dei Comuni». Di più:
in un Comune su cinque «sono state costruite in aree a rischio idrogeologico
strutture pubbliche sensibili come scuole e ospedali». Di più ancora: «Il 68%
delle frane europee si verifica in Italia». Sfortuna? È una tesi indifendibile.
Alla fragilità naturale del territorio, già esposto come pochi altri ai
terremoti, si son sommati errori e orrori. I disboscamenti selvaggi, i quartieri
costruiti negli alvei, l’oblio infastidito sui disastri del passato, i rinvii di
spese indispensabili (aspettiamo la carta geologica in scala 1:50.000 dal
lontano 1988), il taglio progressivo dei fondi per il rischio idrogeologico: da
551 a 84 milioni tra il 2009 e il 2012. Solo 20 quest’anno. Un quarto dei soldi
buttati per convertire l’ospedale militare alla Maddalena in un hotel mai aperto
per il G8 mai fatto. Una miopia fatale: i quattrini «risparmiati» prima si
spendono, moltiplicati, dopo. Con l’aggiunta, intollerabile, dei lutti. Non lo
dicono gli ambientalisti in sandali infradito, lo dice l’Ance: «Il costo
complessivo dei danni provocati in Italia da terremoti, frane e alluvioni, dal
1944 al 2012, è pari a 242,5 miliardi di euro». Quanti ne avremmo risparmiati,
con una saggia prevenzione? E quanti morti non avremmo pianto?
Eppure, accusa la Cgia di Mestre, i vari governi non hanno fatto che accumulare
imposte «ecologiche» sull’energia, sui trasporti e sulle attività inquinanti e
le emissioni di anidride solforosa eccetera raccogliendo dal 1990 in qua 801
miliardi e mezzo di euro. Sapete quanti sono stati spesi davvero in interventi
di risanamento per l’ambiente? Meno di sette. Lo 0,9 per cento...
“Basta con le polemiche pretestuose – dice il capo della Protezione civile Franco Gabrielli -. Abbiamo diffuso l’allerta meteo 12 ore prima delle precipitazioni e lo ha trasmesso alle prefetture e alla Regione, che a sua volta deve allertare i comuni. Chiedete a questi enti cosa hanno fatto”.
“Basta lacrime di coccodrillo, è fallito un sistema” è il titolo dell’editoriale del direttore dell’”Unione Sarda” Anthony W. Muroni. Nato a Perth (Australia) nel 1972, sposato, una figlia, è diventato direttore de L'Unione Sarda il 10 giugno 2013. Da due anni conduce la trasmissione "Dentro la Notizia" su Videolina, ha scritto i libri "Peppino Pes, l'inedita confessione del prete-bandito", "Francesco Cossiga dalla A alla Z", "Il sangue della festa. Mortu in Die nodida", "Benedetto XVI dalla A alla Z", "Il volto di Francesco", "Andreotti e la Sardegna". Non possiamo fare più niente per chi ha perso la vita travolto dalle bombe d’acqua e affogato dal degrado sul territorio. Siamo impotenti nei confronti della morte ma consci delle nostre responsabilità: il dovere morale di onorare chi non c’è più e di dare risposte a chi su questa terra è rimasto a piangere e disperarsi. Lo faremo cercando di non dare tregua ai responsabili. Se c’è qualcuno incaricato di pubblico servizio che si è macchiato di incuria, mancata prevenzione, inerzia e/o incapacità, deve essere individuato, denunciato e messo in condizione di non nuocere più. Mai come questa volta, davanti a 16 croci piantate su una distesa di fango, qualcuno deve pagare. Perché? Per troppe volte, nelle ore successive ai disastri, ci siamo sentiti ripetere che non è il caso di fare polemiche. Poi l’emergenza è finita e con essa la voglia di mettere sotto i riflettori della vergogna chi aveva sbagliato. Sarebbe sufficiente andare a vedere quanto accaduto dopo le tragiche alluvioni di Villagrande e Capoterra. Solidarietà, stanziamenti, promesse di governo del territorio. Cos’è rimasto? Processi ancora in fase di celebrazione, opere pubbliche ritardate da burocrazia, ricorsi ed errori progettuali. Il governo Letta ha stanziato venti milioni per la gestione dell’emergenza e promesso di non far rientrare nel Patto di stabilità le somme che verranno impiegate per la ricostruzione. Ma non ci dà, ancora una volta, risposte sul fronte del mostro politico-burocratico che governa questo Paese. Non riusciamo a capire come sia possibile che una strada sulla quale erano stati appena fatti lavori sia crollata inghiottendo alcune auto. Non possiamo spiegarci il fatto che i cantieri a monte del rio Posada siano bloccati da almeno un anno e mezzo a causa di un contenzioso tra l’amministrazione pubblica e l’impresa appaltatrice. Sembra quasi di risentire l’antica litania alla base del fermo dei lavori sulla Carlo Felice, vera vergogna degli anni Duemila. Tralascio in questa sede le contraddizioni legate alle misure adottate all’indomani dell’allerta-meteo, rivelatasi quasi inutile. Ma pongo una domanda facile: si è capito o no che l’abusivismo e il mancato governo del territorio generano tragedie? Abbiamo la missione di ficcarlo nella zucca di chi non vuole arrendersi all’evidenza dei fatti.
Alluvione in Sardegna: Rai censura le parole del direttore dell'Unione sarda, poi il dietrofront, scrive Riccardo Spiga. Il Tg2 intervista il direttore dell'Unione sarda sul ciclone che si è abbattuto in Sardegna, ma l'intervento - considerato troppo critico - non va in onda. Poi, forse, il dietrofront. Anthony Muroni è direttore dell'Unione Sarda da pochi mesi, ma la sua nomina ha cambiato molto più di una firma, perché il quotidiano più letto della Sardegna è diventato, da organo di propaganda berlusconiana, un giornale aperto e plurale. Un bel salto, per chi conosce la realtà locale come il sottoscritto. Comunque, come altri suoi colleghi, Muroni è stato intervistato dalle tv nazionali che seguono l'evolversi del ciclone che si è abbattuto sull'isola da ieri sera, lasciando una scia di devastazione e morte. Tra quelli che hanno interpellato il direttore dell'Unione, c'è anche il Tg2, al quale il giornalista ha raccontato della tragica situazione senza però evitare di fare riferimento a tutto quello che non funziona in termini di tutela del territorio, avvio dei cantieri, inefficienza generale del sistema di prevenzione e intervento. Dopo poco tempo, come ha raccontato egli stesso su Facebook, gli viene comunicato che l'intervista non sarà messa in onda. Il motivo? Il solito di mamma Rai: meglio non parlare di quello che non va, concentriamoci sulle facili e vuote parole di solidarietà, ché così non si fa arrabbiare nessuno. Ma ecco quanto ha scritto Muroni sul suo profilo Facebook: "Mezz'ora fa ho registrato un intervento per il Tg2, nel quale ripetevo i concetti già espressi a Uno Mattina: serve solidarietà, servono interventi, servono aiuti, serve combattere l'emergenza, Ma serve anche interrogarsi sul perché i ponti crollano, sul perché i cantieri per la messa in sicurezza dei fiumi si bloccano per anni a causa di contenziosi tra Comuni e imprese appaltatrici. Ho detto anche: va bene la solidarietà del governo e gli stanziamenti, ma forse dovrebbero rendersi conto che c'è un intero sistema che non funziona. E che in Sardegna, dieci anni dopo Capoterra, stiamo ancora parlando delle stesse cose. Mi ha appena chiamato una collega della Rai: l'intervista non verrà mandata in onda: 'Meglio non parlare di questa cose'. Tanti saluti." Grazie poi a una forte mobilitazione sul web, il post di Muroni è stato ripreso anche sul blog di Grillo, pare che la Rai abbia deciso di fare dietrofront e che l'intervista verrà messa in onda nel Tg2 delle 20.30. Staremo a vedere, certo è triste verificare come le peggiori prassi, in casa Rai, non passino mai di moda.
VIOLENZA SESSUALE. ESSERE SARDI E’ UN’ATTENUANTE.
Un giudice di Hannover gli riconosce le "attenuanti etniche e culturali". "Dev'essere tenuto in considerazione il quadro dell'uomo e della donna esistente nella sua patria". Germania, violenta la sua ex, sconto di pena perché "è sardo". Convinto che la fidanzata lo tradisse, l'ha segregata, torturata e sottoposta a stupri di gruppo. Il presidente del Consiglio regionale: "Se è vero, c'è da inorridire". Incredibile sentenza ad Hannover. In un processo per violenza sessuale, un uomo ha avuto riconosciuta l'attenuante di essere sardo, scrive “La Repubblica”. Un cameriere di 29 anni ha tenuto segregata per tre settimane la ex fidanzata, l'ha picchiata, violentata, torturata e umiliata in vari modi, ma ha ottenuto uno sconto di pena ed è stato condannato a sei anni di carcere: il giudice gli ha concesso le "attenuanti etniche e culturali". Stupefatto il presidente del Consiglio regionale della Sardegna: "Se le motivazioni sono quelle riportate dagli organi di stampa, c'è da inorridire. Non c'è alcuna cultura sarda di segregazione e violenza sulle donne, si tratta di un episodio di violenza e, come tale, da condannare". La sentenza è di un anno fa, ma è stata resa nota solo in questi giorni in quanto il legale del giovane, l'avvocato Annamaria Busia, sta tentando di fargli scontare la pena in Italia. "Ho ottenuto una copia tradotta in italiano, con il timbro del tribunale tedesco, - ha spiegato all'Agi - in vista dell'udienza per il trasferimento in Italia, prevista il 23 ottobre in corte d'appello a Cagliari". Nella sentenza si legge, testuale: "Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. E' un sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante me deve essere tenuto in considerazione come attenuante". Ma anche altri passaggi sono altrettanto singolari. Come quello, ad esempio, in cui si spiega che "è stato tenuto conto che come cittadino italiano che deve vivere separato dalla sua famiglia e dalla sua cerchia di amici in patria, è particolarmente sensibile alla reclusione". I reati, poi, sempre secondo la sentenza, "sono stati un efflusso di un esagerato pensiero di gelosia dell'imputato". Il fatto di essere nato in Sardegna, per il giudice tedesco, rende quindi meno grave la responsabilità di un giovane che, convinto che la fidanzata lituana lo tradisse, l'ha tenuta prigioniera per tre settimane sottoponendola anche a violenze sessuali di gruppo. Le convinzioni del magistrato sui sardi, a dir poco bizzarre, hanno fatto risparmiare al cameriere almeno due anni di carcere. Il suo avvocato è comunque indignato: "E' una sentenza razzista".
Sentenza tedesca: «Stupra ma è sardo, ha le attenuanti»Un giudice di Hannover fa lo sconto alla pena di un 29enne emigrato che ha violentato l'ex compagna. Sdegno generale di politici e intellettuali. «Stomachevole». La Regione: «Ignoranti e imbecilli», scrive Anna Tarquini su “L’Unità”. «Uno straordinario esempio di razzismo - dice Manconi - . Quel razzismo differenzialista che tanti guai ha già combinato e tanti altri potrebbe provocarne». Il protagonista di questa vicenda si chiama Maurizio Pusceddu e ha 29 anni. Nessuno avrebbe conosciuto la sua storia, e l'incredibile sentenza che risale a più di un anno fa, se il suo avvocato Annamaria Busia non avesse chiesto per il suo assistito di scontare la pena in Italia. Pusceddu ha colpe gravi. È stato processato e condannato a sei anni di carcere, due condonati grazie alla sua "sardità", per aver violentato, picchiato e torturato la sua ex fidanzata lituana. L'aveva tenuta segregata per giorni poi l'aveva torturata e umiliata in vari modi. Ad Hannover un giudice l'ha ritenuto colpevole, ma per chiarire meglio pene e sconti, ha motivato bene la sua decisione. Nessuno però aveva letto quell'atto che è stato fatto tradurre dal legale di Pusceddu per presentare ricorso. E quando l'avvocato Busia l'ha letto è rimasta senza parole. Nella sentenza si legge testuale: «Si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. È un sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante me deve essere tenuto in considerazione come attenuante». Il fatto di essere nato in Sardegna, per il giudice tedesco, rende quindi meno grave la responsabilità di in giovane che, convito che la fidanzata lituana lo tradisse, l'ha tenuta prigioniera per tre settimane sottoponendola anche a violenze sessuali di gruppo e arrivando a orinarle addosso. Eppure le convinzioni sui sardi del magistrato, a dir poco bizzarre, hanno fatto risparmiare al cameriere almeno due anni di carcere. E adesso anche il legale di Pusceddu vorrebbe fare marcia indietro: «La sentenza è chiaramente permeata di inaccettabile razzismo», dice Busia. Che la sentenza abbia incuriosito e suscitato indignazione è dire poco. «Se le motivazioni dei giudici sono quelle riportate dagli organi di stampa c'è da inorridire - sostiene il presidente del Consiglio regionale della Sardegna Giacomo Spissu - . Non c'e alcuna cultura sarda di segregazione e violenza sulle donne e di gratuita perversione. Si tratta di un episodio di violenza e, come tale, da condannare». Tanto più che mostra una notevole ignoranza. La società sarda è infatti tradizionalmente matriarcale e, laddove nell'Italia del dopoguerra la violenza sessuale era ancora considerata un reato contro la morale (e non contro la persona), le fonti giuridiche dimostrano come nell'isola, al contrario come viene documentato dalla «Carta de logu», il codice promulgato alla fine del XIV secolo, già nel Medio Evo lo stupro venisse punito con sanzioni estremamente dure, come l'amputazione del piede. Dice Rifondazione: «La sentenza emessa dal giudice tedesco non è solamente sessista, perché derubrica il reato di violenza sessuale come un reato minore, ma anche razzista, in quanto identifica l'intera popolazione della Sardegna come incivile e primitiva». Dicono An e Fi: «Il governo deve pretendere scuse ufficiali dalla Germania». Sarcastico lo scrittore nuorese Marcello Fois: «Davvero per un tribunale tedesco il fatto che uno stupratore sia nato in Sardegna può spiegarne culturalmente i crimini? Tanto da concedere all'aguzzino persino sconti sulla pena? La trovo una sentenza agghiacciante, sono quasi senza parole». «È come se un tribunale sardo - continua Fois - riconoscesse attenuanti a un antisemita tedesco, in quanto cresciuto in un ambiente razzista. Follia pura, insomma». Intanto la portavoce del Landgericht Bueckeburg, Birgit Brueninghaus nega: lo sconto di pena a Maurizio Pusceddu non ha a che fare con la sua provenienza sarda. La pena per casi simili varia tra i 2 e i 15 anni, ma in tale occasione è stata rivista al ribasso, portandola da un minimo di 6 mesi a un massimo di 11 anni e 3 mesi, in quanto l'imputato si trovava, al momento del reato, in uno «stato di notevole riduzione della propria capacità di controllo». Ma spiegando peggiora la gaffe. L'uomo - ha insistito la portavoce - ha inoltre agito «sotto l'effetto di una eccessiva gelosia». E, leggendo dalla sentenza originale datata 2005, «a questo proposito» (cioè in relazione alla spiccata gelosia, ci tiene a precisare la portavoce), «si deve tenere conto delle particolari impronte culturali ed etniche dell'imputato. È sardo. Il quadro del ruolo dell'uomo e della donna, esistente nella sua patria, non può certo valere come scusante me deve essere tenuto in considerazione come attenuante». Per tentare di spiegare la sua gelosia, i giudici hanno solo tenuto conto del fatto che, nella sua infanzia e gioventù, l'imputato è «cresciuto in un ambiente in cui c'era un particolare quadro del ruolo dell'uomo e della donna», che lo ha influenzato. E insiste: «Non si tratta di certo di una sentenza razzista».
FONDI A SCROCCO. I CONSIGLIERI REGIONALI SARDI? COME GLI ALTRI!
Spese pazze in Regione Sardegna, si dimette Francesca Barracciu. La sottosegretaria dei Beni culturali è accusata di peculato aggravato nell’ambito dell’inchiesta sul presunto uso illecito dei fondi dei Gruppi del Consiglio regionale della Sardegna. Il processo comincerà il 2 febbraio. «Sono totalmente innocente», scrive "Il Corriere della Sera” il 21 ottobre 2015. Francesca Barracciu, sottosegretaria ai Beni culturali indagata nell’ambito dell’inchiesta sul presunto uso illecito dei fondi dei gruppi del Consiglio regionale della Sardegna, si è dimessa. «Ritengo doveroso dimettermi - ha spiegato - e avere tutta la libertà e l’autonomia necessarie in questa battaglia dalla quale sono certa uscirò a testa alta». «La notizia del rinvio a giudizio - dice la Barracciu in una nota - mi colpisce ed amareggia, sia dal punto di vista personale, sia da quello dell’impegno e del lavoro che ho profuso in questi anni di politica ed amministrazione e che ho continuato a mantenere anche al governo. Con una dedizione assoluta all’incarico che mi è stato affidato e che riguarda il bene forse più prezioso del nostro Paese: la valorizzazione della sua bellezza, della sua cultura, della sua storia». «Sono fiduciosa nel percorso della Giustizia - aggiunge - e affronterò il processo con determinazione e serenità, nella certezza di essere totalmente innocente. Voglio, inoltre, con lo spirito di responsabilità che da sempre mi accompagna, evitare che strumentalizzazioni politiche e mediatiche coinvolgano l’attività del Governo e il fondamentale processo di riforma e di cambiamento che sta portando avanti per il bene del Paese». «Per questo - conclude la Barracciu - ritengo doveroso dimettermi dall’incarico di sottosegretario ed avere tutta la libertà e l’autonomia necessarie in questa battaglia dalla quale sono certa uscirò a testa alta. Ringrazio il Presidente del Consiglio e il Ministro per l’opportunità che mi è stata offerta e le persone e le strutture che con me hanno collaborato e nelle quali ho sempre riscontrato tanta passione e generosità’’. Nel processo Barracciu, assistita dall’avvocato Franco Luigi Satta, dovrà difendersi dall’accusa di peculato aggravato. Il pubblico ministero Marco Cocco contesta all’esponente del Pd (che era stata indagata durante le primarie del centrosinistra per l’elezione del presidente della Regione Sardegna, che aveva vinto ma poi fece un passo indietro), spese per 81 mila euro, effettuante quando Barracciu sedeva nei banchi del Consiglio regionale, durante la XIII legislatura, spese che aveva giustificato come rimborsi spesa chilometrici per i viaggi nell’isola effettuati con la sua auto per attività politica. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto le dimissioni della sottosegretaria. «Già a marzo 2014 avevamo presentato due mozioni a prima firma Manuela Serra ed Emanuela Corda, quando le indagini su Francesca Barracciu erano ancora in corso», hanno spiegato i gruppi parlamentari M5S di Camera e Senato. «Il ministro Boschi all’epoca rispose: “Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia”. Benissimo, ora che il sottosegretario alla Cultura è stata rinviata a giudizio per il presunto uso illecito di fondi pubblici, quindi soldi di tutti i cittadini, il governo farebbe bene a trarne le dovute conseguenze e la Barracciu a dimettersi, togliendo l’ennesima onta su questo esecutivo».
"Spese pazze", il sottosegretario Barracciu rinviata a giudizio. "Sono innocente, ma mi dimetto", scrive “La Repubblica”. Francesca Barracciu, sottosegretario alla Cultura del governo Renzi, è stata rinviata oggi a giudizio in un procedimento dove è imputata per peculato aggravato per l'uso improprio dei fondi ai gruppi del consiglio regionale della Sardegna. Per questo motivo ha dato le sue dimissioni, gesto definito apprezzabile dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. L'ex candidata alla presidenza della Regione Sardegna, già consigliera regionale del Pd, dovrà comparire il prossimo 2 febbraio davanti alla seconda sezione penale del tribunale di Cagliari. Il gup Lucia Perra ha accolto la richiesta di rinvio a giudizio per Barracciu formulata dal pm Marco Cocco, titolare della maxinchiesta sulle spese dei fondi destinati ai gruppi del consiglio regionale nelle passate legislature e soppressi in quella in corso. La Barracciu era presente in tribunale. Il pm le contesta spese di oltre 81mila euro, utilizzati quando sedeva nei banchi dell'assemblea sarda. "La notizia del rinvio a giudizio mi colpisce ed amareggia - fa sapere il sottosegretario in una nota - sia dal punto di vista personale, sia da quello dell’impegno e del lavoro che ho profuso in questi anni di politica ed amministrazione e che ho continuato a mantenere anche al governo. Con una dedizione assoluta all’incarico che mi è stato affidato e che riguarda il bene forse più prezioso del nostro Paese: la valorizzazione della sua bellezza, della sua cultura, della sua storia". "Sono fiduciosa - continua Barracciu - nel percorso della giustizia e affronterò il processo con determinazione e serenità, nella certezza di essere totalmente innocente. Voglio, inoltre, con lo spirito di responsabilità che da sempre mi accompagna, evitare che strumentalizzazioni politiche e mediatiche coinvolgano l'attività del governo e il fondamentale processo di riforma e di cambiamento che sta portando avanti per il bene del Paese. Per questo ritengo doveroso dimettermi dall'incarico di sottosegretario ed avere tutta la libertà e l’autonomia necessarie in questa battaglia dalla quale sono certa uscirò a testa alta". Una volta lasciati i banchi della consiliatura sarda, Barracciu è divenuta europarlamentare e ha vinto vinto le primarie del centrosinistra in vista delle regionali del 2014 in Sardegna. Ma, travolta dalle polemica nate attorno al suo coinvolgimento nell'inchiesta sui fondi ai gruppi, era stata costretta dal suo partito a fare il passo indietro che ha poi lasciato spazio alla vittoria di Francesco Pigliaru. Dopo le regionali, Barracciu è stata nominata sottosegretario, scatenando anche le polemiche per la scelta del premier Renzi. Che però ha difeso la scelta di nominarla quando era già indagata e di non chiedere mai le dimissioni di politici indagati. "Ho sempre detto - aveva dichiarato Renzi a Repubblica - che non ci si dimette per un avviso di garanzia. E se parliamo di faccia, le dico con sguardo fiero che per me un cittadino è innocente finché la sentenza non passa in giudicato". Stessa linea per il ministro Boschi: "L'avviso di garanzia - ha detto il ministro delle Riforme - è un atto dovuto a tutela degli indagati per esercitare i diritti di difesa, non è un'anticipazione di condanna". La Boschi però aggiungeva: "All'esito del procedimento il governo valuterà se chiedere le dimissioni del sottosegretario". Questo rinvio a giudizio ha ovviamente riaperto la ferita. Subito i gruppi parlamentari di Camera e Senato del Movimento 5 Stelle hanno chiesto le sue dimissioni: "L'avevamo chiesto in tempi non sospetti, presentando già a marzo 2014 due mozioni a prima firma Manuela Serra ed Emanuela Corda, quando le indagini su Francesca Barracciu erano ancora in corso. Ora che il sottosegretario alla Cultura è stata rinviata a giudizio per il presunto uso illecito di fondi pubblici, quindi soldi di tutti i cittadini, il governo farebbe bene a trarne le dovute conseguenze e la Barracciu a dimettersi, togliendo l'ennesima onta su questo esecutivo". Dimissioni che sono arrivate poche ore dopo. Il pm Marco Cocco ha insistito sulle troppe incongruenze riscontrate nelle memorie difensive presentate dall'onorevole oltre che su una telefonata fatta da Barracciu a un regista sardo. Per l'accusa quella chiamata - in cui l'onorevole ricordava al regista di essere diventata sottosegretario alla Cultura per poi annunciargli che sarebbe potuto essere convocato come testimone nell'ambito dell'inchiesta in cui era coinvolta - era un tentativo di inquinare le prove mentre per il giudice, che ha respinto la richiesta, solo una condotta "scomposta e deplorevole". Barracciu, che si è sottoposta a due interrogatori davanti al pubblico ministero, ha precisato di aver speso una parte dei fondi ai gruppi per dei rimborsi benzina legati ai viaggi fatti in ragione del suo ruolo politico ma non ha saputo dare una spiegazione alle tante incongruenza contestategli successivamente dagli inquirenti.
Spese pazze Sardegna, sottosegretaria Pd Barracciu a processo per peculato. Il gup di Cagliari ha deciso di rinviare a giudizio l'esponente del Partito democratico nell'ambito dell'inchiesta sul presunto uso illecito dei fondi ai gruppi del consiglio regionale. Contestati 81mila euro di rimborsi, scrive Monia Melis il 21 ottobre 2015 su “Il Fatto Quotidiano”. Rinviata a giudizio per peculato aggravato: inizierà il prossimo 2 febbraio a Cagliari il processo per l’attuale sottosegretario alla Cultura, l’esponente Pd Francesca Barracciu. Lo ha deciso questa mattina il gup Lucia Perra, su richiesta del pm Marco Cocco, il titolare della maxi inchiesta sui fondi ai gruppi in Consiglio regionale della Sardegna. Barracciu era in Aula, in compagnia del suo avvocato, Luigi Franco Satta: non ha rilasciato commenti ed è subito uscita dopo l’udienza durata circa un’ora. A differenza dello scorso giugno questa volta si è presentata e non è stato fatto appello a nessun legittimo impedimento. Alla sottosegretaria del governo Renzi si contestano spese per circa 81mila euro: soldi pubblici utilizzati, secondo l’accusa, per scopi diversi da quelli istituzionali per i quali erano destinati. I fatti risalgono a due diverse legislature in cui Barracciu sedeva nel Consiglio regionale, tra le file Pd: quella tra il 2004 e il 2009, e una parte della successiva. In particolare le contestazioni sono avvenute in due diversi momenti: una prima tranche di circa 40mila a cui ne è seguita una seconda. Il neo resta, come per tutti i consiglieri coinvolti – oltre 80 bipartisan – la rendicontazione delle spese: Barracciu avrebbe speso quei soldi, secondo la difesa, in viaggi per motivi politici, soprattutto in pieni di benzina utilizzati con la sua auto. Ma ci sono delle incongruenze nel confronto tra gli spostamenti geografici indicati e i movimenti della carta di credito della Barracciu. Non solo, la società Evolvere Srl, che faceva capo al compagno dell’ex europarlamentare, Mario Luigi Argentero, avrebbe organizzato – su richiesta del gruppo Pd – alcuni seminari compensati con 3600 euro. Attività fantasma, di cui non è stata trovata traccia. Nel frattempo il sottosegretario un anno e mezzo fa aveva cambiato i legali di difesa. L’avviso di garanzia aveva di fatto bloccato la corsa di Barracciu alle elezioni regionali del 2014. A fine settembre 2013 la sottosegretaria aveva vinto le primarie del centrosinistra in Sardegna, ma l’indagine in corso aveva fatto sì che in una tesissima direzione Pd si decidesse per il suo sacrificio. L’inchiesta, prima del genere in Italia, è divisa in due filoni ed è partita dalla testimonianza di una ex funzionaria, Ornella Piredda. Secondo la ricostruzione i soldi per i fondi ai gruppi consiliari erano distribuiti con un “metodo paghetta”, circa 2500 euro al mese, e utilizzati per le spese più disparate. In alcuni casi personali: dai viaggi alle penne Montblanc, agli “spuntini” con le pecore alle bollette e ai sensori per le auto di famiglia. Prima della rinuncia forzata alla candidatura alla carica di presidente della Regione, Barracciu aveva ribadito pubblicamente la sua difesa in una conferenza stampa. Così aveva detto: “I fondi sono stati utilizzati per il rimborso chilometrico, secondo quanto previsto dalla tabella pubblicata sulla Gazzetta ufficiale in cui viene presa in considerazione non solo la spesa per carburante, ma anche l’usura del veicolo. Ho consegnato al magistrato una memoria in cui vengono elencate tutte le iniziative a cui ho partecipato”. Il suo era un mezzo privato – una Peugeot 407, cilindrata 2000 “che ho fuso”, aveva ulteriormente precisato. In quell’occasione aveva già risposto al primo interrogatorio del pm ed erano state citate le tabelle Aci di riferimento sul consumo di carburante. A ciò era seguita la polemica politica e della rete, alimentati dalle dichiarazioni alla Camera di Alessandro Di Battista (M5S): “Con 33 mila euro di rimborsi benzina, Barracciu sarebbe potuta arrivare sulla luna. Come Neil Armstrong”. Da lì gli attacchi sul suo ruolo di sottosegretario-indagato, una posizione ritenuta “compromettente” da più parti – soprattutto per il governo Renzi. Poi le gaffe social e il cambio di profilo: più riservato.
«Sono fiduciosa nel percorso della Giustizia e affronterò il processo con determinazione e serenità» ha dichiarato la sottosegretaria ai Beni Culturali, fedelissima di Renzi, coinvolta da circa due anni nell’inchiesta del consiglio regionale della Sardegna. La Procura le contesta spese per 81 mila euro. Scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Rinviata a giudizio, Francesca Barracciu annuncia le sue dimissioni: “Ritengo doveroso farlo, ma da questa battaglia sono certa uscirò a testa alta”, scrive in una nota. Cambia così, nel giro di poche ore, la posizione della sottosegretaria ai Beni Culturali, fedelissima di Renzi, coinvolta da circa due anni nell’inchiesta sulle spese pazze del consiglio regionale della Sardegna (complessivamente 85 indagati di sinistra e di destra, una ventina già a giudizio). Stamattina infatti il gup del Tribunale di Cagliari ha stabilito che il 2 febbraio si aprirà il processo per la ex consigliera regionale del Pd: l’accusa è di peculato aggravato. E nel primo pomeriggio - dopo che i Cinque stelle erano tornati con Di Battista a chiederne le dimissioni immediate - la stessa Barracciu ha diramato una nota in cui spiega che lascia il governo per “evitare che strumentalizzazioni politiche e mediatiche coinvolgano l’attività di governo: “Sono fiduciosa nel percorso della Giustizia e affronterò il processo con determinazione e serenità, nella certezza di essere totalmente innocente”, scrive. La Procura le contesta spese per 81 mila euro, che avrebbe utilizzato in modo improprio quando sedeva nei banchi del consiglio regionale, negli anni in cui la regione era guidata dal Pd Renato Soru (l’inchiesta riguarda la sua legislatura e quella successiva, del Pdl Ugo Cappellacci); la sottosegretaria aveva spiegato invece al pm di aver utilizzato parte di quei fondi destinati ai gruppi per dei rimborsi benzina legati a viaggi per impegni politici. Una linea difensiva che, per l’accusa, presentava tuttavia troppe incongruenze: tesi sposata evidentemente dal gup. Non è la prima volta che la giustizia si mette sul percorso politico della Barracciu. Già nel 2014, e sempre per il coinvolgimento nella stessa inchiesta, la ex consigliera regionale (all’epoca europarlamentare) dovette farsi da parte nella corsa a presidente della Regione: aveva vinto le primarie, ma per via delle polemiche sulla sua posizione di indagata fu costretta (da Renzi) a un passo indietro in favore di Francesco Pigliaru, oggi governatore. Nominata sottosegretaria da Renzi dopo le regionali – con relative polemiche anche in questo caso, perché restava indagata - Barracciu aveva già rischiato nel giugno 2014 l’interdizione: la procura si era mossa paventando il rischio di inquinamento delle prove, ma il giudice aveva respinto la richiesta, declassando i potenziali inquinamenti a “condotta scomposta e deplorevole”. Fino ad oggi ha dunque ricoperto regolarmente il suo incarico di governo. “La nostra costituzione contempla il principio fondamentale della presunzione di innocenza”, aveva detto all’epoca la ministra Boschi, difendendo alla Camera la posizione della Barracciu di fronte a una interrogazione dei Cinque Stelle. Ma oggi, con la formalizzazione del rinvio a giudizio, è tutto cambiato.
Dopo le dimissioni di Antonio Gentile, i democratici blindano le altre nomine critiche: «Non possiamo farci dettare l'agenda di governo dagli avvisi di garanzia». Solo Bindi insiste: «Serve coerenza». Grillo attacca: «Fuori gli indagati», scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. Antonio Gentile alla fine si è dimesso, e ha pagato, il senatore del Nuovo centro destra, il tentativo di bloccare la diffusione della notizia di un'indagine della magistratura sul figlio Andrea. «Nel mio caso non bisogna nemmeno citare il garantismo, giacché non sono indagato di niente», rivendica Gentile, che però poi, orgoglioso, spiega: «viene prima il Paese. Aspetterò che la magistratura smentisca la vicenda». Le lunghe giornate di pressioni, appelli e trattative politiche non gli hanno quindi lasciato particolare scelta. E ora Angelino Alfano può persino rivendicare l'alto senso di «responsabilità». Renzi può esser contento, dunque. Certo il caso Gentile era noto, e meglio sarebbe stato non fare proprio quella nomina, ma pazienza, per il governo lo scoglio è superato. Peccato però che non fosse l'unico, di scoglio, quello di Gentile, nascosto nelle onde di sottosegretari e viceministri. "Il Pd deve fare una riflessione, c'è stata quantomeno una grande superficialità. E' singolare che lo scorso anno per lo stesso tipo di reati alcune persone non furono candidate e oggi persone con le stesse accuse sul capo siano al governo". Così il deputato democratico e presidente della Commissione Antimafia critica le nomine a sottosegretari di quattro esponenti del Partito Democratico sotto indagine (Barracciu, Bubbico, Dal Basso De Caro e De Filippo). Altri quattro, almeno, sono i casi critici, di cui si è scritto in queste ore. Tutti del Pd. Lo notava anche un’interrogazione del deputato 5 stelle Nicola Bianchi a cui il ministro Maria Elena Boschi ha così risposto perentoria in aula: «Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari solo sulla base di un avviso di garanzia». Il ministro delle Riforme e dei rapporti col Parlamento, ha spiegato: «L'avviso di garanzia è un atto dovuto a tutela degli indagati per esercitare i diritti di difesa, non è un'anticipazione di condanna». Solo terminato l’iter giudiziario, dunque, Pd e governo, conclude Boschi riferendosi al caso Barracciu, «valuterà se chiedere le dimissioni». Francesca Barracciu, indagata per peculato nella rimborsopoli sarda, non è però la sola. Con lei c’è l’altro sottosegretario alla cultura Umberto Del Basso de Caro, coinvolto nell’inchiesta sui rimborsi della regione Campania. Poi c’è Filippo Bubbico, viceministro dell’Interno e rinviato a giudizio per abuso d’ufficio. E c’è Vito De Filippo, sottosegretario alla Salute, che per l’inchiesta sui rimborsi in Basilicata si era dimesso da presidente della Regione. E ci fermiamo non volendo tirare dentro i ministri, e quindi Maurizio Lupi inquisito dalla Procura di Tempio Pausania per concorso in abuso d’atti di ufficio per la nomina del commissario dell’Autorità portuale di Olbia (Lupi difende la correttezza della nomina contestata). Poi ci sono i casi più politici, gli “impresentabili”, ma non è su quelli che Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare antimafia, ha acceso il riflettore: «E’ grave» ha detto precisa, «che ci siano inquisiti nel governo». Soprattutto, «in un momento in cui si vuole riformare tutto il sistema del finanziamento pubblico dei partiti e si punta il dito sui rimborsi ai consiglieri regionali e sul loro utilizzo» ha detto da Palermo, «penso sia stato poco opportuno e poco corretto nei confronti di altri esponenti del mio partito, che chi è inquisito per reati riguardanti il finanziamento dei gruppi regionali, sia al governo. Non ne faccio dunque una questione di lotta politica all’interno della coalizione». Nel Pd però prevale il garantismo, come la conclusione di Boschi dimostra. «Se ci facciamo condizionare nella scelta dei sottosegretari da un avviso di garanzia è un problema», dice Matteo Orfini. Giusto: «Io sono sempre stato garantista, e la storia recente di questo Paese è piena di gente che ha lasciato incarichi e che poi ha dimostrato che non aveva fatto niente». Sì, ma nel caso di Francesca Barracciu, ad esempio, è stato il Pd a ritenere inopportuno che si candidasse, nonostante le primarie vinte, alla presidenza della regione Sardegna: «se Renzi le ha chiesto un passo indietro per l'avviso di garanzia ha fatto male, è evidente. Se lo ha fatto perché riteneva fosse una polemica che indeboliva il Pd nella competizione elettorale è un altro discorso». Devono rimanere lì, quindi, anche per Orfini, «in alcuni casi è giusto anche quando arriva un rinvio a giudizio. Sulle condanne, anche se in primo grado, è opportuno un passo indietro, ma per il resto...». Per il resto no. La posizione è confermata dal renzianissimo Ernesto Carbone, deputato «ma fino a ieri», tiene a ricostruire, «avvocato penalista». «Come potrei dire il contrario?» spiega all'Espresso: «Ho studiato che la cassazione è sacra, per il resto per me sei presunto innocente». Stefano Fassina, invece, aveva preferito non commentare: «lasciamo perdere». Le parole di Rosy Bindi restano quindi lì, appese («io parlo di coerenza») e a disposizione della polemica di Gian Luigi Gigli, deputato dei Popolari: «Ci auguriamo che il Pd voglia ora seguire l'esempio del Ncd invitando i propri sottosegretari chiacchierati a presentare analoghe dimissioni». Beppe Grillo, ovviamente, si inserisce e dal blog lancia l’hashtag #fuorigliindagatipd: «Alfano ha dato l'esempio, Gentile ha ritirato la sua candidatura a sottosegretario. Questo atto dovuto fa onore all'Ncd, ora il pdxexmenoelle di Renzie non può che seguirne l'esempio». Per Fabrizio Cicchitto però non c’è bisogno di altri sacrifici: «Per quello che ci riguarda come Ncd anche in questa occasione ci siamo impegnati a svolgere un ruolo positivo per la stabilità del governo. Sono altri a giocare la partita della destabilizzazione e del tanto peggio tanto meglio».
Sardegna, inchiesta fondi gruppi: arrestati due consiglieri regionali. Mario Diana, ex capogruppo Pdl e Carlo Sanjust (Pdl) sono stati portati in carcere nell'ambito dell'inchiesta bis sul presunto uso illecito dei fondi ai Gruppi in Consiglio nella scorsa legislatura. Gli arresti sono stati eseguiti dalle sezioni di polizia giudiziaria dei carabinieri e della Guardia di finanza, scrive “La Repubblica”. Con l'accusa di peculato i carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria del Tribunale di Cagliari hanno eseguito due ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti dei consiglieri regionali Mario Diana, ex capogruppo del Pdl e ora alla guida di "Sardegna è già domani", e di Carlo Sanjust. Diana è stato portato nel carcere di Oristano mentre Sanjust, che dovrà giustificare in particolare la spesa di 23mila euro di fondi che secondo gli inquirenti avrebbe utilizzato per il suo matrimonio e altri 27mila euro per organizzare corsi di formazione, a Cagliari Buoncammino. Gli arresti sono stati richiesti dal pm Marco Cocco al Gip Giampaolo Casula per il pericolo di inquinamento della prove e di reiterazione del reato. I provvedimenti di custodia cautelare si inseriscono nell'ambito dell'inchiesta bis sul presunto uso illecito dei fondi ai Gruppi in Consiglio regionale nella scorsa legislatura. Negli ultimi giorni erano stati perquisiti casa e ufficio dei due consiglieri. Stando alle indagini della procura di Cagliari, l'ex capogruppo del Pdl in Consiglio regionale della Sardegna Mario Diana avrebbe acquistato con i soldi destinati alle attività politico-istituzionali dei gruppi, preziosi volumi per 55 mila euro e penne Montblanc per circa 20 mila euro. Da "Le mille e una notte" in edizione miniata, a "Immago Christi" con bassorilievi o "San Francesco d'Assisi" e "La dichiarazione dei diritti dell'uomo". Gli inquirenti contestano a Diana (difeso dagli avvocati Massimo e Mariano Delogu) l'accusa di peculato per oltre 200 mila euro. Al vaglio degli inquirenti ci sono anche i finanziamenti a una serie di convegni come quello sulla 'traumatologia del ginocchio' nel gioco del calcio, sull'Ortofrutta in Sardegna e studi sulle proposte di legge in materia di piano casa, rotatorie e taxi rosa. Nell'ambito della stessa inchiesta sono stati arrestati anche l'imprenditore specializzato nel catering Riccardo Covoni. Mentre è stato perquisito inoltre lo studio odontotecnico del consigliere regionale del Pdl Onorio Petrini alla ricerca di elementi utili per le indagini. Sono in corso perquisizioni e uffici di altri consiglieri regionali, ma l'operazione è mantenuta nel più stretto riserbo. Assieme a Diana e Sanjust avevano ricevuto avvisi di garanzia altri 32 consiglieri regionali, fra i quali ex componenti, nella scorsa legislatura, dei gruppi Ds, Margherita e Progetto Sardegna. Fra gli indagati figura anche l'europarlamentare Francesca Barracciu (Pd), candidata alla presidenza della Regione Sardegna, e gli attuali deputati del Pd Marco Meloni (eletto in Liguria) e Francesco Sanna (eletto in Sardegna). Gli interrogatori dei tre esponenti del Pd, convocati in procura a fine ottobre, sono stati differiti su richiesta dei rispettivi legali. Nell'ambito della prima inchiesta per peculato, sempre condotta dal pm Cocco, sono già a giudizio 20 consiglieri regionali della passata legislatura, fra i quali l'ex capogruppo dell'Idv Adriano Salis, che ha scelto il rito abbreviato e per il quale l'accusa ha chiesto una condanna a tre anni (la sentenza è attesa per il 20 novembre prossimo), e l'ex senatore del Pdl Silvestro Ladu (al quale sono state contestate spese improprie per 250mila euro quand'era capogruppo in Consiglio regionale della formazione "Fortza Paris"), difeso dall'ex collega a palazzo Madama ed ex sindaco di Cagliari Mariano Delogu. La notizia dell'arresto di Diana e Sanjust ha letteralmente scioccato l'Assemblea sarda. Rinviata a questo pomeriggio la seduta dell'Aula, ufficialmente per un problema sugli emendamenti alla legge sulla zona franca integrale, il cui dibattito si sarebbe dovuto svolgere stamattina.
Sulla decisione di far scattare le manette per il momento si sa molto poco, scrive Nicola Pinna su “La Stampa”. Ma qualche indiscrezione sulle accuse era scattata nei giorni successivi alle perquisizioni. All’interno della casa di Mario Diana il 30 settembre i carabinieri e gli uomini della Guardia di finanza avevano trovato proprio quello che cercavano: Rolex d’oro, penne Mont Blanc, libri antichi, portafogli di lusso e alcune opere d’arte. Tutto pagato, secondo l’accusa, con i 250 mila euro che gli uffici del Consiglio regionale avevano destinato ai rimborsi per l’impegno politico. La contestazione principale mossa al consigliere del Pdl Andrea Sanjust, invece, riguarda tre assegni staccati per pagare alcune manifestazioni che si sarebbero dovute svolgere in un hotel di Santa Margherita di Pula. I 23 mila euro al centro dell’attenzione degli inquirenti, secondo la Procura di Cagliari, sarebbero stati utilizzati per organizzare il matrimonio del consigliere. Il ricevimento, il 9 maggio 2009, era stato allestito all’interno della Passeggiata coperta sotto il Bastione di Saint Remy, nel cuore di Cagliari: trecento invitati, ospiti vip e catering di lusso. Quella che ha portato agli arresti di stamattina è l’inchiesta bis e riguarda le spese effettuate nel corso della legislatura ancora in corso. Sotto indagine anche altri 33 consiglieri in carica, tra i quali l’europarlamentare Francesca Barracciu, che ha vinto le primarie del centrosinistra per le prossime regionali. Il precedente troncone, invece, ha già fatto passi in avanti. Pronti ad affrontare il processo ci sono diciotto consiglieri (non tutti ex) tra cui gli assessori Oscar Cherchi e Mario Floris, mentre per l’ex esponente dell’Idv Adriano Salis (l’unico che ha scelto l’abbreviato) il pm ha già chiesto una condanna a tre anni. In corso anche il processo a carico di Silvestro Ladu, ex capogruppo del partito Fortza Paris, nonché ex assessore ed ex parlamentare, che è accusato di aver speso i fondi per l’attività politica acquistando alcune pecore e un vitello.
GIGI RIVA E MASSIMO CELLINO. IL CALCIO A CAGLIARI? NO A BUONCAMMINO!
Cagliari, Gigi Riva indagato per la visita a Massimo Cellino in carcere. Il 19 febbraio “Rombo di tuono” andò nel penitenziario di Buoncammino insieme al deputato Pdl Massimo Pili e all'editore de L'Unione Sarda Sergio Zuncheddu per parlare con il presidente dei rossoblù, detenuto per il caso Is Arenas. L'ex centravanti venne presentato come collaboratore del parlamentare, ma non aveva l'apposito permesso: l'accusa, per lui, è di falso ideologico, scrive Luca Pisapia su “Il Fatto Quotidiano”. La deriva del calcio cagliaritano non fa sconti a nessuno. Insieme al deputato del Pdl Mauro Pili e all’editore dell’Unione Sarda Sergio Zuncheddu, è finito nel registro degli indagati per falso ideologico anche la leggenda del calcio isolano Gigi Riva. Il provvedimento è stato preso a seguito della visita in carcere al presidente del Cagliari Massimo Cellino, avvenuta lo scorso 19 febbraio. Allora il deputato Pili si recò a far visita a Cellino nel carcere di Buoncamino accompagnato da Zuncheddu e Riva, che presentò all’ingresso come suoi collaboratori. Da qui l’ipotesi di reato. Se un deputato o un rappresentante delle istituzioni possono visitare un detenuto in qualsiasi momento (anche accompagnati da collaboratori), i cittadini comuni devono chiedere apposito permesso. E per la Procura questo non è avvenuto. Riva è stato ascoltato dal sostituto procuratore Gaetano Porcu, al quale ha riferito di avere compilato dei documenti per la visita in carcere. Poi, ha spiegato il suo legale Massimiliano Ravenna, “nessuno poteva pensare che avesse un’identità diversa, che fosse un collaboratore o un accompagnatore, visto che è conosciuto ovunque, quindi non si è posto alcun problema. Non conosceva nemmeno le regole che sovrintendono gli ingressi in carcere, era convinto che si potesse fare senza intoppi”. E infatti, nei guai è destinato a finire anche il personale del carcere che lo ha fatto passare, dato che è impossibile che non abbiano riconosciuto Riva: l’uomo che a Cagliari e alla Sardegna ha regalato anni fantastici, culminati con lo storico scudetto del 1970. Un mito che proprio in questi giorni festeggia i 50 anni da quando, ancora ragazzino, in un giorno di primavera lasciò casa per sbarcare su quell’isola di cui fece la storia calcistica, e di cui si innamorò facendone la sua casa. Ma quell’epoca leggendaria si tinge di toni malinconici, se paragonata alla farsa cui è ridotto oggi il calcio isolano. Con il Cagliari che finirà il proprio campionato giocando le partite casalinghe a Trieste, dopo essere stato cacciato per inadempienza dallo storico stadio del Sant’Elia di Cagliari e dopo avere disdetto l’affitto dell’impianto di Is Arenas a Quartu Sant’Elena. E proprio alla Is Arenas la tragedia del Cagliari Calcio ha cominciato ad assumere i contorni della farsa. Uno stadio su cui si è incastrato Cellino. Prima per la chiamata alle armi dei tifosi contro la volontà della Prefettura, che è valsa al presidente del Cagliari l’accusa di istigazione a delinquere. Poi, per l’accusa di dirottamento dei fondi pubblici destinati al piano integrato d’area nei lavori di costruzione dello stadio, che hanno portato all’accusa di peculato e falso ideologico e alla carcerazione di Cellino, insieme al sindaco di Quartu Mauro Contini e all’assessore ai lavori pubblici Stefano Lilliu. Uno stadio maledetto, su cui ora rischia di rimanere incastrata anche la leggenda di Gigi Riva.
TUTTO SU CAGLIARI
LA PAROLA A MASSIMO CELLINO.
ARRESTATI IL PRESIDENTE DEL CAGLIARI, CELLINO ED IL SINDACO DI QUARTU
TRA MASSONERIA, POLITICA E NEPOTISMO.
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA. ALDO SCARDELLA.
IL CASO DEL MAGISTRATO SUICIDA.
I VELENI DIMENTICATI DEL PALAZZACCIO SARDO.
TANGENTOPOLI SARDA
CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI
LA PAROLA A MASSIMO CELLINO.
Cagliari, lo sfogo di Cellino: "Stravolto dal carcere, tradito dalle istituzioni". Il patron rossoblù racconta a “La Repubblica” l'esperienza dell'arresto dello scorso febbraio: "I miei legali lo hanno definito uno stupro. Quando è arrivata la forestale ho pensato a uno scherzo: Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi da parte mia, ora voglio sapere se sono finito in galera per troppa arroganza". ''Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito uno stupro''. Massimo Cellino torna a parlare dopo l’esperienza del carcere: lo fa in un'intervista rilasciata al sito di GQ. Il patron del Cagliari era stato arrestato assieme al sindaco e a un assessore di Quartu con l'accusa di falso ideologico e peculato. ''Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi piena ragione. Mercoledì mi è stato tolto anche l’obbligo di firma''. Il presidente rossoblù racconta con stupore gli avvenimenti del giorno dell’arresto, il 14 febbraio scorso. ''La forestale si è presentata a casa mia alle sette del mattino e ho chiesto ironicamente se avessi le piante secche. Quando mi hanno detto di seguirli ho detto di tirare fuori le telecamere, credevo di essere su ‘Scherzi a parte’, invece no. Mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti''. Lo sfogo di Cellino prosegue. ''Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza. Sto cercando di ripartire perché non ho alternative, passo continuamente dalla voglia di mandare tutto e tutti a quel paese a quella di ricominciare, per me il Cagliari è la vita, le aziende le ho passate ai fratelli. Ho scambiato il giorno con la notte. Non sono mai stato un tipo mattiniero, ma il carcere e la privazione della libertà mi hanno stravolto. Voglio farcela come sempre da solo''.
Cellino: “Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice ad Ivan Zazzaroni su GQ. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati. (Piergiorgio Bellocchio). Massimo Cellino accende una sigaretta allungandosi sui sedili posteriori di una monovolume con i vetri oscurati; al volante c’è Francesco, l’amico di sempre che nella sua rock-band, i Maurilios, suona il trombone. “Per fortuna non hanno toccato la mia famiglia. Se sfiorano mia moglie e i miei tre figli esce il sardo guasto. Di me possono fare quello che vogliono. Tanto, più di così”. Appoggiata alla portiera, la custodia della Fender (“gli amici e la musica l’unica terapia”). Lo lascio andare a uno sfogo senza interruzioni: solo pause brevissime, e boccate di fumo. Novanta giorni s’è fatto, tra carcere e domiciliari, dal 14 febbraio al 14 maggio. “Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito ‘uno stupro’. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. Mercoledì è stato tolto anche l’obbligo di firma”. Ricorda: riordina. “La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? ‘Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori’, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza”. Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. “Non odio nessuno (lo ripete più volte, ndr). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello”. “Per una volta che sono stato generoso…” spiega. “La questione Is Arenas sfiora il ridicolo, più che l’incredibile, e se l’estate scorsa c’era l’entusiasmo del fare, adesso provo solo terrore, ho paura. Dopo che mi erano stati negati i permessi per Elmas, e su quel terreno che mi vogliono espropriare ne usciranno delle belle, sono andato a Quartu. Per disperazione: dovevo dare uno stadio temporaneo alla squadra e ai tifosi prima di costruirne uno nella mia città. L’abbiamo tirato su in un mese, gli operai hanno lavorato di giorno e di notte. Ho messo quasi dieci milioni in un impianto provvisorio, non di proprietà. Soldi pubblici? Ho sempre schifato la politica delle mazzette, il sistema, non sono un tipo da compromessi io, ho diffidato delle istituzioni che ho spesso sfidato per far valere le ragioni del Cagliari e della gente”. “E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Trieste e Brescia hanno garantito la disponibilità dello stadio per l’iscrizione che deve avvenire entro il 20, Cagliari no: eppure per rimettere in sesto il Sant’Elia basterebbero poche settimane. Sto cercando di ripartire perché non ho alternative, passo continuamente dalla voglia di mandare tutto e tutti a quel paese a quella di ricominciare, per me il Cagliari è la vita, le aziende le ho passate ai fratelli… Ho scambiato il giorno con la notte. Non sono mai stato un tipo mattiniero, ma il carcere e la privazione della libertà mi hanno stravolto. Voglio farcela come sempre da solo”.
“Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato”.
BEATO LUI. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
Massimo Cellino, 57 anni il 28 luglio 2013, presidente del Cagliari dal giugno ’92, è stato arrestato insieme al sindaco e a un assessore di Quartu il 14 febbraio 2013: l’accusa, falso ideologico e peculato, ovvero l’uso di fondi pubblici per la ristrutturazione dello stadio Is Arenas. Il 14 maggio 2013 la revoca del provvedimento cautelare. 12 giugno l’annullamento dell’obbligo di firma.
ARRESTATI IL PRESIDENTE DEL CAGLIARI, CELLINO ED IL SINDACO DI QUARTU
Sono stati arrestati il 14 febbraio 2013 Massimo Cellino, presidente del Cagliari Calcio, Mauro Contini e Stefano Lilliu, rispettivamente sindaco e assessore ai lavori pubblici del comune di Quartu (Cagliari), nell'ambito dell'inchiesta della procura di Cagliari sui lavori di adeguamento dello stadio di Is Arenas, dove la squadra sta disputando le partite casalinghe di serie A, scrive “Il Corriere della Sera”. Le misure cautelati, firmate dal gip di Cagliari Giampaolo Casula su richiesta del pm Enrico Lussu titolare dell'inchiesta sullo stadio di Is Arenas, sono state eseguite questa mattina all'alba dal nucleo regionale di polizia giudiziaria del Corpo forestale. I tre arrestati sono già stati portati nel carcere di Buoncammino. Gli arresti eccellenti di oggi seguono quelli, il 29 novembre scorso, di due dirigenti del comune di Quartu e di un imprenditore incaricato dei lavori. I primi due, Pierpaolo Gessa, dirigente dei Lavori pubblici, e Andrea Masala, erano finiti in carcere per falso e tentato peculato, mentre Antonio Grussu, titolare della società Andreoni, era stato condotto ai domiciliari. Gessa aveva lasciato Buoncammino per i domiciliari poco dopo l'interrogatorio di garanzia (i cui verbali sono stati secretati), mentre Masala è stato scarcerato dopo due mesi, il 5 febbraio scorso. Al centro dell'inchiesta c'è l'utilizzo di fondi del Pia, piano integrato d'area per la zona di Is Arenas, quartiere periferico di Quartu che circonda lo stadio. Secondo l'accusa, parte dei finanziamenti sarebbero stati impiegati per far realizzare alla Andreoni alcune strutture dell'impianto sportivo, dal basamento della tribuna principale alla recinzione con porte antipanico e tornelli. Le spese, invece, sarebbero dovute essere a carico del Cagliari Calcio. La società si è sempre dichiarata estranea. Il gip di Cagliari che a novembre ha firmato le prime ordinanze di custodia cautelare aveva però parlato di «operazione organizzata sottobanco» e ipotizzato complicità non solo di funzionari e impiegati con accesso ai documenti dei lavori ma «ancor più verosimilmente» di «coloro che rivestono le più alte posizioni all'interno dell'amministrazione comunale e delle società coinvolte». Gli arresti di oggi sembrano confermare questa linea accusatoria.
L’accusa è di tentato peculato e falso ideologico. Manette anche al sindaco e all’assessore allo Sport di Quartu, scrive “La Stampa”. È arrivato in carcere a Buoncammino alle 9:30 il presidente del Cagliari Calcio, Massimo Cellino, arrestato oggi per tentato peculato e falso ideologico nell’ambito dell’inchiesta per la costruzione dello stadio Is Arenas. Il presidente, bloccato dagli agenti del Corpo Forestale intorno alle 8, è stato prima portato in via Biasi, al comando del Corpo, e poi trasferito in carcere. Stesso passaggio per l’assessore dei lavori pubblici del comune di Quartu, Stefano Lilliu, portato a Buoncammino alle 10. È stato invece trasportato nell’ospedale Brotzu il sindaco di Quartu, Mauro Contini. Il primo cittadino mentre si trovava negli uffici della Forestale si è infatti sentito male ed è stato necessario l’intervento di un’ambulanza del 118. Gli arresti sono scattati oggi nell’ambito dell’inchiesta della procura di Cagliari sui lavori di adeguamento dello stadio di Is Arenas, dove la squadra sta disputando le partite casalinghe di serie A. I reati ipotizzati sono tentato peculato e falso ideologico. L’Unione Sarda ricorda che la stessa inchiesta giudiziaria aveva già portato in carcere due dirigenti del Comune e ai domiciliari l’impresario responsabile dei lavori allo stadio. Gli arresti seguono infatti a quelli che gli uomini della Forestale, dietro mandato della Procura di Cagliari, avevano fatto scattare lo scorso 29 novembre. In carcere erano finiti due dirigenti del comune di Quartu: Pierpaolo Gessa e Andrea Masala. Al primo fu subito riconosciuto la misura dei domiciliari, mentre Andrea Masala dopo due mesi a Buoncammino è stato scarcerato una settimana fa. Per l’imprenditore Antonio Grussu erano stati disposti subito i domiciliari. «L’amministrazione continuerà a operare cercando di mantenere la necessaria lucidità nonostante il profondo coinvolgimento emotivo determinato da questa vicenda», ha dichiarato il vicesindaco di Quartu Sant’Elena (Ca) Fortunato Di Cesare. «Nelle situazioni come questa gli interessi dei cittadini devono essere tutelati. Per questo - ha detto Di Cesare - faremo tutto il possibile affinché l’azione amministrativa e politica non siano rallentate, per quanto ci sia ben chiara la difficoltà del percorso che ci attende. Ci auguriamo - ha proseguito - che in questo momento delicatissimo tutte le componenti del Consiglio comunale manifestino solidarietà e contribuiscano lealmente a mandare avanti l’amministrazione cittadina, e che in attesa di maggiori approfondimenti non vengano strumentalizzate a fini politici situazioni personali che devono ancora essere vagliate dagli organi preposti».
Cellino in carcere, ma in che razza di campionato giochiamo? Si chiede “La terza stella” su “Panorama”. L’arresto del presidente del Cagliari Massimo Cellino per la vicenda legata allo stadio di Quartu IS Arenas è il punto di non ritorno del calcio italiano. No, non entreremo nelle ragioni giudiziarie che hanno portato a questa misura cautelare, perchè è ambito che non ci compete. Ma il messaggio per il calcio italiano è quello di un punto definitivo. Il calcio italiano, da troppi anni gestito come una trattoria di paese, ma senza la cura e la passione che albergano nei luoghi del buon mangiare, è ormai arrivato al capolinea. Da troppi anni le classifiche dei campionati sono condizionate più dai segni meno in classifica che dai reali valori che emergono sui campi di gioco. Il calcio italiano è probabilmente l’unico al mondo che ha visto praticamente tutti i suoi top club (ad eccezione dell’onestissima Inter e della Sancta Sanctorum As Roma) retrocessi per faccende distanti dal calcio giocato (Juventus, Milan, Napoli, Lazio, Fiorentina, Genoa). La piaga del calcioscomesse che è sicuramente un fenomeno di portata globale, ha avuto in Italia il record mondiale di mala-gestione. Una Federazione assente, anzi latitante per anni, partite di fine campionato aggiustate per decenni, in una commistione scellerata tra assenza di cultura sportiva, interessi economici e latitanza delle istituzioni. Stendiamo un velo pietoso sulla genesi e la gestione della farsa chiamata Calciopoli, e ne stendiamo uno ancora più clemente su come le istituzioni calcistiche abbiano regolato le istanze di economicità dei club. Quello che emerge come quadro più generale è un movimento totalmente allo sbando. Dove la Lega Calcio è in una posizione minoritaria, sia rispetto alle istituzioni sportive del Paese, sia rispetto ai club che la rappresentano e che di fatto la governano attraverso un complesso e medievale sistema di bande e correnti (alternate). La Lega Calcio italiana, non è soggetto economico espressione dei club, ma una realtà con obiettivi e governance propri. Una sorta di consorzio di squadrette di periferia che si accoltellano per un posto al sole nella spiaggia troppo assolata del Bel Paese. La FIGC, dal canto, suo è la massima espressione della formula enti-inutili-da-abolire. Da troppi anni non governa un bel niente. I suoi esponenti si limitano a fare politica nei salottini buoni senza mai rendere conto del loro operato. E la giustizia sportiva, che fa capo ad essa, è sempre più simile a un fantasy-game. Lo potremmo chiamare “Fanta-Palazzi”, un “gioco” (ma peccato che gioco non sia) dove lì sì la palla è sempre rotonda: basta un rimpallo irregolare per consentire alla Procura Federale di prendere decisioni senza logica e dando la certezza ai tesserati che ogni decisione sarà sempre e comunque un terno al lotto. E ci fermiamo qui: per evitare di raccontare come diverso sia il trattamento per amici, amichetti e parenti. Resta il discorso delle infrastrutture. Limitando il discorso agli impianti delle società di A, pare quasi scontato (e quindi inutile) sottolineare l’inadeguatezza di stadi che erano già vecchi vent’anni fa. Guardare una partita del campionato italiano in Tv fa davvero specie, nel fare zapping con i match della Premier League (ma anche della Bundesliga) il raffronto è agghiacciante. Sembra di passare da una Tv a colori e in HD a una in bianco e nero che trasmette i radiogiornali dell’Istituto Luce. Il Biancoenero appunto. Quello di una società che lo stadio di proprietà (e all’avanguardia) l’ha costruito davvero (senza fantomatici investitori cinesi o illuminati partner d’oltreoceano). La Juventus è ora che capisca che il campionato italiano rappresenta una zavorra insopportabile per il suo progetto sportivo ed economico. Gli investimenti commerciali in un movimento come questo saranno sempre minori. Convincere partner e atleti a lavorare in un settore così poco attrattivo sarà sempre più ostico. Le rappresaglie di un movimento governato dalla logica del Far West ci hanno già fatto pagare un prezzo troppo alto. E le ultime elezioni di Lega e FIGC hanno dimostrato ancora una volta quanto questo calcio sappia solo replicare se stesso in una perenne brutta copia di una già pessima copia. E noi cosa ci stiamo a fare qui? Per giocare in stadi al limite dell’agibilità? Per discutere con gente dalla fedina penale discutibile e senza alcuna visione di lungo periodo? Per giocare contro avversari tecnicamente sempre più infimi? Per vedere i campioni più affermati emigrare sempre di più verso altri lidi? Per vederci ridotti i posti in Champions Leage anno dopo anno? Per accettare supinamente le inique decisioni della giustizia sportiva? Per cosa? Per sentirsi osteggiati praticamente da tutti i media nazionali senza che le istituzioni prendano mai posizione? No. Se fino a qualche mese fa qualcuno (non noi) poteva pensare ci fosse ancora uno spiraglio per riformare il sistema dall’interno, ora è evidente che l’unica spallata che si può dare è quella di mettere in atto una exit strategy efficace: emigrare nella Ligue francese, ad esempio. A quel punto vedremo se la trattoria di paese sarà in grado di tenere aperta anche senza il suo miglior cuoco in cucina o se invece capirà che forse è proprio da quel cuoco che andrebbe imparata la lezione.
TRA MASSONERIA, POLITICA E NEPOTISMO.
Parla un giovane commercialista: “Tra massoneria, politica e nepotismo, ecco come a Cagliari lavorano sempre i figli di…” attraverso una lettera inviata a Vito Biolchini. I giornalisti sono mediatori, raccontano la realtà attraverso la loro sensibilità e la loro professionalità. C’è un momento però in cui la “presa diretta” è più efficace. Per questo anche oggi vi propongo la testimonianza di un lettore del blog, un giovane commercialista che ci racconta dall’interno cosa succede nel magico mondo cagliaritano della sua professione. Chiede di mantenere l’anonimato, e lo capisco. Piccola annotazione a margine: ma quanto è corrotta la nostra città? Ce ne rendiamo conto?
Ciao Vito, ti considero un professionista serio, una bella mente pensante indipendente, uno estraneo ai giochi della politica cagliaritana. Gli articoli che pubblichi sul blog ne sono una conferma, non è da tutti scrivere su Cagliari e sui cagliaritani come stai facendo tu molto coraggiosamente.
Premetto subito che la mia è una mail di sfogo, la classica mail che solitamente mandi ad un amico che sai che con te condivide determinati ragionamenti e ti da supporto per continuare a vivere senza abbandonare la tua visione della vita e senza mai cedere alle “avances” di chi ti vuole un po’ più accondiscendente e complice.
Io sono un dottore commercialista, la mia storia è una tra tante, ma purtroppo dei liberi professionisti “figli di operai” non si parla mai, perché per l’opinione pubblica siamo dei fortunati in ogni caso. Dopo la laurea ho fatto il mio percorso di “praticantato triennale gratuito” presso uno studio professionale cagliaritano, schifato sin dagli esordi nel “magico mondo” della lobby professionale ho sempre cercato di ampliare la mia scelta per non autocondannarmi come eterno servo del tutor di studio, prima andando a lavorare in continente, poi frequentando un master, poi lavorando un anno all’estero, infine sono rientrato in Sardegna perché ho passato l’esame di Stato e mi son detto “o apro lo studio ora o non torno mai più”.
Ma da quando sono rientrato ho rivisto tutto come l’avevo lasciato: è un mondo chiuso Vito, il mio è un urlo disperato di una persona conscia del fatto che verrà continuamente schiacciato da altri giovani rampanti che a differenza mia non sono di sinistra e non provengono da una famiglia qualsiasi che non ha nulla da offrire nel mercato degli “scambi massonici tra famiglie per bene”.
Arrivavo dall’esperienza estera dove tutto è in fermento tra i giovani, dove quando avevi una iniziativa nessuno te la distruggeva a priori e dove soprattutto non esistevano i canali obbligatori politici, e se esistevano erano pochi e meno opprimenti. Per cui mi ero riproposto di iniziare l’avventura concependo la professione in una nuova maniera, più trasparente, più europea. Purtroppo mi rendo conto che voglio essere concorrenziale per un mondo che non rispetta le regole della libera concorrenza, è un oligopolio che funziona perfettamente.
Sapevo che le famiglie storiche a Cagliari avrebbero pesato nella professione, ma ingenuamente pensavo che avrei potuto fare la professione senza entrarci a contatto, ognuno nel suo, io nel mio piccolo orticello dormendo sonni tranquilli, loro nel loro grande impero non dormendo la notte (forse). Ma non è così.
1) Mando costantemente le candidature come revisore contabile negli enti locali a vuoto, non rispondono e il consiglio comunale ti nomina solo se hai uno sponsor politico. Le nomine sono fatte dai consigli comunali, non c’è alcuna selezione, tutto sui nomi che vengono presentati a seconda della maggioranza presente. E tu lì a spendere cinque euro a raccomandata solo per la coscienza, sapendo già di non esser preso!
2) Mi sono candidato in Tribunale come curatore fallimentare ma è il giudice che decide e se guardi bene chi prende gli incarichi sono sempre i soliti. Il giudice mi ha chiesto dove avevo lavorato sino a quel momento, due domandine e via il mio CV e il mio biglietto da visita messo insieme agli altri nel mazzo. Nulla, mai chiamato. E settimanalmente vedo sul sito che colleghi giovani conosciuti in città continuano ad esser nominati. Uno, due, tre, dieci fallimenti tutti dati alla stessa persona perché figlio di questo, perché figlio dell’amico del Tennis Club, perché discendente da un’antica famiglia di professionisti. Un giorno un collega mi ha detto: “Devi avere un cognome importante che ti presenti, così il giudice XXX ha la garanzia che vieni da uno studio professionale con una storia solida e puoi occuparti di certe procedure delicate”.
3) Gli incarichi di collaborazione con gli enti sono ancora più esilaranti, si svolgono così: prima il dipendente comunale fa una telefonata allo studio prestigioso di turno, poi, una volta scelto il candidato consigliato dal dominus dello studio prestigioso, avviano una falsa selezione pubblica. Mi è capitato già decine di volte di fare selezioni per commercialisti e poi a posteriori di incontrare colleghi che allegramente mi hanno spiegato il motivo per cui sono entrati loro al posto mio.
E via avanti così, queste non sono sfighe capitatemi, è la base del funzionamento degli incarichi nella mia categoria.
Ti scrivo questa mail Vito perché sono fresco di un convegno dell’Ordine, e ogni volta che vado ad un convegno dell’Ordine ne esco a testa bassa e con le ossa rotte. C’è sempre più una visione unica, un “mors tua vita mea” generalizzato, un “si salvi chi può” che porta i miei colleghi giovani a giustificare certe cattive abitudini clientelari solo “perché funziona così”, “perché prima o poi danno qualcosa anche a noi”, parole di ieri.
Ieri mi dicevano anche “devi cambiare”, “sei troppo rigido”, “devi cominciare a votare a destra il partito giusto se vuoi raccogliere i frutti della tua professione” o peggio ancora ieri un collega mio coetaneo mi ha fatto un discorso mafioso di questo tipo: “Vedi, è giusto che ci sia una grande famiglia composta dagli studi più importanti della città che prende tutti i lavori pubblici, perché stai tranquillo che se vedono in te una linearità di pensiero prima o poi qualcosa te la girano in subappalto”. Una “linearità di pensiero” Vito, parole che suonano chiare, parole mafiose, massoniche.
Mi faccio il culo ogni giorno per portare avanti questo nuovo progetto della libera professione, ma in giornate come quella di ieri torno a casa con le mani in testa e gli occhi lucidi.
Ogni volta che mi chiudo nel mio studiolo per lavorare a testa bassa alle mie piccole contabilità sto bene, poi appena rivedo il mondo ai convegni riprendo contatto con la realtà delle cose, mi convinco che il sistema è così e la gente come me è fuori dal sistema. Provo un blocco, non riesco più a ragionare, a sognare, a vedere oltre, è una cosa strana e veramente deprimente, è come se il sogno svanisse, come se il sistema della lobby della mia professione mi dicesse “il sistema siamo noi, tu sei uno che è arrivato a fare la nostra stessa professione casualmente, sei comunque sempre figlio di uno che si alzava alle 5 del mattino per andare a lavorare in fabbrica, non sei di certo dei nostri”.
E nei momenti di merda penso “che cazzo vado avanti a fare con i progetti e l’idea di poter fare questo lavoro in maniera pulita, è meglio se ti arrendi e lasci scorrere le cose così come sono”.
Mi piacerebbe che qualcuno parlasse nei media della realtà dei giovani commercialisti come me, come le centinaia di avvocati che a Cagliari si fanno la guerra per 500 euro al mese, gente che difficilmente racimola uno stipendio da call center facendo una professione teoricamente più nobile. Vorrei che la mia sinistra si occupasse anche di noi, che i giornalisti cominciassero a vedere che qualcosa non va anche nelle professioni, che quantomeno qualcuno lo dica che non siamo affatto dei privilegiati!
Vorrei che qualcuno vedesse che roba è l’esame di Stato che “di Stato non ha nulla” visto che decidono le percentuali di ammissione gli ordini professionali in base al numero degli iscritti, che mi spiegassero perché gli allievi di XXX nel 2008 sapevano i titoli delle buste in anticipo, perché le comunicazioni ufficiali delle Commissioni sono arrivate via fax nella stanza di un famoso collega massone prima ancora di esser rese pubbliche, perché, perché e decine di altri perché di un mondo di porci che popola la mia professione di dottore commercialista.
Scusami per questo piccolo sfogo Vito, ma non è un caso se l’ho indirizzato a te, perché so che sei sensibile a determinati temi e che vivi anche tu la tua difficile libera professione.
Buon lavoro Vito e continua a scrivere libero…sempre!
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA.
La storia di Aldo Scardella.
Dietro le sbarre da innocente: Aldo, ucciso dalla giustizia. Così racconta Giovanni Terzi su “Il Giornale”. Nell'86 lo studente cagliaritano fu "incastrato" da un passamontagna lasciato dai killer nel suo giardino. Si impiccò in cella dopo sei mesi di isolamento. È il 2 luglio 1986 e siamo nel carcere Buoncammino di Cagliari quando il ventiquattrenne Aldo Scardella si toglie la vita impiccandosi all’interno della propria cella dove, dal 29 dicembre del 1985, era detenuto in isolamento giudiziario per un omicidio ed una rapina che non aveva mai commesso. Aldo si è suicidato per la disperazione, esausto di gridare la propria innocenza da centottantacinque giorni senza essere mai ascoltato, senza essere mai creduto. Tutto ebbe inizio il 23 dicembre del 1985 intorno alle dieci di sera. Siamo all’antivigilia di Natale, quando due uomini armati entrano in via dei Donoratico a Cagliari nel negozio Bevimarket di Giovanni Battista Pinna. Giovanni Battista Pinna cinquantenne commerciante cagliaritano stava chiudendo il proprio negozio di liquori e vini, quando improvvisamente venne aggredito dai malviventi che cercando l’incasso pre-natalizio, aprirono il fuoco su di lui, uccidendolo. Poco distante dal luogo dell’omicidio e della rapina abitava Aldo Scardella un giovane e brillante studente universitario che si prefigurava un futuro fatto di lavoro ed ideali. A collegare il supermercato, teatro dell’omicidio, e la casa del giovane Scardella c’era un mandorleto dove gli assassini, scappando, inavvertitamente persero un passamontagna. Passarono tre giorni da quell’efferato delitto quando, alle sei di mattina del 26 dicembre, alcuni uomini della Squadra Mobile di Cagliari entrarono nella casa di Scardella per una perquisizione. Aldo Scardella venne interrogato. Venne anche fatta una perizia sul passamontagna che diede riscontri negativi circa la possibile appartenenza al giovane studente sardo. Nonostante la perizia e l’alibi fornito, Scardella venne arrestato il 29 dicembre e tradotto in prima battuta nel carcere di Oristano, in isolamento giudiziario. Per ben dieci giorni la famiglia non seppe in quale penitenziario fosse stato trasferito il proprio figlio; sempre per 10 giorni non diedero ad Aldo la possibilità di accettare il proprio avvocato difensore non per mettendogli di firmare la delega necessaria. La formula per cui venne arrestato Aldo Scardella citava «esistono sufficienti indizi di colpevolezza a carico dell’imputato per poter affermare che Aldo Scardella sia colpevole». Questi «sufficienti indizi di colpevolezza» misero Scardella in una condizione di isolamento con una pressione fisica e psicologica probabilmente utile a dichiarare la propria colpevolezza. Una colpevolezza che non esisteva. Il difensore di Aldo Scardella per ben due volte tentò l’istanza di scarcerazione ma senza successo. Aldo Scardella venne arrestato per presunzione di colpevolezza anche se il passamontagna ritrovato non apparteneva a lui ed il guanto di paraffina dimostrava che non aveva esploso alcun colpo di pistola. Ma lo Scardella abitava a poche decine di metri dal luogo del delitto e i rapinatori erano scappati a piedi il che dimostrava, secondo la Procura, che le indagini dovevano fermarsi a chi abitava necessariamente nella zona. Ad Aldo Scardella venne negata anche la possibilità di assistere con gli altri detenuti alla Messa di Pasqua così come di appendere nella sua cella dei disegni e dei poster per renderla più umana. Per centottantacinque giorni al giovane studente universitario venne negata ogni cosa al solo fine di farlo crollare, al solo fine di trovare non «il» colpevole ma «un» colpevole. Fu per questo che Aldo Scardella si tolse la vita; torturato moralmente da troppo tempo e mai ascoltato in nessuna istanza che gli permettesse di reggere, a ventiquattro anni, il disonore per un omicidio mai commesso. Ma la vita, o meglio il destino, è beffardo e crudele e così solo la morte suicida del giovane fece porre l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale sul trattamento utilizzato dalla Procura di Cagliari attraverso interrogazioni parlamentari in cui si chiese se rispondeva a verità che «i familiari non vennero informati, nonostante le ripetute richieste, del carcere ove era recluso fino all’ 8 gennaio 1986 e soltanto in tale giorno poterono consegnargli il cambio della biancheria; per tutta la durata dell’istruttoria sommaria l’imputato venne tenuto in isolamento e non ottenne il permesso di avere colloqui coi familiari e col difensore; il giudice istruttore non interrogò mai l’imputato; il giudice istruttore mantenne l’imputato in stato di isolamento continuo, concedendo solo tre colloqui ai familiari (...) e non concesse mai alcun colloquio al difensore».Ma la storia dell’omicidio del Bevimarket di Cagliari si riaprì con un processo a carico di Adriano Peddio e Walter Camba accusati nel ’96, dieci anni dopo il suicidio di Scardella, da Antonio Fanni, un collaboratore di giustizia. Fanni dichiarò di avere fornito l’arma, una calibro 38, ai due malviventi cagliaritani facenti parte della banda di «Is Mirrionis», che il 20 settembre 2002 vennero condannati in via definitiva per essere stati i colpevoli materiali dell’omicidio di Pinna. Troppo spesso la ricerca spasmodica di un colpevole porta la Giustizia a costruire e non a istruire processi; di questa vicenda rimane anche impressa nella memoria l’immagine di Enzo Tortora che il 23 settembre del 1986 depose i fiori sulla tomba di Aldo Scardella, un’immagine paradigma di una giustizia capace di uccidere.
IL CASO DEL MAGISTRATO SUICIDA
All'indomani della morte di Luigi Lombardini, il procuratore Giancarlo Caselli, tornato a Palermo con i suoi collaboratori, replica alle polemiche sull'interrogatorio dopo il quale il magistrato cagliaritano si è sparato: "Nessuno è stato torchiato", scrive "Il Corriere della Sera". E per le "ingiurie, falsità, diffamazioni, strumentalizzazioni in atto" meglio non replicare direttamente: "Risponderà la registrazione dell'interrogatorio. La stiamo trascrivendo per inviarla al Csm, per la più autorevole verifica". Da Caltanissetta il procuratore aggiunto Giordano annuncia che, forse, gli atti vorrà vederli pure lui. Anche perché il procuratore generale di Cagliari, Pintus accusa i colleghi palermitani di indagare perfino nei suoi confronti. L'editore Nicola Grauso, anch'egli coinvolto nell'inchiesta sul sequestro di Silvia Melis, ha presentato un memoriale attribuendolo al procuratore suicida: Lombardini afferma che la sua carriera sarebbe stata ostacolata, per contrastare la Dc, da un importante personaggio politico. Grauso fa il nome di Luciano Violante e il presidente della Camera ribatte: bugie.
Per cinque ore, Paolo De Angelis, 38 anni da Ragusa, sostituto procuratore del Tribunale di Cagliari, torna nella "sua Sicilia", scrive "Il Corriere della Sera". Per tratteggiare, come "persona informata sui fatti", nei verbali dei Pm Antonio Ingroia, Lia Sava e Giovanni Di Leo, titolari dell'inchiesta Lombardini, il ritratto di un giudice che non c'è più e di un palazzo di giustizia, quello di Cagliari, dove, a suo dire, era saltata ogni regola, gerarchica e formale. Non si erano mai piaciuti De Angelis e Lombardini, tanto da finire prima avvinti in un unico procedimento penale (che li ha visti indagati a Palermo per abuso d'ufficio e ora in attesa di una pronuncia del Gip su una richiesta di archiviazione), quindi protagonisti di un violento alterco nei sotterranei del palazzo di giustizia di Cagliari. Minacce, insulti, un accenno di rissa. Colpa di una vecchia inchiesta su un sindacalista - avrebbe spiegato ieri De Angelis ai Pm palermitani - sul cui esito Lombardini era di opposto parere. Colpa anche di una cornice, quella cagliaritana, in cui, come lo stesso De Angelis aveva già riferito al Csm nel corso di una lunga audizione, ruoli e gerarchie erano state offuscate da un codice di comportamento "non scritto". Il fulcro della deposizione sono stati i rapporti tra De Angelis e Lombardini. E si è parlato anche del sequestro del possidente Giovanni Murgia, rapito nell'ottobre del '90: Lombardini si sarebbe intromesso nelle indagini della Dda che si occupò del rapimento. Ma l'arrivo del "giovane magistrato cagliaritano" (così si è definito, con un pizzico di autoironia, per declinare ogni domanda al termine del suo interrogatorio) a Palermo era stato preceduto dall'eco, tuttora non sopita, della durissima requisitoria pronunciata nel chiuso della prima Commissione Referente del Csm in tempi non sospetti. In quella occasione De Angelis aveva attaccato il procuratore generale di Cagliari Pintus accusandolo di ingerenza in indagini estranee alla sua competenza, così come aveva dipinto come sospetto il legame tra quest'ultimo e il giudice Lombardini, riferendo della polemica che aveva accompagnato l'informatizzazione degli uffici giudiziari cagliaritani. Per quelle accuse Pintus aveva annunciato una querela. E quelle accuse avevano spaccato il Csm e le sue correnti, soprattutto Unicost, da cui, proprio in occasione del caso Cagliari, aveva deciso di uscire il consigliere Frasso.
La giornata di deposizione di De Angelis ha avuto quale sua coda la testimonianza del cronista parlamentare del Giornale Valerio Riva, il giornalista cui Lombardini aveva affidato, prima di togliersi la vita, le sue confidenze sugli asseriti retroscena dei sequestri Soffiantini e Melis, compreso il presunto ruolo del bandito Mario Fortunato Piras. Intanto, a Cagliari, mentre si sgonfia quello che era stato definito il "mistero del portatile" di Lombardini (è stato trovato nel suo ufficio e dai primi controlli risulterebbe essere rimasto inattivo da tempo) prosegue senza esito la caccia alle "donne" dell'ex giudice, Marinella Cotza e Paola Bitti. Quelle che si ritiene per prime abbiano raccolto le sue confidenze. Saranno presto ascoltate a Palermo dove dovranno chiarire il contenuto di quelle conversazioni e perché l'ex giudice si rivolse a loro, anche per sfuggire ai controlli telefonici da cui era ossessionato.
L'INTRIGO IL SEQUESTRO. Silvia Melis venne rapita a Tortolì il 19 febbraio e tornò in libertà il 19 novembre 1997.
IL RISCATTO. L'editore Nicola Grauso ha dichiarato di avere pagato 2650 milioni: 1400 prima della liberazione, il resto in epoca successiva. Tito Melis ha detto di avere versato solo un miliardo.
L'INCHIESTA. Il giudice Luigi Lombardini era sotto inchiesta per il suo ruolo nella trattativa, che si sarebbe concretizzato in un incontro con Tito Melis l'8 novembre.
I VELENI DIMENTICATI DEL PALAZZACCIO SARDO
Su Repubblica — 21 agosto 1998 pagina 8 sezione: POLITICA INTERNA. "Ci voleva il suicidio di Lombardini perché decidessero di occuparsi di quel che succede qua", commentava ieri, con sardo disincanto, un magistrato isolano. Eh sì, perché il palazzo di giustizia di Cagliari si chiama da molti anni "palazzo dei veleni". Proprio come quelli di Roma e di Palermo. Con una differenza: i veleni mafiosi palermitani e quelli politici romani sono sempre diventati, nel momento stesso della loro sintesi chimica, veleni nazionali, mentre i veleni sardi, fino al suicidio Lombardini, sono sempre rimasti sardi. Eppure con quelli nazionali avevano molti punti in comune. In alcuni casi li hanno anticipati.
La Sardegna ha avuto un "caso Tortora" due anni prima di quello "vero". Si chiamava "caso Manuella", dal nome di un civilista assassinato nell' aprile del 1981. Per l' omicidio Manuella, e per traffico di droga, finirono in manette quattro avvocati: uno di loro, Aldo Marongiu, morì di tumore, proprio come Enzo Tortora, pochi anni dopo la fine della sua tragedia giudiziaria.
L' inchiesta si era svolta in un cupo clima inquisitorio, con tre pentiti che adeguavano progressivamente le loro menzogne alle esigenze dell' accusa. Finì dopo due anni, con l' assoluzione dei quattro avvocati e, in seguito, con una veloce e indulgente indagine del Csm sui metodi del pm Enrico Altieri e del giudice istruttore Fernando Bova che lasciò con l' amaro in bocca l' inferocito foro di Cagliari. Luigi Lombardini era allora capo dell' ufficio istruzione. Sostenne, salvo defilarsi ai primi scricchiolii della tesi accusatoria, la sgangherata indagine dei due colleghi. Aveva altro di cui occuparsi. Risolveva a raffica tutti i sequestri di persona degli anni 77-79, i latitanti cadevano nelle sue mani come tordi, i giornali esaltavano il giudice-sceriffo.
Le denunce di qualche avvocato sui suoi metodi di indagine (gli interrogatori con la pistola sulla scrivania, i testimoni accusati di concorso per indurli a parlare, etc. etc.) non trovavano ascolto da nessuna parte. Nemmeno al Csm.
In quegli anni l'Anonima era arrivata a tenere contemporaneamente in ostaggio diciannove persone, tra le quali tre cittadini inglesi e i cantanti Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Lombardini aveva risolto quella situazione. E se qualche pastore innocente era rimasto stritolato, pazienza: i garantisti, allora, erano meno, ed erano più poveri, di oggi.
Le cose cominciarono a cambiare quando, a metà degli anni 80, andò in pensione il procuratore generale Giuseppe Villasanta, magistrato potentissimo, considerato una specie di viceré della Sardegna. Col pensionamento di Villasanta, Lombardini perse un grande protettore, l' uomo che ne aveva fatto il giudice unico antisequestri, e si rafforzò il fronte avverso.
Si era trattato - per quanto queste categorie possono valere nel mondo giudiziario - dello scontro tra una destra (Villasanta- Lombardini) e una specie di sinistra. Sul fronte opposto a quello del giudice-sceriffo c' erano infatti Magistratura democratica (uno dei leader era l' attuale sostituto procuratore antimafia Mauro Mura), qualche altro giudice garantista, e il composito e sempre fluttuante mondo forense. Così quando, quattro anni fa, alla procura generale di Cagliari fu nominato Francesco Pintus, ex senatore della Sinistra indipendente, si pensò che la partita fosse definitivamente chiusa.
Nessuno poteva immaginare che sullo stagno dei veleni cagliaritani si stava per rovesciare l' autobotte dei veleni milanesi e romani. Nessuno aveva preso in considerazione l' esplosiva personalità di Pintus, uomo temerario fino all' autolesionismo, come lo strabiliante incontro con Grauso - è cronaca di ieri - dimostra. Ex membro della sezione di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, Pintus cominciò a entrare in conflitto con la sinistra quando, in una intervista, prese le difese dell' ammazza- sentenze. Qualche tempo dopo, nel discorso inaugurale, attaccò i metodi del pool di Borrelli. La sua domanda per la procura generale di Milano fu letta come una specie di dichiarazione di guerra. Schiacciato, come si dice, "a destra", il garantista di sinistra Pintus divenne il principale sponsor dell' ormai ex sceriffo Lombardini nella corsa, perduta, per la guida della procura della Repubblica di Cagliari. Quasi contemporaneamente perse la sua corsa per Milano. Negli ultimi due anni gli esposti e i controesposti sardi hanno tempestato il Csm. Un giudice di Sassari, Gaetano Cau, che accusa Lombardini e Pintus di interferenze; Pintus che invia al Csm un' intervista di Cau; Lombardini che viene alle mani col pm Paolo De Angelis; l' ex procuratore Franco Melis che segnala le interferenze di Lombardini nelle indagini sui sequestri; otto sostituti che sottoscrivono un esposto contro Pintus.
Sarà un caso, ma il Csm ha cominciato a occuparsi seriamente dei veleni cagliaritani quando, con Pintus, hanno varcato il Tirreno. Per la prima volta sugli uffici giudiziari sardi, con le loro miserie e le loro deviazioni, è stato acceso un grosso riflettore: per Pintus è in corso l' istruttoria che potrebbe concludersi con l' avvio della procedura per il trasferimento d' ufficio. E per la prima volta le spericolate iniziative del giudice-sceriffo sono state prese in considerazione ed esaminate con sistemi investigativi moderni. Negli ultimi tempi Luigi Lombardini era sorpreso, e non solo angosciato.
TANGENTOPOLI SARDA
LA CRICCA DEGLI APPALTI IN SALSA SARDA.
28 aprile 2015. Sardegna, sgominata la cupola degli appalti: in manette sindaci e tecnici comunali. Nell'indagine sono coinvolti anche due vice e altre 17 persone tra tecnici comunali e impresari. Eseguivano lavori in cambio di favori. L’accusa è di associazione a delinquere, scrive “Nicola Pinna su “La Stampa”. La macchina degli appalti in Sardegna produceva progetti quasi ogni giorno: «la squadra» - così l’ha ribattezzata la procura di Oristano - aveva creato un sistema che consentiva ai «soliti» di accaparrarsi tutti i progetti avviati dai piccoli comuni. Tutto si reggeva sulla complicità tra i sindaci, i responsabili degli uffici tecnici e altri liberi professionisti. A far da regia c’erano due grosse società tecniche («corazzate», le ha definite la procura) che partecipavano a tutti gli appalti e che li vincevano sempre. Volevano persino ristrutturare una piazza inesistente. E avevano anche ottenuto il finanziamento. Per far tutto era necessario entrare in azione nei paesi i cui sindaci erano a loro volta liberi professionisti: garantivano gli appalti agli esterni e ottenevano in premio un incarico di uguale valore in altre zone dell’isola. «Avevano trovato il modo di sfuggire ai rigidi controlli sugli appalti, mettendo le mani sui progetti di basso valore, visto che per questi casi non esiste alcuna autorità di controllo – ha spiegato il procuratore capo Andrea Padalino Morichini – Il sistema di corruzione si basava su uno scambio di favori, senza mazzette. E in questo modo i personaggi che partecipavano credevano di non essere scoperti». E invece da quasi due anni i carabinieri della compagnia di Tonara e la Guardia di finanza di Oristano ascoltavano le conversazioni telefoniche (e filmava 150 incontri) tra sindaci, vice, assessori, responsabili di uffici tecnici e liberi professionisti. Raccogliendo una mole di indizi che ha convinto il Gip del Tribunale di Oristano ha fatto scattare gli arresti. Oggi sono state eseguite 24 ordinanze di custodia: in manette il primo cittadino di Belvì, e Tonara, l’assessore ai lavori pubblici di Ortueri, (tutti paesi in provincia di Nuoro), ma anche il sindaco di San Giovanni Suergiu e Villasalto, in provincia di Cagliari. Ai domiciliari i sindaci di Ortueri e Villasalto, oltre a una sfilza di ingegneri che da anni lavorano per i Comuni. «I nomi erano sempre gli stessi ma per destare meno sospetto si spartivano gli incarichi ogni volta – ha sottolineato il colonnello della Guardia di finanza, Sergio Schena – Presentavano progetti in serie, anche per opere inutili, solo con l’obiettivo di ottenere contributi pubblici, talvolta facevano grossolani “copia e incolla”». Gli indagati per ora sono 63 ma sono in corso altri due filoni d’indagine. «Per fortuna abbiamo accertato anche casi di persone oneste – spiega il capitano dei carabinieri Andrea Di Nocera – Qualche professionista ha tentato di fermare o ostacolare questo vasto sistema e ne ha pagato pesanti conseguenze. Tutti venivano minacciati di essere licenziati».
Sardegna, appalti pubblici in cambio di favori: 21 arresti, 5 sono sindaci, scrive Monia Melis su “Il Fatto Quotidiano”. Nella maxi operazione congiunta della Finanza e dei carabinieri disposta dalla Procura di Oristano sono coinvolti primi cittadini, i loro vice, alcuni assessori, consiglieri, tecnici dei Comuni e professionisti. Tra le accuse, associazione a delinquere e turbativa d’asta. Affari e appalti pubblici gestiti come cosa propria, con un giro non di soldi ma di favori. Una rete sottilissima di contatti, secondo i magistrati, ha unito per anni paesi distanti anche centinaia di chilometri in Sardegna. Dal Nuorese, al Sulcis, passando per il Cagliaritano. Coinvolti sindaci, i loro vice, alcuni assessori, consiglieri, tecnici dei Comuni e professionisti: un gruppo, ben collaudato, definito una ‘cupola’, con appartenenze bipartisan e in gran parte eletto nelle fila di liste civiche. Per questo sono state arrestate, in carcere e ai domiciliari, 21 persone, tra cui cinque primi cittadini: la maxi operazione congiunta della Finanza e dei carabinieri è in corso dall’alba, disposta dalla Procura di Oristano e coordinata dal procuratore Andrea Padalino Morichi. L’accusa è associazione a delinquere finalizzata a pilotare gli appalti, a 14 persone è contestata la turbativa d’asta e la corruzione. La testa in Barbagia, infiltrazioni nei municipi – In ballo c’erano oltre 40 appalti che spesso finivano alle solite ditte o ai soliti professionisti (società di progettazione e consulenza): in cambio, chi favoriva l’assegnazione agli amici degli amici, riceveva lavori gratuiti e, appunto, favori. Il sistema prevedeva, appunto, dei premi con un tempismo a orologeria. E il gruppo riusciva a gestire così le gare e i lavori da un centro all’altro. Le indagini sono partite dal Nuorese, da un piccolo paese della Barbagia, ritenuto il centro operativo dell’organizzazione che è riuscito a insidiarsi, con successo, fin nel Sulcis e in alcuni paesi del Cagliaritano, sulla costa ovest. Anche piccoli centri con poche migliaia di abitanti, increduli alla notizia. Quindici in tutto i Comuni coinvolti, in cui sono state fatte diverse perquisizioni: quelli di maggior peso sono Cagliari, Quartu Sant’Elena e Nuoro. Seguono altri: da Desulo (Nuoro) a Sant’Antioco. Nel Cagliaritano, San Vito e Villasalto (ai domiciliari il sindaco Leonardo Usai, in carcere il vice, Franco Cotza, un carabiniere). In cella anche i primi cittadini di Tonara e Belvì, nel Nuorese, rispettivamente Pierpaolo Sau e Rinaldo Arangino; il primo cittadino di San Giovanni Suergiu, Federico Palmas, e di Ortueri (ai domiciliari, Salvatore Casula). In carcere anche i titolari di alcune società, come Paolo Pinna, 62 anni di Desulo (Nuoro), rappresentante della Essepi Engineering srl – ritenuto il manager della “cupola” – e Francesco Chessa, 56 anni di Irgoli (Nuoro), rappresentante della Ediligica srl. Un sistema complicato ricostruito dagli inquirenti sulla base di alcuni movimenti sospetti. Un’inchiesta nata nel 2013, soprattutto grazie a un esposto anonimo arrivato in Procura sull’esecuzione dei lavori del centro storico di Aritzo, paese di montagna del Nuorese che, come altri negli ultimi anni, ha rimesso in sesto strade e scorci. La spartizione degli appalti sarebbe stata gestita da una mente nuorese, rintracciata nella figura dell’ingegnere Pinna, con molti contatti e carte da giocare presso gli amministratori pubblici che, secondo le accuse, hanno dato udienza e ascolto. Col risultato di avere bandi su misura e appalti assegnati in partenza.
Appalti pilotati:24 indagati in Sardegna. Fra loro sindaci, responsabili uffici tecnici e professionisti, scrive di Francesco Pinna su “L’Ansa”. Un sistema corruttivo scientifico studiato su misura per le realtà dei piccoli e piccolissimi comuni della Sardegna centrale ma esportato con successo anche nel Sulcis Iglesiente e nell'hinterland cagliaritano: è quello svelato dall'inchiesta della Procura di Oristano che stamattina ha portato all'arresto di cinque sindaci, due vicesindaci e di altre 14 persone tra amministratori pubblici, dirigenti di uffici tecnici e progettisti e all'obbligo di dimora per altri tre professionisti. Complessivamente gli indagati sono una sessantina. Per il momento, le accuse contestate sono quelle di associazione per delinquere finalizzata all'assegnazione di incarichi di progettazione, servizi di ingegneria e di consulenza tecnica legati alla realizzazione di opere pubbliche, turbativa d'asta e corruzione. Tuttavia il procuratore Andrea Padalino Morichini e il sostituto titolare dell'inchiesta, Armando Mammone, non escludono che possa essere contestata l'aggravante dello stampo mafioso dell'associazione. In carcere sono finite dieci persone. In cima alla lista il presunto capo della 'cupola', l'ingegnere Salvatore Paolo Pinna, 62 anni, di Desulo (Nuoro), amministratore della società a responsabilità limitata Essepi Engineering, indicata dagli inquirenti come il fulcro attorno al quale ruotava tutto il sistema corruttivo. In cella anche per i sindaci di Tonara (Nuoro) Pierapaolo Sau, 35 anni, di Belvì (Nuoro) Rinaldo Arangino, 43, e di San Giovanni Suergiu (Carbonia Iglesias) Federico Palmas, 41, e altre sei persone. Solo, invece, agli arresti domiciliari i sindaci di Ortueri (Nuoro) Salvatore Casula, e di Villasalto (Cagliari) Leonardo Usai, più altri sette indagati. Nel sistema corruttivo sgominato dall'inchiesta della magistratura oristanese le tangenti non si pagavano con denaro contante o bustarelle, ma con un sistema di scambio di incarichi professionali. Amministratori e dirigenti degli uffici tecnici comunali pilotavano l'assegnazione a professionisti che ruotavano attorno allo studio della Essepi Engineering e di un'altra società, la Edilogica srl, che faceva capo a un professionista di Irgoli (Nuoro), Francesco Chessa, 56 anni. In cambio, sindaci e dirigenti degli uffici tecnici, essendo alcuni di loro anche progettisti, ricevevano assegnazioni di incarichi di progettazione in altri comuni o quantomeno, nel caso degli amministratori, avevano un ritorno in termini di consenso da parte della comunità per le opere pubbliche realizzate. L'inchiesta, condotta dal Comando provinciale della Guardia di Finanza di Oristano e dalla Compagnia dei Carabinieri di Tonara (Nuoro), era partita nel mese di novembre del 2013 grazie a una segnalazione anonima relativa all'assegnazione dell'incarico per la progettazione di alcuni lavori nel centro storico di Aritzo (Nuoro) e ha poi riguardato altri 43 appalti, per un valore complessivo di circa 850 mila euro in poco più di un anno, mentre il valore degli incarichi assegnati a titolo di tangente è stato calcolato dalle Fiamme Gialle in circa 350 mila euro. L'ultimo appalto finito nel mirino degli inquirenti è del mese di marzo, quando l'inchiesta era ormai in dirittura d'arrivo. Gli arrestati infatti non sospettavano niente, perché l'indagine è stata condotta quasi esclusivamente con intercettazioni telefoniche e ricerche su delibere di Giunta e determine dei dirigenti pubblicate sui siti istituzionali delle stazioni appaltanti coinvolte: sette comuni in provincia di Nuoro, tre nelle province di Cagliari e Carbonia Iglesias più il Gal Distretto rurale Barbagia, Mandrolisai, Gennargentu, Supramonte e il Consorzio di Bonifica del Cixerri (Iglesias). Nel corso delle indagini è emersa anche la posizione di almeno due dirigenti di uffici tecnici comunali che avevano provato a opporsi a questo sistema corruttivo e per questo erano stati oggetto, secondo l'accusa, di vere e proprie minacce di licenziamento.
16 LUGLIO 2008 - Era uno dei processi-simbolo della stagione degli scandali (quello più clamoroso è legato alle spregiudicate operazioni finanziarie di lady-Fideuram, Gabriella Ranno, con decine di ex assessori, politici, presidenti e direttori di enti coinvolti) della Regione da bere e da rubare, dove tutto si comprava e si vendeva, gli appalti sotto accusa, le delibere miliardarie, un vortice di vicende politico-penali che hanno segnato i cinque anni di malgoverno e malaffare del centrodestra in viale Trento e in amministrazioni comunali come quelle di Quartu e Capoterra. Con pesanti coinvolgimenti di imprenditori e tecnici, personaggi notissimi, contigui alla politica e dirigenti regionali e comunali: diversi provenienti o militanti nel centrosinistra. Si è conclusa con la stangata di 15 condanne (e sette assoluzioni, inclusa quella di Graziano Milia, che resta tuttavia coinvolto in altri procedimenti) il processo in primo grado che vedeva come principale imputato l'architetto Lucio Pani, quartese, già Ds (genero di un noto esponente della Quercia) poi adottato da uomini di Forza Italia, promosso all'incarico delicatissimo di direttore del'Ufficio regionale tutela del paesaggio: ruolo-chiave per la concessione dei “lasciapassare” per interventi urbanistici in zone turistiche.
Per l'accusa, Pani (sono stati condannati con lui anche la moglie Simonetta Birardi, figlia di un ex , stimatissimo segretario regionale e parlamentare del Pci-Ds e il nipote Mauro Pani) rilasciava concessioni edilizia in sanatoria, organizzava a tavolino imbrogli strategici ottenendo gratuitamente per sé e la famiglia terreni comunali a Quartu (era allora sindaco Graziano Milia), riusciva ad avere finanziamenti pubblici non dovuti, concedeva autorizzazioni urbanistiche illegittime: favori pesanti a politici, imprenditori e tecnici che l'avrebbero ricambiato in forme tangibili, alcune venute alla luce, altre probabilmente restate al coperto dell'indagine giudiziaria. Un quadro corruttorio riassunto dal pm Daniele Caria in un'affermazione molto cogente: Pani ha “asservito per anni una importante funzione pubblica ai propri interessi” e a quelli di complici e beneficati a largo spettro.
A Pani, il Tribunale presieduto da Francesco Sette, giudici a latere Giovanni Massidda e Ornella Anedda) ha inflitto la pena più severa: sette anni e mezzo di reclusione (il Pm Daniele Caria ne aveva chiesti nove). Tre anni e mezzo di carcere sono stati irrogati all'ing. Alessandro Casu, già a capo dell'Ufficio tecnico-urbanistica di Quartu. Il primo è stato ritenuto colpevole di truffa, corruzione, falso ideologico e abuso d'ufficio, mentre Casu è stato ritenuto responsabile di abuso d'ufficio e falso ideologico.
La sentenza chiude in primo grado un processo durato oltre due anni in cui erano stati rinviate a giudizio ventidue persone tra amministratori pubblici, dirigenti e funzionari, imprenditori e tecnici per una serie di sistematiche, gravi irregolarità nella concessione di licenze edilizie nel periodo compreso dal 2002 al 2006. Il Pm aveva chiesto la condanna di 20 degli imputati e due assoluzioni (per il dirigente regionale Ruggero Carta e il tecnico del Servizio tutela paesaggio Alessandro Cogoni). Pani aveva permesso la costruzione di un complesso edilizio abusivo nella pregiatissima località di Baccu Mandara (Torre delle stelle) e autorizzato un altro complesso abusivo, il Maramura a Capoterra. Per sé e la famiglia aveva avuto dal Comune di Quartu (con importanti sponsor) un grande terreno al Margine Rosso su cui ha realizzato un grande complesso sportivo-ricreativo, con relative modifiche (avallate da Casu) al tracciato per il collettore fognario di Is Molentargius. Il sistema Regione-Quartu-Capoterra imperniato soprattutto su Lucio Pani e Sandro Casu ma coinvolgente anche il nipote del primo, si era esteso - grazie a protezioni sempre più ramificate, con coperture imprenditoriali e nell'informazione locale (significativa anche se penalmente non rilevante una intercettazione dell'architetto con Sergio Zuncheddu, editore dell'Unione Sarda e pare anche suo parente, ed altre con Giorgio Mazzella e diversi altri impresari e amministratori) - a macchia d'olio potendo contare su complicità importanti. Come quella di Antonio Monni, direttore generale di servizi alla Regione e comproprietario del villaggio abusivo di Baccu Mandara) e Giovanni Antonio Erbì, dipendente regionale che “copriva” le assenze dall'ufficio di Pani (impegnatissimo negli affari personali, familiari e degli amici), timbrando il cartellino con il tesserino di Pani. Tra gli assolti, come detto, Graziano Milia, attualmente Presidente della Provincia (il Pm aveva chiesto un anno di reclusione) per l'assegnazione a Pani dei terreni su cui aveva costruito il centro sportivo: secondo il Tribunale il fatto non costituisce reato. Ma oltre i profili penali, il processo ha svelato un intreccio fangoso tra politici, amministratori pubblici, impresari e imprenditori turistici che stendeva i suoi tentacoli dalla Regione governata dal centrodestra ai Comuni di Quartu, Capoterra e forse altri. A conferma di un quadro di abusi, malversazioni e imbrogli che ha funzionato per anni indisturbato, nel clima di corruzione diffuso e impudente che ha dominato per molti anni alcune gestioni regionali e, a cascata, quelle di numerosi comuni.
Attorno al personaggio-chiave della vicenda" (Lucio Pani gestiva da faccendiere lo strategico ufficio, alimentando mille rapporti con amministratori e imprenditori d'alto bordo intercettati nelle conversazioni con lui) ruotava un mondo politico-affaristico che ha imperversato impunito, nonostante tante segnalazioni rimaste senza esito grazie alle protezioni e gli interessi coinvolti.
Lo stesso brodo di cultura che ha prodotto lo scandalo Fideuram e la torbida vicenda del Cisi di Giuliano Guida (è attesa a breve la sentenza nei confronti dell'ex segretario dell'assessore Pietro Pittalis, poi passato con Giorgio Oppi e fatto arrivare irresponsabilmente perfino fra le persone ammesse nella cerchia dell'ignaro Francesco Cossiga) e di molte altre storie di corruzione e malversazione, con incriminazioni e rinvii a giudizio di un ex presidente della Regione (Italo Masala), numerosi ex assessori, piccoli e grandi boiardi regionali di una stagione mai vista alla Regione.
Una Tangentopoli sarda sminuzzata in molti processi e che andrebbe ricostruita nella sua variegata interezza per ricavarne un quadro fosco ma illuminante. Ha coinvolto in vari campi e con l'uso spregiudicato di soldi e poteri regionali e comunali, decine di esponenti dei partiti di centrodestra con legami anche nel centrosinistra. Parliamo degli anni di governo (presidenti Mauro Pili, succeduto a Mariolino Floris, e Italo Masala), all'ombra dei quali si è consumata un'eclisse della moralità e della legalità senza precedenti nella storia autonomistica. Rimossa ora dagli esponenti delle forze politiche che oggi tuonano come verginelle, fingendo di essere stati all'oscuro o politicamente estranei a un sistema gravissimo gestito da loro sodali, colleghi e amici stretti. Talmente ramificato che da ultimo hanno coinvolto perfino l'ottuagenario Raffaele Garzia, ex presidente di tutto e infine della Fiera: rinviato a giudizio per uso illegale del fondo Tfr dell'ente fieristico (come all'Arst e in altri enti dello scandalo Fideuram: principale imputato l'ex assessore forzista Andrea Pirastu, compagno della Ranno, con decine di altri esponenti di spicco), premiato da amici e successori appena qualche mese fa. Per anzianità e merito. La risposta ”politica” al rinvio a giudizio disposto poco prima. L'anti-giustizia se ne frega e va in direzione opposta, quando si toccano antichi e recenti rappresentanti della casta sarda. A volte pagano, come dimostra la sentenza del tribunale di Cagliari, ma non sempre e a distanza di anni, rimanendo comunque nel tuorlo del potere extra e super-legem.
CONCORSI ACCADEMICI TRUCCATI
COMMISSIONI D'ESAME PILOTATI: UNA CONDANNA, 3 RINVII A GIUDIZIO
15 GIU. 2006 - La "farsa" dei concorsi universitari e le commissioni "pilotate" per «formalizzare» il nome del docente vincitore «stabilito prima delle prove a prescindere dal merito dei candidati». È lo scenario fotografato dall´inchiesta del sostituto procuratore Giancarlo Amato che ha portato a una condanna, patteggiata ad alcuni mesi di reclusione e a tre rinvii a giudizio nei confronti di quattro "intoccabili" accademici che hanno sempre respinto le accuse dichiarandosi innocenti.
Così davanti al gip Renato Laviola è comparso anche il professor Giovanni Dolci, titolare della cattedra di Malattie odontostomatologiche alla facoltà di Medicina e Chirurgia alla Sapienza, ritenuto «istigatore» del concorso truccato. I reati contestati variano dall´abuso d´ufficio al falso e riguardano il concorso bandito, nel giugno 2003, per un posto da professore associato presso la clinica odontoiatrica dell´università di Cagliari.
Ma le indagini dei Nas oltre ai presunti illeciti legati, al singolo concorso poi annullato, si sono soprattutto concentrate sulle complicità tra i docenti che facevano parte della commissione d´esame.
L´inchiesta del pm Amato è scattata dalla denuncia di un docente che dopo essere stato nominato nella commissione d´esame si è ribellato «al sistema di pressioni» per controllare gli incarichi universitari. Ma non solo. Il docente, assistito dall´avvocato Giorgio Robiony, si è armato di un registratore ed ha "intercettato" le conversazioni tra i membri della commissione d´esame mentre si accordavano su come privilegiare un candidato a scapito di altri. Le registrazioni sono state fondamentali per la Procura che ritiene il professor Dolci «istigatore dei componenti della commissione giudicatrice» accusati di aver agito «in violazione al principio di legalità, dell´imparzialità del giudizio e l´adozione dei meccanismi di selezione oggettivi e trasparenti idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali dei concorrenti».
I docenti indagati avrebbero procurato a uno dei esaminati un «ingiusto vantaggio patrimoniale» in quanto la scelta degli idonei «sarebbe stata ispirata prima dello svolgimento delle prove selettive dal professore Dolci sulla base di segnalazioni personali che prescindevano da qualsiasi valutazione del merito dei concorrenti».
Nella richiesta di rinvio a giudizio, il pm Amato contesta anche il reato di falso in quanto due verbali contenenti i «giudizi» espressi dalla commissione: «Giudizi, meramente formali, finalizzati a consacrare l´esito già concordato prima delle prove».
TUTTO SU CARBONIA IGLESIAS
PARLIAMO DI MASSONERIA.
PARLIAMO DI CANILI UMANI.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO.
PARLIAMO DI MASSONERIA.
GIANFRANCO MURTAS AUTORE DEL LIBRO “AUTOSAG” PRECISA E FOCALIZZA ASPETTI DELLA MASSONERIA SARDA.
Sulla Gazzetta del Sulcis-Iglesiente precisa: «Con qualche ritardo ho letto un articolo di Alessandro Carta di segnalazione o recensione di un mio libro del 2005 riguardante le obbedienze massoniche dei circuiti cosiddetti scozzesi, uscito sulla Gazzetta del Sulcis-Iglesiente n. 556 dello scorso novembre. L’articolista rileva in due passaggi la debolezza documentaria della ricerca e del saggio che ne è venuto: debolezza peraltro dichiarata in premessa nello stesso libro. E giustificata con la abnorme frantumazione della Libera Muratoria appunto di quel ramo che – sia detto rapidamente – si caratterizza per l’appartenenza anche dei primi gradi al Rito Scozzese Antico e Accettato. Come se… la facoltà di Medicina appartenesse fin dalle matricole alla scuola di specializzazione particolare – mettiamo Pediatria o Radiologia – che dovrebbe affacciarsi invece soltanto dopo la laurea! Perché questa è la distinzione fondamentale che occorre compiere in quel mondo massonico di cui tanto spesso si parla e si scrive senza conoscerne i fondamentali né storici o ideali né ordinamentali. Vorrei arrivare a dire del Sulcis-Iglesiente di ieri e di oggi, ma è necessario insistere su questi elementi orientativi. Esistono due grandi aggregati massonici mondiali: quello delle Comunioni che fanno riferimento alla centrale di Londra, qualificati da logge che al loro interno accolgono Artieri su tre gradi a salire: Apprendisti, Compagni e Maestri. Il capo di queste logge si chiama Maestro Venerabile; l’assemblea nazionale dei Maestri Venerabili rappresentati ciascuno la propria loggia (od officina che dir si voglia) si chiama Gran Loggia, ed è una sorta di parlamento, organo legislativo, presieduto da un Gran Maestro, cui compete la presidenza carismatica ed operativa dell’intero sistema. I Fratelli che abbiano conseguito il terzo grado e volessero approfondire un campo o l’altro del corpus dottrinario possono (ripeto: possono) essere assunti in uno dei Riti, fra i quali il più noto è lo Scozzese. Come se un giovane medico entrasse nella scuola di specializzazione di Pediatria (Rito Scozzese), mentre un altro preferisse una diversa scuola, metti Radiologia (Rito americano di York), un altro ancora un’ulteriore scuola, metti Geriatria (Rito egiziano di Memphis e Misraim), ecc. ecc. Il gioco è tutto qui. L’Ordine massonico dei tre gradi (Massoneria simbolica o azzurra) è terzo rispetto ai Riti, che hanno altre autorità. Mentre dunque il Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani (al cui vertice fu anni addietro il sardo Armando Corona) è questa Massoneria che riconosce mutua autonomia all’Ordine e ai Riti (cioè alla facoltà e alle diverse scuole di specializzazione), le altre obbedienze – quelle di cui mi sono occupato nel libro commentato da Alessandro Carta - si caratterizzano per la prevalenza del Rito (anzi del solo Rito Scozzese) sull’Ordine: come se la facoltà di Medicina fosse già a controllo diretto della scuola di Pediatria! Aggiungo che questa seconda tipologia massonica, che chiamo “scozzese” (perché scozzese già dal primo grado di matricola/Apprendista) negli anni recenti ha subito, rispetto all’altra, una seconda e forse ancora maggiore innovazione: la immissione delle donne, sicché procede per lo più con logge miste. E dunque, riassumendo: il Grande Oriente d’Italia ha le sue logge (Ordine massonico dei tre gradi) del tutto autonome da qualsiasi Rito, e liberamente i suoi Maestri (insigniti del 3° grado e naturalmente solo maschi) possono optare per uno o per l’altro Rito,o anche per nessuno, ed esaurire la propria esperienza soltanto nella loggia di appartenenza, senza espanderla anche a una Camera rituale. Le altre Obbedienze – fra esse la più nota è quella che si denomina di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi – si definiscono per il dominio del Rito scozzese sulle logge, e la carica di Gran Maestro è in capo direttamente al leader del Rito Scozzese che si chiama, un po’ pomposamente, Sovrano Gran Commendatore. E veniamo alla Sardegna e anche al Sulcis-Iglesiente che conobbe – dico Iglesias e dico Carbonia (e anche Sant’Antioco) – una certa ricchezza di esperienze nel settore... Dopo essermi occupato in molti altri lavori del primo tipo di Massoneria, io avrei voluto raccontare, anche per la Sardegna ed il Sulcis-Iglesiente, la storia delle Obbedienze scozzesi attive nel Novecento. Ma l’esistenza di molte Famiglie massoniche entro questa area e la loro perenne conflittualità, per cui a tentativi di unificazione facevano subito seguito rotture e lacerazioni con conseguente dispersione degli archivi, ha reso e rende estremamente problematico ricostruirne minuziosamente vicende e protagonismi, insomma la storia sia per soggetto istituzionale che per territorio. Quando dunque Carta conclude con un «c’è da dire che lo scenario proposto da Gianfranco Murtas appare piuttosto incompleto, presumibilmente per insufficiente dotazione documentale. Ma tant’è» , sfonda una porta aperta e affaccia un rimprovero che credo di non meritare. Aggiungerei poi altre ragioni a scarico di responsabilità, riguardo al forse maggior rimprovero da lui formulato con queste parole: «Nella sua analisi, supportata da quei pochi documenti raccolti e di cui comunque non rivela le fonti o quanto meno un appiglio bibliografico, evidenzia meno il motto Libertà-Uguaglianza-Fratellanza tra fratelli, di cui invece si attarda ad evidenziare scissioni e abbandoni di Logge». Spiace questo rilievo critico, perché esso è del tutto infondato. Circa la materia del racconto perché l’assoluta perdita dei verbali delle varie tornate di loggia e la mancanza di documenti formali affidati magari a manifesti o giornali, impedisce di entrare nel merito e può farsi riferimento soltanto a quanto le riviste obbedienziali hanno riportato, in attesa di poter lavorare sui nomi, e quindi sulle attività civili, professionali, politiche od associative, dei Fratelli. Circa invece le fonti, se non bastassero le trenta pagine finali titolate non a caso “Ripasso d’una storia complessa e complicata. Note metodologiche e fonti compulsate”, di cui forse Carta non si è accorto, andrebbe detto che nel corpo dei singoli capitoli (sono quattordici per 220 pagine) esse sono tutte rivelate, avendo io ritenuto che, per il taglio narrativo dato al lavoro fosse più adeguato il loro richiamo all’interno del racconto, che non il loro “scientifico”rimando a piè di pagina, valido nelle opere di sintesi. Questo mi importava precisare. Poiché ci lavoro da quasi quarant’anni, so quanto le collezioni dei giornali siano importanti anche per il ricercatore di storia, e pensando allo studioso che fra cinquanta o cento anni scorresse l’annata 2010 della Gazzetta mi è venuto spontaneo interloquire e precisare. Dunque il Sulcis-Iglesiente. E’ notizia relativamente recente che, dopo il GOI di Palazzo Giustiniani nel 1987 (quando dovette restituire la sede al Senato, e dunque ripulì felicemente le cantine!), anche la Comunione di Piazza del Gesù/Palazzo Vitelleschi (dunque il soggetto forte dell’area scozzese scissionista e “concorrente” di quella storica giustinianea) ha recuperato, con qualche insperata fortuna, i suoi archivi più antichi e specialmente i libri-matricola, rimontanti al prefascismo. Conosceremo dunque fra breve i piedilista della loggia Nuraghe di Iglesias, costituitasi nei primi anni ‘20 e durata quel tanto che l’incalzante regime fascista consentì. Spero di potermene occupare già forse nei prossimi mesi, e potrei darne anticipata informazione a chi fosse interessato proprio attraverso le pagine, se ospitali, della Gazzetta. Ma va anche detto o ricordato che fin dall’Ottocento l’Iglesiente ebbe le sue presenze organizzate della Libera Muratoria in capo al Grande Oriente d’Italia: dal 1872 la loggia Ugolino che, andata in crisi nel 1878 ebbe le Colonne abbattute nel 1881, unitamente a quelle della loggia cagliaritana (la Libertà e Progresso) da cui era gemmata; con lo stesso titolo una loggia si formò sempre in Iglesias ne 1898, e questa resistette fino ai rigori fascisti. Naturalmente e la prima edizione e la seconda della Ugolino sono discretamente documentate e si conosce e dell’una e dell’altra l’organico degli Artieri attivi e quotizzanti, con una significativa presenza, se non prevalenza, di operatori dello stretto settore minerario. La schedatura che ho potuto compiere nei mesi scorsi non soltanto (ma soprattutto) della Gazzetta d’Iglesias – 1868-1877 – del Sanna-Nobilioni (Fratello della Ugolino prima edizione), ma poi anche de L’Aurora (1908), de La Tarantola (1913-1914) e de Il Popolo Sardo (1914-1915), ha favorito una esplorazione della realtà massonica mineraria che meriterà presto o tardi esitare. E’ anche da dire che lo scorso anno, il nome del conte Ugolino della Gherardesca è tornato a inorgoglire un cordialissimo gruppo di liberi muratori del bacino iglesiente. Ed è da sperare che esso sappia onorare le tradizioni sociali e ideali dei precursori. Nell’ambito della stessa Obbedienza giustinianea sono attive ed efficienti nel comune di Carbonia due altre logge: la Giovanni Mori, costituita nel 1953, che dunque va già per i sessant’anni! e, dal 1971, la Risorgimento, che con tale denominazione appartiene ad un circuito nazionale il quale, nell’anno 150° della unità politica e territoriale della patria, ha dovuto e voluto dare la sua testimonianza. Speriamo che presto si possa – da parte del sistema delle logge giustinianee (le sole presenti sul territorio) – raccontarsi, più di quanto non si sia fatto finora (con gli studenti dell’antico e glorioso Minerario e per la diligenza anche di taluno dei suoi docenti), e mostrare alla società civile quanto di prezioso si è capaci di elaborare ancora oggi, tempo di decadenza per tanti aspetti, all’interno dei Templi simbolici.»
PARLIAMO DI CANILI UMANI.
Tra i detenuti del carcere di Iglesias c’era chi godeva di libertà non dovute e chi, invece, era considerato un ospite di serie B, scrive la “Nuova Sardegna”. Questo lo spaccato che sembra emergere dall’inchiesta della procura di Cagliari in cui sono indagati il direttore dell’istituto di pena, Marco Porcu (difeso dall’avvocato Massimiliano Ravenna) e l’allora capo della polizia penitenziaria Gesuela Pullara (difesa dall’avvocato Guido Manca Bitti) poi trasferita in Sicilia. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, tra i detenuti che godevano di qualche privilegio c’era Mario Sanna, ex agente di polizia penitenziaria accusato di concorso nell’omicidio di Marco Erittu detenuto assassinato nel 2007 nel carcere di San Sebastiano di Sassari, un delitto mascherato da suicidio e scoperto solo dopo la confessione di Giuseppe Bigella oggi super teste d’accusa. A Sanna era permesso di aggirarsi in zone che dovrebbero essere accessibili solo al personale dell’istituto. Tra i privilegiati, c’era anche Massimo Sebastiano Messina che non venne denunciato nonostante - sempre stando alle accuse - avesse pesantemente minacciato alcune educatrici del carcere. Per contro, c’era chi riceveva un trattamento meno favorevole come il detenuto straniero preso a pugni e trascinato dalla sua cella in un’altra, un episodio per cui è indagato un agente di polizia penitenziaria dell’istituto penitenziario. Il direttore dell’istituto penitenziario (che regge anche quelli di Lanusei e Isili) è indagato per abuso d’ufficio: nel settembre 2012 avrebbe disposto una perquisizione alla ricerca di droga, nell’ufficio ragioneria della prigione senza informare gli interessati, nè redigere il verbale e senza informare le autorità competenti. Porcu sentito ai primi di marzo dagli inquirenti, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per lo stesso fatto è indagata anche Pullara, che avrebbe eseguito la perquisizione. Alla comandante delle guardie vengono contestati anche i reati di omessa denuncia e rifiuto d’atti d’ufficio per non aver segnalato alle autorità competenti nè preso provvedimenti contro le violazioni compiute da alcuni detenuti, uno dei quali avrebbe minacciato il personale del carcere.
PARLIAMO DI INQUINAMENTO.
Viaggio nel Sulcis, terra avvelenata. Chiudono le fabbriche, restano i rifiuti. Questa zona della Sardegna è considerata tra quelle a più alto rischio in Italia, scrive Marco Corrias su “La Repubblica”. L'ultimo allarme è la scoperta di cloroformio, ma le contaminazioni sono infinite, arsenico incluso. I fanghi rossi e l'incubo della presenza di elementi radioattivi. Con la crisi delle aziende, Alcoa in testa, restano la centrale a carbone dell'Enel e la Portovesme Srl che tratta i fumi di acciaieria. Il dottor Luigi Atzori, medico condotto di Portoscuso e vicesindaco, è uomo mite, prudente e informato. Dei suoi compaesani conosce la biografia sanitaria fin dalla nascita. Come tanti, da queste parti, ha creduto nell'industrializzazione, e ancora oggi non rinuncia a sperare che l'industria, magari in forme meno devastanti, possa ridestarsi e lenire la disperazione che ha invaso la sua gente con la chiusura delle industrie. Non ha bisogno di statistiche il dottor Atzori, per ricordare i troppi morti provocati dall'inquinamento. Ricorda uno per uno la decina di lavoratori che al porto industriale scaricavano a mani nude, senza alcuna protezione, la blenda, la galena e persino la pece, che dovevano servire per la lavorazione dello zinco. Polveri che li hanno avvolti per anni e hanno finito per ucciderli, uno dopo l'altro. Ricorda i muratori delle imprese esterne dell'Alcoa impiegati a distruggere e ricostruire i forni neri, morti per i veleni incontrati nel lavoro, ma mai riconosciuti come operai a rischio, proprio perché assunti da muratori, e quindi non degni neanche di un misero risarcimento alle famiglie. Conosce tutto questo, il dottor Atzori, anche se la sua natura prudente gli fa dire che "comunque una cosa sono le morti dei lavoratori, un'altra l'incidenza che l'inquinamento può aver avuto sulle morti per tumori della popolazione: "Questa non è dimostrata". Da qualche mese il dottor Atzori e con lui tutti coloro che di allarme ambientale si occupano a Portovesme e dintorni sono impegnati su un nuovo fronte. Nel mefitico calderone dei veleni del Sulcis c'è una novità che ha allarmato non poco il Ministero dell'Ambiente. Nell'ultima conferenza dei servizi sulle bonifiche è stato rivelato che due chilometri a nord della zona industriale di Portovesme, in una falda vicino a Capo Altano, sono state rilevate tracce importanti di cloroformio. "Verificate immediatamente la provenienza e mettete in sicurezza", ha ordinato il Ministero al Comune di Portoscuso e alla Portovesme srl, azienda proprietaria dell'area, "al fine ultimo di limitare, fino ad arrestare, la propagazione della contaminazione e proteggere il bersaglio sensibile costituito dal mare". Il cloroformio è sostanza molto cancerogena, che dovrebbe essere al bando ormai da anni nella produzione industriale. La Portovesme srl, della multinazionale Glencore, che produce zinco dai fumi di acciaieria, nella zona in cui è stato trovato il cloroformio non ha mai svolto attività industriale, e visto che la falda si trova a monte dello stabilimento i sospetti sono due: o quella falda proviene dalle vicine miniere di carbone di Seruci e Nuraxi Figus, oppure qualcuno ha fatto il furbo e in quei terreni ha scaricato abusivamente residui di una qualche lavorazione industriale, naturalmente illegale. Ci mancava solo il cloroformio in quest'area industriale considerata tra le più a rischio d'Italia. Questa era terra di vigneti, di pastori e di pescatori. E di minatori. Poi, mentre le miniere chiudevano una dopo l'altra, sono arrivate le ciminiere fumanti che fino a qualche anno fa sono state garanti di un patto scellerato tra la gente del posto e gli industriali: occupazione e benessere in cambio di mano libera nella devastazione ambientale. L'ultima indagine del ministero dell'Ambiente denuncia valori di veleno con picchi stratosferici rispetto ai limiti, che segnaliamo tra parentesi. Nelle falde superficiali il cadmio è 125.000 milligrammi per litro rispetto ai 5 previsti come limite massimo; il mercurio 550 (1); l'arsenico 609 (10); il tallio 341 (2); i fluoruri 34.359 (1500); il nichel 214 (20); il piombo 29.6 (10). Non meno grave la situazione nelle falde profonde. Zinco 3.134.000 (3.000); manganese 312.000 (50). E in superficie, dove tutti questi veleni, oltre a zinco, rame, policiclici aromatici e l'immancabile arsenico, sono distribuiti in quantità industriali oltre ogni limite consentito. Gli effetti sulla salute della popolazione e dei lavoratori sono ben segnalati da un recente report della Regione Sardegna. Negli ultimi 20 anni i morti per malattie respiratorie nella zona sono stati 205 sui 125 previsti, e i tumori polmonari hanno avuto un incremento del 24 per cento. Senza contare gli screening sui bambini di Portoscuso che hanno sempre evidenziato tassi di piombo nel sangue molto superiori alla norma. Non c'è mamma a Portoscuso che dia ai propri figli frutta o verdura coltivata negli scarsi e stentati orti del paese. I pochi che denunciavano lo scempio e i suoi effetti drammatici sulla salute delle persone, venivano liquidati come scocciatori: "Ambientalista" era diventato un insulto. "Perché qui non si producono confetti", dicevano i difensori a oltranza (primi tra tutti i sindacati) di questo polo del piombo e dello zinco, con le sue industrie della metallurgia pesante a più deflagrante impatto ambientale come Eurallumina, Alcoa, Portovesme Srl e la Centrale Enel a carbone. Asserzione realista, che però non ha impedito che questa valle, dove fino a pochi anni fa lavoravano fino a trentamila persone, si sia trasformata oggi in un deserto industriale in cui si aggirano, disperati, i disoccupati e i cassintegrati. Eurallumina del gruppo russo Rusal ha chiuso i battenti, nonostante le promesse di Berlusconi, nell'ultima campagna elettorale per mettere a capo della regione il suo commercialista Cappellacci, di risolvere tutto con una telefonata all'amico Putin. Alcoa ha annunciato di voler riprendere la produzione di alluminio dopo una battaglia che ha visto i suoi operai protestare persino nelle strade di Roma, fino allo scontro fisico con la polizia. Per il momento però è chiusa e ha un contenzioso aperto con Regione, Provincia e Comune di Portoscuso su quanto dovrà sborsare per rimborsare il territorio del disastro ambientale. "Non siamo stati i soli a inquinare", dicono ad Alcoa. E in parte hanno ragione. Basta vedere cosa è diventato il braccio di costa che guarda direttamente all'isola di San Pietro, paradiso naturale e uno dei punti di forza del turismo sardo. I fanghi rossi dell'Eurallumina, concentrati di soda derivanti dalla lavorazione della bauxite, depositati per anni nell'ignavia di chi avrebbe dovuto controllare, occupano una superficie di oltre 120 ettari e buona parte dei suoi 20 milioni di metri cubi sono ormai sprofondati in mare. Da qui, e da altre discariche della zona, nei giorni di levante si alzano nuvoloni gonfi di polvere che va a depositarsi ovunque, fin dentro le case di Portoscuso. L'intera discarica dal 2009 è stata posta sotto sequestro dalla magistratura, ma le indagini sulle responsabilità di questo scempio sono ancora nel vago. "Una grande pattumiera di rifiuti spesso tossico-nocivi, ecco quel che rischia di diventare il Sulcis postindustriale", dice Stefano Deliperi, del gruppo giuridico Amici della Terra. E a supportare questa affermazione gli ambientalisti citano i sospetti che si addensano sull'unica struttura industriale ancora in piedi e vitale: la Portovesme Srl, con le due sedi di Portoscuso e San Gavino impiega millecinquecento operai, una ventina dei quali appena assunti e per questo protetta come una reliquia da sindacati e amministratori locali. L'azienda estrae zinco dai fumi di acciaieria, che sono poi polveri ottenute dall'abbattimento dei fumi dei forni ad arco elettrico, provenienti dall'Europa e anche da paesi come Israele, in cui si bruciano rottami ferrosi. Il problema è che spesso in quei forni, oltre ai materiali ferrosi, finisce di tutto, persino materiale radioattivo, come certificano alcune indagini che hanno seguito negli anni passati proprio il traffico di rifiuti industriali provenienti dai paesi dell'Est. Per cui il sospetto è che dietro il legale acquisto da parte della Portovesme dei fumi di acciaieria si nasconda in realtà una vera e propria attività di smaltimento di rifiuti industriali. Due segnali che ci sia del marcio dietro alcuni traffici sono arrivati forti e chiari anche ai cancelli della Portovesme srl. Nel 2011 e nell'estate scorsa due carichi di polveri di acciaieria contaminate da elementi radioattivi superiori alla norma come il cesio 137sono stati scoperti grazie al portale radiometrico installato dalla società Glencore. Il primo carico arrivava dalla Alfa Acciai di Brescia, il secondo dalla Grecia. I carichi sono stati rispediti al mittente. Anche se l'amministratore delegato della Portovesme srl, Carlo Lolliri minimizza: "Erano meno nocivi di una lastra". E assicura: "Noi prima di procedere all'acquisto dei fumi d'acciaieria, li analizziamo in tutte le sue componenti". "La scoperta di quei due carichi", dice Angelo Cremone, storico ambientalista della zona "è stata fatta grazie al portale radiometrico, che comunque, non dimentichiamolo è di proprietà della Portovesme srl: come dire che il controllato è anche il controllore di sé stesso. Per cui noi ci battiamo perché sia istituita una analoga stazione radiometrica pubblica". Ma quel che preoccupa gli ambientalisti è il passato, neanche tanto remoto. Cosa succedeva quando non c'era nessun controllo? Cosa scaricavano i camion nelle industrie della zona? "Noi abbiamo avuto segnalazioni anonime in passato che dalle acciaierie del nord arrivavano carichi radioattivi. Ecco perché da tempo chiediamo che nelle vecchie discariche come Sa Piramide, in questa collina che si trova proprio davanti alla Portovesme srl, siano fatti carotaggi e rilevamenti radiometrici, per scoprire cosa si nasconde sotto il verde dell'erba". I carotaggi e i rilevamenti nelle tre discariche del territorio, ha detto recentemente la Provincia di Carbonia-Iglesias, sono stati fatti e non è stata trovata traccia di inquinamento radioattivo. Gli ambientalisti, però, restano scettici e chiedono ulteriori e più approfondite analisi. E a supportare i loro sospetti c'è una lettera agli atti della Commissione bicamerale per il ciclo dei rifiuti del 2004. Inviata dalla Provincia di Rovigo, alla Procura della città veneta e alla Provincia di Cagliari, la lettera segnalava che "un carico di fanghi altamente tossici per l'abnorme presenza di cadmio, piombo e cromo totale", e quindi assolutamente da smaltire in apposite discariche, arrivato alla Nuova Esa di Venezia, contestato e ormai chiuso deposito di rifiuti tossico-nocivi, misteriosamente aveva cambiato codice ed era ripartito per la Portovesme srl con la sigla R13: cioè autorizzato a essere usato per il recupero dello zinco. I fumi d'acciaieria arrivano con i container o chiusi in grandi sacconi bianchi. Una volta in azienda una squadra di operai li solleva uno per volta con un muletto e con una sorta di falce li fa precipitare al suolo, da dove poi vengono raccolti e incanalati verso il forno Waelz per essere bruciati ed estrarne lo zinco. Tore Dessì è uno delle migliaia di disoccupati del Sulcis. ma non è un disoccupato qualsiasi. È stato uno dei pochi ad aver protestato contro la Portovesme srl perché preoccupato che le polveri di acciaieria, che lui e i suoi compagni di un'impresa d'appalto lavoravano a mani nude, con scarse e quasi inesistenti protezioni, potessero essere pericolosi. Aveva osato, dice, chiedere che cosa contenessero questi sacconi. Domanda fatale, sostiene da anni, che gli sarebbe valsa il licenziamento. Fallita la ditta per cui lavorava, i suoi compagni sono stati tutti riassunti in una nuova. Lui è stato l'unico a essere tagliato fuori. Da allora, nonostante una lunga protesta in totale solitudine, è rimasto a casa. "Stiamo cercando di trovare una soluzione tecnica a questo problema", dice l'ad Lolliri, che non nega la pericolosa situazione dal punto di vista della sicurezza sul lavoro che finora riguarda quel reparto. L'anno scorso la Portovesme srl ha trattato 215mila tonnellate di fumi di acciaieria, da cui ha estratto quasi tutto lo zinco presente, circa il 25 per cento. Alla fine del ciclo, dice l'azienda, sono avanzate 100 mila tonnellate di scorie, con basse percentuali di zinco. Materiale che è stato portato nella nuova discarica di Genna Luas, dove una vecchia miniera è stata riadattata per il nuovo uso, facendo anche in questo caso imbufalire chi invece vede nelle miniere dismesse e ristrutturate un'ottima occasione per il lancio di un nuovo turismo, sul modello della Ruhr tedesca. Recenti analisi nella discarica dicono che non ci sono elementi radioattivi da segnalare. La discarica di Genna Luas è solo la terza delle discariche utilizzate dalla società della Glencor in questi anni e sta per essere colmata. L'azienda ha avviato le pratiche per costruirne una nuova, sempre nella stessa zona. "L'Italia produce acciaio", dice l'amministratore delegato Lolliri, "e quindi fumi di acciaieria che altrimenti finiscono nelle discariche. Noi utilizziamo impianti tecnologici d'avanguardia e alla fine riduciamo l'impatto nelle discariche". Se è vero questo discorso è vero anche che l'attività di questa industria, come si dice nel progetto di Genna Luas, è legato alla possibilità di avere sempre nuove discariche su cui convogliare le scorie. "Questo vuol dire", chiosa Cremone, "che tutta questa zona, e non solo, è destinata a diventare un'unica grande discarica". Un'affermazione che, pur involontariamente, è avvallata da un dirigente della Portovesme, il quale, rivendicando "l'eticità del riciclo dei rifiuti, anche industriali", si spinge a dire: "Perché non vedere questa parte di territorio come un esempio di raccolta differenziata?". Più chiaro di così.
TUTTO SU NUORO
DICI SARDEGNA: DICI GRAZIANO MESINA.
INGIUSTIZIOPOLI. ANDREA DESSENA.
INGIUSTIZIOPOLI. MELCHIORRE CONTENA.
INGIUSTIZIOPOLI. ANDREA DESSENA.
DICI SARDEGNA: DICI GRAZIANO MESINA
Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato il 9 giugno 2013 dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti, scrive “Il Corriere della Sera”. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Nel corso delle indagini, infatti, gli investigatori hanno scoperto che Mesina aveva già fatto un sopralluogo e fornito dettagli precisi sull'ostaggio ai suoi sodali, così come è emerso dalle intercettazioni. Per diversi mesi infatti, dal 2009 al 2010 Mesina e complici programmarono il sequestro dell'imprenditore di Oristano Luigi Russo «e compirono una serie di atti preparatori tra cui almeno due sopralluoghi nell'abitazione del sequestrando» si apprende dall'ordinanza del Gip. Le indagini che hanno portato all'operazione, condotta dall'Arma provinciale in collaborazione i colleghi di Milano, Cagliari, Oristano, Sassari e Reggio Calabria, dai Cacciatori di Sardegna e dai militari del decimo nucleo elicotteri di Olbia, sono iniziate 5 anni fa. Mesina doveva infatti già finire in carcere nel maggio dello scorso anno per traffico di sostanze stupefacenti, ma l'arresto è stato differito dalla procura di Cagliari per non compromettere le indagini. L'ex ergastolano ha continuato ad essere monitorato fino a questa notte quando sono stati eseguiti i provvedimenti di misura cautelare anche nei confronti di altre 25 persone delle due organizzazioni scoperte dai carabinieri. I militari hanno colpito gli appartenenti a due organizzazioni dedite al traffico di droga ed altro. Dalle indagini è emerso che Graziano Mesina sarebbe stato a capo di quella più pericolosa. Tra i più famosi banditi sardi del dopoguerra, il 71enne è accusato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Mesina è stato sorpreso nel sonno a casa della sorella Antonia, ad Orgosolo. Non si è mostrato affatto sorpreso ed ha mantenuto la calma seguendo i Carabinieri in caserma a Nuoro. Poi sarà portato nel carcere di Badd'e Carros. Dopo l'arresto ha contattato il suo legale «storico», il penalista nuorese Giannino Guiso, con studio a Milano, già difensore dell'ex primula rossa. L'avvocato Guiso, 70 anni, in passato, ha difeso il leader socialista Bettino Craxi, ma anche il brigatista Renato Curcio e il sindaco socialista di Milano Carlo Tognoli. Mesina, secondo gli inquirenti, sarebbe stato capo carismatico di una organizzazione che aveva base a Orgosolo, con disponibilità di armi, e che non si occupavano solo di stupefacenti, ma anche, come detto, di rapine, furti e sequestri. Capo dell'altra organizzazione sgominata dai carabinieri, con base nel cagliaritano, è ritenuto Gigino Milia, con il quale Mesina ha una amicizia risalente nel tempo (sono stati coimputati e condannati rispettivamente per sequestro di persona e ricettazione il 23 giugno 1978 dal Tribunale di Camerino). Graziano Mesina e Gigino Milia, fino al 2010, sfruttando le loro conoscenze ed il credito riconosciuto loro dagli esponenti della criminalità isolana e della penisola, hanno acquistato grosse partite di droga - eroina, cocaina, marijuana - rivendendole a gruppi minori e persone dediti allo spaccio nelle province di Cagliari, Sassari e Nuoro. In seguito, Mesina - sempre secondo gli inquirenti - ha proseguito le sue attività illecite utilizzando canali autonomi di approvvigionamento. Conosciuto per le sue numerose evasioni (ventidue, di cui dieci riuscite) e per il suo ruolo di mediatore nel sequestro del piccolo Farouk Kassam, Mesina, dopo aver scontato 40 anni di carcere e aver trascorso cinque anni da latitante e 11 agli arresti domiciliari, era tornato libero il 25 novembre 2004, avendo ottenuto la grazia dall'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. La lunga storia dei conti di Graziano Mesina con la giustizia comincia nel 1956: «l'ultimo balente» aveva 14 anni e venne arrestato per porto abusivo di pistola e oltraggio a pubblico ufficiale. Ottenne il perdono giudiziale. Da alcuni anni era tornato nella sua Orgosolo, dove aveva avviato l'attività di guida turistica, accompagnando centinaia di persone nelle zone più impervie della Barbagia, luogo delle sue fughe rocambolesche. Sgomento e incredulità ad Orgosolo per l'arresto di Graziano Mesina. Nessuno nel paese barbaricino, a 25 chilometri da Nuoro, si aspettava che l'ex primula rossa del banditismo sardo finisse di nuovo in carcere. «Sono sorpreso, ho appena appreso la notizia dell'arresto e non ho nessun elemento per fare commenti - dice all'Ansa il sindaco Dionigi Deledda - Prendo atto della notizia ma essendo le indagini ancora in corso è meglio non entrare nei particolari della vicenda, non ne conosco i risvolti». Deledda, sindaco in carica dal 2010, ci tiene però a descrivere Orgosolo come un paese tranquillo e Mesina come una persona, da quando era tornato nel suo paese d'origine dopo la grazia, gentile e disponibile con tutti.
Graziano Mesina
• Orgosolo (Nuoro) 4 aprile 1942. Ex bandito. Graziato nel 2004 da Ciampi. «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile ai processi. Ci sarà un motivo. Con alcuni poi sono diventato persino amico».
• «Piccolo, robusto, agilissimo, penultimo di 10 figli, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fai da te» (Alberto Pinna), a quattordici anni fu arrestato per il furto d’un fucile (se la cavò con il perdono giudiziale), a diciotto, a conclusione della festa dei coscritti della classe di leva 1942, distrusse a fucilate un lampione di Orgosolo, il suo paese. «I carabinieri lo presero per la collottola e lo portarono in caserma. Se la sarebbe cavata con poco se non avesse avuto la dissennata idea di darsela a gambe. La “Prima evasione”, nella mitologia mesiniana. Sette mesi di galera, nella realtà della vita del giovane deviante. Il salto definitivo nella grande criminalità ha il più classico dei movimenti. È il 1962 e uno dei dieci fratelli viene assassinato per vendetta. Il ventenne Graziano irrompe in un bar di Orgosolo e spara contro quello che ritiene il responsabile dell’omicidio. Scoppia una rissa. Mesina viene tramortito con un colpo di bottiglia sulla testa. Finisce in ospedale e, non appena si riprende, fugge. Seconda evasione. Alla fine saranno in tutto nove. Quindi i sequestri di persona, le interviste esclusive a viso scoperto, col mitra in mano, e una corte di complici incappucciati attorno. Una sparatoria in campagna, un nuovo arresto. Nel 1968 il mito di Mesina è consolidato. Raggiunge Giangiacomo Feltrinelli che crede di poterne fare il Che Guevara sardo. La trattativa, come era ovvio, non porta a nulla. Ma contribuisce ad alimentare la leggenda e anche la paura quando, nel 1976, Grazianeddu evade dal carcere di Lecce con alcuni terroristi. In realtà della politica non gliene è mai importato niente. Quando, nel 1991, ottiene la libertà vigilata e partecipa alla trattativa per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, s’invischia in una partita pericolosa con i servizi segreti. Poco dopo, nella villetta dell’astigiano dove si è stabilito, irrompono i carabinieri e scoprono un piccolo arsenale: un kalashnikov, due pistole automatiche, un revolver, due bombe a mano, cinquemila cartucce. “Una trappola”, accusa. Ma perde nuovamente la libertà» (Giovanni Maria Bellu).
• «Ero il latitante più ricercato d’Italia ma andavo alle partite del Cagliari nell’anno dello scudetto (1970). Sono entrato allo stadio, sempre travestito, anche da donna». (Alberto Pinna, Corriere della Sera 11/6/2013)
• «Piace tanto a Indro Montanelli, uno dei primi a battersi perché gli venga concessa la grazia. In un giorno del luglio del 1992 il grande giornalista si ritrova faccia a faccia con il bandito. Lui gli racconta aneddoti della sua vita (“Da bambino pescavo le trote con le mani, poi purtroppo fui costretto a usarle per altri scopi”), delle sue fughe “Mi portavano sempre in carceri di massima sicurezza ma non ne esiste uno incompatibile con l’evasione”), di se stesso (“Ero un po’ ribelle, scintilloso come si dice da noi: colpa dei soprusi dei proprietari terrieri e dei giudici”) e poi confessa: “Avrei potuto sparare a Saragat (l’ex presidente della Repubblica), ogni tanto ci facevo un pensierino. Saragat venne otto volte a Orgosolo, sempre per invitare la gente a farmi prendere. Sapevo esattamente dove sarebbe passato l’elicottero e a quale balcone si sarebbe affacciato. Volendo, lo tiravo già come un piccione». (Attilio Bolzoni, la Repubblica 11/6/2013)
• Ha tentato poi l’avventura nel campo del turismo (agenzia 11 Mori): «Voglio far vedere la Sardegna che conosco meglio, la zona di Orgosolo, i sentieri più nascosti, gli scorci più incredibili» (a Gianluigi Nuzzi).
• Nel 2009 una mancata partecipazione all’Isola dei Famosi di Simona Ventura, annullata all’ultimo per «motivi di opportunità». Spesso presente a dibattiti sul banditismo. A Gorizia, nel maggio 2013: «Non voglio mescolarmi con la delinquenza di oggi, senza regole e senza coscienza».
• All’alba del9 giugno 2013 è stato arrestato, insieme ad altre 24 persone, con l’accusa di avere «promosso, costituito, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti». La banda, composta tutta da fedelissimi di Mesina, si sarebbe rifornita di droga in Calabria e a Milano grazie ai contati con la ’ndrangheta e la malavita albanese, per poi rivenderla a gruppi di spacciatori in Sardegna. Sullo sfondo, secondo gli inquirenti, anche l’idea di tornare ai rapimenti.
Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015, scheda aggiornata al 11 giugno 2013.
Mesina story tra evasioni e fughe d'amore. Dopo la grazia, pareva fosse diventato un uomo tranquillo, scrive “Televideo Rai”. Era a capo di una banda di trafficanti di droga. Una vita tormentata, quella di Graziano Mesina, fatta di periodi latitanza, lunghe detenzioni in carcere, molte evasioni, qualche fuga d'amore, e anche tanta notorietà che rischiava persino di farlo diventare una star televisiva. Dopo la grazia, sembrava che fosse diventato un uomo tranquillo, che vivesse di ricordi da raccontare ai turisti che andavano a visitarlo, e invece è tornato, a 71 anni suonati, dietro le sbarre di una cella. Mesina, detto "Grazianeddu", iniziò la sua "carriera" di bandito giovanissimo e giovanissimo finì in carcere. Nato il 4 aprile del 1942 ad Orgosolo, penultimo di dieci figli di Pasquale Mesina, pastore, e Caterina Pinna, fu arrestato la prima volta a 14 anni per porto abusivo d'armi. Poco dopo, fuggì compiendo la prima delle evasioni che lo resero celebre. La seconda fuga risale al maggio del 1962, quando durante un trasferimento dal penitenziario di Sassari si lanciò da un treno in corsa. La libertà durò poco: venne catturato dopo un lungo inseguimento. Nello stesso anno realizzò la terza evasione, questa volta dall'ospedale di Nuoro dove era ricoverato. Per sfuggire alla cattura rimase nascosto due giorni e due notti nel cortile dentro un grosso tubo. La quarta evasione di "Grazianeddu" fu quella dal carcere di San Sebastiano di Sassari. Mesina assieme all'ex legionario spagnolo Miguel Atienza si lasciò cadere dal muro di cinta dell'istituto di pena. Da allora rimase alla macchia fino al 20 marzo del 1968 quando venne catturato a un posto di blocco da una pattuglia della polizia stradale nei pressi di Orgosolo. Trasferito nella Penisola fece parlare ancora di sé per le sue fughe spericolate. Evase, ancora una volta, dal carcere di Lecce nel 1976 e rimase latitante per quasi un anno. Dopo essere stato rinchiuso nel penitenziario di Porto Azzurro per scontare l'ergastolo, l'ex primula rossa del banditismo sardo decise di tenere un comportamento irreprensibile per ottenere il riesame della sua vicenda processuale. Nel 1985 di allontanò dal carcere per una "fuga d'amore" ma venne rintracciato e catturato. Le fughe e i periodi di latitanza di Graziano Mesina contribuirono a costruire il mito del bandito indomabile, un mito che crebbe anche fra le donne e si racconta che spesso si recasse a Orgosolo per incontri con ragazze innamorate di lui. Dopo un periodo di relativo silenzio, Graziano Mesina tornò alla ribalta nel 1992 quando rientrò in Sardegna per occuparsi del sequestro del piccolo Farouk Kassam. La vicenda suscitò polemiche in particolare sul ruolo di Mesina nella liberazione del bambino. L'anno successivo venne rinchiuso definitivamente in carcere dopo che furono ritrovate alcune armi in un cascinale di San Marzanotto d'Asti, dove "Grazianeddu" viveva. Finì di nuovo in carcere sostenendo di essere stato "incastrato" e proclamando la sua innocenza. Dopo un lungo periodo di detenzione arrivò la grazia concessa da Ciampi, dopo diversi appelli, il 24 novembre del 2004. L'ex primula rossa del banditismo sardo tornò alla ribalta della cronaca per le polemiche suscitate dall'annuncio della sua partecipazione, nell'ottobre del 2009, all'"Isola dei famosi", il reality show condotto allora da Simona Ventura. In molti giudicarono inopportuna la sua partecipazione a una trasmissione televisiva di grande ascolto e perciò venne escluso. Mesina rimase quindi in Barbagia a fare la guida turistica e a tutti sembrava che la vita movimentata del bandito fosse per lui solo un ricordo. E invece, i carabinieri hanno bussato ancora una volta alla sua porta.
L'ex capo dell'Anonima in manette per spaccio di droga. E progettava anche di rapire un imprenditore, scrive Gian Marco Chiocci
su “Il Giornale”. L'ultimo ritratto giudiziario dello «zio», come il celeberrimo Graziano Mesina viene rispettosamente chiamato dai presunti complici più giovani, è quello di un uomo «dall'indole violenta», a dispetto dei 71 anni, «eccezionalmente pericoloso» e con una grande leadership criminale. Per la Dda di Cagliari, il bandito gentiluomo che ha fatto la storia dell'Anonima sarda facendosi trent'anni di galera inframezzati da decine di evasioni (ottenne la grazia dal presidente Ciampi) avrebbe allacciato e mantenuto i rapporti con i trafficanti calabresi trapiantati a Milano per importare e spacciare in Sardegna decine di chili di eroina e cocaina, finanziando lo stesso acquisto degli stupefacenti e regolando direttamente i rapporti commerciali coi corrieri. Accuse pesanti quelle riportate nelle carte della procura sarda. Accuse che lasciano perplessi gli addetti ai lavori perché Mesina, la droga l'ha sempre lasciata fuori dai suoi giri criminali. «Oh, tre viaggi: manco uno ne ha pagato... lo sai chi li ha pagati? Io. Ma pagati dalla tasca», dice Grazianeddu intercettato in ambientale mentre si lamenta del tiro mancino che il suo socio Gigino Milia gli ha giocato. Non si presenta agli appuntamenti e non anticipa i soldi per le spese vive, il vecchio amico con cui è stato condannato per un sequestro di persona anni addietro. Con lui, a un certo punto, Mesina decide di rompere. La droga che gli procura fa schifo - scrivono i carabinieri - è di pessima qualità. «Tutta roba che non valeva, era da buttare», ringhia Mesina. Che, a un certo punto, osservano gli inquirenti, medita il grande salto. Come? Mettendosi direttamente in contatto coi grandi narcos sudamericani. Ha già il passaporto in tasca, s'è pure informato sul costo della sostanza («dice che lì la vendono a 5mila euro al chilo», sussurra un complice). E per i viaggi in Sudamerica, ha pensato pure a un alibi di ferro. I viaggi transoceanici, annota il gip, «che non sarebbero certo passati inosservati, egli contava di giustificarli con visite ad un amico, il fotografo Antonello Zappadu (quello degli scatti nella villa di Berlusconi a Villa Certosa) che si era trasferito in Colombia». Ma il progetto naufragherà. L'inchiesta (30 indagati, 25 in carcere e il resto ai domiciliari) si regge quasi esclusivamente sulle intercettazioni. La voce di Mesina esce di continuo dalle attività di monitoraggio delle utenze telefoniche e dalle cimici piazzate nella sua Porsche Cayenne. Ore e ore di conversazioni in dialetto in cui spuntano parole considerate sospette, che gli inquirenti associano al traffico di stupefacenti: «foraggio», «cagnolino», «fieno». Lo stesso ex ergastolano viene ascoltato mentre si lamenta che «la vitella non è tanto grassa e in più ne mancano quattro». Con la droga addosso, però, Grazianeddu non è mai stato trovato. Così come i fucili mitragliatori che spuntano qua e là nelle intercettazioni, che sarebbero nella disponibilità di Mesina. La sua organizzazione, si legge nell'ordinanza d'arresto, si sarebbe estesa presto ad altre attività criminali se ne avesse avuto il tempo. Pare progettasse addirittura un sequestro di persona nei confronti di un uomo che «Mesina programmava di tenere in cattività per un anno prima di iniziare le trattative proponendosi come emissario». E, per chi non onorava i debiti, la vendetta dello «zio» sarebbe arrivata inesorabile come quando avrebbe costretto il figlio piccolo di un uomo che gli doveva dei soldi «a telefonare a suo padre per dirgli che aveva rotto i coglioni ed era ora di pagare». La cosa curiosa è che il notoriamente accorto Mesina, al telefono, straparlava senza alcuna cautela. Forse perché «se avesse trovato qualcuno che metteva delle microspie nella sua vettura l'avrebbe immediatamente ucciso». Eppoi, rimarcano il gip, non avrebbe esitato ad aprire il «fuoco sui carabinieri» se si fosse trovato al posto di alcuni rapinatori di Orgosolo, messi in fuga prima del colpo. Altro che «barbaricino taciturno», Grazianeddu si «è mostrato piuttosto loquace» rivelando ai propri interlocutori «dettagli che essi non conoscevano». E che pure i carabinieri ignoravano.Orgosolo attende la verità su Mesina. "Il nostro è un paese come un altro". La precisazione di Antonia Mesina al microfono del Tg di Videolina ("Mai offerto un caffé alla polizia") continua a far discutere nelle strade di Orgosolo. L'arresto di Grazianeddu ha riacceso i riflettori, ma tra il dedalo delle viuzze illuminate dai murales vivono la vicenda con disincanto. Emerge anche dall'articolo sull'Unione Sarda di Piera Serusi. Un paese orgoglioso, "ma come tutti gli altri", è un commento quasi unanime. Nel corso, al bar, nel dedalo delle viuzze abbellite dai murales, nel piazzale della chiesa, ti aspetti musi lunghi alla vista del cronista ma, nella maggior parte dei casi, così non è. Orgosolo si conferma un paese ospitale anche quando, suo malgrado, si sono riaccesi i riflettori. L'arresto di Graziano Mesina e di altri compaesani ha messo a rumore il paese che, con un disincanto che non ti aspetti, appare sereno, "in attesa che giustizia sia fatta". Emerge dall'articolo pubblicato sull'Unione Sarda di oggi, a firma di Piera Serusi. Ed è emerso dal reportage dell'inviata del Tg di Videolina Mariangela Lampis, in onda in tutte le edizioni del tg. Quanto all'inchiesta, che ha portato in carcere 26 persone con l'accusa - in particolare - di traffico di droga, va avanti con gli interrogatori. Graziano Mesina, l'altro giorno a Badu e' Carros, si era avvalso della facoltà di non rispondere. Ieri a Buoncammino l'avvocato Corrado Altea, coinvolto nell'inchiesta, ha detto: "Ho fatto solo il mio lavoro con clienti che conosco da quasi vent'anni".
Antonia Mesina parla in esclusiva al microfono di Mariangela Lampis. Ecco l'intervista rilasciata al tg di Videolina. Orgosolo. Il paese è ancora frastornato. Gli anziani parlano dell'arresto di Grazianeddu, i giovani si esprimono sulle "loro" piattaforme. Hanno già postato i loro commenti sulla Rete e detto la loro sui social network. In fondo, l'arresto di Graziano Mesina è stato anche un modo per riaffermare una identità forte, troppo forte. In certi momenti storici dileggiata, ma sempre temuta. Orgoloso è più che un Paese. Sono passati appena tre giorni dall'arresto del fratello e forse per Antonia Mesina, lunedì mattina, è stato come rivedere un vecchio film.
(D: domanda. R: risposta)
«Lei si è spaventata quando ha visto le Forze dell'Ordine?», chiede la giornalista di Videolina.
R. «Non lo so se mi sono spaventata o che cosa, vedere tutta quella Giustizia...».
D. «Raccontano però che lei ha preparato il caffè e i biscotti».
R. «E' bugia. Io caffè non ne ho fatto. Io la polizia non la posso vedere neanche. Non mi potevo neanche alzare com’ero. Stia tranquilla che io caffè non ne ho fatto: è bugia quello che hanno scritto».
D. «Cosa è successo allora?»
R. «Io ero seduta nel divano, mio fratello si è alzato mentre hanno frugato la casa. Io non mi sono neanche alzata».
D. «Cosa l'ha infastidita di più di questa vicenda?»
R. «Quello che hanno ordito, è una cosa che hanno ordito».
D. «Lei non ha parlato con nessuno?»
R. «Con nessuno. Non ho scambiato parole con mio fratello».
D. «Lo chiamavano per vendere terreni...».
R. «Certo. Lo chiamavano. Per esempio, hanno fatto la tesi molte ragazze (sul banditismo e sulla figura di Graziano Mesina), sono venute qui a leggerle».
D. «Lui cosa le ha detto prima di essere portato via?»
R. «Mi ha detto di stare tranquilla. Nient’altro».
D. «Ha sentito l'avvocato nel frattempo?»
R. «Ho sentito adesso l’avvocato, che è andato ieri. Poi non l’ho più sentito».
Il legale Corrado Altea, accusato di far parte della banda di trafficanti diretta dall'ex primula rossa, davanti al Gip: "Mesina inferocito è una tigre". L'avvocato Corrado Altea risponde alle domande del giudice per le indagini preliminari Giorgio Altieri e del pubblico ministero Gilberto Ganassi, secondo quanto scrive “L’Unione Sarda”. Il 13 giugno, a Buoncammino, racconta: "L'ultima volta che vidi Graziano Mesina, mi pare fosse la quarta, era terribilmente trafelato. Lo ricordo come fosse oggi: era fine estate del 2009, il 14 agosto. Venne ai Pini, l'ultimo lido del Poetto. Ci mettemmo in un tavolo, bevemmo una birra, mangiammo qualcosa. Mia moglie era terrorizzata, perché Mesina se lo guardate negli occhi quando è inferocito sembra una tigre. Sembra abbia gli occhi anche dietro. Mi disse che aveva questioni con Gigino. Lo voleva uccidere subito". Gip e pm gli chiedono dei rapporti con Gigino Milia, Leone Bruzzaniti, Antonello Mascia, Guido Brignone, Christian Mancosu e gli altri (presunti) affiliati orgolesi, cagliaritani, albanesi e calabresi della banda di trafficanti che, in Sardegna, aveva al vertice l'ex primula rossa. Secondo le accuse, Altea aveva un ruolo importante nel gruppo capeggiato dall'ex ergastolano. Ancora, su Mesina dice: "Lo conoscevo di fama". Il primo incontro è del 2008: "Avevo fatto un processo a Tempio o Sassari e al rientro, sulla Carlo Felice, mi chiamò Gigino. Vieni a pranzo che sono con un amico , mi propose. Era a Zeddiani, lo trovai appartato con questa persona che riconobbi subito. Mi disse che Gigino gli aveva parlato bene di me e che aveva avuto in carcere contatti con alcuni miei clienti che avevano fatto altrettanto, così mi chiese: se malauguratamente ho bisogno, tocchiamo ferro, posso rivolgermi a lei? Io accettai, ritenevo prestigiosa la sua difesa". Poi vi fu l'episodio del Poetto a Cagliari, quello della tigre inferocita. Graziano Mesina voleva ammazzare Gigino Milia, considerato il capofila della banda parallela di trafficanti di droghe, scrive “La Nuova Sardegna”. Il bandito di Orgosolo ce l’aveva con lui, voleva farlo fuori subito. Era l’estate del 2009 e il bandito di Orgosolo cercò con insistenza Corrado Altea, l’avvocato finito in carcere nell’inchiesta della Dda con trenta arrestati e nuovi indagati in vista. Ed è stato proprio il penalista originario di Arbus a raccontare, nel corso di un’esame di garanzia durato quasi cinque ore, quell’incontro dai contenuti forti avvenuto al chioschetto i Pini, sulla spiaggia del Poetto: «Mia moglie Silvia era terrorizzata - ha riferito Altea al gip Giorgio Altieri e al pm Gilberto Ganassi - perché Mesina, se lo guardate negli occhi quando è inferocito, sembra una tigre». Il contenuto del colloquio lascia poco spazio alle congetture: «Mesina - ha raccontato il legale - mi disse che aveva questioni con Gigino. Te ne parlo perché sei il suo avvocato, disse, io lo devo ammazzare. Dimmi dov’è, perché quando mi viene a trovare viene con la moglie e i figli, che mi mette davanti come scudo e io non posso ammazzarlo». Altea, così ha raccontato, cercò di mantenere il controllo: «Mi chiedeva dove si trovasse e io ho gabbato, ci siamo bevuti una o due birre, ho cominciato a dargli del tu, una cosa per avvicinarlo. Graziano, gli ho detto, io non voglio sapere che questione avete voi due, però se è una questione di interesse, soldi o altra cosa non grave se ne parla, capperi! Avete fatto quello che avete fatto insieme, si può risolvere». Altea ha fatto riferimento a una rapina compiuta negli Anni Settanta, Mesina e Milia insieme, a una bisca del temibile boss milanese Francis Turatello: «Ci vollero dei pazzi come loro... lo seppi perché me lo disse il portinaio di corso Sempione, la bisca era piena di stecche di sigarette e il portinaio, un po’ più furbo di loro, sapeva dove tenevano l’oro e gli orologi, lasciati in pegno dai giocatori. Fecero man bassa». Tornato al presente, Altea ha illustrato la sua opera di paciere: «Calmati un attimo, se sei disposto a ragionarci su ti porto Gigino dove vuoi, però risolvetela pacificamente, la questione». Sarebbe stato questo, secondo Altea, l’ultimo incontro con Mesina: «Da allora non l’ho più visto, né tantomeno ha ammazzato Gigino. Si è calmato, non so come abbiano risolto i loro rapporti». I magistrati gli hanno chiesto di precisare le ragioni di quella lite finita senza sangue. La risposta: «Mesina mi ha detto solo che erano questioni di tanti soldi che lui avanzava da Gigino». Fin qui il rapporto Altea-Mesina, che per la Dda e per il gip Altieri è ampiamente provato come sodalizio d’affari tutt’altro che puliti. Ma nel corso di un monologo che copre undici delle venticinque pagine del verbale dell’esame di garanzia, l’avvocato - assistito dai colleghi Giuseppe Duminucu, Daniele Condemi e Jacopo Ruggero Porcu - ha cercato di chiarire uno per uno ciascuno dei rapporti sospetti che gli vengono attribuiti nell’ordinanza d’arresto. Con un dato generale di partenza: «Se tu vuoi essere l’avvocato dei grossi traffici (di droghe, ndr) ti devi prestare a questo gioco qui... io non mi sono prestato, ero un po’ ingolosito ma ho detto basta». La tesi difensiva è semplice: Altea era l’avvocato storico di Gigino Milia, trafficante conosciuto e temuto. Attraverso Milia il legale, arrivato in Sardegna dopo una lunga e lucrosa attività professionale in Lombardia, ha conosciuto altri personaggi della mala locale e nazionale. Da allora lavora borderline ma lavora e basta, segue le vicende giudiziarie per rimediare denaro, perché i clienti scarseggiano: «Ero arrivato a Cagliari a novembre del 1999 con un miliardo e centomila lire sul mio conto, me li sono fulminati». Poi sono arrivati i guai («subornato da Luigi Lombardini») e le conseguenti difficoltà: «Mi hanno veramente avvelenato - ha ricordato Altea, davanti ai due magistrati - poi ho superato questa forma di avvelenamento, dallo psicanalista non ci sono andato e ho cercato di reinserirmi chiedendo a Gigino. E guardate che cosa ho avuto». Quindi vittima del suo stesso cliente storico, di chi gli ha aperto la strada nei tribunali sardi per poi trascinarlo - così ha fatto capire - nella zona grigia tra professione e malavita: «Adesso ho capito - ha detto Altea ai giudici - dalla lettura dell’ordinanza ho capito che Gigino, approfittando della familiarità che aveva con me, mi ha strumentalizzato». Ma in realtà il rapporto era solo professionale: «Emerge chiaramente - ha sostenuto l’avvocato Condemi - che il collega non si è arricchito nell’attività, emerge che sia stato strumentalizzato e sia vittima di queste persone. Lui ha dato biglietti da visita, era certo di aver svolto attività di difensore».
In carcere per 40 anni, poi la grazia. Grazianeddu: "Ora dovrò fare qualcosa". Mesina venne scarcerato a Voghera nel novembre del 2004: ecco il racconto di quelle ore fatto dal giornalista Giorgio Pisano su L'Unione Sarda dell'epoca. Il 25 novembre del 2004, il giorno dopo la grazia concessa dal presidente della Repubblica Carlo Atzeglio Ciampi, Graziano Mesina tornava a essere un uomo libero dopo essere stato rinchiuso per anni nel penitenziario di Voghera. Ecco l'articolo di Giorgio Pisano che su L'Unione Sarda del 26 novembre di quell'anno racconta i momenti successivi alla scarcerazione.
L'altro mondo è a un passo, oltre la cancellata di sette metri, oltre gli agenti della polizia penitenziaria, oltre la vigilanza armata. Graziano Mesina, le braccia piegate da tre enormi bustoni di plastica, si guarda intorno sperduto. Porte aperte, anzi spalancate: ma lui sta fermo. Passetto avanti e uno indietro. Fuori lo aspetta un esercito di telecamere e fotografi. Affamati. Tentenna per un secondo, poi si ricorda d'essere un balente di Barbagia e avanza lentissimo. Sono quasi le tredici. Intorno al carcere, la nebbia agli irti colli buca il cielo piombo. Fa freddo, c'è umido, si respira facendo le nuvolette di vapore. Graziano è perplesso. Ciccìa di lana scura, giaccone a vento marca Passport, jeans e naso che cola. «Scusate, sono raffreddato». Per quanto possa sembrare banale e deludente, sono le sue prime parole da uomo libero. Ballore, il fratello maggiore, gli è venuto incontro al volante d'una vecchia Punto: vorrebbe portarlo via saltando la stampa. Vetri appannati e finestrini rigorosamente serrati, finge di non vedere il grappolo di microfoni toc toc, finge di non sentire l'inviata di Studio Aperto che accentua le labiali nella speranza di essere notata: Studio Aperto. Stu-dioAper-to, capisce signor Ballore? No, che non capisce. Intanto la retroguardia cede: al momento di aprire il baule per gettarci dentro le sue valigie vuoto a perdere, Graziano viene chiuso in angolo. E adesso, che gli piaccia o no, deve parlare. Certo che è contento, no che non se l'aspettava, sì che gliel'avevano annunciato, no che non vuole ringraziare. «C'è tempo per quello». Due parole per Ciampi? «Poi». Per il ministro Castelli? «Poi anche lui». Prospettive? «Non ne ho. Per il momento vado a salutare dei parenti». Dove? Interviene Ballore, strategia preventiva, filo di voce: «Destinazione ignota». Bugia: lo sanno tutti che la meta provvisoria è Crescentino (per pranzo), salutare cognata e nipoti, transito a Milano per un replay ad altri parenti e tappa conclusiva a Orgosolo. E dopo? «Questo è tutto un altro discorso». Pressato da altre domande-chiave («E' contento?, si sente felice?, qual è il primo pensiero che le è venuto in mente?»), Mesina intuisce che i giornalisti non hanno più niente di serio da chiedergli e si prepara alla fuga: «Se adesso mi volete scusare...».Scusato, ma non è finita. E' solo la conclusione del primo tempo, in attesa di interviste lunghe, racconti in esclusiva, reportage sulla primula rossa di Barbagia. Che appare, a dirla tutta, un po' ingrigita al di là dell'anagrafe (sessantadue anni). E appesantita da una vita, giocoforza, sedentaria. La giornata d'attesa, dopo la concessione della grazia firmata dal presidente della repubblica e controfirmata dal ministro della Giustizia, è cominciata presto. Alle 8. Sotto un freddo a cinque gradi, il primo nucleo s'è appostato davanti all'ingresso del carcere (garitta blindata, sbarra abbassata e nessuno osi avvicinarsi): c'era la certezza che di lì a poco Graziano Mesina sarebbe apparso, finalmente libero dopo quarant'anni di galera. Al suo posto si fa vivo il nipote, Tonino Pisanu, 35 anni, orgolese silenzioso e discreto. Vorrebbe non parlare. Vorrebbe. «Ringraziamo il capo dello Stato e Castelli per aver consentito che Graziano, dopo una breve e vecchia parentesi di libertà, possa definitivamente tornare a casa. Gli ultimi dieci anni trascorsi in carcere sono stati molto, molto più pesanti dei trenta precedenti». Mentre si chiacchiera infiorettando episodi della sua vita da fuorilegge, giusto per rinverdire l'epopea di Sardegna perché banditi, arriva un macchinone scuro. Ne viene fuori l'avvocato Enrico Aimi, che saluta con affabile cordialità e promette: torno subito. S'infila in guardiola e scompare dietro un portone blindato. Quasi tre ore più tardi, eccolo che torna. Palesemente turbato, anzi proprio infuriato. Solenne come un notaio davanti a uno stuolo di eredi, dichiara gelido: «Graziano Mesina è ufficialmente libero. Pochi minuti e lascerà il carcere. Questo è tutto quello che abbiamo da dire». Passo e chiudo. Salta in macchina e fa per andarsene fino a quando un cronista non gli blocca la strada come un ribelle cinese in piazza Tienamen di fronte ai carri armati. Scusi, non è che ha litigato con Mesina? «Quando mai». Allora perché non lo aspetta, perché se ne va? «A più tardi». L'avvocato Aimi non vuol raccontare quel che è accaduto quando s'è presentato alla guardiola della casa circondariale. Incaricato da una signora sardo-modenese (Greca Deiana) di occuparsi del caso, è entrato a passo di bersagliere: nel momento sbagliato. Ha chiesto del suo cliente: «Voglio vederlo». Manco per sbaglio: l'ordine di scarcerazione non era ancora arrivato e dunque niente visite. In seconda battuta, visto che gli agenti non sembravano solidali e commossi, ha proposto sicuro: «Vabbé, passatemelo al telefono». Quando si è sentito dire no per la seconda volta, ha vacillato. A seguire, s'è offeso. E senza aspettare cliente e scarcerazione, se n'è andato. I registri di Voghera dicono che non risulta essere «difensore di fiducia» e che ha avuto con Mesina due colloqui: uno nel 2001 e l'altro nel 2003. Insomma, c'era e non c'era. Mentre il suo avvocato sgommava nel desolante vialetto dell'addio, Graziano Mesina - secondo braccio, cella singola numero cinque - è stato informato alle 9,35 in punto dello straordinario regalo di Natale piovuto da Roma: la grazia. Nello stesso istante, è stato informato anche della gente che aspettava fuori. Sos. Ha chiesto di telefonare a Ballore: «Vieni a prendermi per favore». Ballore, che arriva molte ore dopo da Crescentino, avrebbe voluto entrare fin dentro il cortile, oltre le sbarre, ma gli viene impedito: vietato l'accesso agli estranei. Così, resta lì, di fronte all'ingresso, proprio in mezzo: tra Graziano e i giornalisti. Tanto vale, a quel punto, subire qualche minuto di supplizio. Ressa, spintoni intorno alla macchina,urla: Mesina vieni a dirci una cosa. Mesina tace. Allora si cerca un sardo per ripetere l'appello in limba, lessico familiare: chiamatelo in dialetto, magari risponde. Difatti lo sventurato saluta timidamente con la mano. E aspetta, sorrisetto di circostanza, la prima domanda: ha dormito stanotte? «E' da quattro notti che non chiudo occhio». Ansia per la liberazione? «No, influenza. Ho il naso tappato». Ma ansia niente niente? «Beh, un po' sì: in questi casi capita sempre, no?» Quando ha saputo? «Ieri. E ho detto: vediamo, se è vero, dovranno scarcerarmi». In realtà, Mesina era al corrente della faccenda da almeno una settimana, cioè da quando il direttore del carcere gli ha fatto sapere (ufficiosamente) che il ministro Castelli aveva espresso parere favorevole alla concessione della grazia. Voce baritonale nella calca: scusi Mesina, ma la grazia non l'avevano respinta? Domanda non raccolta, non è l'ora dei veleni questa. E nemmeno dei programmi per il futuro: «Un lavoro? Qualcosa dovrò fare, sicuro. Ma non so cosa». Tornerà a vivere ad Orgosolo? «Non ne ho idea. Sono appena uscito, datemi il tempo di pensare». Anche questa è una piccola omissione: aspettando la grazia (senza sperarci troppo perché in cella l'illusione può uccidere), Graziano ha programmato da tempo la sua prima settimana da uomo libero. «Appena possibile, voglio andare in campagna. Sentirne gli odori. A forza di stare in carcere, mi stanno uscendo dalla memoria: e questo mi dispiace». Inseguito da una cascata di parole, mostra stanchezza e s'immerge in macchina. Ultimo ciao e via, braccato da una pattuglia di inviati che spera (inutilmente) di bloccarlo lungo l'autostrada. Il freddo resta, il piazzale si spopola. Rimangono, divertiti e soli, dieci agenti: hanno perso il detenuto più importante di una galera che conta 250 ospiti e nemmeno un nome famoso. Quanto a Mesina, che dire? «Brava persona. Era qui da cinque anni, mai un verbale». E nemmeno un permesso premio, a voler essere precisi. Fino al giorno dei giorni.
Il vero volto di Graziano Mesina. Il Mesina boss emerso da questa inchiesta non è diverso dal Mesina brigante che aveva affascinato molti intellettuali: Grazianeddu appartiene ancora anche oggi a un mondo - quello della Barbagia - in cui i valori sono capovolti, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Emerge dalla notte dei tempi il volto segnato e antico di Graziano Mesina e fa quasi tristezza. Comincia bandito, finisce boss. Ma in fondo il bandito è tale, bandito buono o bandito sociale secondo la mitologia che appartiene a tutte le latitudini e a tutti i tempi, anche quando perde l’autenticità delle sue radici popolari e nelle cronache giudiziarie acquista il volto scontato dei furfanti ordinari. Mesina è tornato dietro le sbarre per traffico di quella droga che da bandito buono diceva di odiare. È stato in galera per più di 40 dei suoi 71 anni, 9 ai domiciliari o in libertà vigilata, e 5 di latitanza con le ben note parentesi giornalistiche degl’incontri nel profondo della Sardegna con il campione dei giornalisti, Indro Montanelli, cinicamente affascinato da briganti, dittatori e guerriglieri. Mesina boss non è diverso dal Mesina bandito, dal Mesina amico degli 007, dal Mesina mediatore nei sequestri di persona dopo essere stato sequestratore, dal Mesina che rivendica (anche in questo caso in aderenza a un immaginario banditesco consolidato) un senso suo di giustizia e ingiustizia che gli fa ammazzare un assassino per vendicare non solo la vittima ma gli innocenti condannati al suo posto, dal Mesina che libera il figlio di un sequestrato infilandogli in tasca mille lire per prendersi un gelato. Il boss, la parte cattiva, la faccia disgustosa della medaglia, fa parte dell’uomo. Il bandito buono è cattivo. Il bandito cattivo è buono. Mesina è un reduce, appartiene a quel mondo in cui i valori sono capovolti ma sono valori. Al mondo contadino. Al mondo della Sardegna che è un mondo a parte. Duro. Terreno. Terreo. La cronaca ci riserva ogni tanto queste parentesi di letteratura. Banditi che sono protagonisti di romanzo. Anche se lo squallore incalza pure lui. Ecco perché non mi piace il modo facile di tanti di raccontare la degenerazione del bandito in boss. Fu geniale da parte sua inventarsi una seconda vita da guida per i turisti tra Barbagia e Gennargentu. Sarò forse “montanelliano”, ma non riesco a vedere il boss. Io vedo ancora, dietro il volto invecchiato (male) dell’ex brigante, un “balente” della Sardegna. L’ultimo bandito.
Quel giorno che Mesina mi sequestrò per scherzo, scrive Gianluca Nicoletti su “La Stampa” del 6/luglio/2005. Una giornata di otto anni fa per le montagne di Orgosolo. Come guida Grazianeddu allora da poco uscito di carcere. Graziano Mesina, assieme ad altre 26 persone di varie parti della Sardegna, è stato arrestato all'alba dai carabinieri di Nuoro nell'ambito di un'operazione che ha condotto allo smantellamento di due associazioni dedite al traffico di stupefacenti, ma anche a rapine e furti. In progetto c'era anche un sequestro di persona. Otto anni fa era stato da poco graziato quando lo intervistai per “La Stampa”. Mi fece visitare per una giornata intera i luoghi segreti della sua epopea di bandito. Allora sembrava davvero che per lui quello fosse un capitolo chiuso...
La montagna è subito fuori da Orgosolo, saliamo tra i lecci e il ginepro, il viottolo termina sullo spuntone di roccia. Graziano Mesina si gira e dice serio: “signori ho una notizia per voi, siete sequestrati!” Nemmeno un istante dopo scoppia a ridere. Un fuoristrada appare dal tornante, riconoscono Grazianeddu, i due pastori salutano e lui insiste: “li ho sequestrati, non dite niente a nessuno!” Quelli proseguono muti. Oggi la Primula Rossa del Supramonte ci scherza sopra, ma quelle gesta gli hanno fatto passare quarant’ anni di vita dietro le sbarre. “Ecco lì sotto mi ero fatto un mio poligono di tiro, dovevo pur esercitarmi per stare in allenamento!” E i soldati che la braccavano? “Sentivano, sentivano, ma restavano la sotto, andremo a vedere-dicevano- ma domani.” L’ indomani certo lui non ci sarebbe stato più. Capace, come dice, di camminare senza fermarsi mai sette giorni e sette notti di seguito: “Mangiavo camminando, venivo qui da Nuoro in due giorni e mezzo, poi continuavo, con trenta chili sulle spalle di armi e munizioni.” Una semplice gita con amici sardi tra boschi e placidi armenti? No, piuttosto un sopralluogo sul terreno di battaglia decenni dopo la fine di una grande guerra, nemmeno tanto eroica. Da una parte rastrellamenti e violenti arresti in massa, dall’ altra famiglie sgrassate e ostaggi che, se tornavano liberi, erano larve umane, umiliati fino all’ inverosimile. Per l’ antico capo dei briganti ogni cespuglio offre lo spunto per evocare un ricordo. Tra amnesie strategiche e reticenze racconta di fughe nella notte, sparatorie, marce forzate, ostaggi nascosti o da rapire. Il suo fisico è appesantito rispetto ai tempi in cui era il fuorilegge inafferrabile, il re di Orgosolo. Da quando è stato graziato, sei mesi fa, però ha già perso dieci chili e conta di mettersi presto in forma: “nulla fa dimagrire come correre tra gli alberi di notte -e indica un orrido scosceso fitto di rovi e tronchi. Poi si arrampica veloce sulle pietre e vorrebbe che lo seguissimo fino al cucuzzolo che ci si para davanti. E’ Monte Novo S.Giovanni, una torre di pietra dove in passato si celebrava la festa di Santu Juvanne ´e sos sordadeddonos. Sembra un castello frastagliato di merli, in alto volano silenziosi i corvi con le ali distese e il sole al tramonto infuoca le montagne: “Su questa roccia spesso vedo turisti in difficoltà. Arrivano a metà, poi il vento che soffia forte mette loro paura. Una volta ho chiesto a una coppia se volevano aiuto, ma mi hanno riconosciuto e non sapevano che dire.” Da quelle parti si parla da tempo di fare un grande parco nazionale, naturalmente la gente di Orgosolo non è d’ accordo. Me ne ero accorto vedendo in paese un murale che rappresentava avvoltoi: “questi sono gli animali che proteggerà il parco!” chiosava minaccioso. Anche Mesina è contro il parco e questo basti: “Non serve, qui è già tutto protetto!” Ride, ma fa capire che su quel territorio c’ è già lui come salvaguardia, nessuno ci provi a sostituirlo. Quel paesaggio lo ha reso invulnerabile, a quattordici anni restava solo per mesi nello stazzo in mezzo alla neve, gli servirà poi a sopportare l’ isolamento, le celle di rigore, a saltare mura scardinare sbarre, tornare illeso dopo una sparatoria:” una volta avevo due buchi nel cappuccio, una pallottola aveva rotto il cinturone, un’ altra si era infilata in una scarpa…” Conosce ogni arbusto e sa tutto di ogni animale, vegetale e minerale che incontriamo per strada. Incrociamo una mandria di maiali scuri e setolosi che pascolano liberi: “questi secondo loro dovevano essere abbattuti tutti, per un solo caso di peste suina. Non è giusto.” Poi racconta dei mufloni, delle vacche, delle piccole trote che si pescano con le mani nei torrenti. Gli avvoltoi giganteschi che non si vedono più, i falchi che sono stati tutti catturati per essere venduti nei paesi arabi dove li usano ancora per cacciare. Sa ogni segreto di quella montagna, anche perché ci si è nascosto e ci ha nascosto dentro tanta gente: “Quello lo avevo messo in compagnia, giocava a carte e stava bene, poi un giorno gli ho fatto uno scherzo. Gli ho detto oggi puoi ordinare tutto quello che vuoi da mangiare, chiedi e te lo portiamo. E così fu, tutto quello che più gli andava lo abbiamo portato, mangiava soddisfatto quando sul più bello gli dico: tutto questo però costa caro, vorrà dire chiederemo alla tua famiglia cinquanta milioni in più di riscatto! Gli è andato il boccone di traverso, ha cominciato a strillare e a dire che non voleva più mangiare…” Già, ma chi era il fortunato? Tra i tanti a cui ha chiesto il riscatto questi era Giovanni Campus, possidente di Ozieri sequestrato il 7 marzo 1968, dieci giorni dopo per “fargli compagnia” a lui si aggiunse anche Nino Petretto, rapito in un agguato. I due erano talmente provati dall’ esser trascinati per le montagne che a un certo punto non ce la facevano più e nella disperazione dissero ai rapitori di volersi suicidare per non continuare con quello strazio: “Volete ammazzarvi? Ecco la pistola- racconta Graziano- ma quei due dicevano fallo prima tu! No fallo tu! Insomma non si decidevano mai, dissi che se volevano li avrei aiutati con il mio mitra, ma avevo capito subito che non avevano nessuna voglia di morire.” I vicoli di Orgosolo sono pieni di gente che fotografa tutto, le ragazze del posto hanno l’ ombelico di fuori come nel resto del mondo, ma i pullman di turisti ancora vengono per conoscere il paese dei banditi, soprattutto ora che è tornato lui. Tutta la promozione locale vorrebbe puntare su gastronomia e folklore, ma la gente che arriva chiede di vedere la casa dove è nato Mesina. Lui si rende conto di essere un monumento vivente, mi porta sulla terrazza belvedere. Oltre lo strapiombo il teatro dei peggiori scontri a fuoco tra le forze dell’ ordine e i banditi. Graziano come un generale in pensione illustra le posizioni delle truppe: “laggiù nel 67 c’ erano seimila baschi blu, un vero esercito e io li guardavo dall’ alto.” Era il mese di giugno e i reparti speciali avevano circondato il paese, ci fu quella che chiamarono “la battaglia di Osposidda”. Mesina si salvò riempiendo di pietre lo zaino e facendosene scudo: “io da solo avrò sparato otto-novecento colpi e tirato almeno venti bombe a mano.” Fu uno scontro epico, le cronache raccontano che i proiettili dei mitragliatori dei soldati arrivarono fino alle prime case del paese, la gente di Orgosolo guardava il combattimento affacciata ai balconi. Due militari restarono stesi sul campo, la nostra guida ricorda ogni particolare: ”Lassù furono uccise le due guardie, me le attribuirono, ma era stato uno di loro a sparagli contro per sbaglio. Invece dietro quella collina hanno ferito lo spagnolo...” Fu la volta che il suo luogotenente Miguel Atienza ci lasciò la pelle. Era un ex soldato franchista fuggito dalla Legione Straniera, Mesina se lo era portato dietro quando evase dal carcere di Sassari nel 66. A Osposidda quando lo vide ferito se lo caricò sulle spalle fino alla montagna: “Poi la notte sono sceso in paese a sequestrare un dottore per curarlo, ma non servì a nulla morì due giorni dopo.” Graziano non ha mai nascosto il suo debole per le donne, anche se non si è mai sposato: “venivano a trovarmi in carcere, erano spesso bellissime e anche ricche, dicevano che mi avrebbero aspettato, ma cercavo di far capire a tutte di lasciar perdere, io non avevo futuro, ero un ergastolano. Per starmi accanto una di loro voleva comprare una villa vicino ad Asti dove io ero recluso.”Sono leggendarie le migliaia di lettere che riceveva da femmine di tutto il mondo, ci fu chi cercò di acquistarle per farne un fotoromanzo, ma quelle Graziano non le ha mai volute dare a nessuno: “Poco tempo fa a casa di mia sorella ne ho ritrovata una cassa piena, lettere ancora mai aperte, erano arrivate trenta e più anni fa, io non c’ ero e me le avevano messe da parte.” Chissà che fine avranno fatto le maliarde che negli anni 60 da tutto il mondo si struggevano per il bel bandito barbaricino. Mandavano richieste di fuoco e …denaro, come se la passione avesse un prezzo: “C’erano marchi, dollari, piccoli oggetti d’ oro, ma le turiste straniere venivano anche fino a casa mia, soprattutto tedesche, chiacchieravano con mia madre e parlavano di futuri figli. Lei rispondeva che ne aveva avuti undici, che erano una bella cosa.” Fino a che un giorno la mamma capì che era il suo Graziano che le vichinghe avrebbero voluto come fecondatore. Nessuno si scandalizzi, ma la provetta era ancora da venire, si trattava di arcaica carnale follia, per cui da bandito a eroe il passo è sempre assai breve.
Quando Mesina disse a Cagliari: "Con i sequestri e le cazzate ho chiuso". Ma cosa succede in Sardegna. Cosa combina Grazianeddu o meglio cosa avrà combinato per l'ennesima volta? Si chiede Marcello Polastri. Ex primula rossa dell'anonima sequestri, incarna il carattere schivo ma anche vendicativo di una certa Sardegna. Poi divenne un bandito redento. Ed ora l'ennesimo arresto. Lui che, graziato da Ciampi e quindi perdonato dall'Italia, per i tanti reati di una gravità assoluta, entrando nel bene e nel male (più nel male che nel bene...) a far parte della storia d'Italia, rifinisce in manette. Lo incontrai in un bar di Cagliari, a due passi dalla Torre dell'Elefante e mi disse "con i sequestri e le cazzate ho chiuso, mi dò al turismo e alla comunicazione colta". Per un attimo, mentre lo intervistavo, sono stato colto da un grande sospetto: e se mi piglia per il sedere? Poi mi chiese un obolo per l'intervista che mi rilasciò, e la mia reazione è stata: non se ne fa nulla, ciao a Mesina, addio all'intervista che ancora conservo e che forse mai pubblicheremo. Ed ora un nuovo sospetto esternato dai Carabinieri. Stava per davvero progettando un nuovo sequestro? Padre pastore e madre casalinga, Mesina subì il suo primo processo all'età di soli 14 anni. Il resto è storia risaputa permeata anche dalla leggenda. Lui che, dopo il carcere duro, da qualche anno è divenuto anche sotto i riflettori che non ha mai amato, una guida, in senso turistico, della sua Orgosolo. Rilasciò qualche intervista mentre accompagnava la gente alla scoperta di quel paradiso terrestre a due passi da Oliena e da Dorgali, nella Barbagia delle grotte e dei dirupi. Poi è divenuto, sempre di recente, conferenziere in tanti colti eventi sulla criminalità. La criminalità che Mesina conosceva evidentemente bene. Lo hanno visto nel convegno di Gorizia: è intervenuto sul processo di Farouk Kassam. In quell'occasione, era il 27 del mese scorso, Grazianeddu ha asserito di esser stato lui a dare un indispensabile contributo alla liberazione del piccolo Farouk, evitando un conflitto a fuco con la polizia dal quale, diciamolo chiaramente, possiamo ipotizzare che Mesina ne sarebbe uscito disteso. La Polizia lo ha lasciato fare, forse. Allora come oggi. E come sappiamo, la giustizia, prima o poi, ti presenta il conto. Così, uscito dal carcere, sorvegliato speciale con quell'intelligente strumento di prevenzione e spionaggio dell'intercettazione telefonica, è stato pizzicato in fallo. Ancora una volta. Ed è finito in manette. Già. Sarà l'ultima volta? Intanto via a un nuovo processo, ad una nuova valanga mediatica. Ne riparleremo.
Perché fa così scalpore che Mesina torni in cella? Si chiede Giorgio Dell'Arti. Pensare che appena due settimane fa Graziano Mesina era a farsi intervistare al Festival della Storia di Gorizia, quest’anno dedicato ai banditi, e faceva la parte del malavitoso di charme, che però l’ha fatta finita con la vecchia vita e adesso porta i turisti a passeggio per la Barbagia. Invece l’hanno arrestato, lo accusano di traffico di droga e di aver progettato un sequestro di persona. In pratica sarebbe un capo-banda.
Ma quanti anni ha?
Settantuno. È nato a Orgosolo (in provincia di Nuoro) il 4 aprile del 1942.
E a settantun anni…?
Infatti il sindaco della città, Dionigi Deledda, s’è detto «molto sorpreso, anche se non voglio entrare nel merito della vicenda». Ora, i carabinieri dicono che l’indagine durava da cinque anni, è stata una grossa operazione, trecento uomini mobilitati, intercettazioni. I militari e il magistrato che li guida raccontano che in Sardegna operano due organizzazioni dedite al traffico di droga con il continente e Mesina sarebbe il capo della più importante delle due. Il tramite sarebbe l’avvocato Corrado Altea, di anni 62, che tirava fuori i primi soldi per la droga e, approfittando del suo studio, raccoglieva informazioni che poi passava a Mesina e al suo alleato Gigino Milia. C’è poi la storia di una progettato sequestro di persona, di cui avrebbe dovuto essere vittima Luigi Russo, imprenditore dell’abbigliamento all’ingrosso e accessori. Secondo i carabinieri, uomini del duo Mesina-Milia andarono anche a fare sopralluoghi nei dintorni della casa del sequestrando. E c’è una telefonata di due anni fa in cui tale Giovanni Filindeu e Mesina parlano della possibilità «di portare via la moglie e i figli» a una persona di cui non si fa il nome. Nella retata di ieri sono state messe in carcere 25 persone. Aspettiamo gli sviluppi per saperne di più. Mesina, intanto, s’è rivolto per la sua difesa all’avvocato Giannino Guiso, sempre sui giornali un tempo, perché, oltre a difendere lo stesso Mesina, s’era preso cura di Craxi, del brigatista Renato Curcio e dell’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli.
Il fatto è che questo Mesina, che fa tanto clamore, emerge da un passato lontano, sono certo che la maggior parte dei nostri lettori, gente giovane, abbia al massimo una vaga idea della persona di cui stiamo parlando.
Beh, l’ultima volta le cronache se ne sono occupate all’epoca del sequestro Kassam. Sa di che si tratta?
Veramente…
Farouk Kassam di sette anni, figlio di Fateh Kassam, un belga di origine indiana che gestiva un grande albergo di Porto Cervo. Il 15 gennaio del 1992 i banditi fecero irruzione nella casa dei Kassam e portarono via il bambino. Detenzione di quasi sette mesi, durante la quale i sequestratori, per mostrare che facevano sul serio, tagliarono al piccolo la sommità dell’orecchio sinistro. Il 10 luglio, finalmente, la liberazione, grazie proprio all’intermediazione di Mesina (messo da poco in libertà vigilata), che quella volta si mise in rete con i nostri servizi segreti e fu terminale di una trattativa di cui non s’è mai saputo granché. Il capo dei sequestratori era Matteo Boe, poi condannato a 20 anni. L’Italia riscoprì allora questo lato di Mesina, facendosi l’idea che fosse un bandito ravveduto, come abbiamo del resto creduto fino a ieri, anche se era finito in galera un’altra volta per via di un deposito d’armi che i carabinieri gli avevano trovato nella villetta dell’astigiano dove era andato a vivere. Per quel deposito, s’è sempre proclamato innocente («m’hanno incastrato»). Alla fine, nel 2004, Ciampi lo ha graziato.
Ma perché è tanto famoso?
Soprattutto per le evasioni. È scappato nove volte. I carabinieri lo conoscevano già, perché a 14 anni aveva rubato un fucile e se l’era cavata col perdono giudiziale. Ma a 18 anni, al termine di una festa, si mise a sparare su un lampione, distruggendolo, e i militari lo portarono in caserma. Probabilmente gli avrebbero fatto poco o niente, ma Graziano fece la scemenza di scappare (prima evasione), finì dentro per sette mesi e lì si rovinò per sempre. Quando gli ammazzarono il fratello, andò a farsi giustizia da sé, spalancò la porta del bar di Orgosolo dove si trovava il presunto assassino e lo riempì di pallottole. Aveva vent’anni. Da allora è stato un viavai nelle carceri di tutt’Italia, inframezzato da evasioni, sequestri, interviste ai giornali, storie d’amore con le solite donne che vanno pazze per i mascalzoni, tutto quello che ci vuole per farne una figurina italiana. Lui di se stesso ha detto: «Nessuna delle persone che ho rapito si è mai costituita parte civile. Ci sarà un motivo. Con alcuni sono diventato persino amico». Era il penultimo di dieci figli, Alberto Pinna lo ha descritto come «piccolo, robusto, agilissimo, vivace fin troppo, orgoglio smisurato e spiccatissimo senso della famiglia e della giustizia fa da te». Credevamo che fosse andato in pensione. Chissà.
In Barbagia un etnocidio culturale, anche grazie al falso mito Mesina, scrive Nicolò Migheli. Un bel pezzo di analisi su cultura, territorio e identità del cuore della Sardegna. Mesina è un mito urbano, dice il sociologo e scrittore Nicolò Migheli. Bisogna aver avuto sedici anni nel 1966 ed aver visto lo sguardo disperato di un tuo amico a cui avevano sequestrato il padre. Averlo visto quel povero corpo in decomposizione, buttato sotto un macchia di rovo e avere memoria del lezzo di cadavere che ti resta nelle narici per settimane. Bisogna essere stati ragazzi in quegli anni tremendi; a mezzo servizio tra scuola ed ovile, tra sogni di riscatto civile e il peso di una delinquenza cinica che uccide ogni aspirazione. Andare in campagna con lo sguardo rivolto da un'altra parte per paura di vedere cose che non dovrebbero essere viste. Bisogna aver stampato in mente carabinieri e poliziotti che controllavano i bollettini di proprietà, o di custodia, del bestiame, e una decina di tuoi compaesani che in ferri di campagna venivano condotti al confino. Ricordarsi dei manifesti con le taglie affissi nei muri del municipio. Esperienze come queste ti possono dare chiavi interpretative che superano ogni analisi sociologica, anzi costituiscono il filtro che demitizza le letture semplicistiche. Il banditismo sardo è stato una delle maggiori leve di distruzione della pastoralità, è stato l'alibi per un etnocidio culturale. Basta rileggersi le conclusioni dell'inchiesta parlamentare del senatore Medici, dove l'unica modernizzazione possibile era lo sradicamento di un modello economico antico in favore di una effimera industrializzazione. Togliere l'acqua ai pesci. Il pastoralismo come arte criminale. Come se il delinquere fosse legato ad una professione e non a comportamenti riproducibili in ogni ambito sociale. Una operazione così sofisticata aveva però bisogno di un immaginario forte, costruito in una ambigua positività. Il mito di Mesina è stato funzionale a tutto questo. Ha trasformato il banditismo in manifestazione ribellistica di giuste rivendicazioni, facendone di lui un fenomeno mediatico, con interviste nella latitanza, peregrinazioni di editori in cerca di un Che per la Cuba del Mediterraneo. Donne attratte dal fascino ambiguo del latitante con il contorno di agenti dei servizi. Una riproposizione in salsa barbaricina del mito del siciliano Salvatore Giuliano. Il bandito mafioso funzionale alla repressione del movimento di occupazione delle terre, all'assassinio di sindacalisti e politici di sinistra. Certa sinistra urbana che in Sardegna in quegli anni, sui fenomeni delinquenziali ebbe un comportamento ambiguo, anche essa soggiogata dal mito del ribelle, senza capire che quel fenomeno era una via facile verso l'arricchimento personale. Il reinvestimento in tanche allora, in narcotraffico oggi. Un mito etero imposto che ha finito per imprigionare Orgosolo. Quel paese è stato abile nel rovesciare lo stigma in opportunità, facendone una delle principali attrattive turistiche. Conosco bene gli orgolesi, per sapere che da tutto ciò vorrebbero liberarsi e le decine di associazioni che combattono per un paese normale, debbono fare i conti con un passato che non passa, con chi li appesantisce di continuo con i suoi comportamenti. Eppure il nuovo arresto di Mesina, se le accuse verranno provate in sede di giudizio, può essere il colpo mortale per questa mitopoiesi della vittima delle contraddizioni sociali, di chi non ebbe, secondo quella vulgata, altre possibilità se non la delinquenza, il sequestro di persona, l'omicidio. E' finito il tempo della facile giustificazione perché quell'uomo ha toccato l'intoccabile. Mentre il sequestro di persona, nonostante il suo abominio, poteva essere visto come una redistribuzione del reddito, del "ricco" che paga ed altri che ne godono, la droga tocca tutti. Distrugge famiglie e patrimoni, nega il futuro a generazioni intere; non conosce differenziazioni di classe e di reddito. Nonostante la Sardegna non sia indenne da questa piaga, non vi è nessuna ambigua giustificazione sociale per chi si arricchisce in questo modo. Ecco dove Mesina ha sbagliato, se è veramente così. Con le sue frequentazioni carcerarie ha creduto che sistemi di altre realtà fossero riproponibili qui da noi. Non è stato così, ed in questo modo ha ucciso l'immagine di redenzione, non solo sua, che altri gli avevano costruito addosso. Una sconfitta per tutti. Chie naschet corbu no si che mudat in columba. Chi nasce corvo non diventa colomba. Recita così un proverbio pessimista e determinista. Ci sono momenti che non si vorrebbe che quell'adagio avesse ragione. Nonostante tutto, questo è uno di quelli. La speranza che si possa cambiare è l'ultima a morire. Cominciamo però a liberarci dell'immagine eroica e giustificazionista del bandito. Questo tocca a tutti noi. Il resto verrà.
Roberto Castelli, l'ex Ministro della Giustizia che nel 2004 controfirmò la grazia concessa da Carlo Azeglio Ciampi a Graziano Mesina, è incredulo. «Spero proprio che non sia vero» esordisce al telefono con “Panorama” ricordando come fu lui a insistere con l'allora capo dello Stato perché gli desse la grazia. «Se l'impianto accusatorio fosse confermato sarebbe, per me, una grande delusione» ripete l'ex Guardasigilli, ricordando come attorno alla primula rossa della Barbagia «c'era allora una sorta di aurea di benevolenza: aveva scontato quasi quarant'anni di carcere per essersi voluto vendicare, giovanissimo, per uno sgarro che la società gli aveva fatto. Lo consideravo sì un delinquente, ma anche un bandito che rispettava un proprio codice, con una propria dignità» racconta per spiegare le ragioni che lo indussero a insistere con Ciampi per la soluzione della grazia. «Il banditismo sardo era il contrario dei mafiosi col 41 bis». Poi aggiunge, con amarezza: «Se fosse vero che è coinvolto nel traffico di droga, avrebbe tradito - oltre alle persone che hanno creduto in lui - anche la sua sardità, il suo codice». Ma lei crede alle accuse dei magistrati? «E come faccio a sapere se siano vere o no?» risponde, ricordando anche un episodio di famiglia che gli è stato raccontato da suo suocero. «Lui, che ha sposato in seconde nozze una ragazza di Arabatx, mi ha raccontato che lo ha incontrato qualche settimana fa a Orgosolo e che Mesina gli ha detto: mi saluti il ministro». «Fosse vero - ripete, ancora una volta - sarebbe una grande delusione: anche perché io credo nel potere redentivo della pena. Vede, nella mia attività, ho incontrato moltissimi carcerati. E, salvo i mafiosi del 41 bis, devo dire che la gran parte di quelli che stanno nelle patrie galere sono ragazzi giovanissimi che hanno sbagliato ma possono trovare la loro strada» continua, spiegando anche come, quando incrociò Mesina negli studi di Porta a Porta, si congedò da lui dicendogli dopo aver controfirmato la grazia con un Mi raccomando, non mi deluda».
Prima i sequestri, ora la droga. Dubbi e segreti di Graziano Mesina. Pino Scaccia, inviato del tg1 e profondo conoscitore dell'ultimo "bandito", a Carmelo Caruso su “Panorama” dice che non crede alle accuse di spaccio contro il malvivente sardo. “A volte i testimoni si screditano. La colpa di Graziano Mesina? Forse non aver mai dimenticato il ruolo che ebbe lo Stato nel sequestro del piccolo Farouk Kassam tanto da ribadirlo solo pochi giorni fa di fronte a me in un incontro avvenuto a Gorizia”. Diceva che si fidava di lui perché non usava taccuini (“Sei l’unico che non li usa, i taccuini mi ricordano i carabinieri”) poi lo scelse per dare la notizia in anteprima della liberazione del piccolo Kassam, “Stanotte sarà libero”. E adesso non riesce a crederci Pino Scaccia - inviato del Tg1, a cui il monarca della Barbagia, Graziano Mesina, consegnò lo scoop della liberazione - che quell’anziano bandito che ha ottenuto la grazia nel 1994 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi sia un trafficante di droga. “Eravamo insieme a Gorizia per parlare del banditismo sardo solo dieci giorni fa, era ancora considerato una star. Chi gli chiedeva l’autografo, chi lo voleva fotografare. E’ rimasto Graziano Mesina non il sequestratore ma l’evaso per eccellenza. La sua fama si deve alle 22 evasioni, alcune per amore diceva lui, sempre rocambolesche, sempre progettate da una mente arguta”. Quarant’anni di carcere, di questi 16 in isolamento e adesso l’accusa di essere un narcotrafficante. “Mi sorprende, se ne sa poco e nutro qualche dubbio. Sarebbe stupido e Mesina non è stupido. Di certo è anomalo che dopo aver sollevato i soliti dubbi sul ruolo che ebbero i Servizi e lo Stato nel sequestro Kassam, Mesina sia stato arrestato con l’accusa di essere il capo di un cartello di narcotrafficanti. A volte i testimoni si screditano”. Addirittura screditarlo? “Sia chiaro, non conosco la vicenda, ma ho un ricordo nitido di solo dieci giorni fa. Sa cosa diceva: I latitanti famosi sono coperchi buoni per tutte le pentole. Parliamo di un uomo che è stato accusato anche di sequestri che mai aveva realizzato. Intorno a Mesina si era creata un’aurea sinistra. In realtà si macchiò di un solo omicidio: la morte dell’assassino del fratello”. Per i sardi è stato simile a Salvatore Giuliano, il mito contemporaneo tutto lupara, campagna, solitudine e amanti. Eppure si deve a Graziano Mesina, lo stesso uomo che oggi è stato arrestato dai carabinieri che lo ritengono ancora “un soggetto pericoloso”, se nel 1992, lo stato riuscì a liberare il figlio di Fateh Kassam, uomo vicino all’Agha Khan. Spedito con il pretesto di un permesso per partecipare al matrimonio della nipote (concesso dall’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli) Mesina in realtà ebbe il ruolo d’intermediario con i sequestratori che liberarono il bambino dietro il pagamento di un riscatto di 5 miliardi di lire. Ed è su quel riscatto che mai si è fatta luce e su cui si è avanzata la partecipazione diretta dei Servizi. “Seicentomilioni li diede la famiglia e gli altri?”, chiede Scaccia a cui Mesina rivelò in anticipo la notizia della liberazione. Ed è considerato un mito vivente a Orgosolo, ancora oggi, il paese dei banditi e del regista Cesare De Seta. “Ad Orgosolo si era cimentato nel ruolo di guida turistica, accompagnava e riceveva turisti che venivano dalla Svezia, dal Belgio e tutto per conoscerlo, conoscere l’ultimo bandito”. Era cambiato secondo Scaccia che adesso ricorda l’abbraccio che Mesina scambiò con un carabiniere che ebbe modo di arrestarlo in uno delle sue tante fughe. “Per parlare di Mesina bisogna immaginare un Robin Hood, ha impersonato questa figura per i sardi. Diceva sempre che si era dato al banditismo per colpa dello Stato. Era la Barbagia di che si opponeva allo sfarzo della Costa Smeralda, ai soprusi dei padroni, è l’essere barbaricino, un miscuglio di violenza e primitivismo. Voleva studiare, sognava di studiare Giurisprudenza, e anche in carcere chiedeva libri. La cosa che mi chiedeva era di trovare un lavoro per il nipote per portarlo via da lì”. E la grazia? “Aveva svolto il ruolo d’intermediario nel 1992 in cambio della grazia che gli venne concessa subito dopo. E mi anticipò la notizia, facendo fallire il blitz dei carabinieri proprio perché temeva di essere ucciso. E’ una vita legata a troppi misteri”. Misteri che secondo Scaccia non sono stati fugati anche per l’ostinazione con cui Mesina ha parlato del denaro che servì a liberare Kassam. “Sappiamo che 600 milioni erano stati dati dalla famiglia Kassam, ma la rimanete parte? Forse la sua colpa è non avere dimenticato. La mia impressione è di una persona tranquilla che fra l’altro non aveva bisogno di denaro. Certo, non era ricco, ma non viveva nell’indigernza”. Per alcuni semplicemente violento, per Scaccia invece un uomo diffidente. “Con il solito borsello in mano e il dolore di non aver avuto figli. Soffriva per questo. Del resto diceva sempre: i bambini non si toccano. Non era per intenderci un Vallanzasca”. Ma la Sardegna è ancora quella dei Mesina? “No, anche quella è cambiata, non si fanno più sequestri perché non sono remunerativi e non ci sono più latitanti. Adesso il crimine più frequente è l’assalto ai furgoni. Non è più la Sardegna di Mesina”.
INGIUSTIZIA?
Andrea Dessena, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio dei due fidanzati di Irgoli, Mario Mulas e Sara Cherchi avvenuto il 3 settembre del 2008, d’ora in avanti verrà difeso dall’associazione Avvocati senza Frontiere. Lo fanno sapere i familiari che hanno organizzato una conferenza stampa a Orosei pubblicata su su “La Nuova Sardegna” «al fine di denunciare — si legge nella nota a loro firma — le scandalose violazioni delle norme sul giusto processo nel procedimento penale a carico di Andrea Dessena, detenuto dal marzo 2009 nel carcere di Macomer, che all’età di 22 anni è stato ingiustamente condannato, senza alcun elemento di prova e testimonianza, alla pena dell’ergastolo. Nell’occasione — sottolineano — l’avvocato Antonino Rossi illustrerà le attività umanitarie della Onlus Movimento per la Giustizia Robin Hood che da oltre 25 anni si batte contro tutte le mafie per la tutela della legalità e i diritti dei soggetti più deboli, ovvero per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge». Il giovane di Orosei, condannato dalla Corte d’Assise di Nuoro che solo qualche giorno fa ha depositato le motivazioni della sentenza, affronterà i restanti gradi di giudizio con l’assistenza dei legali dell’associazione Onlus. Movimento che, come fanno sapere i familiari del giovane: «Non accetta di occuparsi di tutti i casi che vengono sottoposti alla loro attenzione ma essendo quello di Andrea molto particolare, merita grande riguardo». Così domani a Orosei, alle 16 nel corso della conferenza stampa il legale Antonino Rossi spiegherà le ragioni che hanno portato l’associazione italiana Avvocati senza Frontiere ad interessarsi del caso di Andrea Dessena, già oggetto di una pesantissima condanna da parte dei giudici nuoresi a conclusione di un dibattimento durato un anno e caratterizzato da momenti di tensione e forte emozione. Venerdì 26 ottobre 2012 si aprirà presso la Corte d’Assise d’Appello di Sassari il processo d’appello a carico di Andrea Dessena accusato di duplice omicidio ed attualmente detenuto presso la Casa Circondariale di Macomer in Sardegna, spiega in una nota stampa inviata dall’Associazione Avvocati Senza Frontiere al dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” www.controtuttelemafie.it , e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “MALAGIUSTIZIOPOLI” e “GIUSTIZIOPOLI”. Libri facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Il giovane pastore, a seguito di un processo di primo grado, a dir poco anomalo, in cui sono state violate tutte le regole del giusto processo e in più in generale le più elementari norme di giustizia, era stato condannato avanti alla Corte d’Assise di Nuoro alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per anni tre anni. L’imputato la cui difesa viene patrocinata dall’Associazione Avvocati senza Frontiere in considerazione della rilevanza sociale e della anomalia del caso, derivante da palese fumus persecutionis, si ribadisce, veniva condannato sulla base di un’accusa del tutto indimostrata, basata sulle dichiarazioni o meglio sulle presunte dichiarazioni di accusa di un confidente di polizia, le cui dichiarazioni non sono mai state verbalizzate, né è mai stato sentito in contraddittorio in un’aula di tribunale. Processo, quello di primo grado, che per le modalità sommarie con le quali si è svolto, più che un processo della Repubblica democratica italiana porta alla mente i processi veneziani dell’Inquisizione, quando era sufficiente introdurre delle lettere accusatorie anonime introdotte nelle c.d. “bocche del leone”, cioè piccole fessure nei muri con la testa del leone alato in cui era possibile introdurre scritti accusatori. Il malcapitato a seguito di queste anonime accuse spesso non disinteressate si trovava davanti all’inquisizione veneziana e condannato a seguito di processi sommari. Per l’affermazione dei principi di legalità e giustizia la difesa di Andrea Dessena ha rivolto alla Corte d’Assise d’Appello una serie di richieste istruttorie di riapertura del processo, in particolare l’esame testimoniale del “confidente” che accuserebbe l’imputato, la trascrizione di un “cd” consegnato da un testimone che in aula ha denunciato di essere stato oggetto di minacce e pressioni da parte delle forze dell’ordine (cd che è stato acquisito agli atti ma che non è mai stato oggetto di doverosa trascrizione), perizia dei tabulati telefonici che scagionano completamente l’imputato in quanto quest’ultimo si trovava a 10 km di distanza dal luogo del delitto nonché alcuni confronti fra diversi testimoni che hanno rese dichiarazioni contrastanti sui fatti. Pertanto la Corte d’Assise d’Appello di Sassari si pronuncerà preliminarmente sulle richieste di rinnovazione istruttoria decidendo di riaprire il dibattimento: in quest’ultimo caso fisserà un calendario di udienze per lo svolgimento del processo, riservandosi di adire la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo. «Rispetto tutte le sentenze, anche quelle che non condivido, ma questa è fortemente censurabile non solo viste le conclusioni ma soprattutto il modo in cui ad esse è giunta la Corte d’Assise di Nuoro». Esordisce così il nuovo legale di fiducia di Andrea Dessena, su “La Nuova Sardegna” il ventiduenne di Orosei condannato all’ergastolo per l’omicidio dei due fidanzati di Irgoli, Sara Cherchi e Mario Mulas. Si è affidato all’associazione Onlus Avvocati senza Frontiere che come ha detto il legale Antonino Rossi sono in Sardegna per la prima volta. «ma non potevamo non accettare di occuparci di un processo come questo — ha sottolineato l’avvocato — sia per la gravità dei fatti che per il modo in cui il processo si è svolto». Un processo ingiusto — lo definisce Rossi — che ha dato luogo a conclusioni altrettanto ingiuste, per due motivi principali: i principi del “Giusto processo” sono stati violati nel momento in cui chi accusa l’imputato non si presenta in aula. Si riferisce al testimone Denis Derosas che aveva accusato Andrea Dessena del duplice delitto (e non solo) e si era confidato con un maresciallo dei carabinieri che depose in aula col consenso della corte, riferendo delle confidenze del giovane. «La ricostruzione dei fatti — continua l’avvocato Rossi — pecca ab origine. Gran parte delle motivazioni, almeno cinquanta pagine sono dedicate ai fatti pregressi. Le questioni di contorno diventano centrali e alla fine ciò che manca in questo processo è la ricostruzione dei fatti. Dov’era Andrea Dessena quel giorno? Chi c’era con lui? Non c’è prova che sia stato lui a sparare. Perché non si sa nulla degli eventuali complici? In questo processo viene ribaltato l’onere della prova e nonostante tutto ci troviamo difronte ad una condanna all’ergastolo». L’avvocato Rossi leggendo le motivazioni non approva neppure la tesi dei falsi alibi. «Andrea Dessena non poteva compiere un omicidio in dieci minuti, nonostante la vicinanza dei luoghi. E poi, ritengo ci sia stata una lacuna investigativa visto il mancato collegamento tra il duplice omicidio del 3 settembre e l’altro di Pierpaolo Serra avvenuto a un mese esatto di distanza». Un’ora di conferenza per spiegare le ragioni che l’hanno spinto ad accettare la causa di Andrea Dessena ma anche anticipare qualche mossa in vista del processo d’appello. «Presenteremo ricorso entro il 30 aprile e dimostreremo l’innocenza di questo giovane». Letture dei fatti, diametralmente opposte a quelle a cui è giunta la Corte d’Assise di Nuoro, che suscitano una certa curiosità in previsione dell’ulteriore atto processuale.
ERRORE GIUDIZIARIO - UNA VITA DIETRO LE SBARRE. Assolto in primo e secondo grado fu condannato nel terzo processo disposto dalla Corte di Cassazione
Riconosciuto innocente dopo 30 anni di carcere.
Il calvario dell’orunese Melchiorre Contena accusato del sequestro-omicidio Ostini. Negli anni Novanta gli ex latitanti Soru e Mongile confessarono: «I veri colpevoli siamo noi».
L’inferno può essere fatto di sbarre che sembrano imprigionare perfino il cielo, di muri spessi e grigi e di cancelli di ferro che rinchiudono in uno spazio immobile e claustrofobico anche i sogni e il dolore. Ma l’inferno è soprattutto nella lucida consapevolezza di essere vittima del furto più atroce, quello della libertà. E di vivere l’interminabile divenire di giorni grigi, sempre uguali, al posto di qualcun altro. Questa è la storia del calvario di un uomo che ha vissuto trent’anni all’inferno prima di vedersi restituiti, in nome del popolo italiano, la dignità e l’onore. Ma è anche la storia di una donna, sua moglie, che gli ha sempre creduto e che ha combattuto con una forza sovrumana una battaglia che sembrava impossibile.
Questa è la storia di Melchiorre Contena, pastore di Orune (NU), e di sua moglie Miracolosa Goddi.
Il 18 luglio scorso la corte d’assise d’appello di Ancona ha messo fine a un incubo durato trent’anni, spazzando via l’accusa terribile di sequestro di persona e omicidio che aveva sprofondato Melchiorre Contena nel buio universo chiuso del carcere. E’ l’epilogo di una complicata e contraddittoria storia giudiziaria che ha visto pronunciarsi per quattro volte i giudici di merito e per due quelli di legittimità. Senza contare due pronunce in risposta alla richiesta di revisione del processo. La sentenza finale, quella che stabilisce che Melchiorre Contena è innocente, arriva però quando l’orologio del tempo ha scandito anche l’ultimo giorno della pena.
IL RAPIMENTO. Tutto comincia alle 22,30 del 31 gennaio 1977. Marzio Ostini, imprenditore milanese di 38 anni, sposato e padre di un bambino di sei, torna nella sua villa “Le Querce”, nella tenuta di Armatello, a San Casciano Bagni, nel Senese. Con lui c’è il suo amministratore, Giuseppe Miscio. In casa lo attendono tre uomini armati e mascherati. Modi spicci, ruvidi, e poche parole in un inconfondibile accento sardo. Prima di andare via con l’imprenditore milanese dicono a Miscio: «Vogliamo cinque miliardi (poco meno di due milioni e mezzo di euro). E non avverta la polizia, altrimenti il riscatto raddoppia». Marzio Ostini svanisce nel buio insieme ai suoi carcerieri. Per lui comincia il tragico viaggio verso il nulla.
Il 4 febbraio il primo contatto telefonico con il padre di Marzio, il cavalier Carlo Ostini. E una nuova richiesta di riscatto: due miliardi di lire. Poi le lettere. In quella del 16 febbraio, la prova che l’ostaggio è vivo. I tempi del sequestro si bruciano con inconsueta rapidità e si raggiunge l’accordo per un riscatto di un miliardo e duecento milioni.
Il 20 febbraio il cavalier Ostini parte con una borsa piena di banconote da 50 e 100 mila lire. Ma l’appuntamento con i banditi non va in porto. Il contatto avviene il giorno dopo, alle 15,30, vicino al paese di San Quirico d’Orcia, nel Senese. Il patto è che l’ostaggio sarà liberato nelle 48 ore successive. Ma Marzio Ostini non tornerà mai a casa e il suo corpo non sarà mai ritrovato.
Le indagini si orientano subito verso gli ambienti dei pastori sardi. Inevitabile: la cadenza dei banditi era inconfondibile e poi quelli sono gli anni terribili nei quali l’Anonima sequestri ha esportato nelle dolci campagne toscane la sua feroce e cupa ossessione per il furto di uomini, seminando spore di paura. In quel clima sociale, il solo essere sardi sembra quasi essere una colpa.
Il 25 marzo del 1977, quella che risulterà la svolta nelle indagini: un giovane servo pastore di Fonni, Andrea Curreli, viene trovato in possesso di due targhe appartenenti a un’auto rubata alcuni mesi prima. Il suo comportamento alimenta molti sospetti nei carabinieri, che cominciano a pensare di avere messo le mani su uno dei componenti della banda che ha rapito Marzio Ostini.
A fine aprile, i giornali pubblicano un messaggio della famiglia del rapito che dice di essere disposta a pagare 300 milioni di lire a chiunque sia in grado di fornire informazioni utili alla liberazione di Marzio. Dopo qualche giorno, Curreli si presenta spontaneamente alla stazione dei carabinieri di Montefiascone e racconta di essere stato invitato, nell’ottobre del 1976, nel podere di Melchiorre Contena, a una riunione nella quale si era pianificato il sequestro di Carlo Ostini, il padre di Marzio. E fa i nomi di tutti i partecipanti a quel summit: Melchiorre, Bernardino e Battista Contena, Marco Montalto, Giacomino Baragliu e Pasquale Delogu. Di più: dice che successivamente Baragliu e Battista Contena, ubriachi, gli avrebbero confidato di aver ucciso Marzio Ostini.
I Contena, Baragliu, Delogu e Montalto finiscono in carcere e, poco dopo, vengono arrestati anche altri due sardi: Pietro Paolo De Murtas e Gianfranco Pirrone. Sconcertante il comportamento di Curreli che, con due lettere in due occasioni diverse, ritratta tutto, ma poi davanti al giudice istruttore reitera le accuse.
Non basta: le sue versioni altalenanti vengono smentite da molte verifiche degli investigatori ed emerge che Curreli in passato era stato servo-pastore dai Contena che poi lo avevano allontanato perché inaffidabile sul lavoro. E il giovane servo pastore non aveva mai nascosto il suo rancore per i tre fratelli di Orune.
IL PENTITO. Dopo qualche mese finisce in carcere anche il pastore di Paulilatino Antonio Soru, trovato con alcune banconote provenienti dal sequestro Ostini.
Andrea Curreli, dunque, è l’unico vero pilastro dell’accusa. Per dire la verità, si rivela subito un pilastro molto fragile. Tanto che, nel corso del processo, celebratosi davanti alla corte d’assise di Siena, la sua versione frana clamorosamente. La difesa porta in udienza l’impressionante curriculum del “super accusatore”: 35 denunce per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Melchiorre Contena e gli altri imputati il primo marzo del 1979 vengono assolti.
La corte d’assise d’appello di Firenze, il 21 febbraio del 1980, arriva alle stesse conclusioni: Curreli, che si è addirittura autoaccusato dicendo di essere stato il vivandiere della banda, è inattendibile e l’assoluzione per Melchiorre Contena viene confermata.
Sembra tutto finito. E invece la Cassazione riapre i giochi: accogliendo il ricorso della procura generale, rinvia il processo alla corte d’assise d’appello di Bologna che, senza neppure riaprire l’istruttoria dibattimentale, ribalta le sentenze di Siena e Firenze. Per Melchiorre Contena la condanna è a trent’anni di carcere.
In estrema sintesi, i giudici di Bologna giudicano Curreli attendibile. Eppure sulla sua credibilità ha sempre avuto fortissimi dubbi perfino il suo avvocato, Fabio Dean, diventato famoso come difensore del sulfureo gran maestro della loggia massonica P2, Licio Gelli. Nel marzo del 1985, Dean spedisce una lettera in carcere a Contena. «Ho personalmente convincimento della vostra innocenza - scrive Dean -, maturata da impressioni derivate dal palese risentimento che Curreli manifestava apertamente nei vostri confronti». E ancora: «Mi riserbo di ribadire questa mia convinzione nelle sedi più opportune, sottolineando la natura assolutamente disinteressata di questo intervento che risolve solo un mio problema di coscienza».
L’ALTRA INCHIESTA. Curreli, uscito di galera subito dopo il processo, sarà assassinato poco tempo dopo alla periferia di Roma.
Ma il caso Ostini si evolve anche in un processo parallelo. Antonio Soru di Paulilatino, Pietrino Mongile di Ghilarza e Lussorio Salaris di Borore sono sospettati fin dall’inizio di essere coinvolti nel rapimento. Nel luglio del 1986, Salaris viene ucciso nel suo podere di San Donnino, al confine delle province di Perugia e Terni. In un macabro rituale, gli assassini gli mozzano le mani. Come dire: sei stato punito perché hai rubato. Per questo delitto, il 5 dicembre 1989, vengono condannati Soru e Mongile a 27 anni e sei mesi. Secondo la corte d’assise d’appello di Perugia, Salaris sarebbe stato punito perché avrebbe tenuto per sè parte del riscatto proveniente da un sequestro di persona compiuto dai tre e avrebbe poi cercato di “vendere” i suoi due complici ai carabinieri. Che si tratti del rapimento di Marzio Ostini è confermato dal procuratore generale di Perugia Di Marco nell’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1988.
Conferme clamorose arrivano prima da Antonio Soru nel 1993 e poi da Mongile tre anni dopo. I due raccontano infatti che il sequestro era stato organizzato da loro e da Salaris e che quest’ultimo aveva ucciso l’ostaggio con un colpo di piccone in testa perché aveva paura di essere scoperto. Soru e Mongile dicono anche che loro non erano d’accordo sulla soppressione dell’ostaggio e che avevano eliminato Salaris perché questi si era tenuto parte del riscatto e li aveva poi traditi. Le loro confessioni sono suffragate da robusti riscontri.
Si arriva così a due sentenze radicalmente contraddittorie, a due verità insanabilmente incongruenti. E’ quello che giuridicamente viene definito conflitto di giudicati. Eppure quella della revisione del processo per Melchiorre Contena è una strada ancora lunga. Infatti, sei anni fa la corte d’assise d’appello di Ancona dice no alla riapertura del processo. Ma nel maggio del 2004 la Cassazione interviene e trasmette gli atti del processo alla corte d’assise d’appello dell’Aquila che, nel luglio scorso, dice che Melchiorre Contena è innocente.
«RISTORO MORALE». L’avvocato romano Pasquale Bartolo, che ha difeso con passione il pastore orunese, è avaro di parole. Per lui l’importante è che sia stata restituita la dignità a Melchiorre Contena e alla sua famiglia: «Con un’espressione un po’ brutta dico che Contena e quella donna straordinaria che è sua moglie hanno diritto a un “ristoro morale”. Sulla vicenda giudiziaria non voglio fare commenti perché non è mio costume farli, anche se è impossibile non fare alcune valutazioni. La prima è che i sistemi giudiziari sono ragionevolmente garantisti quando si vive il processo in maniera diretta, mentre è molto facile sbagliare quando si giudica solo sulle carte. Devo anche riconoscere alla magistratura di essere capace di censurare i propri errori. E questo, fino a qualche anno fa, era impensabile».
Ora, anche per gli altri sette imputati, si apre la porta della riabilitazione. Dopo trenta lunghissimi anni.
TUTTO SU OGLIASTRA
INQUINAMENTO
C'è l'uranio a Quirra. Isotopo 238, in gergo uranio arricchito . Così come rivela “L’Unione Sarda”. E c'è chissà da quanto tempo. Lo hanno scoperto il 26 febbraio 2011 gli esperti inviati dalla Procura di Lanusei per un'ispezione nel poligono. Lo hanno trovato all'interno di alcune cassette metalliche, cinque per l'esattezza, sistemate in un deposito di materiali speciali, compreso il munizionamento rimasto inesploso dopo le esercitazioni e in attesa di una futura distruzione. Magazzino senza nessuna misura di protezione o di sicurezza, senza nessun cartello di pericolo, dove l'accesso era libero per chiunque lavori all'interno della base. Il deposito si trova a Capo San Lorenzo, a due passi dalla spiaggia e dalla zona dove, secondo i veterinari delle Asl di Lanusei e Cagliari, si sono ammalati di leucemia 10 dei 18 pastori. È un autentico colpo di scena nell'inchiesta del procuratore Domenico Fiordalisi. Il deposito di Quirra è stato sequestrato e sigillato, le cinque cassette metalliche altamente radioattive (sono stati registrati valori cinque volte superiori alla norma) sono state consegnate al professor Paolo Randaccio, fisico nucleare dell'Università di Cagliari, che nel bunker dell'Ateneo le aprirà per sapere dove l'uranio 238 è contenuto. L'ispezione di ieri è stata ispirata dalle denunce arrivate alla Procura di Lanusei e alla Squadra mobile di Nuoro. Gli inquirenti hanno potuto appurare che in quei magazzini diversi soldati che lavoravano come magazzinieri si erano ammalati tutti della stessa patologia: linfoma di Hodgking. Uno dei tumori più aggressivi.
TUTTO SU OLBIA E TEMPIO PAUSANIA
TUTTO SU OLBIA.
TUTTO SU TEMPIO PAUSANIA.
OLBIA
Un vero e proprio «cartello» dei prezzi sulle rotte più gettonate dell'estate: la Civitavecchia-Olbia, la Genova-Olbia e la Genova-Porto Torres, scrive “Il Corriere della Sera”. Tariffe che si sono rivelate degli autentici salassi per le tasche dei vacanzieri, italiani e stranier, con incrementi dei biglietti superiori al 65%. Pesantissima, per questo, la multa che l'Antitrust ha inflitto a quattro compagnie di navigazione: Moby, Snav, Grandi Navi Veloci e Marinvest per l«'intesa finalizzata all'aumento dei prezzi» per i servizi di trasporto passeggeri nella stagione estiva 2011 sulle tre rotte. A darne notizia è la stessa Autoritá che spiega come «per le condotte accertate ha deciso di sanzionare le societá con multe complessive pari a 8.107.445 euro, che tengono conto della situazione di perdite di bilancio in cui versano le societá stesse». Al termine dell'istruttoria è stato accertato un parallelismo di condotte, nella stagione estiva 2011, da parte di Moby, Gnv e Snav, che hanno tutte applicato incrementi significativi dei prezzi, generalmente superiori al 65% mentre negli anni precedenti le società avevano seguito strategie orientate alla concorrenza.
In particolare nella stagione estiva 2011 i prezzi sono aumentati mediamente del 42% sulle rotte Civitavecchia-Olbia (passando in media da 35 a 49 euro) e Genova-Olbia (passando da 57 a 81 euro), del 50% sulla Genova-Porto Torres (passando da 65 a 98 euro). L'intesa, durata dall'inizio di settembre 2010, fino almeno alla fine del mese di settembre del 2011 (per Snav fino a maggio 2011), data di chiusura della stagione estiva, è stata attuata da imprese che complessivamente detengono quote di mercato molto elevate sulle rotte interessate dall'istruttoria. «Il parallelismo nell'aumento dei prezzi, riscontrato nel corso dell'istruttoria, non è peraltro giustificabile» in altro modo - scrive l'Antitrust - «se non con la concertazione: nè la trasparenza delle tariffe, che caratterizza strutturalmente il settore, nè il caro carburante, che avrebbe potuto comportare un aumento dei prezzi ma in misura inferiore, nè le perdite di bilancio degli operatori giustificano un aumento dei prezzi così simultaneo e significativo», sottolinea l'Autoritá. Le sanzioni comminate sono per Moby di 5.462.310 euro; per GNV 2.370.795 euro; per SNAV 231.765 euro; per Marinvest 42.575 euro.
TEMPIO PAUSANIA
Corruzione, piatti da pizza in cambio di assoluzioni: giudice in manette. Vincenzo Cristiano, magistrato del tribunale di Tempio Pausania, è ora ai domiciliari nella sua abitazione in Campania. Nell’inchiesta sono coinvolti anche due imprenditori. In cambio dei suoi favori, oltre alle stoviglie, anche una Smart e un computer Apple, scrive Giulio De Santis l'1 dicembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. Si sarebbe fatto dare piatti da pizza per il suo ristorante «Story» in cambio di assoluzioni facili. Così Vincenzo Cristiano avrebbe gestito la sua attività di ristoratore dalla stanza di gup occupata nel palazzo di giustizia di Tempio Pausania. Ora il giudice, accusato di corruzione in atti giudiziari, è finito agli arresti domiciliari nella sua dimora campana insieme a due imprenditori, da cui il magistrato avrebbe strappato favori nella conduzione del suo locale a San Teodoro garantendo processi soft. A finire nel mirino del pm Stefano Fava, oltre a Cristiano, ci sono Umberto Galizia e l’imprenditore olbiese Manuel Spano, 37 anni, quest’ultimo titolare di un’azienda che si occupa di service audio per spettacoli, molto conosciuto perché fornisce da anni attrezzature per le feste nelle ville della Costa Smeralda. Per tutti il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Fava avevano chiesto l’arresto, ma il gip Giulia Proto ha ritenuto idonea la misura degli arresti domiciliari. Cristiano, da Galizia, avrebbe ottenuto oltre ai piatti per il suo ristorante «Story» anche l’utilizzo gratuito di un immobile e la possibilità di comprare una Smart usata a soli 1.800 euro, quando in realtà ne costava 5.800. Spano invece gli avrebbe «regalato» un Apple e recuperato degli oggetti che al giudice erano stati rubati da casa nel giugno del 2016. Spano in cambio del suo operato è stato assolto dall’accusa di stalking, mentre Galizia avrebbe ottenuto un rallentamento del procedimento in cui è accusato di usura. Così, secondo l’accusa, Cristiano avrebbe svilito la sua professione di magistrato favorendo anche il suo socio nella conduzione del ristorante «Story», Cristian Ambrosio. Questi è sotto processo per spaccio di droga, «problema» che Cristiano avrebbe tentato di aggiustare convincendo il pm a rallentare l’indagine. È stato Ambrosio a presentare Galizia a Cristiano il quale, intuendo che l’imprenditore napoletano gli sarebbe potuto tornare utile, gli concesse l’obbligo di dimora a Tempio Pausania dopo averlo arrestato.
Un'assoluzione e una scarcerazione in cambio di favori: arrestati magistrato di Tempio e due imprenditori, scrive Andrea Busia su "L'Unione Sarda" l’1 dicembre 2016. In cambio di favori avrebbe assolto un imprenditore olbiese accusato di stalking e avrebbe ordinato la scarcerazione di un altro imprenditore accusato di estorsione. Per queste accuse, su ordine di custodia cautelare emesso dalla procura di Roma, è stato arrestato Vincenzo Cristiano, magistrato di origine campana ma da anni in servizio a Tempio con la funzione di Giudice delle indagini preliminari. Il reato che gli viene contestato è corruzione in atti giudiziari. L'arresto (ai domiciliari) è stato eseguito questa mattina. Assieme a lui sono stati arrestati anche i due imprenditori che avrebbe favorito: si tratta di Manuel Spano, olbiese, titolare di un'azienda che si occupa di service audio per spettacoli e e feste, molto noto anche in Costa Smeralda avendo lavorato spesso anche con Lele Mora, e Umberto Galizia, imprenditore di origine campana. Secondo quanto trapela, l'indagine sarebbe partita da controlli dei carabinieri su una società di San Teodoro che possiede una pizzeria, di cui farebbe parte anche il magistrato. Cristiano sarebbe venuto a conoscenza delle indagini e avrebbe tentato di conoscere l'esito degli accertamenti che lo coinvolgevano. Ma è solo l'inizio. Perché questa storia si intreccia con un'altra inchiesta che riguarda Cristian Ambrosio, personaggio coinvolto in un giro di droga (e non indagato in questa vicenda). Nelle intercettazioni degli inquirenti compare anche il magistrato che parla con varie persone. L'attività investigativa è imponente, il risultato che emerge è che Vincenzo Cristiano, in qualità di Gup, avrebbe assolto Spano in un processo in cui e l'imprenditore era accusato di stalking ottenendo poi dei benefici. In un secondo momento avrebbe disposto la scarcerazione di Umberto Galizia che era stato arrestato con l'accusa di estorsione nei confronti di un imprenditore di Golfo Aranci. In cambio, Galizia avrebbe fatto dei favori trasportando del materiale nella pizzeria di San Teodoro intestato alla società in cui è socio il magistrato.
Corruzione, arrestati un magistrato di Tempio e un imprenditore di Olbia. In corso un'operazione della polizia per un'inchiesta avviata dalla Procura di Roma per corruzione in atti giudiziari, scrive l'1 dicembre 2016 "La Nuova Sardegna". Un magistrato del tribunale di Tempio, un imprenditore di Olbia e un terzo cittadino di origine campana sono stati arrestati con l'accusa di corruzione in atti giudiziari. L'operazione della polizia è stata eseguita al termine di una inchiesta avviata dalla Procura di Roma. Per Vincenzo Cristiano, giudice della sezione penale di Tempio con funzioni di GUP, sono stati disposti gli arresti domiciliari in Campania. Arrestato anche un noto imprenditore olbiese: Manuel Spano. Spano, titolare di "Centro musica" è un noto imprenditore nel campo degli spettacoli, in particolare degli impianti audio e da anni si occupa dei concerti in Costa Smeralda, compresi quelli del Cala di Volpe. Il cittadino napoletano è Umberto Galizia. I particolari della vicenda sono stati resi noti a Roma durante la conferenza stampa condotta da Procura e Questura. A Vincenzo Cristiano sarebbero stati fatti diversi favori: stoviglie da utilizzare nel ristorante ’Story’ di proprietà della società Farvic di cui era uno dei soci formali fino all’anno scorso quando poi le quote sono state cedute al fratello avvocato; l’utilizzo gratuito di un appartamento a Olbia di cui aveva «stabilmente» le chiavi; l’intermediazione nell’acquisto di una Smart, del valore di 8mila euro ma comprata a 1500. E poi, un pc di marca Apple del valore non inferiore a 1000 euro, il prestito di un furgone per trasportare la merce da Napoli a San Teodoro, dove c’era il ristorante Story e il recupero parziale della refurtiva di un furto subito in casa. Sono queste alcune delle «utilità» di cui avrebbe beneficiato il giudice del tribunale di Tempio finito oggi agli arresti domiciliari con l’accusa di corruzione, secondo l’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Roma, Giulia Proto. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Stefano Rocco Fava, competenti a indagare sui magistrati sardi, avevano chiesto la misura più grave del carcere. A elargire queste «utilità» - raccontano le carte dell’inchiesta - sono stati Umberto Galizia e Manuel Spano (anche loro ai domiciliari) che il giudice sardo, legato ai due da rapporti di amicizia, avrebbe favorito nei procedimenti penali in cui si fossero trovati coinvolti. Il via all’indagine nasce a seguito di una segnalazione dei carabinieri della Tenenza di San Teodoro quando Vincenzo Cristiano si presentò ai loro uffici per chiedere conto di un controllo che era stato effettuato nei confronti della società Farvic. Cristiano si qualificò come magistrato del tribunale, lasciò ai carabinieri la propria utenza cellulare e chiese di poter essere informato in caso di successivi controlli sulla società. Dalla visura societaria si scoprì poi che socio della Farvic era, tra l’altro, Cristian Ambrosio, un soggetto coinvolto in un’inchiesta per traffico di stupefacenti, amico del giudice, stando ad alcune intercettazioni telefoniche, e in contatto con ambienti criminali non solo locali ma anche del napoletano, con particolare riferimento ai fratelli Marco e Umberto Galizia. Secondo l’ordinanza cautelare, «l’amicizia con Ambrosio è tale che il gip Vincenzo Cristiano cercherà di influenzare nel luglio del 2015 la collega (la pm Ginevra Grilletti, ndr) che aveva in carico il procedimento assegnatole dopo un sequestro di droga ai danni di Ambrosio». Ma c’è dell’altro: nel gennaio del 2014, il gip Cristiano si era occupato dei due fratelli Galizia, fermati per i reati di usura ed estorsione aggravata dall’uso delle armi, e abusiva attività finanziaria. Il pm chiese la convalida del fermo e la misura cautelare in carcere, Cristiano invece non convalidò il fermo e dispose solo la misura del divieto di dimora a Olbia. Quando a Spano, il giudice lo aveva già assolto in un procedimento per stalking, facendo decadere automaticamente la misura cautelare emessa nel 2014 da altro gip quando, in virtù di questo rapporto di amicizia già consolidato, avrebbe dovuto astenersi.
Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.
Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
TUTTO SU ORISTANO
ISTITUZIONI INFEDELI.
ISTITUZIONI INFEDELI.
Oristano: carabinieri arrestati, vendevano servizi ad agenzie di investigazione privata, scrive “Libero Quotidiano”. Lavoravano per tre agenzie investigative private dell'oristanese i tre carabinieri, un capitano comandante di compagnia e due marescialli, arrestati oggi dai colleghi del comando provinciale di Oristano dopo 4 mesi di indagini interne avviate dall'Arma stessa, dopo che erano stati notati degli accessi frequenti alla banca dati interna, sempre dagli stessi operatori. Indagini copiose, ma senza esiti, che comportavano impiego di mezzi militari e diverse ore di straordinario, alle quali non seguivano risultati. In manette, con il capitano Renè Biancheri e i marescialli Giuseppe Canu e Mario Arnò, tutti in forza alla Compagnia Carabinieri di Mogoro (Or), è finito in carcere anche il titolare di un'agenzia di investigazione privata, Gian Marco Fadda, 42enne di Ghilarza (Or). L'accusa per lui è corruzione. I reati ipotizzati per i militari invece sono quelli di truffa ai danni dello Stato, peculato, corruzione e falso. I carabinieri pedinavano persone, mentre segnavano sui memoriali di servizio altre attività, accedevano alla banca dati dell'arma, nei quali resta registrato il log in, e vendevano i tabulati telefonici, ''percependo pochissimo: 75 euro per l'accesso alla banca dati, una volta mille euro per un tabulato'', ha spiegato il comandante provinciale di Oristano, il tenente colonnello Duranti nel corso di una conferenza stampa tenuta stamani nel comando dell'arma. L'oggetto delle indagini private erano tradimenti, cause di separazione e di divorzio condotte dalle agenzie di investigazione oristanesi.
Scrivono Enrico Carta e Simonetta Selloni su “La Nuova Sardegna":
07 febbraio 2012. Arresti per vendetta e inchieste inquinate. L'ordinanza rivela i trucchi per accontentare i detective privati. Pianificavano arresti illegali, magari sistemando panetti di hascisc nella macchina di qualche malcapitato sul quale indagavano per conto terzi, e per gli stessi "terzi" attuavano vendette. E per ottenere tabulati telefonici che non si potevano ricavare dai sistemi informativi dei carabinieri, infilavano nelle pieghe di inchieste realmente in corso utenze sulle quali svolgevano accertamenti paralleli e per personali fini di lucro. In questo modo, cercavano di ottenere dalla magistratura l'autorizzazione per avere informazioni alle quali senza il benestare della Procura non avrebbero mai avuto accesso. Anche questo facevano, i marescialli Mario Arnò e Giuseppe Canu, il primo comandante del nucleo investigativo e radiomobile della compagnia dei carabinieri di Mogoro, e il secondo in servizio nello stesso Norm. Finiti in carcere sabato mattina nell'operazione costata le manette anche al comandante della compagnia, capitano René Biancheri, ad un investigatore privato, Gian Marco Fadda di Ghilarza, e la denuncia di altri due carabinieri, il brigadiere Francesco Cancedda e l'appuntato Massimiliano Mazzotta (anche loro in servizio al Norm), oltre che di altri tre detective privati: Cristian Vacca di Baressa, Carlo Lombardo di San Gavino e Giuseppe Porcu, di Oristano. Accuse da brivido: truffa, corruzione, peculato, falso. Nelle 78 pagine che costituiscono l'ordinanza di carcerazione firmata dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Oristano, Annie Cecile Pinello, è devastante l'immagine dell'operato di uomini in divisa, nelle cui conversazioni captate nel corso dei quattro mesi di inchiesta, scrive il gip, «emerge il tono sfottente, arrogante, privo di scrupoli dei dialoghi i quali appaiono provenire da soggetti della malavita, piuttosto che da carabinieri». Conversazioni registrate nelle macchine di servizio che tutti, il capitano Biancheri compreso, sembrerebbero aver utilizzato per pedinare persone, realizzare servizi non per l'Arma ma per gli investigatori privati che li gratificavano. Con 75, 100 o 250 euro, a seconda della qualità delle informazioni. Per avere informazioni da rivendere a Gianmarco Fadda, nel mese di dicembre Canu e Arnò vanno direttamente al procuratore della Repubblica di Oristano, Andrea Padalino Morichini, e gli sottopongono la richiesta di acquisire il traffico telefonico di una certa utenza, ascrivendola alle indagini sul latitante Aldo Secci di Ruinas. Il procuratore prende tempo e li rinvia a dopo le vacanze di Natale. I due capiscono che non è aria, e siccome Fadda preme, cambiano tattica e si rivolgono al sostituto procuratore Armando Mammone. Sostenendo, per questo round, che quell'utenza - sempre la stessa - è funzionale a un'altra indagine, riguardante un fatto accaduto a Senis (che è competenza della compagnia di Mogoro). Infilano quel numero tra altri numeri, stanno attenti che la richiesta venga materialmente formualata dalla stazione di Mogoro e aspettano. I tabulati, qualche giorno dopo, arrivano: ci sono tutti, tranne l'utenza che i due marescialli sollecitavano. La Procura, sulla base dell'indagini che già si dipanava, li aveva, per così dire, elegantemente fregati: provassero, a protestare. E che dire del capitano Biancheri? Uno che si vantava apertamente di aver picchiato un arrestato che, tanto, ubriaco com'era, anche lamentandosi non avrebbe mai ricevuto credito; lo stesso ufficiale, che disinvoltamente aveva sparato a una persona - senza colpirla - prima di arrestarla, aveva tranquillamente sostenuto che ciò non fosse vero quando l'interessato se ne era lamentato durante l'interrogatorio di convalida: «Tanto a chi vuoi che credano, a me o a lui?», aveva baldanzosamente sostenuto con i suoi sottoposti. «L'Arma è un soggetto da mungere, la magistratura un insieme di soggetti con scarse capacità intellettive da raggirare per i propri scopi personali, i privati cittadini gonzi su cui sparare, per usare un termine caro al capitano Biancheri», scrive il gip; e in questo mix ci sono perquisizioni, anche arresti, tutto e solo per avere soldi. La vita di un'intera caserma condizionata dalle condotte del suo comandante e dei sottufficiali che pensavano, in virtù della divisa che indossavano, di fare il bello e il cattivo tempo. Ma ce n'erano altri, che con indosso la stessa divisa soffrivano questi «loschi traffici». Spesso il capitano Biancheri ricorreva ai centralinisti per compiere accessi alle banche dati della compagnia - e lo faceva anche quando si trovava in ferie -; qualcuno dei suoi sottoposti era arrivato a inventare scuse per non dare quelle informazioni: «Capitano, la password è scaduta». Che pena.
08 febbraio 2012. I marescialli volevano aprire un'agenzia. Canu e Arnò l'avrebbero affidata a un detective prestanome. La riserva non viene sciolta. E per il capitano René Biancheri, comandante della Compagnia di Mogoro, finito in carcere assieme ad due suoi sottoposti e all'investigatore privato di Ghilarza, Gian Marco Fadda, quella di ieri è stata la quarta notte dietro le sbarre del carcere di Iglesias. Il giudice per le indagini preliminari, Annie Cecile Pinello, deciderà oggi se accogliere la richiesta di revoca della misura di custodia cautelare formulata dall'avvocato difensore del militare, che aveva sollecitato la scarcerazione anche per l'altro suo assistito, l'investigatore privato Gian Marco Fadda. Quella di oggi è un'altra importante giornata, al di là della decisione del giudice che sarà nuovamente impegnato con gli interrogatori dei marescialli della compagnia di Mogoro, Giuseppe Canu e Mario Arnò. Sono gli altri due elementi cardine dell'inchiesta che i carabinieri stessi hanno condotto per compiere la massima pulizia al proprio interno e che ha smascherato un presunto giro illegale di scambi di favori tra uomini dell'Arma e investigatori privati. I primi due interrogatori avevano visto gli indagati scegliere la via della collaborazione con i magistrati, fatto che fa ben sperare l'avvocato difensore Gianfranco Siuni sull'esito delle richieste di revoca delle misure cautelare. In mattinata si capirà se la linea difensiva scelta dagli avvocati Piergiorgio Corona e Patrizio Rovelli sarà la stessa oppure se verrà scelto il silenzio. Tra le varie contestazioni mosse al capitano Biancheri, c'è la continua e crescente richiesta agli operatori della Compagnia di Mogoro di accessi alle banche dati dei carabinieri. Le cosidette Sdi, che si erano lamentati di queste richieste che ritenevano anomale, perchè spesso riguardanti persone non residenti in Sardegna. In un caso, l'ufficiale aveva persino chiesto l'accesso al sistema di localizzazione dei cellulari mentre si trovava in missione all'estero. È chiaro che i sospetti nei suoi riguardi, da parte dei suoi sottoposti, crescevano. E queste richieste sono datate: sin dalla fine del 2010. Emergono poi, dalla lettura degli elementi in mano agli inquirenti, le mire future dei marescialli Canu e Arnò. La loro collaborazione con Gianmarco Fadda non sarebbe bastata più ai due sottufficiali. Nel senso che entrambi guardavano avanti e discutevano di compiere il salto di qualità. Ossia di mettersi in proprio. Non contenti di quanto guadagnavano passando sottobanco le informazioni all'investigatore privato, stavano pensando alla possibilità di aprire un'agenzia investigativa. Nella quale, ovviamente, non avrebbero potuto figurare personalmente, ma attraverso un prestanome, avrebbero potuto «offrire un prodotto di intelligence». E avevano anche già individuato chi poteva aiutarli: «c'abbiamo la manovalanza, Ciccio», riferito al loro collega Francesco Cancedda. Anche delle tariffe «venti euro a tabulato», ma anche della gamma di prestazioni da offrire: «si vende un servizio di pedinamento, la bonifica dei clienti». L'asse Canu-Arnò-Fadda funzionava anche, sempre secondo le accuse del pubblico ministero Diana Lecca, per incastrare persone controparti ai clienti dell'investigatore privato. Per chiarire: i due marescialli avrebbero utilizzato i poteri loro derivanti dall'essere sottufficiali dell'Arma per danneggiare delle persone. Lo dicevano loro stessi, senza mezzi termini: «a quella lì (o quello lì, a seconda dei casi), dobbiamo fare del male». Fare del male poteva anche significare inviare a questo qualcuno un'ispezione della Guardia di Finanza oppure costruire artificiosamente situazioni illecite da contestare al malcapitato. Più incastrato di così.
04 dicembre 2012. In auto parlava delle botte. Mogoro, la conversazione dell’ex comandante dei carabinieri intercettata. Quando parlava nella sua auto non sapeva che proprio i suoi colleghi lo stavano ascoltando. Altri carabinieri avevano le orecchie tese sui dialoghi che l’ex capitano Renè Biancheri teneva con altre persone. Così capitò che un giorno raccontò al suo interlocutore qualcosa che ora complicherà molto il suo cammino giudiziario che sembrava essersi concluso diversi mesi fa, quando aveva patteggiato due anni per peculato, anche se sul patteggiamento ha deciso di ricorrere in Cassazione. In effetti, da un’accusa di peculato ad una per tentato omicidio e per estorsione, la differenza è notevole. I due anni rischiano di diventare molti di più, ma per capire cosa succederà all’ex comandante della Compagnia dei carabinieri di Mogoro ci sarà da attendere parecchio. Ovviamente, la decisione del giudice per le udienze preliminari, Mauro Pusceddu, che sabato ha rimandato gli atti alla procura e chiesto di riformulare le accuse contro gli imputati ancora coinvolti nel processo che si occupa dei presunti rapporti illegali tra le divise infedeli e alcuni investigatori privati e confidenti a cui i carabinieri avrebbero fornito informazioni proibite, apre un altro fronte processuale. La nuova accusa per Renè Biancheri è figlia quindi di un’intercettazione. È lì che racconta di una perquisizione effettuata a Cagliari e per questo del caso si occuperà la procura del capoluogo isolano. Non era la prima volta che i carabinieri andavano in missione in trasferta – spesso chiedevano rinforzi ai loro colleghi – dopo aver avuto delle imbeccate giuste. Solo che in quell’occasione qualcosa non sarebbe andato secondo giustizia. In un linguaggio piuttosto crudo Renè Biancheri descrive quel che accadde. Forse si vanta o esagera, quando racconta. Però se quel che dice fosse confermato sarebbe assai grave. Parla delle botte rifilate al perquisito di turno, delle vessazioni che avrebbe subito in caserma e della paura che provò in quegli istanti. Nell’intercettazione Renè Biancheri spiega come l’indagato non riuscì a trattenere quella paura tanto che sporcò gli abiti con i propri bisogni. Verità? Parole dette magari per vantarsi? Spetta alla procura di Cagliari stabilire cosa realmente sarebbe accaduto aprendo un nuovo fronte su un processo molto ostico.
11 maggio 2013. La Cassazione respinge il ricorso dell’ex comandante Biancheri. Mogoro, il capitano coinvolto nel caso dei carabinieri infedeli chiedeva la modifica al patteggiamento I giudici hanno ritenuto inammissibile il ricorso. Mercoledì in aula gli altri tre uomini dell’Arma. Ci ha provato in tutti i modi. Era convinto di poter ottenere una pena inferiore, che gli sarebbe probabilmente servita come viatico per un reintegro nell’Arma dei carabinieri. E invece, giovedì scorso, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso presentato dall’ex comandante della Compagnia dei carabinieri, Renè Biancheri. Aveva patteggiato due anni per peculato di fronte al giudice del tribunale di Oristano e quella pena rimane valida, compresa la sospensione condizionale che era riuscito ad ottenere allora. Ma evidentemente non era rimasto soddisfatto di quanto ottenuto. Aveva così deciso di affrontare un nuovo giudizio. Probabilmente, la decisione era scaturita senza il consenso del precedente avvocato difensore Gianfranco Siuni, che infatti ha scelto di seguirlo sino al verdetto dei giorni scorsi, dopo che l’aveva assistito in tutta la fase delle indagini e in quella strettamente processuale del patteggiamento. René Biancheri aveva deciso di rivolgersi ad un nuovo legale scegliendo l’avvocato Anna Maria Busia che aveva preparato il ricorso per Cassazione. I giudici l’hanno però ritenuto inammissibile e hanno condannato René Biancheri al pagamento delle spese processuali. Hanno ovviamente confermato i due anni precedentemente stabiliti. La decisione arriva a pochissimi giorni di distanza dall’udienza di apertura del processo agli altri carabinieri infedeli coinvolti nell’inchiesta sui presunti abusi di potere commessi nell’esercizio della professione. In cambio di somme di denaro, avrebbero infatti stabilito dei canali preferenziali con investigatori privati ai quali fornivano informazioni coperte da segreto utilizzando sistemi e strumenti in dotazione all’Arma. Mercoledì saranno infatti in aula i marescialli Giuseppe Angelo Canu e Mario Arnò e l'appuntato Massimo Mazziotta, tutti in servizio compagnia dei carabinieri di Mogoro sino al momento dell’arresto e unici imputati degli otto finiti nell’inchiesta. Gli altri, compreso l’ex comandante Biancheri, o hanno patteggiato o hanno risolto con il rito abbreviato. Mercoledì quindi inizia un processo quanto mai delicato, sia per il ruolo che gli imputati ricoprivano in quanto tutori della legge sia per la gravità dei reati commessi sia perché tra i testimoni ci saranno proprio quelle divise che con il massimo senso del dovere portarono avanti le indagini. Lontano da Oristano, l’ex capitano René Biancheri attende anche un altro importante responso. La procura di Cagliari, dopo l’invio degli atti deciso dal giudice per le udienze preliminari Mauro Pusceddu, sta infatti valutando se regga l’ipotesi di tentato omicidio per il pestaggio di una persona finita sotto perquisizione alcuni anni fa. Era stato lo stesso comandante a vantarsi per quell’episodio.
08 novembre 2013. Carabinieri infedeli, chiusa l’indagine bis. Mogoro, la procura di Cagliari contesta l’utilizzo abusivo di sistemi informatici all’ex comandante e a due marescialli. Due di loro erano in aula appena qualche giorno fa. E in aula rischiano di tornarci, ma in un altro tribunale dove però potrebbero reincontrare quel pubblico ministero che in poche settimane di indagine, grazie anche all’aiuto di quei tanti carabinieri rimasti fedeli all’Arma, smascherarono i loro colleghi coinvolti in un presunto giro di intercettazioni illegali. Il pubblico ministero Diana Lecca, ora in forze al tribunale di Cagliari, ha infatti chiuso le indagini nei confronti dell’ex comandante della Compagnia di Mogoro Renè Biancheri e dei due marescialli Giuseppe Canu e Mario Arnò, in servizio nella stessa compagnia sino al momento in cui furono arrestati. Era il 3 febbraio del 2012 quando i carabinieri dovettero intervenire, con altissimo senso del dovere, nei confronti dei colleghi. Da quel momento sono cambiate molte cose, la prima di queste è che i tre militari non sono ovviamente più in servizio. Successivamente ci fu il patteggiamento di Renè Biancheri, mentre i marescialli Canu e Arnò stanno affrontando il processo per peculato che li vede coinvolti, perché avrebbero utilizzato strumenti della collettività per scopi personali. Sin dalle prime fasi dell’indagine principale, all’accusa era risultato palese che questi avrebbero anche ricevuto soldi o favori in cambio del passaggio di informazioni riservate ad alcuni investigatori privati. Quelle informazioni arrivavano da sistemi elettronici e informatici in dotazione alle forze dell’ordine. Ovviamente, queste li possono utilizzare solamente nel caso in cui stiano operando per la sicurezza pubblica e la prevenzione dei reati e non per fini che nulla hanno a che fare col lavoro, ma che sono strettamente personali. Fu anche per questo motivo che il giudice per le udienze preliminari Mauro Pusceddu inviò alla procura di Cagliari gli atti. Si chiedeva di indagare ulteriormente sulla base di quanto già emerso. La sede della procura generale è infatti competente anche per una serie di reati informatici e tra questi rientrano anche quelli che sono contestati ai tre carabinieri che ovviamente rischiano il rinvio a giudizio, perché le intenzioni della procura appaiono ben distanti da quelle di un’eventuale richiesta di archiviazione. Per averne la certezza ci sono da aspettare i venti giorni che i tre indagati hanno per presentare memorie difensive o elementi a loro favore. Ci dovranno pensare gli avvocati Gianfranco Siuni, difensore di Renè Biancheri, Patrizio Rovelli, difensore di Mario Arnò e Piergiorgio Corona, legale di Giuseppe Canu. Di fronte hanno la contestazione pesantissima per un reato che può essere punito con pene che vanno da uno a cinque anni. Nella loro veste di pubblici ufficiali avrebbero avuto accesso abusivamente ai sistemi informatici e telematici. L’avrebbero fatto utilizzando la password in possesso alla Compagnia. Sei sono i casi che il pubblico ministero Diana Lecca indica e imputa ai due ex marescialli, mentre quattro sono quelli di cui è accusato l’ex capitano Renè Biancheri. Giuseppe Canu e Mario Arnò si sarebbero fatti pagare 75 euro ogni informazione passata agli investigatori privati. Il prezzo delle informazioni di Renè Biancheri non è invece indicato. La procura cagliaritana spiega però che spesso chiedeva ai suoi sottoposti di effettuare delle verifiche dai terminali. Essi pensavano fosse per questioni di lavoro, ma sbagliavano. Quando però iniziarono a sospettare il gioco durò poco. Sempre che le accuse trovino in aula il valido riscontro.
18 luglio 2013. Marescialli sotto inchiesta, patteggiamento rinviato. La sorte processuale dei marescialli Giuseppe Angelo Canu e Mario Arno e dell’appuntato Massimo Mazzotta, coinvolti nell’inchiesta sui carabinieri “infedeli” della Compagnia di Mogoro,...La sorte processuale dei marescialli Giuseppe Angelo Canu e Mario Arno e dell’appuntato Massimo Mazzotta, coinvolti nell’inchiesta sui carabinieri “infedeli” della Compagnia di Mogoro, inizierà a delinearsi con più chiarezza il prossimo due ottobre. Per quella data infatti il tribunale di Oristano (presidente Villani, giudici Mameli e Murgia) ha rinviato la decisione sui patteggiamenti presentati dai due marescialli (difesi dagli avvocati Pier Giorgio Corona e Patrizio Rovelli), mentre l’appuntato Mazzotta, difeso dall’avvocato Franco Villa, sarà processato con rito ordinario per peculato. Il tribunale ha rigettato l’istanza di nullità del decreto che dispone il giudizio sollevata dall’avvocato Rovelli, e alla quale si è associato anche l’avvocato Villa, che ha riperso le contrastate fasi dell’udienza preliminare. Il Gup Mauro Pusceddu infatti aveva rigettato la prima richiesta di patteggiamento, chiedendo al pm Paolo De Falco la riformulazione delle accuse per alcuni aspetti della vicenda. Ma, nella lettura del difensore, il Gup si sarebbe fatto promotore dell’azione penale nei confronti dei marescialli, la cui titolarità è esclusivamente in capo al pubblico ministero. Ma il tribunale ha ritenuto che il Gup si sia mosso nell’ambito dei suoi poteri, con una semplice riqualificazione del fatto e ha respinto l’eccezione. Ammessa la richiesta di patteggiamento di Canu, per complessivi 3 anni e sei mesi, mentre per Arnò il pm non ha dato il consenso in quanto, pur concordando la quantificazione della pena, 2 anni, si è detto contrario alla collegata richiesta di sospensione condizionale. L’avvocato Rovelli ha inoltre spiegato che il maresciallo Arnò, che pure ha reso ampia ammissione riguardo il reato di peculato, non intende patteggiare per addebiti ai quali si ritiene estraneo: tra questi, la detenzione di droga – che invece sarebbe il corpo di reato di un sequestro operato dai carabinieri di Mogoro nel 2008 – estorsione e calunnia. E nell’ipotesi che non venga accolto il proscioglimento (richiesto dall’avvocato Corona anche per il maresciallo Canu), Arnò chiederà di essere processato per quei reati con rito ordinario. I patteggiamenti saranno definiti da questo collegio mentre per il rito ordinario il presidente Villani dovrà astenersi, essendo già entrato nel merito della vicenda, e a comporre il collegio verrà designato un altro giudice che, ha annunciato il presidente, dovrebbe arrivare a Oristano in applicazione.
19 gennaio 2014. Carabinieri infedeli, due contestano il patteggiamento. Mogoro, i marescialli Canu e Arnò ricorrono in Cassazione Le pene furono di tre anni e quattro mesi e di due anni. Un patteggiamento non è per sempre. C’è tempo, almeno sino a che non si pronuncia la Cassazione, per cambiare qualcosa che, a chi aveva scelto quella strada per saldare il debito con la giustizia, non andava del tutto a genio. Così due dei carabinieri della Compagnia di Mogoro, coinvolti nell’inchiesta per le intercettazioni illegali e smascherati dai loro stessi colleghi, hanno deciso di giocarsi una nuova carta proprio alla Corte di Cassazione. Dalle stanze romane, i marescialli Giuseppe Canu e Mario Arnò sperano che sia rivisto il provvedimento emesso nei loro confronti dal giudice per le udienze preliminari del tribunale di Oristano. Il primo aveva patteggiato tre anni e quattro mesi, il secondo due anni. I motivi di questo ricorso in Cassazione sono simili in alcuni aspetti. Entrambi chiedono infatti che venga rivista l’interdizione dai pubblici uffici, che il giudice aveva stabilito in un anno. Poi c’è una serie di altri motivi che ha spinto i due a chiedere una ridefinizione del patteggiamento. Mario Arnò, assistito dall’avvocato Patrizio Rovelli, ritiene che ingiustamente non gli sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, rientrando questa entro il termine dei due anni che consente appunto di avere quel beneficio. La decisione del giudice per le udienze preliminari aveva tenuto però conto del fatto che quello fosse un patteggiamento parziale, solo su una parte dei reati contestati. È infatti in corso un procedimento, con altre contestazioni che vede protagonista proprio Mario Arnò. L’interdizione per un anno dai pubblici uffici viene poi vista come un’errata interpretazione della legge. La decisione spetta ovviamente a nuovi giudici, in una data che ancora non è stata fissata. Gli stessi giudici saranno chiamati a valutare nuovamente anche la posizione di Giuseppe Canu e qui il ricorso è decisamente più complesso perché oltre all’interdizione, quest’ultimo e il suo avvocato Giovanni Conti contestano l’intero esito del patteggiamento. Ritengono che ci siano margini per il proscioglimento e che dal precedente giudice non siano stati considerati gli atti nella loro interezza. Questi andrebbero quindi riqualificati, soprattutto per l’episodio delle munizioni e dell’hascisc che si ritiene siano stati utilizzati illegalmente per incastrare alcune persone sottoposte a perquisizione. Non sarebbe stato Giuseppe Canu a piazzarli nel posto giusto al momento giusto. Questa la tesi difensiva, il resto lo si vedrà in udienza.
Sospeso dai carabinieri, diventa "Guardiano", scrive Matteo Indice su “Il Secolo XIX”. La sua prima vita, quella da ufficiale dei carabinieri, s’era interrotta in malo modo. Perché, sostengono i giudici, ha usato indebitamente l’auto di servizio per pedinamenti non richiesti, mentre i suoi sottoposti giravano sottobanco informazioni riservate ai vigilantes privati, in cambio di denaro. L’uso disinvolto dell’automobile, branca d’una più vasta inchiesta sui rapporti storti dei militari della compagnia di Mogoro (Oristano) con istituti di sorveglianza del posto, è costata al capitano genovese René Biancheri due anni per peculato. L’esecuzione della pena - patteggiata - è sospesa con la condizionale, ma la “macchia” è definitiva dopo un verdetto della Cassazione. Ecco perché, almeno per ora, non può tornare nell’Arma. Cosa fa, dunque, dopo il polverone giudiziario da cui fu trascinato in arresto, l’«esperto d’intelligence» che all’ombra della Lanterna era stato ai vertici del comando di Sampierdarena? Da poche settimane è stato, manco a dirlo, ingaggiato da un istituto di vigilanza privato nel capoluogo ligure. E non proprio uno qualunque, incaricato di servizi routinari. No. “La Portuale srl”, di cui Biancheri è divenuto consulente, è titolare del maxi-appalto pubblico per la security nel principale scalo del Mediterraneo, inclusa la telesorveglianza di numerosi varchi. E al “capitano” ha affidato un compito di notevole responsabilità: controllare i controllori, ovvero le decine di guardie giurate impegnate in disparati accertamenti sui moli da levante a ponente.
TUTTO SU SASSARI
CONCORSI TRUCCATI.
IL POTERE DEGLI AVVOCATI.
SASSARI. FATTI E FATTACCI.
ECCO SASSARI MASSONA, LA CITTA' DEI PRESIDENTI E DELLE GRANDI FAMIGLIE.
CONCORSI TRUCCATI.
Sassari, "concorso truccato alla Asl": i camici bianchi restano in corsia, scrive Andrea Busia Lunedì 21 Settembre 2015 su “L'Unione Sarda”. Sospensione bocciata: i camici bianchi coinvolti nell'inchiesta sul presunto concorso truccato alla Asl di Sassari restano al loro posto. La decisione del tribunale del Riesame di Sassari è arrivata nel pomeriggio: i giudici hanno respinto il ricorso del pubblico ministero Carlo Scalas contro la decisione del gip Giuseppe Grotteria con la quale si confermavano i ruoli dei dirigenti indagati. Niente sospensione, dunque, per Franco Cudoni, primario del reparto di Ortopedia e Traumatologia dell'ospedale civile di Sassari, Peppino Mela, primario al Giovanni Paolo II di Olbia, Luciano Cara, primario del reparto di Ortopedia e Traumatologia del Marino di Cagliari, Marcella Rassu, la dottoressa che secondo le accuse sarebbe stata favorita nella selezione e Katia Spanedda, responsabile del procedimento. L'ipotesi della Procura di Sassari è che sei dirigenti, oltre ai cinque già menzionati è indagato anche il consigliere regionale Antonello Peru, abbiano interferito con il concorso per l'assunzione di nove medici nel reparto del Santissima Annunziata di Sassari. Al centro dell'udienza di oggi l'intercettazione in cui Franco Cudoni diceva al suo interlocutore: "Io mantengo sempre le promesse". Un'ammissione di colpa, secondo il pm. Tutta un'altra versione per il difensore Antonella Cuccureddu che ha riferito quella frase agli obiettivi raggiunti dal reparto che Cudoni dirige.
IL POTERE DEGLI AVVOCATI.
Non solo concorso di abilitazione notoriamente truccato ed impunito. L’Ordine degli avvocati ostacola la professione degli avvocati dei Paesi Ue: indagine Antitrust contro l’Ordine degli avvocati. La nota stampa dell'Antitrust pubblicata su molti giornali dell’11 gennaio 2012 rende pubblico un fatto risaputo che colpisce anche altri Fori.
Avvocati nel mirino dell’Antitrust. L'Autorità, presieduta da Giovanni Pitruzzella, sta indagando su dodici Ordini – Chieti, Roma, Milano, Latina, Civitavecchia, Tivoli, Velletri, Tempio Pausania, Modena, Matera, Taranto e Sassari – perchè starebbero ostacolando «l'esercizio della professione in Italia da parte di colleghi qualificati in un altro Stato dell’Unione Europea, ponendo in essere intese restrittive della concorrenza. Le prassi degli Ordini «sarebbero discordanti dai criteri imposti dal diritto comunitario». L'istruttoria – spiega una nota dell’Autorità per la concorrenza e il mercato – «è stata avviata alla luce di due segnalazioni, effettuate da un avvocato che aveva conseguito il titolo in Spagna e dall’Associazione Italiana Avvocati Stabiliti, che rappresenta i possessori di titolo di laurea in giurisprudenza e chi ha acquisito l'abilitazione alla professione di avvocato in ambito comunitario». Secondo le due denunce, «gli Ordini segnalati hanno posto ostacoli all’iscrizione nella sezione speciale dell’albo dedicata agli 'avvocati stabiliti, in violazione di una direttiva comunitaria recepita in Italia dal decreto legislativo n. 96 del 2001. Il decreto consente l’esercizio permanente in Italia della professione di avvocato ai cittadini degli Stati membri in possesso di un titolo corrispondente a quello di avvocato, conseguito nel paese di origine. Il professionista che voglia esercitare in Italia deve iscriversi alla sezione speciale, potendo così esercitare sia pur con alcune limitazioni. Unica condizione è che il professionista sia iscritto presso la competente organizzazione professionale dello Stato d’origine. Successivamente, dopo tre anni di esercizio regolare ed effettivo nel paese ospitante, l’avvocato può iscriversi all’albo degli avvocati ed esercitare la professione di avvocato senza alcuna limitazione». I comportamenti degli Ordini, «che potrebbero costituire intese restrittive della concorrenza finalizzate a escludere dal mercato professionisti abilitati nel resto dell’Unione - conclude la nota – sono peraltro oggetto di valutazione anche della Commissione Europea, che l’Autorità intende affiancare con l’utilizzo dei propri poteri antitrust verso gli Ordini stessi».
SASSARI. FATTI E FATTACCI. Un resoconto di Nicoletta Camorcia. All'inizio il caso Sassari non è nemmeno tale. Ma quello che sembra un fatto tra tanti si trasforma, in pochi giorni, in uno scandalo dalle dimensioni imprevedibili.
Il 3 aprile 2000 nel vecchio carcere di San Sebastiano, a una settimana di distanza dalla protesta dei detenuti, esasperati per le ulteriori restrizioni dovute allo sciopero nazionale dei direttori penitenziari, viene ordinato il trasferimento repentino di 20 reclusi a Oristano e a Macomer. Nessuno ne è al corrente, neppure i diretti interessati. Sono i familiari dei reclusi, tre giorni dopo i fatti, a fare scattare l'allarme e a presentare un esposto per pestaggio alla Procura della Repubblica. Venerdì 21 aprile, a inchiesta già aperta, i parenti organizzano una fiaccolata attorno all'istituto, ubicato, come diverse altre carceri nazionali, in pieno centro cittadino. La notizia esce dai confini regionali. Si parla di abusi e di violenze, di ragazzi tossicodipendenti picchiati e minacciati, di un pomeriggio di infernale irrazionalità. Alle 6 del mattino del 3 maggio Maria Cristina Di Marzio, direttore del San Sebastiano, Ettore Tomassi, nuovo comandante degli agenti, e Giuseppe Della Vecchia, provveditore delle carceri sarde, vengono arrestati. Con loro finiscono in carcere 22 agenti della polizia penitenziaria, che fanno parte degli 82 ordini di custodia cautelare eseguiti nella notte con l'accusa di violenza privata, di lesioni e di abusi d'ufficio.
Il caos è totale, e sconvolge i vertici del ministero di Giustizia, del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria e dell'intero mondo politico. Franco Corleone, sottosegretario del Guardasigilli, e Paolo Mancuso, vice direttore del Dap, si precipitano a Sassari. Piero Fassino, neo ministro alla Giustizia nel nuovo governo Amato, rinuncia a una trasferta a New York. E Giancarlo Caselli, responsabile delle carceri, rientra immediatamente da Berlino dove è in corso un convegno internazionale sui problemi penitenziari. Che cosa sia successo a Sassari nessuno può ancora dirlo con esattezza. Ma le reazioni anticipano quella che ormai è davvero un'inchiesta scottante.
Di "rappresaglia annunciata" parla il senatore Verde Luigi Manconi e di "episodio di gravità estrema" la senatrice Ersilia Salvato. Piero Fassino, invece, cerca di calmare gli animi garantendo chiarezza. Il 4 maggio cominciano a emergere le prime testimonianze. A confermare le accuse un detenuto di San Sebastiano, che racconta: " Non potevo credere che quello che mi stava accadendo fosse vero. Pensavo di sognare. Le botte ricevute, circa due ore in stile "Arancia meccanica", mi avevano fatto perdere il senso della realtà. Ormai non provavo più dolore". Il giorno dopo un agente rincara la dose: "E' stato un pestaggio fuori dalle regole, in un clima di delirio collettivo; non sono intervenuto perché in questi casi pronunciare una parola contro un collega può innescare un meccanismo infernale".
La tensione è altissima. Si parla di Gom (Gruppi operatori mobili) utilizzati il 3 aprile e di sostituzioni del personale penitenziario non proprio chiarissime. L'inchiesta si allarga ai vertici delle carceri italiane. E ne apre una anche il Consiglio superiore della magistratura. È il Gip Mariano Brianda a sottolineare che occorre stabilire "attraverso quali canali, anche ministeriali, sia stato possibile sollevare il precedente comandante e sostituirlo proprio il giorno dell'operazione con Ettore Tomassi".
"Liberi, liberi" gridano nel frattempo, davanti al carcere sardo, i colleghi degli agenti arrestati, sostenuti dalle rappresentanze sindacali di categoria che organizzano manifestazioni e sit-in negli istituti dell'intero Paese. Rebibbia, Regina Coeli, Le Vallette, San Vittore, Opera, Marassi, Secondigliano: i 40mila agenti italiani difendono il loro operato, rinunciano alla mensa, si incatenano, gridano la loro rabbia, mentre i poliziotti in carcere faticano a trovare un avvocato per probabile incompatibilità con gli altri detenuti di San Sebastiano.
In Italia ormai si discute esclusivamente di carcere e la circostanza ha quasi del paradossale. Piero Fassino propone i militari di leva per la vigilanza esterna dei penitenziari. E solleva un gran polverone. Il 5 maggio però ci ripensa e garantisce sia l'aumento dell'organico sia una maggiore efficienza delle strutture. Il Ministro riceve inoltre Stefano Anastasia, presidente dell'associazione Antigone, il quale avanza la proposta di introdurre un 'adeguata formazione della polizia penitenziaria sulla tutela dei diritti umani e la figura del difensore civico dei detenuti, esistente in diversi paesi europei, tra cui il Portogallo, l'Austria e l'Ungheria. Intanto da una parte piovono le richieste di dimissioni per il direttore del Dap, Giancarlo Caselli, dall'altra arriva il sostegno agli agenti dall'ex magistrato di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, e dall'altra ancora dubbi sull'intera faccenda. "La cosa è così grande - dice in proposito Filippo Ascierto di Alleanza nazionale - che puzza di bruciato".
Ma l'inchiesta prosegue, nonostante il rumore e le manifestazioni di agenti, di detenuti e di familiari. Sabato 7 maggio il Gip scarcera un ispettore e concede gli arresti domiciliari ad altri due. L'8 maggio il medico di San Sebastiano, Antonio Adamo, viene iscritto al registro degli indagati per l'ipotesi di false certificazioni. E il 9 maggio il comandante del Nucleo Traduzione, Tiziano Pais, viene formalmente incriminato. Nelle stesse ore Giancarlo Caselli, per placare la rabbia degli agenti, si reca prima a Cagliari per un incontro con i sindacati e, dopo, all'istituto di Sassari, diretto dal nuovo direttore Giacomo Veneziano. Il 10 maggio la Commissione Giustizia del Senato mette all'ordine del giorno la proposta del difensore civico, di cui la prima firmataria è Ersilia Salvato. E il giorno successivo a San Vittore si gioca la triangolare di calcetto tra guardie, reclusi e vecchie glorie del Milan per stemperare le polemiche. "La cosa che temiamo - scrivono in una lettera resa pubblica i detenuti di piazza Filangieri che chiedono maggiore attenzione sui loro problemi con la magistratura di Sorveglianza, l'applicazione della legge Gozzini e concrete opportunità di lavoro - è l'oblio che tra qualche giorno si stenderà sul pianeta carcere, salvo altri fatti gravi che non ci auguriamo in nessun caso".
Il 12 maggio è la data della svolta: il Gip Mariano Brianda accoglie le istanze dei difensori e dispone la revoca delle misure cautelari e la liberazione dei sottufficiali e dei dirigenti arrestati, 17 dei quali sospesi dal servizio per un mese. Maria Cristina Di Marzio, parte per il nuovo impiego amministrativo al Dap di Roma, Ettore Tomassi ritorna al vecchio posto di Napoli e Giuseppe Della Vecchia rientra a Benevento. Tutto sembra finito, ma non è esattamente così. In alcune città proseguono le agitazioni degli agenti e lo sciopero bianco dei reclusi. A San Vittore i familiari si incatenano davanti all'entrata di viale Papiniano, mentre all'interno i carcerati rifiutano l'ora d'aria e la frequenza al lavoro e alle iniziative volontarie.
Che fare? "Salvaguardare i più deboli", dirà il giorno dopo, Carlo Maria Martini, Cardinale di Milano, al convegno di Bergamo su "Colpa e pena".
E tutto restò come prima.
Nel novembre del 1894 un’ottantina di banditi invase il paese di Tortolì, in Sardegna, per saccheggiare la casa di un ricco possidente, invano contrastati dalle forze dell’ordine. Alla fine rimasero sul terreno cinque assalitori e un brigadiere dei carabinieri: uno dei morti fu spogliato e decapitato. L’episodio, passato alla storia come la «grassazione di Tortolì», fece tanto scalpore che il Corriere della Sera mandò nell’isola uno dei suoi inviati di punta, Adolfo Rossi (che avrebbe poi seguito la campagna d’Africa e sarebbe stato il capo redattore del giornale nelle difficili giornate dei moti milanesi del 1898 repressi dalle cannonate di Bava Beccaris). Rossi iniziò un lento viaggio di due settimane per l’isola (per andare in treno dal Golfo degli Aranci a Cagliari, circa 300 chilometri, ci volevano 12 ore e mezza) e scrisse una lunga serie di corrispondenze, che poi raccolse in un libro, dove racconta ai suoi lettori milanesi una terra che ai loro occhi ottocenteschi doveva sembrare poco meno esotica dell’Africa. Il giornalista scopre con stupore che, soprattutto nel Nuorese, i banditi sono molto rispettati, poco meno che eroi popolari, e che molti notabili, magari benestanti, sono stati briganti in gioventù e, anche se non lo ammettono apertamente, certo non lo negano. E che c’è il problema di una magistratura locale «vincolata a cento parentele, a mille amicizie e raccomandazioni». E scopre anche una povertà diffusa e terribile: «I ricatti e le grassazioni sono il termometro delle condizioni economiche dell’isola— spiega il direttore dell’Unione Sarda —. Quando ne avvengono molte significa che gli affari vanno male e che cresce la miseria».
ECCO SASSARI MASSONA, LA CITTA' DEI PRESIDENTI E DELLE GRANDI FAMIGLIE.
Berlinguer una vecchia famiglia massonica, il cui capostipite Mario, zio di Luigi e padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari.
"Lui mi chiamava Francè, io lo chiamavo Enrì. Eravamo veri cugini, scrive Alberto Stabile su "La Repubblica". I nostri nonni erano fratelli. Io democristiano, lui comunista. Ad un certo punto io ero capo dell'esecutivo e lui dell'opposizione. Ma per capire i nostri rapporti, anche politici, bisogna sapere cos'è una famiglia sarda, che cos'è il pudore per i nostri sentimenti...". Così, Francesco Cossiga, nel volume "Enrico Berlinguer", pubblicato ad un anno dalla morte del segretario del Pci, ricorda i rapporti che lo legavano con il leader comunista: sassarese come lui, come lui figlio di quella borghesia colta, impegnata, sensibile ai valori dello Stato, che qui porta i cognomi dei Berlinguer e dei Cossiga, dei Segni e dei Siglienti, dei Satta Branca.
Come mai questa città di centotrentamila abitanti distesa sul lato "spagnolo" dell'isola, abbia dato i natali a personaggi che hanno raggiunto livelli così alti nella politica, nelle istituzioni o nell'economia è questione non facile (e forse neanche così rilevante), da risolvere. "Io dico che è il caso", risponde lo scrittore Manlio Brigaglia, "anche se certamente un caso non è che Francesco Cossiga sia il secondo presidente della Repubblica originario di questa città". Chi sono dunque e cosa hanno in comune queste famiglie pur così diverse tra di loro? La risposta che si può dare subito è: una passione civile e politica che vanta ormai una lunga tradizione; un senso quasi sacro delle comuni radici familiari; un intreccio di parentele vicine e lontane che fa sì che, quasi di ognuno di loro, si possa dire: "E' cugino di...".
La storia di questa èlite - chè di questo in fondo si tratta - comincia più o meno a metà dell'800 con la nascita dei primi movimenti che sarebbero poi diventati primi partiti politici. Fu allora - siamo intorno alla prima guerra di indipendenza - che i capi delle grandi famiglie borghesi (che aspiravano ad entrare a far parte della burocrazia sabauda) scesero in campo in prima persona. Non è questa la sede più adatta per ricordare i modi che caratterizzarono quegli anni. Fatto sta che da questi sussulti nacquero i due schieramenti che si sarebbero fronteggiati fino agli inizi del'900: il partito monarchico costituzionale, capeggiato dall'avvocato Salvatore Manca Leoni e il partito mazziniano, repubblicano e intransigente, che faceva riferimento all'avvocato Gavino Soro Pirino. Avversari decisi, in politica, questi due personaggi avevano in comune l'appartenenza alla massoneria; una costante, questa che caratterizzerà alcune delle future generazioni. E', comunque, da una costola del partito mazziniano che, alla fine del secolo, nasce un gruppo di giovani radicali anti-giolittiani, seguaci di Felice Cavallotti, moderati e riformatori, talmente decisi da riuscire ad imporre il loro leader, Filippo Garavetti, nelle elezioni tra il 1890 e il 1904. ("E fu - dice Brigaglia - una rivolta dei giovani turchi ante litteram"). Fra questi giovani troviamo l'avvocato Enrico Berlinguer, nonno del futuro segretario del Pci; l'avvocato Giuseppe Castiglia (professore di Filosofia del Diritto all' Università di Sassari, da cui quasi tutti provengono); l'avvocato Pietro Moro; un industriale di idee nittiane, Salvatore Azzena Mossa che è anche il finanziatore del gruppo; e Antonio Zanfarino, nonno di Francesco Cossiga.
E' questo il nucleo storico di quella borghesia anticlericale, democratica e repubblicana che segnerà, con un'opposizione di fondo, anche gli anni del fascismo. Sensibile ai valori culturali e, in definitiva, all'Europa; curioso del nuovo in una realtà profondamente legata alle tradizioni della terra, questo gruppo diede anche vita ad un giornale "La Nuova Sardegna", concepito da Pietro Satta Branca e da Enrico Berlinguer senior come foglio di contestazione e di agitazione politica.
La parentela tra i Berlinguer e i Cossiga è già nata. La comune matrice è nella bisnonna materna che sposa in prime nozze Giuseppe Zanfarino e in seconde nozze Giuseppe Loriga. Da Zanfarino ha un figlio, Antonio (che abbiamo visto tra i repubblicani più attivi) che sposerà Maria Solinas. Da questo matrimonio nasce Maria che andrà in sposa a Giuseppe Cossiga, il padre del neo presidente della Repubblica. Giuseppe Cossiga, morto alcuni anni fa, è figlio di Francesco Maria, detto "Chiccu", medico di Siligo e viene oggi ricordato come azionista della prima ora, di quelli, per intenderci che si identificarono subito nel messaggio di Lussu. C'è una vena di estro poetico nella famiglia Cossiga, coltivata dal bisnonno Gavino, detto "Su poeta cristianu" (per il tema religioso prevalente nei suoi versi), ma Giuseppe Cossiga preferisce la carriera bancaria. Entra all'Istituto per il credito agrario sardo (oggi Banco di Sardegna) e ne percorre tutto il cursus fino a diventare, ormai sulla soglia della pensione, direttore generale. Dal secondo matrimonio di Maria Russo con Giuseppe Loriga nasce invece Giovanni, la cui figlia, Maria, andrà in sposa a Mario Berlinguer, il senatore aventiniano, prima amendoliano, poi socialista, padre di Enrico.
Ma non è tutto. I Berlinguer sono poi legati alla lontana con i Segni e, tramite un rapporto molto più stretto, con i Siglienti. Stefano Siglienti, l'economista, ex presidente dell' Asso-bancaria e dell'Imi, promotere dell'industrializzazione della Sardegna, ha sposato nel' 26 Ines Berlinguer, sorella di Mario, donna di straordinarie capacità. "Se i padri - dice Aldo Cesaraccio, che per molti anni è stato direttore della "Nuova Sardegna" - hanno cercato di infondere nei figli la passione per l'impegno civile e per la politica, le madri sono state il perno della loro preparazione". Così si vuole che alla formazione cattolica di Francesco Cossiga abbiano concorso in modo decisivo due figure: la madre e don Giovanni Masia, il parroco della chiesa di San Giuseppe nella cui parrocchia sono passati molti dei giovani borghesi di Sassari e che per l' elezione del presidente ha sciolto le campane e fatto intonare il "Te deum". Educazione religiosa per Cossiga e per i Segni; laica per i Berlinguer. Ma entrambe cariche di quel reciproco rispetto, di quella tolleranza che è da queste parti un valore imprenscindibile.
Cossiga ricorda "quella famiglia schietta e severa".
"Mi telefonò, qualche giorno fa, per dirmi che stava leggendo le poesie del mio bisnonno, Gavino Cossiga...". Il libretto, dalla copertina chiara, è sul tavolo, scrive Miriam Mafai su "La Repubblica". Il titolo, in sardo, è "Su Poeta Christianu" e anche il nome dell'autore è scritto alla maniera sarda: Bainzu. Francesco Cossiga si abbandona ai ricordi, alla tenerezza e all' orgoglio di questa parentela apparentemente anomala. Da una parte il segretario del più grande partito comunista dell'Occidente, dall'altra uno dei leader della Dc, oggi presidente del Senato. I rami lunghi dei rispettivi alberi genealogici si intrecciano con quelli dei Segni, dei Siglienti, dei Satta Branca, degli Zanfarino, dei Soro Polino, grandi famiglie di Sassari, nobiltà di toga e di armi, avvocati, magistrati, massari e commercianti, sullo sfondo di una città di tradizione repubblicana e democratica, orgogliosa dei suoi intellettuali, della sua Università e della sua vita politica vivace.
In questa città don Enrico Berlinguer, nonno del segretario del Pci, aveva fondato sul finire del secolo "La Nuova Sardegna" di orientamento radicale. "La mia famiglia veniva dall' interno e noi eravamo di origine più modesta. I Berlinguer invece appartenevano alla piccola aristocrazia sarda non titolata, cavalieri ereditari di patrizi, con titolo di don ma senza feudi nè decime. Nè marchesi nè ricchi i Berlinguer, ma aristocratici sì, arrivati in Sardegna dalla Spagna sul finire del 500. Ma l'origine catalana non esclude sangue tedesco; il circuito Spagna-Fiandre-Austria fu vivace per tutto il 700". Lo studio del presidente della Repubblica è tappezzato di damasco color oro, dello stesso colore sono le poltrone e il divano. Sul muro, vicino alla bandiera tricolore, c'è un crocefisso d'avorio, alle pareti quadri di scuola fiamminga e del Pinturicchio. Nella penombra, Cossiga appare pallido, un po' gonfio e stanco. E' stato a Padova a vedere il cugino Enrico morente. A uno squillo del telefono sobbalza: "Forse chiamano dall'ospedale". Non è l'ospedale. Torna a sedersi sulla poltrona e a raccontare. Spiega: "Quando si dice nobiltà sarda, si dice qualcosa di abbastanza diverso da ciò che si immagina altrove. La nostra nobiltà è collegata col popolo, legata alla storia civile dell'isola, a una funzione pubblica: sono magistrati, militari... E infatti un bisnonno di Enrico fu uomo d'armi. Si chiamava Gerolamo e aveva sposato, agli inizi dell' 800, donna Giovannina Segni che, come il mio bisnonno, scriveva poesie. Don Gerolamo era ufficiale dei carabinieri e venne insignito di una seconda medaglia d'oro per aver sconfitto, a metà del secolo scorso, una feroce banda di briganti del Sassarese. A lui è intestata la caserma dei carabinieri di Sassari. E quando Enrico, nel 1944, fu arrestato per aver organizzato, sotto il regime militare alleato, una sommossa del pane, venne condotto proprio lì, nella caserma che porta il nome di un suo antenato. Curioso, no?". Un bisnonno ufficiale dei carabinieri, un nonno fondatore di giornali radicali, un padre deputato del blocco costituzionale, aventiniano, poi aderente a Giustizia e Libertà e al Psi; un altro nonno medico famoso; cugine cattoliche; zii democristiani o massoni...
Come si cresce in una famiglia così? Tengono le fila di questa educazione familiare non solo gli uomini ma anche le donne, che nel racconto di Cossiga compaiono e scompaiono, affettuose ed eleganti, rapite dalle malattie o inghiottite dalla vecchiaia. Sono le bisnonne le nonne le zie le madri che reggono con mano ferma e grande parsimonia le famiglie, nobili e numerose, in cui si parla molto di politica e in cui i bambini vengono portati regolarmente in chiesa e comunicati anche quando i padri sono massoni o fanno professione di anticlericalismo.
"La moglie di nonno Enrico, così piccolina, dipinta che camminava svelta...". "Zia Mariuccia, bellissima, morta in modo così terribile...". "Zia Ines, che sposò Stefano Siglienti, sì quello che fu il presidente dell'Imi ma prima era stato ministro delle Finanze del governo Bonomi...". Altre donne appaiono fuggevolmente in questo quadro sassarese: "Le sorelle Sant'Elia, che erano molto amiche delle principesse Savoia, tanto che quando il principe Umberto arrivò a Sassari chiese di conoscere Mario Berlinguer, il padre di Enrico, perchè era loro amico e andavano tutti assieme a fare i bagni...". Dolcezze di una vita di provincia di cinquanta anni fa, dove erano possibili singolari alleanze familiari e innesti culturali, tra deputati antifascisti, personaggi della Curia, figli di nobili e alti funzionari dello Stato.
In questo ambiente, severo senza bigotteria, benestante senza sprechi, cordiale senza volgarità, i due ragazzi, Enrico e Giovanni rimasti presto orfani, crescono imparando le virtù che sono comuni a certa nobiltà e alla classe operaia: la serietà, il riserbo, l'impegno nello studio e nel lavoro, la parsimonia. Nella famiglia Berlinguer, come nelle famiglie dei Segni, dei Cossiga e dei Siglienti c'è sempre stato il gusto (oltre che la necessità) della modestia nel vestire, nell'abitare, nel vivere. Il rammendo era di casa, e gli abiti passavano dai fratelli più grandi a quelli più piccoli senza proteste e senza vergogna. Un certo ascetismo di Enrico ha origine in questa educazione prima di incontrarsi con il rigore tipico del rivoluzionario professionale. "Enrico era più chiuso di noi, più taciturno", racconta Cossiga. "Leggeva molto. In casa c' erano i libri del padre Mario e del nonno Enrico, anche lui avvocato, di idee radicali, amico di Garibaldi e di Mazzini. Nella biblioteca di famiglia ha certamente incontrato Amendola, Gobetti e Dorso, ma anche Bakunin, Croce e il Manifesto di Marx".
Croce il giovane Berlinguer lo conoscerà di persona quando nel 1944 va a Salerno a trovare il padre, Mario, già in corsa per un ministero (e difatti sarà nominato commissario aggiunto all'epurazione). In casa di Croce quel giorno ci sono i sardi che contano: Antonio Segni, naturalmente, e Stefano Siglienti, che sono ben felici di presentare al filosofo il nipote, così giovane, così studioso, così magro, appena uscito da cento giorni di detenzione nel carcere di Sassari. Ma in casa Croce quel giorno c'è anche un altro signore che a Sassari ha fatto il liceo e che alla Sardegna è molto legato: è Palmiro Togliatti, appena rientrato in Italia da un ventennale esilio, che al giovane Enrico chiede notizie dettagliate su questi "moti del pane" di cui l'Unità aveva già dato notizia. Qualche mese dopo Enrico si trasferisce a Roma per lavorare al centro dell' organizzazione giovanile del Pci.
"Mio cugino", dice Cossiga, "non è timido. E' sardo. Ha sempre avuto un grande pudore dei suoi sentimenti. Può dire di conoscerlo solo chi lo ha visto in barca o nell'intimità della sua casa... I nostri rapporti politici? Le dirò solo questo: se parlavo con lui, da sardo e da cugino, non gli mentivo. E so che la stessa cosa valeva per lui. Un giudizio? In questo momento è difficile: è certo che era profondamente comunista e insieme profondamente democratico. Come riuscisse a conciliare le due cose non so. Ma ci riusciva".
Segni ricorda Cossiga: "Quand'ero bambino facevamo le vacanze insieme, era un pezzo del mio mondo".
“Cossiga, per me e la mi famiglia, rappresenta un pezzo del nostro mondo”. Mario Segni, l’ex parlamentare sardo leader del movimento referendario, che caratterizzò un momento importante della politica nazionale, figlio dell’ex Presidente della Repubblica Antonio Segni ricorda così l’ex Presidente della Repubblica scomparso. I suoi sono ricordi di prima mano, quelli di uno che Cossiga l’ha conosciuto fin da quando portava i calzoni corti. “Me lo ricordo sempre di casa, da quando ho memoria. Era coetaneo dei miei fratelli, affezionato di un affetto quasi filiale a mio padre, che verso di lui nutriva un affetto altrettanto grande. Le nostre famiglie insomma erano molto amiche e con Francesco trascorrevamo spesso le vacanze insieme”. Sardo l’uno e sardo l’altro, sassaresi ambedue ed entrambi espressione di quel cattolicesimo che nell'Isola produsse figure istituzionali di primo piano, Mariotto Segni è cresciuto in pratica insieme all'ex Presidente. Descrive il "Picconatore" come personaggio unico, spassoso, geniale e scomodo, complesso, certamente originale e legato a doppio filo alle sue origini.